Potter se ne stava nel mezzo del torrente, in piedi su una roccia enorme. Era tutta la mattina, e quasi tutto il pomeriggio, che stava piazzato lì, a gettare la lenza inutilmente. Sotto di lui c’era una piccola rapida spumosa, e lungo la sponda opposta una pozza immobile e vitrea, riparata e sovrastata da un graticcio di rami, sfarfallii e ombre, dove vedeva il suo riflesso maculato nella luce che cominciava a calare. A mano a mano che il giorno e il fiume diventavano più scuri, la stessa cosa succedeva al riflesso di Potter, e ora quello che vedeva – alzando la mano, in questo preciso momento – era un uomo su un masso che si salutava da solo.
Ciao.
Addio.
Jane se n’era andata da un po’. Era tornata a piedi al bungalow, a un paio di chilometri da lì, lasciandolo a pescare, mentre lei preparava i bagagli e saldava il conto alla florida e sempre indaffarata signora tedesca che gestiva il residence. Potter e Jane stavano passando tre giorni sugli Adirondacks per prendersi una pausa dalla città. Dopo aver visto i colori, le foglie autunnali, non era rimasto molto da fare: era ottobre, a Lake Placid era quasi tutto chiuso, e quello che era aperto era di cattivo gusto e costosissimo. Jane aveva comprato a Potter un’attrezzatura da pesca da quattro soldi in un negozio di esche lungo la strada: un’esile lenza col mulinello di plastica, qualche mosca e qualche galleggiante, perché il fiume era a due passi e la vacanza era stata un’idea sua; Potter era convinto che si sentisse responsabile, che non sopportasse di vederlo triste.
Le colline ombrose scendevano dolci verso di lui, ma dato che era reduce da una sbronza pesante il pendio del bosco sembrava più ripido di quanto non fosse in realtà, e le rapide gli assalivano le orecchie, sembrava che avessero un rimbombo cavernoso e una velocità tremenda. Non riusciva a guardare il ribollire della schiuma nell’acqua per più di qualche istante senza avvertire un pizzico di nausea. Ma era bello concentrarsi sulla pesca. Lanciò l’esca a monte e guardò la lenza venire verso di lui e poi superarlo, diretta a valle. Azionò il mulinello, con il filo sottile e trasparente che tagliava l’acqua formandoci sopra una leggera V. Poi lanciò di nuovo e si sedette a fumare una sigaretta.
La pozza scura dall’altra parte del fiume gli sembrava un buon posto per catturare qualcosa. Non sapeva di preciso perché. Non si intendeva molto di pesca. Quella mattina, a colazione, con suo grande sbigottimento, si era ritrovato sul piatto la pancetta, le uova e le patatine disposte a formare una faccetta sorridente: le strisce arricciate e croccanti di bacon erano la bocca all’insù, i tuorli due occhioni spalancati e le patatine ondulate sembravano i ciuffi ribelli di uno che aveva dormito male, come lui, e si era svegliato con un cerchio alla testa. Sulle prime Potter pensò che il personale della cucina avesse capito che era un novellino della pesca e lo stesse prendendo in giro. Ma forse era un caso, una pura coincidenza. Guardò il piatto di Jane, ma lei aveva ordinato le frittelle. Allora prese la forchetta, ci trafisse gli occhi e tagliò in due il sorriso.
Il ristorante era pieno, ma Jane era l’unica donna, a parte la cameriera. Gruppi di uomini del posto entravano e uscivano con passo pesante, in stivaloni da pesca e maglie di lana, cappelli flosci con le mosche agganciate sopra. Scherzavano liberamente fra loro, strillando da un capo all’altro della sala. Sembrava che avessero tutti delle destinazioni familiari e segrete lungo il fiume, dei punti preferiti, ma li confidavano soltanto ai propri amici più stretti, per timore che qualcuno li seguisse. Le loro donne, Potter ne era sicuro, stavano a casa, e per vendetta immaginò uno scenario piacevolmente terrificante: le donne abbandonate che trottavano da una stanza all’altra in ciabatte rosa di peluche e camicie da notte azzurre sintetiche, scarmigliate, tristi, sformate e senza amore. Abbassò gli occhi sul sorrisone spezzato e gli occhi ciechi che aveva nel piatto e rimise le cose in prospettiva. Sì, quelli sapevano pescare, ma lui aveva Jane. Alzò lo sguardo, le fece un sorriso affettuoso e divorò la colazione.
Eppure gli dispiaceva di non sapere nulla di pesca. Adesso che aveva cominciato, ci si era messo d’impegno. Non sopportava di lasciare le cose a metà: per lui era una questione di principio. Quello che si comincia bisogna finirlo. Doveva assolutamente prendere un pesce.
La lenza di Potter ebbe uno scossone e il cuore gli sobbalzò in petto. Strattonò la canna e cominciò a riavvolgerla, e mentre si piegava all’indietro il sottile filo di plastica bianca si curvò pericolosamente in una falce. Ma l’amo si era soltanto incastrato da qualche parte. Potter agitò la canna di qua e di là, sbatacchiandola come un pazzo e ottenendo, con quegli sforzi erculei, una sorta di imitazione di un uomo che ha appena catturato un pesce grosso; poi la canna si raddrizzò di scatto e la lenza si strappò e ricadde moscia, galleggiando sul pelo dell’acqua. Aveva perso la mosca, ma ne aveva un’altra. La fissò al suo posto. Il commesso del negozio gli aveva insegnato come fare. Diede un morso al piombino, srotolò altro filo e lanciò di nuovo la mosca in acqua.
