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A proposito della pena di morte

Oggi in Italia la pena di morte non è rifiutata dalla gente. Soprattutto dopo quanto è accaduto in Sicilia e a Firenze, Roma, Milano. Se una società si sente minacciata è inevitabile che prima o poi ricorra ai rimedi più radicali. Anche se la riflessione culturale ritiene di poter mostrare la loro vanità.

La pena di morte appare oggi come espressione di una cultura superata. Per Tommaso d’Aquino (cioè per la Chiesa), come «l’amputazione di un membro giova alla salute dell’intero corpo umano», quando il membro è malato, così, «se un uomo costituisce un pericolo per la comunità», è «lodevole e salutare mandarlo a morte per salvare il bene comune». È, questo, uno dei principi dominanti della nostra tradizione. Accettarlo è accettare la prospettiva di fondo della tradizione filosofica dell’Occidente.

Si possono però lasciare da parte i presupposti filosofici e utilizzare quel principio come semplice rivendicazione del diritto di legittima difesa da parte della società. In questo modo, che si metta a morte un uomo «per salvare il bene comune» significa semplicemente che, quando la società si sente gravemente minacciata da un individuo, lo elimina. Che sia «lodevole e salutare metterlo a morte» non significa che la pena di morte abbia una necessità filosofico-metafisica, ma solo che la società ritiene necessario eliminare un pericolo che la minaccia. Come un individuo che uccide per legittima difesa può prescindere da qualsiasi motivazione di carattere giuridico o morale-filosofico, e pensa soltanto a sopravvivere, nello stesso modo può comportarsi la società rispetto a chi costituisce un pericolo per essa: la società si difende con la pena di morte non perché questa difesa sia legittima, ma questo tipo di difesa è «legittimo» perché le consente di sopravvivere (e cioè essa ritiene che glielo consenta – senza avere la pretesa che questa sua convinzione sia una verità incontrovertibile).

Eppure, anche così spogliata delle vesti etico-filosofiche, la tesi che la pena di morte è una forma di legittima difesa della società gode di ben poca considerazione presso gli scienziati sociali. L’obiezione più consistente che le viene rivolta è che l’analogia tra legittima difesa dell’individuo e legittima difesa dello Stato o della società non sussiste, perché quando l’individuo uccide per legittima difesa egli ritiene, e a volte si trova effettivamente nella condizione di non avere a propria disposizione alcun altro mezzo per sopravvivere, mentre lo Stato non può avere questa convinzione quando condanna alla pena di morte, giacché esso si trova solitamente nella condizione di poter disporre, per salvaguardare la propria sopravvivenza, di mezzi alternativi alla pena di morte, come ad esempio l’ergastolo.

A questo punto, prosegue l’obiezione, il sostenitore della pena di morte deve giustificare per quale motivo lo Stato, pur potendosi difendere in altri modi, adotta la pena di morte come strumento di difesa. E sembra una giustificazione difficilmente realizzabile perché essa si imbatte nel noto argomento di Cesare Beccaria, per il quale la pena di morte non è «né utile né necessaria», dato che la reclusione a vita è più temibile della morte.

Per difendersi, la società infligge a chi la minaccia la pena più temibile. Su questo non sembrano esserci dubbi. Ma qual è la pena più temibile? Sembra che oggi il problema da risolvere sul piano teorico sia questo. Beccaria sembra escludere che la pena più temibile sia la morte; Kant, insieme a tutto il pensiero occidentale, pensa invece l’opposto. «Regina dei terrori», chiamava Edmund Burke la morte, della quale i dolori sono gli «emissari». Beccaria non ha certo la forza né l’intenzione di contrapporsi all’intera cultura occidentale. In lui trapela invece, come in tanti altri, l’antica convinzione dell’Occidente che poiché la morte è il discendere nel nulla, e l’annientamento è la pena più temibile, allora è meglio morir subito, come dice l’antica sapienza tragica dei Greci, piuttosto che attraversare tutti i dolori che inesorabilmente conducono alla morte. Meglio morir subito, piuttosto che prolungare l’angoscia estrema di dover morire, quando essa dovrà essere aggravata dalla visita degli emissari della morte. Proprio perché la morte è il più temibile si può preferire che venga subito – e dunque si può pensare che essa non sia il più temibile – piuttosto che patire i dolori da cui essa si fa precedere. È questa antica sapienza – dico – a fare da sfondo al principio di Beccaria che la morte non è la più temibile delle pene. Se si prescinde da questo suo radicarsi nella grandezza del pensiero con cui l’Occidente pensa la morte, il tanto celebrato principio di Beccaria si risolve in un controsenso, giacché se si sostiene in modo nudo e crudo che la morte non è la più temibile delle pene, e se proprio per questo la si bandisce, e se d’altra parte la pena più temibile va inflitta ai delitti più gravi, ne viene allora che la pena di morte potrà o dovrà essere riservata ai delitti di minore gravità.

