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Essenza del nichilismo, marxismo, capitalismo

Il pensiero di Marx appartiene ancora alla grande tradizione filosofica, perché ritiene che sia possibile affermare l’esistenza di connessioni necessarie tra le cose e tra gli aspetti del mondo – ad esempio la connessione necessaria tra individuo e società, tra uomo e natura, e, su questa base, tra uomo e lavoro, tra lavoro e mezzi di produzione, tra uomo e prodotto del lavoro. Ma sin dal suo inizio la filosofia ritiene, anche, che le cose e gli aspetti del mondo, quanto a ciò che hanno di specifico e di proprio, provengano dal non essere e vi ritornino. Per la filosofia del passato (che culmina in Hegel, all’interno del cui pensiero Marx continua a muoversi), è dunque tra le cose così intese – cioè come caduche – che sussisterebbe la connessione per la quale esse dovrebbero star unite necessariamente le une alle altre; ed è il mondo stesso, come luogo del loro nascere e perire, che dovrebbe essere necessariamente unito al suo principio divino.

Ma – ed eccoci a uno dei tratti più decisivi e meno compresi della nostra civiltà – se si crede che ciò che esiste provenga dal proprio non essere e vi ritorni, non è più possibile affermare alcuna connessione necessaria tra gli esistenti, cioè non è più possibile alcuna verità definitiva e incontrovertibile (il contenuto della verità essendo appunto la connessione o unità necessaria tra ciò che esiste). La filosofia e l’intera cultura contemporanea son giunte appunto alla negazione più perentoria di ogni verità. Eppure stentano a rendersi conto che questa negazione è la conseguenza inevitabile della convinzione fondamentale di tutto il pensiero dell’Occidente, e cioè che gli essenti vengono e vanno nel nulla. La fine della grande tradizione filosofica, e quindi anche del marxismo, è inevitabile – e anzi radicalmente più inevitabile di quanto non credano gli stessi protagonisti del pensiero contemporaneo.

Da tempo vado dicendo tutto questo; ma aggiungendo che nemmeno il pensiero contemporaneo ha l’ultima parola, giacché la fede che le cose escano dal nulla e vi ritornino è l’essenza autentica e nascosta dell’alienazione estrema: l’alienazione della verità, il nichilismo. Il pensiero che si mantiene al di fuori di questa fede non è quindi costretto ad accettare le conseguenze che da essa inevitabilmente provengono; e cioè, innanzitutto, non è costretto ad accettare quella negazione di ogni verità incontrovertibile e di ogni connessione necessaria, che caratterizza il pensiero contemporaneo.

Era questo l’aspetto del mio discorso filosofico che immediatamente più interessava Claudio Napoleoni nel suo tentativo di valorizzare il pensiero di Marx. La possibilità, indicata dai miei scritti, di porsi al di fuori delle conseguenze scettiche, relativistiche, storicistiche del pensiero contemporaneo equivaleva per lui alla possibilità – che per altro io non gli concedevo – di continuare ad appoggiarsi alla filosofia di Marx, sia pure per svilupparla in un senso che Marx non poteva prevedere. Ma poi Napoleoni si era anche reso conto che se gli fosse stato possibile trovare che il capitalismo è contraddizione, questa contraddizione doveva essere inscritta in una contraddizione ancora più ampia, relativa all’intera storia dell’Occidente, ossia alla contraddizione in cui il nichilismo consiste; e nonostante il suo interesse per il senso heideggeriano del nichilismo egli aveva lucidamente compreso il senso (essenzialmente diverso) del nichilismo, indicato dai miei scritti, e quindi la necessità di andare oltre il senso che al nichilismo Heidegger assegna (cfr. C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Boringhieri, 1985, p. 145). Di più: Napoleoni era giunto ad accettare la tesi che questa più ampia contraddizione, in cui consiste il senso autentico del nichilismo, è essa stessa inscritta nella contraddizione ultima – indicata nel mio libro La struttura originaria, del 1958 (2a ed., Adelphi, 1981) – che compete al finito, in quanto il finito è l’apparire finito dell’infinito.