Il fiume rombava e riecheggiava fra le colline. Il suono era talmente completo che sembrava non avere una fonte precisa ma provenire da tutte le parti e riempire il mondo, spaccandogli le orecchie. Potter si rese conto che era la forza di quel rumore, la sua amplificazione, a farlo sentire così piccolo e ridicolo, così precario; era il rumore a rendere ripide le colline e a dargli l’impressione che si muovessero, che scivolassero giù. Controllò di essere bene al centro della roccia. Sperava che Jane tornasse presto.
Nel bungalow accanto al loro soggiornava un gruppo di uomini, e a Potter era parso che avessero atteggiamenti fastidiosi e maliziosi, o addirittura volgari, in presenza di Jane. La mattina si svegliavano presto e andavano a pescare, poi tornavano a casa e accendevano un falò scoppiettante, cucinavano un po’ di pesce e bevevano birra tutta la notte. Una di quelle sere, Potter li aveva visti bruciare una sedia e un paralume del bungalow. Invitavano continuamente Jane a fargli compagnia. Potter le diceva che erano dei teppisti e dei debosciati, ma lei gli rideva in faccia, rispondendo che debosciati non sapeva neanche cosa volesse dire, ma che di sicuro non erano teppisti, erano solo un gruppo di amici che si divertivano. «Si divertono», gli aveva ripetuto. Ma stavano bruciando dei mobili in perfette condizioni, aveva obiettato lui. E lei aveva detto: Dai Potter, non siamo più in città. Qui siamo in mezzo alla natura, alla campagna, aveva insistito, quindi abituatici e rilassati, ok? A mo’ di gesto di riconciliazione, per far pace con Jane e mostrare ai vicini che era un tipo cordiale, la sera prima Potter aveva comprato birre e marshmallows e si era messo a bere con loro. I vicini si erano fissati con i marshmallows, infilzandoli su degli spiedini, dandogli fuoco e scagliando nel falò le pallette azzurre fiammeggianti; lui, dal canto suo, si era sbronzato.
Potter lanciò la lenza verso la sponda opposta del fiume e lasciò che il filo venisse portato dalla corrente meno veloce lungo quella riva. Trascinata dolcemente a valle, l’esca immersa nell’acqua superò Potter, che srotolò ulteriormente la «coda di topo» e lasciò che la corrente la portasse verso la pozza. Il cielo era diventato molto più scuro, e così anche il fiume; ora il sole era basso, a occidente, coperto dalla cima delle montagne. Il suo riflesso nella pozza era indistinto. Gli sembrò che tutto attorno a lui la foresta si infittisse, e la caduta dell’acqua, quello scrosciare freddo, rapido e impetuoso, gli faceva girare la testa. Forse aveva solo bevuto troppo la sera prima, ma la miscela di colori, la corteccia bagnata e nera degli abeti, le foglie gialle e rosse che sventolavano come mani nella brezza... quei colori, nel muoversi, facevano violentemente a pugni nei suoi occhi. Era terrificante starsene così solo, ed essere ingannato dai propri nervi.
Si concentrò sulla lenza. Si impegnò a seguire con gli occhi la canna che teneva fra le mani, e a percorrere il sottile filo lucido che attraversava di sbieco il fiume tuffandosi nella pozza, dove la mosca galleggiava dolcemente nell’oscurità. Fissò il punto in superficie in cui la coda di topo spariva sott’acqua. Proprio in quel momento abboccò qualcosa. Lo capì, lo percepì immediatamente. Era qualcosa di vivo, era lì, concreto e solido. Era una reazione, la voce di una creatura vivente che lo chiamava, e Potter dimenticò la sua paura, strattonando bruscamente la canna. Ma per lo shock la tirò troppo forte, e appena sentì il primo morso, sentì subito anche l’assenza. Un’assenza vibrante, che rimase nell’aria come una nota musicale. Riavvolse la lenza, ed era vuota.
Potter lanciò di nuovo, in maniera impeccabile, e il filo scivolò silenziosamente lungo la sponda scura. Emozionato, Potter cominciò a respirare sempre più piano, trattenendo il fiato quasi del tutto quando la mosca si fermò nella pozza. Seguì di nuovo con lo sguardo la curva della canna, il tratto teso di lenza: fissò il punto dove scompariva alla vista, tremando leggermente, e vide che aveva messo in moto una serie di lievi increspature. Nulla. Riavvolse il filo e lanciò di nuovo, con la stessa precisione di prima: pensava che se solo fosse riuscito a ricreare gli stessi identici movimenti, si sarebbe prodotta di nuovo quella nota eccitante, sarebbe tornata la musica e lui avrebbe preso il suo pesce. Aspettò quell’istante di contatto. Nulla, di nuovo. Lanciò la lenza un’ultima volta. Nulla.
Jane lo stava chiamando dalla riva. Potter si voltò di scatto. A forza di guardare il filo era entrato in una specie di trance. La salutò con una mano e riavvolse la coda di topo. L’acqua della pozza era quasi nera. Era tutto il giorno che se ne stava piazzato su quel masso, e ora gli sembrava un tempo lunghissimo, tranne per gli ultimi attimi, che restavano stampati e al tempo stesso scorrevano velocissimi nei suoi ricordi. Guadò fra gli schizzi l’acqua poco profonda del torrente e diede un bacio a Jane.
«Ne ho quasi preso uno», disse.
«Bravo», rispose lei. «Allora non ti è dispiaciuto se sono stata via tutto questo tempo».
«Be’, un pochino sì. Pensavo che ti eri dimenticata di me».
«Scusa», disse lei. «Ti ho superato di un bel pezzo senza accorgermene. Com’era, grosso?»