Parlare dell’antica sapienza tragica dei Greci a proposito di ciò che è accaduto in Sicilia non è del tutto fuori luogo. Però possiamo prescinderne e semplificare il problema.

Oggi, dicevamo, si invita il sostenitore della pena di morte a rendersi conto del fatto che l’analogia tra pena di morte come legittima difesa dello Stato e legittima difesa dell’individuo non regge e che dunque si deve indicare il motivo per il quale lo Stato, pur potendo usare altri mezzi, sceglie la pena di morte per difendere la propria sopravvivenza. A questo fine, lo Stato sceglie la pena più temibile. Ora, supponiamo pure che non si sappia quale sia la pena più temibile e che per saperlo si dovrebbero consultare, in un’intervista infinita e impossibile, tutti gli uomini vissuti sulla Terra. Supponiamo di non saperlo. Però sappiamo molto bene qual è per la mafia, e per ogni forma di criminalità, la pena più temibile da infliggere ai propri nemici: è proprio la pena di morte (come per Kant, Burke e l’intero pensiero occidentale). Gli specialisti del nostro tempo non sanno quale sia la pena più temibile; la criminalità lo sa. È convinta di saperlo. Non è una circostanza di poco conto: consente di risolvere il problema della pena di morte relativamente a crimini come quelli perpetrati dalla mafia.

Se infatti si ammette che lo Stato debba difendere la propria sopravvivenza infliggendo la pena più temibile, e se la difficoltà della ricerca intorno a questo tema riguarda l’individuazione della pena più temibile, allora questa difficoltà scompare quando non si dimentica che per le organizzazioni criminali come la mafia la pena più temibile è la morte. Questo significa che, proprio dal punto di vista dei valori morali e dei criteri di razionalità adottati dalle società democratiche, non esiste alcun ostacolo teorico a che lo Stato (sia pure con tutte le precauzioni, come la condizione della flagranza dell’omicidio, per evitare le conseguenze inaccettabili degli errori giudiziari) infligga la pena di morte ai mandanti degli omicidi e delle stragi: appunto perché lo Stato sa che per costoro la pena di morte è la più temibile.

Anche le società più libere e democratiche sono società della violenza. La violenza si annida nelle azioni più innocenti. Ma si tratta di comprendere come, rimanendo all’interno della logica che regge il nostro tipo di società, quella che viene considerata la principale obiezione rivolta alla pena di morte non sta in piedi relativamente a crimini come quelli commessi dalla mafia. La pena di morte non è certamente il rimedio per liberare da essi. Agisce sugli effetti, non sulle cause. Per agire su quest’ultime è indispensabile il rafforzamento dello Stato. Eppure, quando le società si sentono minacciate, finiscono prima o poi col maturare la convinzione che, oltre che sulle cause, si debba agire anche sugli effetti.

D’altra parte, quando la pena di morte viene considerata in rapporto a una situazione storica determinata – quella in cui è presente una criminalità che mostra di considerare la morte come la più temibile delle pene –, non si possono dimenticare gli altri fattori significativi che costituiscono tale situazione. Non si può dimenticare che esiste, come è esistita, nelle democrazie parlamentari, la possibilità di una svolta autoritaria a breve e medio termine e più o meno visibile, in difesa del sistema di forze e di privilegi che è uscito vincente dalla lotta contro il comunismo. (A breve o medio termine; prima cioè che il capitalismo faccia i conti definitivi con l’amministrazione scientifico-tecnologica del Pianeta.) Per quanto riguarda l’Italia, tale possibilità sussiste all’interno dei limiti indicati nelle pagine precedenti, ossia all’interno della circostanza che il sistema dominante non ritiene ancora opportuna una svolta autoritaria nel nostro Paese.

Si tratta di una possibilità che riguarda anche, e anzi in misura maggiore, tutte le società avanzate del mondo occidentale e che è destinata a rafforzarsi con l’aumento della pressione esercitata sui popoli privilegiati (sempre più ricchi e più vecchi) da parte dei non privilegiati che si trovano all’interno e soprattutto all’esterno dell’area della ricchezza. Quanto più il mondo diventa pericoloso per il sistema dominante, tanto più diventa difficile la tutela dei diritti democratici, aumenta la dose di repressione sociale ritenuta necessaria per difendersi dal pericolo e quindi aumenta la probabilità che la pena di morte venga considerata una componente indispensabile di quella dose. Non è casuale che Stati Uniti, Urss ed ex Urss, impegnati in prima persona (e comunque molto più dell’Europa) nei grandi scontri planetari del dopoguerra, direttamente a contatto col pericolo mantengano l’istituzione della pena capitale.

