In rapporto all’insistenza con cui continuo ad affermare che il «bipolarismo», che in precedenza aveva Usa e Urss come protagonisti, continua a esistere anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, va rilevato che la mia previsione del crollo del marxismo e del socialismo reale era previsione del crollo stesso dell’Urss in quanto centro mondiale del marxismo istituzionalizzato e del socialismo reale. Quindi era previsione del crollo della forma ideologica che il «bipolarismo» era venuto ad assumere dopo la Seconda guerra mondiale. Essa era pertanto previsione del «monopolarismo» ideologico, in cui il capitalismo sarebbe rimasto appunto la forma ideologica dominante, cioè la forma ideologica più congruente all’apparato scientifico-tecnologico da essa amministrato – essa stessa destinata, peraltro, ad essere subordinata e travolta da tale apparato.
Anche nel mio saggio La guerra, pubblicato recentemente da Rizzoli (ma la prima stesura risale a 10-15 anni fa), si parla tra l’altro del «bipolarismo» Usa-Urss. E l’«Avvertenza», scritta negli ultimi mesi di vita dell’Unione Sovietica, afferma che il «bipolarismo Usa-Urss» esiste anche oggi. Ma l’Urss, come tutti sanno, non esiste più. E tuttavia è ancora il caso di parlare di «bipolarismo», o (per usare l’espressione che avevo coniato) di «duumvirato», anche dopo la liquidazione formale dell’Urss.
Andavo dicendo da tempo che il marxismo e il marxismo sovietico erano destinati al tramonto (e indicavo i motivi di questa destinazione) ma «Urss» significa appunto «Unione delle repubbliche socialiste sovietiche». Prevedere il tramonto del marxismo e del marxismo sovietico significava prevedere il tramonto dell’Urss. Non lo si deve dunque dimenticare, quando si considera l’insistenza con cui affermo il permanere del «bipolarismo». Con questa parola ho sempre indicato la situazione in cui le possibilità dell’apparato scientifico-tecnologico oggi «a disposizione dell’uomo» sono concentrate soprattutto in due aree del Pianeta: gli Usa e l’area dell’ex Urss. Sia all’Est, sia all’Ovest, la prestazione primaria dell’apparato è la potenza nucleare, cioè la capacità di distruggere il Pianeta (la quale è insieme una capacità produttiva mai prima sperimentata dall’uomo). È appunto questa capacità a costituire i due «poli». Il capitalismo ha vinto e gli Stati Uniti intendono imporre al mondo la pax americana; ma ancora oggi esiste al mondo una forza militare capace di distruggere gli Stati Uniti e l’intero Pianeta. Si tratta, appunto, dell’arsenale atomico dell’ex Urss. Non è diventato meno reale per il fatto di aver cambiato amministratore. La guerra, come scontro tra forze commensurabili, continua ad essere possibile.
Per «bipolarismo», dunque, ho sempre inteso e intendo tuttora qualcosa di diverso dal senso che è stato dato comunemente a questa parola e che fa leva soprattutto sulla forza di attrazione economico-ideologica dei due poli. Oggi il capitalismo ha una capacità di attrazione economico-ideologica grandemente superiore al marxismo. Ma appunto questo prevedevo che sarebbe accaduto. Prevedendo il tramonto del marxismo, prevedevo la vittoria del capitalismo. «Dal comunismo al neocapitalismo» – scrivevo vent’anni fa. Il bipolarismo di cui affermo la permanenza anche nell’epoca del capitalismo vincente non ha dunque nulla a che vedere col «bipolarismo» che è finito con la fine del marxismo e dell’Urss. Indubbiamente, l’economia che all’Est alimenta l’apparato scientifico-tecnologico si trova in condizioni precarie; ma, come già si è detto, tale apparato possiede una forza inerziale che può durare il tempo richiesto per l’assestamento dell’economia dell’Est. Nel qual caso, al bipolarismo nel mio senso potrebbe venire ad aggiungersi, ripristinato, quel «bipolarismo» che oggi è finito.
Una volta riconosciuto tutto questo non si comprende d’altra parte nulla di ciò che è «guerra» nella civiltà occidentale, se non si risale al modo in cui l’Occidente, sin dal suo inizio greco, pensa l’esser cosa delle cose, pensa cioè la cosa come oscillazione tra l’essere e il niente. Questa, la tesi fondamentale del mio libro La guerra. In proposito, si è osservato che la guerra non può essere «una conseguenza di una particolare ontologia» perché «sia l’etnologia che la storiografia ci dicono che la guerra è sempre stata al centro di tutte le culture e di tutte le civiltà» e dunque essa non è «la vocazione specifica dell’Occidente» (Luciano Pellicani, «Il Giorno», 13.2.92). Credo di sapere anch’io che la guerra c’è sempre stata e non incomincia con l’ontologia greca. Il mio libro comincia proprio dicendo: «Al centro dell’esperienza umana, la guerra. Scandisce da sempre il ritmo della storia».