«Gigantesco, ne sono sicuro». Stranamente, a Potter sembrava di aver bisogno del pesce per dimostrare che era felice. «Vorrei averlo preso davvero. È stato emozionante, una sorpresa totale, è arrivato all’improvviso dal nulla».
Si incamminarono su per il sentiero mezzo coperto dagli arbusti finché non raggiunsero la strada dove era parcheggiata la macchina. Era presa a noleggio, si chiamava Tempo e aveva la carrozzeria rosso fuoco, come uno smalto per unghie. «Sexy», aveva detto il tipo dell’autonoleggio. Potter gettò la canna da pesca sul sedile posteriore. Dio santo, pensò, certo che l’abbiamo ridotta male ’sta macchina.
Jane si mise alla guida. Potter guardava passare le colline. Di tanto in tanto incontravano casette antiquate e pittoresche costruite a una certa distanza dalla strada. Di traffico non ce n’era quasi per niente, e per lunghi tratti la strada era tutta per loro.
Stavano ancora viaggiando paralleli al fiume, seguendone tutte le curve. Sul bordo della strada c’erano gruppi di uomini che rimettevano a posto l’attrezzatura da pesca, sorseggiando birra. Jane accese la radio e armeggiò con i pulsanti. Potter si stravaccò sul sedile. Aver quasi preso quel pesce era una sensazione troppo sottile per raccontarla, pensava. Era stato molto, molto emozionante: qualcosa di semplicissimo, ma molto emozionante. Non riusciva a toglierselo dalla testa.
«Dio santo», disse, «è stato veramente... non lo so».
«Cosa?»
«Quel pesce. Magari ero ancora sotto l’effetto dell’alcol. Ma tutto a un tratto, mi sono concentrato».
Potter si accese una sigaretta e soffiò via il fumo, che per un attimo aleggiò sopra la sua testa, come la nuvola di un fumetto in cui però nessuno diceva niente. La spazzò via con la mano e aprì appena appena il finestrino. Dalla fessura entrò una folata di aria fredda autunnale, con un rumore simile a quello del fiume.
Jane si limitò ad annuire e si sistemò più comoda sul sedile, premendo ancora un pochino sull’acceleratore. Potter la guardava: le piaceva guidare, le era sempre piaciuto moltissimo, e sembrava che avesse scoperto che farlo era ancora più esaltante su una macchina presa a noleggio. Era meno responsabile, più libera. Andava veloce. Quando pigiò sull’acceleratore, l’improvviso aumento di velocità schiacciò Potter contro il sedile. Poi Jane accese la radio. Il segnale di qualche stazione di Albany andava e veniva mentre la macchina percorreva l’asfalto serpeggiante.
Potter guardava passare la campagna sempre più buia. Jane accese i fari. Non era la prima volta che lui andava a pescare, in un certo senso. Si ricordò che da piccolo aveva usato la paghetta settimanale per comprarsi l’attrezzatura: un rotolo di filo con dei piombini, due ami e un galleggiante, e un barattolo di uova di salmone arancione fosforescente, il tutto trovato dal ferramenta; e poi si faceva tre-quattro chilometri in mezzo ai campi disboscati, seguendo i tralicci dell’alta tensione, fino alla fattoria dei Vitulli. Erano anni che non ci ripensava. La fattoria dei Vitulli si estendeva per tutta la vallata, e Potter ci andava spesso a giocare insieme a Joan, una sua compagna di classe: si arrampicavano sul soppalco carico di balle del vecchio fienile, pieno di aria grigia e vetusti arnesi arrugginiti e passeri che svolazzavano qua e là. Si ricordò che i polli erano lerci e che un bruttissimo cavallo lo spaventava, ma la terra, il letame, la paglia e la grande apertura della vallata gli scatenarono un piacevole caos in mente. Le giornate passate laggiù erano sempre un tripudio di libertà, una fuga dall’ordinata quiete che gli veniva imposta a scuola e a casa.
Sul terreno della fattoria scorreva un ruscelletto pieno di anse. Non era profondo, e in diversi punti era attraversato da ponticelli azzurri e gialli. La signora Vitulli prendeva dei vecchi secchi per il latte e li dipingeva di azzurro per metterli sui ponti gialli, e di giallo per metterli sui ponti azzurri, poi ci piantava dentro petunie rosa e viola. Quando andava a pescare, Potter si fermava sempre a chiedere il permesso alla signora Vitulli, per educazione, e lei diceva sempre ma sì, certo, e gli regalava qualcosina, un biscotto o una mela da portarsi dietro. In genere prendeva dei pesci gatto. Spesso lo accompagnava Joan.
Ora la pelle olivastra di Joan Vitulli, i suoi occhi a mandorla e il suo naso affilato nella mente di Potter erano chiari quanto l’eccitazione del momento in cui il pesce aveva abboccato. Adesso capiva che effetto gli aveva fatto, perdere il pesce. «Ho capito che effetto mi ha fatto», disse. Mentre scendeva la notte, Potter raccontò tutta la storia a Jane, che rimase ad ascoltarlo in silenzio.
Joan portava sempre i capelli raccolti in una coda di cavallo, legata con degli elastici verdi, o dei pezzi di spago, e a volte si fermava i ciuffi con delle forcine o delle barrette. Ma una volta, quando Potter era andato a trovarla, l’aveva trovata con un nastro di velluto nero. Il nastro sembrava particolarmente leccato addosso a Joan, che aveva modi spicci ed era un po’ un maschiaccio, e Potter gliel’aveva detto. Era l’inizio dell’autunno, ricordava, si sentivano cantare i pivieri e lungo il torrente frusciavano le tife, e dall’altra parte del campo fiorivano ciuffi di verga d’oro e salcerella. L’erba era secca e bionda, e quando il vento ci soffiava in mezzo, strie irregolari di luce e ombra si muovevano per tutto il campo come onde marine.
