«Rinascere o perire» diceva Pietro Nenni al proprio partito. E lo si è ripetuto anche nelle assemblee nazionali del Psi dove è stata formalizzata la spaccatura di questo partito. Si sta forse riflettendo poco sul significato di quell’affermazione. È vero che – lo si è ricordato (Gianfranco Piazzesi, «Corriere della Sera», 27.11.92) – Norberto Bobbio aveva scritto sedici anni fa che «il Psi sta mostrando di essere come quei personaggi secondari che scompaiono dal primo al secondo atto quando il dramma è appena incominciato»; ma Bobbio sosteneva quella tesi sulla base della semplice constatazione della ridotta consistenza del Psi rispetto ai due poli del sistema politico italiano, la Dc e il Pci. E una semplice anche se importante constatazione storica era anche il rilievo di Bobbio che «la storia del Psi è sempre stata una storia di scomposizioni e ricomposizioni, di allontanamenti e riavvicinamenti, di abbandoni e ritorni, di passaggi da destra a sinistra, da sinistra a destra, di moltiplicazioni, di divisioni inutili, e di unificazioni di diversi che non si possono coagulare». Che questa instabilità dovesse riproporsi anche in futuro, e che la posizione subordinata del Psi si sarebbe perpetuata, era un’illazione di cui si sarebbe dovuto mostrare il fondamento e che probabilmente non intendeva nemmeno avere quel valore di «profezia» che invece è stata attribuita al discorso di Bobbio.
Da dove proviene, dunque, quell’instabilità del Psi? Ed è proprio vero che essa sia stata soltanto un fattore negativo per questo partito? Non si dovrà forse dire che tale instabilità è qualcosa di congruente al rinnovamento che Nenni poneva come unica alternativa alla consunzione del Psi?
Diciotto anni fa, pochi mesi dopo la strage di piazza della Loggia, scrivevo (su «Bresciaoggi» – e il testo è stato poi incluso nel mio libro Téchne, cit., cap. IV, 1) che «il continuo stato di crisi del partito socialista italiano, sin dai primissimi anni del dopoguerra, è determinato da una contraddizione di fondo, per la quale esso, da un lato, ha inteso alimentare la solidarietà col Pci per non farsi abbandonare da un proletariato economicamente più arretrato di quello degli altri Paesi europei e quindi incline a trovare la propria espressione politica nel Pci; dall’altro lato non ha potuto dimenticare e rinnegare la propria origine e vocazione socialdemocratica, che lo spingono a una decisa opposizione al Pci. Per esistere come socialdemocrazia era inevitabile che il Psi si spezzasse e allontanandosi dal Pci si dirigesse verso quella zona politica dove sarebbe divenuta possibile la sua partecipazione al governo. Per vivere, la socialdemocrazia doveva occupare il terreno che le è congeniale, quello della lotta democratico-parlamentare per la realizzazione delle riforme in favore del proletariato. Sennonché il Pci sta ora invadendo questo terreno e minaccia di non lasciar più alcuno spazio alla socialdemocrazia e allo stesso Psi».
Questo ordine di considerazioni non diceva che, poiché il Psi si trovava in posizione subordinata, sarebbe venuto a trovarsi in quella posizione anche in seguito (e infatti accade spesso che i partiti piccoli divengano grandi e viceversa): queste mie considerazioni indicavano invece una «contraddizione di fondo», strutturale, in cui si trovava, e da tempo, il Psi e che produceva quelle scomposizioni e ricomposizioni, e passaggi da destra a sinistra e da sinistra a destra, e unificazioni di fattori inconciliabili che Bobbio andava registrando, ma di cui si trattava di scorgere la radice. Sul piano storico non c’è alcuna buona profezia che non parta dall’individuazione di una certa contraddizione. È infatti la presenza di quest’ultima, in un certo fenomeno sociale, a determinare l’instabilità di esso, cioè la sua tendenza a uscire dalla propria configurazione attuale per raggiungere uno stato di equilibrio in cui la contraddizione sia in qualche modo oltrepassata. Appunto in base al rilevamento della contraddizione presente nel socialismo reale avevo previsto vent’anni fa il tramonto del marxismo e dello Stato marxista dell’Urss (si veda in proposito il mio saggio La bilancia, cit., cap. IV).