È una vicenda, questa del rapporto che il pensiero di Claudio Napoleoni ha avuto col mio, che compare nel modo più chiaro nell’ultimo libro da lui pubblicato, nel 1985, appunto il Discorso sull’economia politica, e che si ripresenta in forma più implicita nel recente volume, a cura di Gian Luigi Vaccarino, Dalla scienza all’utopia (Boringhieri, 1992), in cui sono raccolti alcuni importanti saggi composti da Napoleoni tra il 1961 e il 1988.

Lo scritto che chiude il volume è una lettera inviata da Napoleoni ad Augusto Del Noce nel 1988. Vi si discute «il problema dell’uscita dalla società tecnocratica», cioè dalla società che, per Napoleoni, Marx è riuscito a «prevedere con assoluta esattezza», ma dalla quale non si può uscire usando il marxismo. Anche in quest’ultimo volume di saggi, Napoleoni crede, con Marx, che sia possibile rilevare «la contraddizione specifica della società capitalistica» (p. 175). Solo in quanto si riesca a scoprire che la società capitalistica (culminante nella società tecnocratica) è contraddizione, si può affermare la necessità di uscirne; ma Napoleoni non concede a Marx e a Hegel che la contraddizione abbia «in sé il principio del proprio superamento» e cioè sia «generatrice di un movimento» che porti al di là di essa (p. 181). È, questa, la tesi che nel Discorso sull’economia politica (pp. 121-122) Napoleoni aveva attinto dal mio libro Essenza del nichilismo (1972, 2a ed., Adelphi, 1982) e della quale egli si serviva per caratterizzare «la nostra condizione attuale», la condizione cioè in cui la contraddizione della società capitalistico-tecnocratica è conoscibile, ma non si sa come uscirne.

Appunto per questo, nel suo ultimo volume di saggi Napoleoni scrive: «Nel Discorso, basandomi sulle obiezioni di Severino ai “cattivi kantiani”, ho cercato di richiamare la possibilità di riferirsi alla contraddizione come interpretazione di quelle Gedankenformen che sono gli assetti sociali. Ma la contraddizione non deve essere necessariamente pensata all’interno di un nesso dialettico, cioè come avente in sé la spinta che porta al suo toglimento: una contraddizione può anche permanere come non tolta» (p. 208).

E infatti il punto è di decisiva importanza per il marxismo, per il quale, invece, l’esistenza della contraddizione porta necessariamente al suo toglimento nella storia (cioè, nella fattispecie, al superamento della società capitalistica nella società senza classi). Su questo punto, ciò che divide Napoleoni dal mio discorso è che, per me, non solo la contraddizione può anche permanere, nel finito, come non tolta, ma il marxismo non riesce nemmeno a mostrare che il capitalismo e la tecnocrazia siano contraddizione. Anche il tentativo che Napoleoni compie in tal senso in questi suoi saggi (nella «produzione per la produzione» il soggetto diventerebbe oggetto e l’oggetto soggetto, p. 174), per quanto interessante, non è stringente.

L’adesione di Napoleoni ai tratti fondamentali del mio discorso filosofico è comunque espressa nel modo più chiaro da questo passo di Dalla scienza all’utopia: «Altro è richiamare la legittimità di pensare la realtà storica e sociale come contraddittoria, altro è pensare la contraddizione come avente in sé la spinta al proprio necessario superamento. In realtà, come nel Discorso si tentava di dire, la contraddittorietà del capitalismo è il prodotto di una più generale contraddizione, che è possibile nell’uomo come essere finito in cui l’infinito si manifesta» (p. 211). È proprio quest’ultimo tema, infatti, – cioè la contraddizione del manifestarsi dell’infinito nel finito – che Napoleoni attinge nel Discorso (pp. 108-111), dai miei Studi di filosofia della prassi (1962, 2a ed., Adelphi, 1984) e da La struttura originaria (cit.).

Ma Napoleoni si era anche reso conto che quando si parla di esistenza della contraddizione – per esempio della contraddizione del capitalismo – non si nega il principio di non contraddizione, come invece ritengono H. Kelsen, K. Popper, Galvano Della Volpe e quanti li hanno seguiti, come in Italia Lucio Colletti. Staccandosi da Colletti, Napoleoni si serve, nel Discorso (pp. 95-103), della critica che ne Gli abitatori del tempo (cit.) avevo rivolto a Colletti. Il risultato di tale critica è che Marx esce indenne dalla critica che Colletti gli ha rivolto ispirandosi a Kelsen, Popper, ecc. (i «cattivi kantiani»). Napoleoni aveva ben capito (Discorso, pp. 104-111) che questo risultato non equivale affatto, per me, al riconoscimento della verità della filosofia di Marx. (Come ho detto sopra, questa filosofia è anzi destinata al tramonto, in quanto affermazione della connessione o unità necessaria tra le cose o tra gli «opposti».) Tuttavia vedeva nel mio pensiero filosofico il fondamento per poter riprendere il discorso sulla connessione necessaria; e questo significava per lui (ma non per me) la possibilità di tenere in vita il pensiero di Marx (pp. 106-107).