Il nastro che Joan aveva in testa era così strano, così insolito. Potter la prese in giro e Joan gli diede uno spintone e scappò via. Lui la rincorse e alla fine la buttò a terra, e rimasero stesi uno addosso all’altra su un letto di erba schiacciata, muti ma con un fiatone così forte che Potter se ne vergognò. Era strano sentir respirare una femmina. Per qualche istante non dissero niente. Potter si ricordava di aver ascoltato il rumore liquido del loro respiro e il sibilo del vento e il fruscio dell’erba come se fosse la risacca che si alzava e si abbassava nel campo, e di aver guardato uno stormo di anatre canadesi che passavano in formazione a cuneo nel cielo sopra di loro. Era come stare sott’acqua, era tutto altrettanto lento e silenzioso. «Se non ti piace il mio nastro, me lo puoi togliere», disse Joan. Potter non rispose niente e lei si alzò in ginocchio, dandogli le spalle. Potter guardò il nastro nero legato in un fiocco. «Dai, avanti», disse Joan. Aveva i capelli pieni di fili di paglia. Potter tastò il fiocco. Il nastro era soffice e aveva la superficie lucida, come una specie di patina liscia, quando lo si accarezzava in un certo verso, ma se lo si strofinava dall’altra parte era rigido e ruvido. Mentre glielo slacciava, con la mano sfiorò i ciuffi sottili di capelli scuri e piumosi sulla sua nuca. I capelli le caddero sulle spalle. Lei scosse forte la testa per scrollarsi via i fili di paglia, poi si voltò verso Potter. «Mia madre mi ha detto che mi stava bene», disse. Potter aveva in mano il pezzo di velluto e ci stava passando il pollice avanti e indietro, per sentire prima la parte liscia, poi quella ruvida. Poi Joan si chinò in avanti e Potter la vide chiudere gli occhi, perciò li chiuse anche lui. Il bacio di Joan fu la cosa più calma del mondo. Potter non avrebbe mai più voluto aprire gli occhi, ma dopo un po’ lo fece, e vide che Joan lo guardava in faccia sorridendo. «Mi ha insegnato mia sorella allo specchio», gli disse. Potter non riuscì a rispondere nulla. Si protese solo un altro po’ verso di lei, e sentì il sapore di lavanda delle sue labbra e poi qualcos’altro, lo scivolare umido e rosa della lingua. Balzò in piedi e si mise a correre per il campo, sventolando il nastro di velluto nero come una bandiera nell’aria della sera.
Durante l’inseguimento, poco prima che Joan lo acchiappasse e lo sbattesse a terra, a Potter cadde di mano il nastro, e anche se lo cercarono ovunque, tentando di essere il più metodici possibile, non lo trovarono più. Si scusò mille volte mentre tornavano nella penombra del crepuscolo verso la luce gialla e calda della casa di Joan. Pensava che la signora Vitulli si sarebbe chiesta che fine aveva fatto il nastro, e immaginava che l’avrebbe scoperto. Salutò Joan e aspettò che chiudesse la porta. Poi tornò di corsa nel campo, da solo, e cercò quel pezzo di velluto finché non ci fu più abbastanza luce per vederci qualcosa e ci fu troppo silenzio e buio per fingere di non aver paura. Aveva cominciato a immaginare non un nastro nero arrotolato, ma dei serpenti che strisciavano nell’oscurità dell’erba, ed era quasi troppo terrorizzato per muoversi ma si sforzò, anche se la paura gli restò comunque dentro mentre attraversava il campo falciato nel buio, sentendo il ronzio dei fili della luce. La paura lo seguì fino a casa, nell’immagine del nastro perduto in mezzo all’erba.
Ora Potter allungò una mano e strizzò la coscia di Jane.
«Tu te lo ricordi il tuo primo bacio?», le chiese.
«No», disse lei. «Per la verità no».
Voleva essere solo una bonaria presa in giro, ma la risposta brusca lo sorprese: in quel momento lo stato d’animo di lei era completamente diverso.
Qualche goccia leggera colpì il parabrezza. Si accesero i tergicristalli, che disegnarono due palpebre sul vetro. L’ultima luce del giorno faceva risaltare le sagome delle montagne. La macchina seguiva dolcemente le curve, dondolando, rigirandosi, scendendo. La pioggia cadeva più forte e i tergicristalli scandivano il tempo, mentre Potter tornava a immaginare il suo primo bacio, la notte che scendeva e la paura che l’aveva tormentato per tutta la strada fino a casa. Nei suoi ricordi la paura era sparita, o quantomeno stava sbiadendo. E il pesce? Quello che gli restava era una vibrazione sulla lenza, un tremito nella mano, il ricordo di un incontro con il nulla, quasi, che avveniva e svaniva in un unico istante, e cominciò a riassaporarlo più e più volte, ascoltandolo come fosse una musica. Dopo un po’ Jane alzò il volume della radio e non poterono più parlare.
La neve aveva cominciato a cadere poco dopo la mezzanotte, anche se Potter là per là non se ne era accorto e non se ne sarebbe reso conto neanche ora, se non fosse stato per una folata di vento che scosse i listelli della veneziana quanto bastava per disturbarlo. Sollevò gli occhi da una lettera che stava tentando di cominciare a scrivere. Tutto attorno alla finestra si era formato un bordo di condensa e la vista dal divano era nebulosa e sfocata. Si alzò, attraversò la stanza e tirò su la tapparella, premendo la faccia contro il vetro. Fuori dalla finestra la neve cadeva di traverso, scendendo nel buio finché non veniva illuminata per qualche attimo dal cono di luce azzurra del lampione. Le strade erano bianche e luccicavano di piccoli cristalli gelidi. Non si era reso conto che era prevista una nevicata. Non si era neppure reso conto che era così tardi.