Ma col pensiero greco – che prepara il terreno in cui si dispiega la storia dell’Occidente – incomincia un modo nuovo del far guerra; così come l’uomo incomincia a morire e a nascere in modo nuovo. I Greci evocano il senso radicale del nulla, da cui le cose provengono e in cui ritornano. A partire dai Greci la distruzione delle cose – quindi anche quella forma di distruzione estrema che è la guerra – acquista una radicalità che prima non c’era. È un modo radicalmente nuovo di far guerra quello di chi, distruggendo, intende spingere nel nulla da cui non si ritorna; così come è un modo radicalmente nuovo di morire quello di chi, morendo, crede di andare nel nulla eterno. È con questo nuovo senso della guerra che noi abbiamo a che fare. E non è un caso che la distruttività delle guerre dell’Occidente non abbia confronti con le guerre in cui la distruzione non aveva l’intento di ridurre il nemico al terribile e definitivo silenzio del nulla.
Ancora a proposito di quel mio libro, si è osservato che, anche ammettendo il mio discorso – per il quale l’Occidente è dominato dalla violenza essenziale, cioè dalla persuasione che le cose escono dal niente e vi ritornano –, c’è poi da chiedersi che cosa mai dovrà fare il «comune mortale» fino al giorno in cui «l’umanità non si sarà liberata per sempre» da tale persuasione. E per rispondere a domande di questo tipo – si conclude – occorrono decisioni, «atti», non «parole»: «atti» che non risolvono i grandi problemi, «ma che fanno qualcosa di più: mostrano (a noi stessi e agli altri) chi siamo» (R. Guarini, «Il Messaggero», 2.2.92).
Ma certo! I «comuni mortali» fanno vedere sempre chi sono. Cioè che forza hanno. Anche l’apparato scientifico-tecnologico che domina la Terra fa vedere a tutti chi è: oltre a poter annientare tutto, è anche il più potente strumento che gli uomini abbiano oggi «a disposizione» per sopravvivere. Sennonché è l’apparato che, sempre più decisamente, mette a propria disposizione tutto il resto: tutte le grandi forze della tradizione occidentale e, a maggior ragione, tutti i «comuni mortali». Anche quando riescono a mostrare chi sono, essi possono tutt’al più mostrare qual è il loro tipo di integrazione alle strutture dell’apparato (anche perché il modo in cui la cultura occidentale concepisce l’uomo è profondamente congruente all’anima tecnica dell’apparato). Ecco che cosa accade fino a che non tramonti il pensiero dominante che guida la civiltà occidentale – il pensiero che le cose sono niente.
Inoltre, mi si ricorda (ibid.) che esistono situazioni in cui l’uomo più pacifico non può evitare di essere violento. Lo credo bene. Ma il «mio» discorso non ha lo scopo di convincere gli individui a non essere violenti. Sarebbe come voler convincere le pietre ad essere acqua. (Il «mio» discorso mostra che cosa sta accadendo al di là e attraverso il nostro darci da fare. O anche: siamo proprio sicuri che «noi» non siamo altro che «individui»?)
Mi si chiede anche che cosa ci sia di violento nell’arte. Van Gogh sentiva «le foglie gialle cadere». «Come può questa attenzione verso la cosa volere l’annientamento della cosa?» (F. Bella, «l’Unità», 27.1.92). Penso che si potrebbe conoscere la mia risposta. L’«attenzione verso la cosa» è il lasciarla essere così com’essa è. Heidegger parla appunto del «lasciar essere» (Gelassenheit). E anche Heidegger potrebbe chiedere che cosa c’è di violento e di annientante nel «lasciar essere» le cose, nel lasciare che esse si mostrino così come esse sono. Ma incominciando dal pensiero greco, l’Occidente ritiene che le cose mostrino di uscire dal niente e di ritornarvi. In questo modo, l’Occidente non lascia che le cose mostrino il loro vero volto, ma le manomette nel modo più radicale: le identifica al niente; e solo in quanto le annienta in questo modo essenzialmente originario può annientarle nelle forme note e visibili dell’annientamento.
Nella civiltà occidentale l’«attenzione verso le cose», il «lasciarle essere» è cioè la forma estrema della violenza. Dal pensiero greco è andata allargandosi sino a comprendere tutti gli aspetti della vita. Van Gogh sentiva «le foglie gialle cadere». Ma che cosa pensava egli di questo «cadere» – e, poi, del «cadere» che a tutte le cose compete quando esse muoiono? Pensava anche lui che le foglie, cadendo, finiscono per sempre la loro vita, che quelle foglie non ritornano più, vanno nel niente. Van Gogh non intendeva certo annientarle, le lasciava essere; ma «vedendole» (credendo di vederle) andare nel niente, compiva anche lui, come tutta l’arte dell’Occidente, il gesto originario ed essenziale dell’annientamento.
Pensare che la cosa (il non niente) è niente è l’estrema follia. La negazione della follia estrema è pensare che le cose – tutte – non sono niente. È cioè pensare che nessuna di esse esce dal nulla e vi ritorna. Al di fuori della follia, il cambiamento incessante del mondo, pur trascinando via tutto, non annienta alcunché e quindi non può avere il significato che l’Occidente gli attribuisce. Tutto questo vado mostrando da tempo: la necessità di dire così: l’impossibilità di dire altrimenti: il «destino». Il capitalismo, come ogni altra forma della tradizione dell’Occidente, è portato al tramonto dalla tecnica; ma la tecnica è la forma più rigorosa e potente della follia estrema della civiltà occidentale. Il destino della verità si mantiene già da sempre al di fuori della storia dell’Occidente.