La contraddizione del Psi era dunque, ed è tuttora, di dover restare unito e insieme di doversi allontanare dal più grande partito della sinistra italiana; ma, questo, in una situazione in cui tale partito andava muovendosi a sua volta in quella stessa direzione, percorrendo la quale il Psi si sarebbe potuto differenziare, rendere autonomo dal Pci. Il Psi intendeva cioè stabilire una distanza tra sé e il Pci, che invece quest’ultimo andava colmando e riducendo. Per aver spazio ed esistere come partito socialdemocratico, il Psi doveva rompere i ponti col Pci, uscendo così dalla contraddizione per la quale esso era insieme unito al Pci; ma questo movimento per oltrepassare la contraddizione era vanificato dal fatto che il Pci andava sempre più spostandosi verso la socialdemocrazia, rinnegando la matrice marxista; e occupando lo spazio dove il Psi poteva e può vivere lo costringeva e lo costringe o a rifluire nel Pci e, ora, nel Pds – e quindi a «perire» come compagine autonoma –, o a trasformarsi e a «rinnovarsi», alla ricerca del proprio elemento caratterizzante. Il «rinnovarsi» gli consente certamente di sopravvivere (la sua instabilità non è cioè soltanto un fattore negativo); e tuttavia il rinnovamento non può che allontanarlo dall’elettorato di sinistra, ribadendo e accentuando la sua posizione subordinata e spingendolo verso una configurazione similare a quella del Partito socialdemocratico – che è un altro modo di «perire».
Tutta la sinistra italiana (e non solo italiana) si è messa a correre verso il centro, e il Pci più visibilmente se non più velocemente delle altre formazioni di sinistra, in modo che le diverse distanze delle sinistre dal centro sono andate riducendosi fino a sparire. Oggi non esiste più alcun motivo ideale che spieghi la separazione tra il Pds e i due partiti socialisti italiani. I movimenti «trasversali» non fanno che trarre la conseguenza di questo stato di cose, cioè di questa caduta delle discriminazioni ideologiche, che, con motivi diversi coinvolge tutto il mondo politico italiano.
Lo scontro tra comunismo marxista e socialdemocrazia risale alla fine del secolo scorso e riguarda soprattutto il modo di far valere i diritti della classe operaia. Per il comunismo la liberazione dei lavoratori può avvenire soltanto con una rivoluzione che, alla luce della coscienza filosofica totalmente dispiegata dal pensiero di Marx, distrugga le istituzioni della società borghese. Per la socialdemocrazia, invece, la battaglia per l’emancipazione operaia non deve avere un carattere violento ma dev’essere condotta conformemente alle regole della democrazia parlamentare e quindi lungo un cammino che affronta problemi settoriali e specifici e li risolve gradualmente con riforme determinate.
Come trasformazione totale della società, che oltrepassa l’irrazionalità dei rapporti di produzione capitalistici, la rivoluzione comunista intende essere l’atto filosofico per eccellenza. Come azione settoriale e graduale, che dal punto di vista operativo ritiene irrilevante il concetto di «totalità sociale» («Lavoratori di tutto il mondo unitevi», era l’appello finale del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels), la socialdemocrazia si presenta invece, sin dai suoi inizi, come teoria e come azione scientifica. Il rapporto e lo scontro tra scienza moderna e filosofia, da cui esce vincente la scienza, è il fenomeno grandioso che sta alla base del rapporto e dello scontro tra comunismo e socialdemocrazia, da cui è uscita vincente la socialdemocrazia.
Ma, oltre al miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia nelle democrazie occidentali (dove diventa problematico il concetto stesso di «classe sociale»), anche un altro fattore decisivo ha determinato la vittoria della socialdemocrazia: il mezzo secolo di tensione atomica tra Usa e Urss, che ha irrigidito la divisione del mondo in due blocchi, rendendo quindi impossibile la rivoluzione comunista nei Paesi del mondo occidentale. Il Pci (a differenza del terrorismo di sinistra) ha capito subito che la rivoluzione era diventata impossibile. Le «vie nazionali del comunismo» di Togliatti e il «compromesso storico» di Berlinguer dicevano sostanzialmente la stessa cosa, ossia erano due espressioni diverse per riconoscere questa impossibilità senza ammainare la bandiera.