Per buona parte della serata si era tenuto occupato ascoltando un album di musica natalizia barocca e cercando di scrivere la lettera. Immerso in un umore sognante e meditabondo, quasi barocco anche quello, aveva sentito chissà quante volte le semplici variazioni del Canone di Johann Pachelbel. Il disco originariamente era di Jane. Il parquet attorno al divano era cosparso di fogli appallottolati di carta celeste. La lettera, indirizzata a sua madre, non gli veniva facile. Il giorno prima era stata l’Epifania, e la cosa lo aveva reso tutt’a un tratto nostalgico. Gli piaceva considerarsi uno scrittore, e di tanto in tanto metteva laboriosamente insieme un copione o buttava giù un articolo, ma in quel momento stava impazzendo per scrivere una semplice lettera, e in mezzo a una serie di false partenze a singhiozzo gli era venuta voglia di patate al cartoccio, e ne aveva messe due ad arrostire nel forno. «Arrosto», era così che immaginava le patate; e adesso che si era accorto della neve, l’immagine gli sembrava ancora più saporita.
Potter riabbassò la veneziana. Sulle pareti bianche del suo appartamentino c’erano diverse stampe artistiche, perlopiù residuati del college, tutte incorniciate per bene, ma appese di sghimbescio, con angolazioni strambe e sofferte. È che l’appartamento stesso era composto solo e soltanto di linee sghembe. Non c’era un muro a piombo in tutta la casa. Quando Potter ci si era trasferito, aveva notato che teneva sempre la testa piegata da un lato o dall’altro, cercando distrattamente una vera verticale senza mai trovarla. All’inizio di quella stessa serata aveva contemplato l’ipotesi di traslocare in un posto migliore, ma non sapeva immaginare quale.
Il giorno prima la madre l’aveva chiamato per dirgli che stava pensando a lui. Voleva anche informarlo del fatto che i magi erano arrivati sani e salvi a Betlemme. Il viaggio dei magi era una pantomima che veniva messa in scena ogni anno, una tradizione della sua infanzia. Vedendo i magi girare per la casa, Potter e i suoi fratelli e sorelle capivano che il Natale era imminente. Le statuine cominciavano il loro tragitto dal davanzale sopra il lavello della cucina e la stagione delle feste si chiudeva ufficialmente il giorno dell’Epifania, quando infine arrivavano alla mangiatoia, sopra il caminetto; la madre preparava una bella cena con cui festeggiavano i tre sapienti, e con quella le vacanze finivano e arrivava il momento di riprendere la vita normale. La madre toglieva subito tutte le decorazioni e buttava via l’albero. E lo faceva ancora, anche se nessuno viveva più in casa con lei. Potter se la immaginava girare quatta quatta per la casa buia e silenziosa e far avanzare i magi di qualche centimetro, giorno dopo giorno.
Guardò la lettera, un quarto di pagina di scarabocchi neri che si interrompevano a metà frase lasciando il passo a una distesa vuota celestina. Cosa c’era da dire? Il mattino di Natale aveva aperto il pacchetto che la madre gli aveva spedito per posta, settimane prima, sentendosi strano per aver aspettato tutto quel tempo. Dato che lei gli aveva mandato un regalo, era andato a comprare un alberello per mettercelo sotto. Dopo averlo sistemato in casa, aveva ritagliato dei fiocchi di neve, incollato fra loro anelli di cartoncino verde e rosso fino a formare una lunga catena e costruito un angioletto arrotolando a cono della carta viola, spillandoci delle ali dorate e incastrando una testa deforme di carta argentata nella minuscola apertura in cima al cono. L’angelo era per la precisione un serafino, aveva sei ali. Con lo scotch aveva attaccato anche dei Baci di cioccolata ai rami dell’albero, a mo’ di decorazione. Nel pacchetto della madre c’era una penna placcata in oro, la carta da lettera celeste e un biglietto che diceva Buon Natale e per favore scrivimi due righe raccontandomi come stai.
Appena suonò il timer, Potter aprì il forno e infilzò le patate con una forchetta. Quando le tirò fuori a mani nude si scottò, dai buchini lasciati dai denti della forchetta uscivano sottili riccioli di vapore. Controllò in tutti gli armadietti, ma l’ultimo rimasuglio di alluminio l’aveva usato per il serafino. Allora gli staccò la testa e con gran cura ridistese il foglio d’argento appallottolato, poi ci avvolse le patate. Si infilò il cappotto, la sciarpa e il berretto di lana nero. Non trovò i guanti, ma poco importava. Si mise una patata bollente in ciascuna tasca. All’ultimo secondo, uscendo, afferrò il sale e il pepe dal piccolo tavolino da pranzo, spense le luci e si avviò giù per le scale per andare a farsi una passeggiata.
La città era deserta, come se fosse disabitata, eppure, mentre Potter camminava, guardando il cielo ammassato e vorticante, il mondo intero era riempito dalla neve che cadeva, e quella discesa frenetica, il turbinio brulicante dei fiocchi bianchi che emergevano dal cielo buio alla luce dei lampioni, creava un senso di pienezza che contrastava con l’ora tarda, il freddo e il silenzio. Potter curvò le spalle per ripararsi dal vento, tenendo una patata al forno in ogni mano. Erano ancora caldissime. Non riusciva a stringerle per più di qualche secondo. Le lasciava nelle tasche finché le mani non gli ridiventavano fredde, e poi le afferrava di nuovo.