In Italia le forze democratiche possono temere che l’approvazione della pena di morte finirebbe con l’essere uno strumento in più nelle mani di un regime autoritario che prendesse il potere e si presentasse come garante dell’ordine e della legalità. In modo analogo i comunisti italiani hanno sempre osteggiato la pena capitale perché vedevano in essa una minaccia che, se in Italia si fosse prodotta una svolta autoritaria di destra, si sarebbe soprattutto rivolta contro di loro. Una variante di questo rifiuto è il rilievo, di indiscutibile peso, che in una società dove esiste un dislivello di potere e di ricchezza la pena capitale colpisce più frequentemente i meno privilegiati e i più deboli, mentre i più forti possono servirsi di essa per rafforzare il loro potere. Questa è l’obiezione più consistente che, in una società di questo tipo, i meno forti possono rivolgere alla pena di morte. Questa obiezione (che non si basa su un principio giuridico, ma sulla convinzione che chi ha il potere non si lascia condizionare da alcun principio giuridico) dà consistenza all’ostilità che in Italia le forze democratiche hanno sempre mostrato verso la pena capitale.

Ma tale consistenza è destinata a ridursi. Rispetto a un autoritarismo di cui non si conosce il volto (e che potrebbe essere il responsabile delle forme di violenza che si manifestano in Italia), il rifiuto della pena di morte da parte delle forze democratiche italiane riesce ancora a fare da contrappeso alla propensione della gente per questo tipo di pena. Ma se a livello planetario il disordine sociale dovesse crescere – ed è inevitabile che anche nelle società ricche avvenga questo, soprattutto per la crescente pressione del Sud sul Nord del Pianeta –, il bisogno di sicurezza prevarrebbe su quello di garantire i diritti dell’individuo, e anche in Italia la pena di morte uscirebbe dalla luce sinistra in cui oggi si trova, per presentarsi come strumento di sicurezza e di legittima difesa sociale.

Per la criminalità internazionale, invece, basata soprattutto sulla produzione e sul commercio della droga, un permanente disordine sociale non è vantaggioso. Come ogni altra forma di commercio e di produzione capitalistica, anche la produzione e il commercio della droga hanno bisogno del mercato e della sua espansione, cioè di un numero sempre maggiore di acquirenti forniti di reddito regolare e crescente, e quindi hanno bisogno di un sistema economico sano, capace di garantire esistenza, regolarità e crescita del benessere degli acquirenti. In Italia il terrorismo dosato serve appunto, oggettivamente, a rafforzare il sistema economico dominante e quindi serve anche a produrre un’economia sana in cui il mercato della droga possa espandersi. Per il capitalismo illegale (quello cioè che produce e vende merci che, come la droga, sono considerate illegali in tutte le società avanzate del Pianeta) le crisi e le sconfitte del capitalismo legale sono infatti dannose – e non meno delle proprie. La conflittualità tra queste due forme di capitalismo non è diversa da quella che sussiste tra tutte le altre imprese capitalistiche in regime di concorrenza. D’altra parte, se in linea di principio il capitalismo illegale non può esistere senza quello legale – senza cioè un’economia di mercato che divenga essa stessa oggetto di sfruttamento da parte delle imprese illegali –, la reciproca non sussiste, cioè il capitalismo legale può esistere (come in effetti è esistito) senza quello illegale – anche se in linea di fatto, pur essendo netta la distinzione tra questi due tipi di capitalismo, è difficile oggi stabilire dove finisca l’uno e incominci l’altro – dove, per fare altri esempi, finisca l’attività legale delle compagnie petrolifere o dei fabbricanti di armi e incominci quella sotterranea, e per ciò stesso estranea alla legalità democratica, che condiziona le decisioni politiche dei più grandi Paesi del mondo.

Non traendo vantaggio dal disordine sociale, e anzi producendo quel tipo di ordine che rende possibile il traffico della droga, il capitalismo illegale rallenta il processo verso l’istituzione della pena capitale nelle democrazie occidentali; o li alimenta soltanto nei casi in cui è costretto a usare la violenza, per esempio la violenza terroristica, per ristabilire o istituire ciò che esso intende per «ordine sociale». Oltre un certo limite, d’altra parte, la diffusione della droga minaccia quel buon funzionamento dell’economia (che richiede pur sempre, ad ogni livello, l’autocontrollo degli operatori) e quell’ordine sociale senza di cui il capitalismo deviato non può sussistere; e se quel limite viene oltrepassato il capitalismo illegale accelera il processo verso l’istituzione della pena capitale. Comunque, se il declino del capitalismo è inevitabile, il capitalismo trascina con sé anche tutte le proprie forme devianti. Appunto per questo il difensore più intransigente del capitalismo legale è il capitalismo illegale, che per difendere e promuovere il sistema capitalistico può agire all’insaputa di esso e di gran parte degli individui e delle istituzioni che lo costituiscono.