Ho richiamato queste cose, perché mi sembra che siano state alquanto trascurate nella rinnovata attenzione per il pensiero di Napoleoni. Vorrei aggiungere che l’accordo di Napoleoni ai tratti fondamentali del mio discorso filosofico non erano qualcosa di estrinseco rispetto ai suoi interessi economici.

Per lui, infatti, la teoria marxiana del valore-lavoro (il valore di scambio della merce è determinato dalla quantità di lavoro incorporata nella merce), che sta al fondamento della categoria di «sovrappiù sociale» (salari e profitti) è inaccettabile; e tuttavia quella categoria può essere egualmente mantenuta, sostituendo la teoria del valore-lavoro con la teoria dei prezzi contenuta nell’opera di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (1960). Ma a differenza degli altri marxisti sraffiani, Napoleoni ritiene che il sovrappiù, nella teoria di Sraffa, sia qualcosa di neutrale, e cioè che si possa affermare sia che il sistema capitalistico impedisce ai lavoratori di appropriarsi di tutto il sovrappiù, sia che l’attuale configurazione della società impedisce ai capitalisti di appropriarsi di tutto il sovrappiù sociale.

Per Napoleoni, cioè, dopo Sraffa il pensiero di Marx deve essere riformulato, ma una volta riformulato, esso è (insieme all’alternativa «neoclassica») un’«opzione possibile». Ma per Marx il capitalismo è «separazione» di ciò che è originariamente unito (lavoratore e natura, lavoro e merce, lavoratore e lavoro, lavoratore e scienza incorporata nelle macchine); e la separazione è contraddizione. Per Napoleoni era quindi necessario liberare il concetto di contraddizione da ogni interpretazione inadeguata. Era necessario far questo per mantenere il pensiero di Marx come «opzione possibile». Ma la comprensione del senso autentico della contraddizione appartiene alla filosofia, anche se è l’economia stessa a richiederla.

Napoleoni aveva seguito l’indicazione dei miei scritti fino a comprendere che la separazione e quindi la contraddizione originaria che domina la storia dell’Occidente è la separazione della terra dalla verità (Discorso, p. 145), che è, insieme, separazione dell’essere dell’essente – cioè è fede nell’oscillazione degli essenti tra l’essere e il nulla – cioè nichilismo. Ma se così è, il pensiero di Marx non può più essere inteso come un’«opzione possibile», cioè come una possibilità autentica del pensiero. E non solo il pensiero di Marx, ma tutto ciò che si appoggia a quella fede – cioè ogni forma della civiltà occidentale – non può più essere considerato un’«opzione possibile».

Anzi, l’«opzione» stessa è una fede. E ogni fede dell’Occidente riconducibile alla fede nel divenire, alla fede nella caducità delle cose – e dunque alla fede che esistano forze (Dio, l’uomo, l’apparato scientifico-tecnologico), capaci di produrre e distruggere le cose –, cioè all’alienazione estrema del nichilismo.

Il capitalismo, comunque, non è la tecnocrazia. L’identificazione di questi due termini, compiuta da Marx, è inaccettabile, perché la tecnocrazia, che include la salvaguardia della Terra, è la dimensione a cui il capitalismo è destinato a subordinare i propri scopi specifici. Per rilevare il senso autentico dell’autodistruzione del capitalismo non è necessario appoggiarsi al marxismo, anzi è necessario liberarsi dal marxismo e dalla radice stessa che alimenta l’intero pensiero dell’Occidente. Il che va detto, anche se in queste pagine l’autodistruzione del capitalismo non è stata rilevata in riferimento al suo significato più autentico e più nascosto, ma in riferimento alla logica interna dell’Occidente, che spinge al tramonto della propria tradizione «ideologica» e al trionfo della civiltà della tecnica.