Si incamminò verso il parco. Le case erano sempre buie e silenziose e sembravano vuote, anche se, qua e là, dietro una finestra si vedeva il chiarore di una luce accesa e l’ombra di qualcuno che passava. La neve fendeva la luce tiepida come se fosse un altro tipo di ombra. Ai lati delle strade erano allineati i bidoni dell’immondizia, e ogni cinque o sei case si vedeva un albero di Natale rovesciato a terra, o appoggiato contro un cancello di ferro, spesso con i resti scintillanti di qualche addobbo ancora appesi ai rami. La neve sempre più alta sul marciapiede formava cumuli uniformi contro i bidoni e gli scatoloni di rifiuti e punteggiava i rami secchi e ingialliti degli alberi.
Potter prendeva a calci la neve fresca con gli scarponi pesanti, guardando a ogni passo le piccole esplosioni di polvere. Sotto i lampioni la neve era azzurra, come i diamanti, ma nel parco le luci erano diverse e il manto nevoso splendeva simile a un mare d’oro. I lampioni del parco erano copie ornamentali degli antichi fanali a gas, e dentro ci bruciava una finta fiammella gialla. La neve in caduta aveva una filigrana dorata, formava un ricamo che si ripeteva con una tale velocità e insistenza, e una tale perfezione, che appariva sospeso e immobile sotto la luce, quasi drappeggiato a mezz’aria.
Al centro del giardino pubblico c’era un palco coperto per i concerti. Una grande stella di luci natalizie bianche brillava sopra il tetto. Le grondaie erano adorne di ghirlande di pino, e sotto le sporgenze del tetto dondolavano mute delle campane di plastica rosse.
Potter non vide l’uomo finché non lo ebbe superato, diretto verso Main Street. Il tipo era appoggiato alla ringhiera, sotto la tettoia del palco.
«Senta... scusi?»
Potter, perso nei suoi pensieri, si voltò di scatto. L’uomo gli andò incontro.
«Sì?», fece Potter.
«Non è che ha da accendere, per caso?», gli chiese lo sconosciuto. Era basso e grasso, con le orecchie spesse come tocchi di prosciutto. L’orlo del cappotto sfiorava la neve e ci si era formato un bordo di ghiaccio. La neve gli cadeva sulla testa scoperta e gli si appiccicava ai capelli.
«Purtroppo no, mi dispiace», disse Potter.
L’uomo tremò e si ficcò le mani in tasca. Al di là di un gruppetto di alberi, oltre il parco e dall’altro lato della strada, c’era una chiesa con delle guglie aguzze, un campanile alto e squadrato e una statua bianca della Vergine.
L’uomo disse: «Non capisco cosa ci fa in giro a quest’ora».
«Faccio due passi», rispose Potter. «Non riuscivo a dormire».
«Io invece stavo dormendo», disse l’altro, «ma adesso sono sveglio».
«Mi dispiace di non avere da accendere», disse Potter.
Tirò su col naso, l’aria sapeva di buono.
«Hanno detto che nevicherà tutta la notte?», chiese l’uomo.
«Non lo so».
«Sembra di sì. Sembra proprio che voglia venire giù per tutta la notte».
Potter cercò di seguire il tragitto tortuoso di un fiocco solitario mentre serpeggiava fra i rami arcuati e ritorti sopra il tetto del palco. Era inutile. Il fiocco arrivò sotto la luce e si perse.
«Ma lei dove abita?», chiese Potter.
«Qui, alla missione. In vari posti».
«E perché adesso non se ne torna alla missione?»
«Non mi piace stare sempre lì», disse l’uomo. «Ci fanno pregare per qualunque cosa. Ci fanno pregare pure per la zuppa di fiocchi d’avena».
Potter scosse le spalle.
«Dopo un po’ mi stufo».
«Ha fame?», chiese Potter.
«Non lo so», rispose l’altro. «Non ci avevo pensato».
«Allora?»
«Direi di sì. Direi che a ben pensarci, un po’ di fame ce l’ho».
«Le andrebbe una patata al forno?»
«Come, scusi?»
«Una patata».
«Ah, allora avevo sentito bene. No, in realtà non mi va di arrivare in qualche altro posto».
«Ne ho una qui con me», disse Potter.
Tirò fuori dalla tasca una delle patate al forno. Porse all’uomo la palla di carta argentata come se fosse un dono che aveva fatto apparire per magia dal nulla. L’uomo fissò il cartoccio luccicante, che sfavillava sotto la luce della finta stella. I fiocchi di neve si scioglievano sull’alluminio caldo.
«Mi prende per il culo?», disse.
«Che altro potrebbe essere?», chiese Potter.
L’uomo ci pensò su per un attimo. «Un sasso».
«Be’, la prova ce l’ha sottomano, no? Mi dica che questa non è una patata al forno».
Potter aprì la carta argentata e il fumo salì in mezzo alla neve che scendeva.
«Questa è per lei, se vuole».
«Che cos’ha che non va?»
«Niente. È una patata normalissima. Le mangio in continuazione». Potter si infilò una mano in tasca. «Sale e pepe?»
Salò leggermente la patata e poi la inondò di pepe.
«Il sale fa bene alla zucca», disse Potter, «e il pepe è per non annoiarsi troppo. Le patate possono essere molto noiose».
Guardò l’uomo dare un morso alla patata. «Cristo santo, come scotta. Non è male, però. Buona».
Potter decise di tenersi l’altra patata. Toccò la spalla dell’uomo.
«Buon appetito», disse.
«Grazie», disse l’altro, ingoiando.