Ma rinunciando alla rivoluzione il Pci rinunciava al comunismo, cioè a se stesso. Accettando le regole della democrazia non più per espediente tattico, ma come conseguenza del riconoscimento che l’appartenenza dell’Italia alla sfera di influenza americana rendeva definitivamente impossibile una rivoluzione che sarebbe inevitabilmente apparsa al mondo occidentale come longa manus dell’Unione Sovietica, il Pci compiva il passo fondamentale, sul piano politico, per diventare socialdemocrazia. La tensione internazionale spingeva cioè il Pci a invadere gli spazi sino allora occupati dal Partito socialista e dal Partito socialdemocratico, e a invaderli con volumi e pesi politici molto superiori a quelli del socialismo italiano. Determinando la trasformazione del Pci (e la morte del comunismo occidentale), la tensione internazionale determinava anche la morte del socialismo italiano. La forza di questo processo appare adeguatamente se si tiene presente la sinergia tra questo fattore – la situazione internazionale – e quello che conduce al tramonto della tradizione occidentale e quindi, innanzitutto, al tramonto della filosofia nella scienza. (È la posizione centrale acquistata dalla scienza e dalla tecnica spiega anche come sia stato possibile il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori.)
Fino a che l’impero sovietico è rimasto in vita e la guerra fredda si perpetuava, il socialismo italiano ha avuto tuttavia una grossa carta da giocare: la minaccia dell’Urss era effettiva e incombente e – nonostante ogni trasformazione e ogni riconoscimento da parte del Pci dei valori occidentali – del Pci non ci si poteva fidare (cioè aveva senso far credere che non ci si potesse fidare). L’emancipazione dei lavoratori si sarebbe cioè potuta realizzare attraverso l’azione politica del Psi e non in quell’irraggiungibile sogno di un’uscita dal capitalismo, che il Pci doveva (o credeva di dover) alimentare nel proprio elettorato. Nonostante la «contraddizione di fondo» e l’instabilità del Psi, di cui ho parlato sopra e di cui parlavo quasi vent’anni fa, il Psi aveva avuto cioè a disposizione una ragione autentica per differenziarsi dalla socialdemocrazia del Pci, per proporsi come partito di governo e diventarlo, per diventare addirittura, con la segreteria Craxi, l’ago della bilancia tra Dc e Pci. Ma ora che l’Unione Sovietica non esiste più e il centro del comunismo mondiale è scomparso, tutto questo è finito, quella carta da giocare che consentiva al Psi di mascherare la propria «contraddizione di fondo», è stata giocata e la socialdemocrazia del Pci nel frattempo divenuto Pds non differisce più sostanzialmente dalla socialdemocrazia del Psi – o differisce solo nel senso che, all’interno del sistema capitalistico, differiscono due imprese che si fanno concorrenza ma che mirano allo stesso scopo, ossia all’incremento del profitto, una essendo tuttavia più grossa dell’altra.
Le attuali traversie del Psi sono una delle forme più visibili e più inevitabili della crisi che il crollo del comunismo ha determinato negli stessi avversari del comunismo, e quindi nelle forme politiche del mondo occidentale. Vent’anni fa, proprio in occasione della vittoria del Pci, nel 1975, scrivevo che la logica profonda delle cose suggeriva alle sinistre di diventare un partito laburista, e alla Dc e agli altri di diventare un buon partito conservatore (cfr. ora in Téchne, cit., ibid.). Questa logica agisce anche oggi. Ad aggirarla o a volersene liberare si fanno soltanto battaglie di retroguardia (anche se è molto difficile che la Chiesa rinunci a sostenere in Italia l’esistenza di un partito di ispirazione cattolica, differenziato sia dalle forze conservatrici sia da quelle laiche progressiste).