Potter si allontanò e aveva ormai raggiunto il bordo del parco quando l’uomo gli gridò dietro. «Ehi, io mi chiamo John», strillò.
«E io Potter», strillò Potter a sua volta.
Si fermò in un bar e bevve rapidamente una tazza di cioccolata calda, lasciò una mancia dignitosa e si rimise in cammino verso casa. Ora la neve cadeva anche più forte, posandosi in uno spesso manto sui marciapiedi e sulle strade e coprendo le solite cartacce, e tutto era soffice e bianco, aveva un che di calmo e misurato, un’immobilità e un equilibrio, come se tutte le vecchie delimitazioni e divisioni fossero state cancellate e ognuno potesse ricominciare da zero, ricominciare da capo. Lungo Main Street c’erano ancora le decorazioni natalizie. Grossi bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse erano appesi ai lampioni, allegramente adorni di festoni rossi e verdi, e pupazzi di neve di plastica col cilindro nero in testa si aggrappavano ai pali con una mano e con l’altra sventolavano in aria scope di saggina. A ogni angolo di strada c’erano altoparlanti grigi gracchianti che sfrigolavano e ronzavano nell’aria fredda sputacchiando canti di Natale, come un coro di angioletti un po’ sfigati. Mentre Potter attraversava un incrocio deserto, dall’altoparlante usciva «Joy to the World». Le parole si libravano nell’aria e poi scendevano in picchiata, come fossero le evoluzioni ebbre e rapite di un gruppo di angeli in volo.
Anche se era ancora buio, la città aveva già cominciato a svegliarsi, e nelle case di Main Street si accendevano diverse luci. Forse per colpa del tempo la gente usciva di casa prima del solito per andare al lavoro, o forse si alzava sempre a quest’ora. Potter non lo sapeva. Prese un caffè al negozietto di alimentari aperto tutta la notte, pensando che magari anche John ormai ne avrebbe avuto bisogno. Mentre usciva, l’indiano dietro la cassa chiese a Potter se gli dispiaceva fargli un piccolo favore.
«Mio caro fratello ritorna in India oggi», disse, «e volevamo dire se per favore lei ci fa una foto. Di me, e i miei due fratelli. Vogliamo che mamma vede il negozio. Vogliamo che vede come vanno le cose a noi in America».
«Certo», disse Potter, «nessun problema».
Il commesso fece segno ai due fratelli e tutti e tre uscirono da dietro il bancone. Il primo indiano aveva in mano una Polaroid. La passò a Potter.
«Di fuori», disse.
Tutti, Potter compreso, uscirono dal negozio sotto la neve. I tre fratelli si misero vicini sul marciapiede davanti al negozio. Si presero sottobraccio e sfoderarono dei gran sorrisoni bianchi. Potter armeggiò con la macchina fotografica cercando a tentoni il pulsante. Quando guardò nel mirino i tre fratelli si rimpicciolirono e sembrarono molto lontani. Trovò il pulsante e lo schiacciò. Il flash esplose in un lampo azzurro e un ingranaggio sferragliante sputò fuori una foto. Si accalcarono tutti, a testa china, a guardarla mentre si sviluppava, ma prima che il processo finisse un fiocco di neve cadde nella piccola apertura al centro del capannello e si posò esattamente nel punto in cui sarebbe dovuta comparire la faccia del fratello in partenza. Tutta la foto si sviluppò, lentamente per via del freddo, tranne la testa di quel fratello. Rimase un inquietante spazio bianco, un vuoto, nel punto in cui era caduto il fiocco di neve.
E poi, a quanto pareva, Potter si era mosso e l’inquadratura era sghemba. I tre fratelli erano inclinati in maniera bizzarra, guardarli faceva venire quasi il mal di mare. Tutti fissarono la foto. Tutti mugugnarono.
«Rifacciamola», disse Potter. «Questa era solo una prova».
«Sì», disse il primo indiano. «Facciamo un’altra».
«Dentro, però», disse il fratello la cui testa era stata cancellata. «Fa troppo freddo».
Potter pensò che si fosse risentito per il fatto della testa. Per quanto casuale e innocente, doveva essergli sembrato un segno infausto, quasi una maledizione, alla vigilia di un lungo viaggio. Potter voleva metterlo a suo agio e si inventò un breve sermoncino.
«Ogni fiocco di neve è unico», disse. «Come un essere umano! Un’anima! Certo, a vederli scendere dal cielo sembrano tutti uguali, ma se uno li guarda più da vicino, al microscopio, si scopre che non è così. Questo incidente potresti anche considerarlo un buon segno, una specie di profezia, una particolare benedizione sul tuo viaggio».
«Sì, sì», disse il fratello in partenza. «Ma qui mi si stanno congelando le palle. Entriamo, svelti».
«No», disse il fratello che finora non aveva parlato.
I tre fratelli si raggrupparono di nuovo e sfoderarono di nuovo i sorrisoni, e Potter armeggiò con la macchina e riuscì a tenerla dritta, e infine il flash ruppe l’oscurità con una bella esplosione azzurra, il meccanismo cigolò e produsse una seconda foto. Potter si affrettò a ripararla dalla neve. Quando osarono guardarla, la foto era indistinta, lo sviluppo ancora incompleto, ma sembrava che le teste ci fossero tutte, belle perpendicolari, e che la foto sarebbe venuta bene, e tutti furono contenti.
Anche se per tornare a casa fece lo stesso tragitto, la neve caduta aveva cancellato le sue impronte ed era come se percorresse una strada completamente diversa e nuova, come se da lì non ci fosse mai passato. Quando arrivò al parco, John non c’era più. Potter si augurò che fosse al caldo, a dormire tranquillo. Bevve il caffè che aveva preso per lui sotto la stella attaccata in cima al tetto del palco. Il giardino pubblico era silenzioso, ma quando Potter andò a mettersi sotto il palco a forma di conchiglia sentì il rumore del mare, delle onde che si infrangevano in lontananza sul bagnasciuga, come se si fosse portato davvero una piccola conchiglia all’orecchio. Nella piscina per i bambini, due delfini nuotavano nel mare di neve dorata. D’estate i bambini li cavalcavano, e i delfini spruzzavano acqua nella grande vasca. Adesso, in mezzo alla neve, sembravano trichechi. Mentre Potter se ne stava lì, nelle case attorno al parco si accesero sempre più luci. Un’alba grigiastra cominciò a dissolvere la notte scura, e il mare d’oro si appannò e sbiadì. Quando la stella si spense, Potter si rimise in cammino.
Aveva intenzione di tener fede al suo piano originario, ripercorrere il tragitto dell’andata, ma se ne erano perse completamente le tracce. In lontananza gli parve di sentire una sorta di sirena da nebbia che ululava a intervalli regolari, ma non ne era sicuro. Per la seconda volta quella sera passò davanti casa di Jane. Si fermò sul marciapiede e guardò il portone. Poi salì le scalette e suonò al citofono. Aspettò.
«Chi è?», si sentì rispondere.
«Sono io», annunciò Potter. «Posso salire?»
Ci fu un silenzio, e poi, più lontano dall’altoparlante, sentì un’altra voce che chiedeva: «Chi è?»
Ci fu un altro silenzio. Poi Jane disse: «Sarebbe meglio domani».
Era esattamente quello che Potter sospettava, e tuttavia rimase di stucco. Lo sapeva già, eppure era sbigottito.
«Hai perso di nuovo le chiavi?», gli chiese Jane.
«No», disse Potter.
«Che ore sono?»
Sentì avvicinarsi il violento, aspro sferragliare di un camion della nettezza urbana, e vide degli uomini con grossi badili in mano che correvano a destra e a manca davanti ai fari. I fari tagliavano con un raggio abbagliante la penombra caliginosa. Per tutta la strada, man mano che si avvicinavano, Potter li vide caricare sul camion alberi di Natale.
Sentì la voce gracchiante di Jane dal citofono, che gridava: «Ci sei ancora? Ehi, sei ancora lì?»
Potter ascoltò l’urlo di avvertimento della sirena e guardò i netturbini. Rovesciarono il carico dentro il camion, premettero un interruttore, si azionò un motore cigolante e l’immondizia venne schiacciata; i fari si abbassarono un po’ per lo sforzo e quando il processo finì tornarono a brillare come prima. Un tipo con una tuta di gomma gialla afferrò un albero lì vicino. Una pioggia di aghi cadde a terra quando gettò l’abete morto dentro il camion. Potter lo guardò accartocciarsi e scomparire. Stava cominciando a sentire freddo. Il camion e i netturbini proseguirono lungo la strada, allontanandosi sempre più, portando via gli alberi di Natale.
Arrivato a casa, Potter si ricordò della patata al forno. La tirò fuori dalla tasca. Aveva anche la foto dell’indiano senza testa. Se l’era tenuta per ricordo. In realtà assomigliava a un tableau vivant o a uno di quei buffi trucchetti fotografici di una volta, in cui uno si mette dietro una scenografia di cartone e infila la testa in un buco e si fa fare una foto ricordo in cui sembra che stia facendo qualcosa di strambo e fuori dal comune. Se avesse trovato una sua foto abbastanza piccola, l’avrebbe ritagliata e avrebbe attaccato la propria testa sul corpo dell’indiano. Si augurò che facesse buon viaggio. Attaccò la foto al muro. Era difficile... no, era impossibile metterla dritta. Fece un passo indietro e la guardò. La spostò leggermente e si allontanò di più, la guardò di nuovo. Se fissava il bordo bianco quadrato, l’immagine era sbilenca, ma se si concentrava sui fratelli, inquadrati di traverso, sembravano perfettamente verticali. Era una foto impeccabile di tre fratelli inclinati da una parte, o una foto sghemba di tre fratelli che stavano in piedi normalmente? Fra le due alternative, Potter non sapeva scegliere quale stortura fosse la migliore.
Riaccese la fiamma pilota della stufetta e alzò il gas. Le fiammelle azzurre della stufa gli avevano sempre fatto lo stesso effetto ipnotico del vero fuoco in un caminetto. Rimise Pachelbel sullo stereo e si distese sul divano. La patata era fredda all’esterno, ma quando la aprì vide che al centro era ancora bollente e fumante. La salò leggermente e la cosparse di una dose abbondante di pepe. Era affamato. La patata gli scottò le labbra e dovette rallentare, ma quando rallentò il sapore era ottimo. Era la migliore, la più indimenticabile patata al forno che avesse mai mangiato. Sugli ultimi bocconi aggiunse altro pepe e la finì, poi si mise a fissare le fiammelle azzurre, poi a guardare fuori dalla finestra.
Si alzò e girò il disco di Pachelbel sull’altro lato. In realtà le variazioni erano piuttosto monotone, nella loro ricercatezza barocca, ma in fondo gli piaceva la monotonia, la ricorsività, il fatto che le variazioni del canone si ripetessero sempre, divagando, crescendo, ma poi tornando immancabilmente, alla fine, allo stesso punto già familiare. Abbassò il volume. Tirò fuori il letto da sotto il divano. Si sfilò le scarpe e la camicia e si tolse i pantaloni e i calzini e li appoggiò con calma accanto alla stufa. Alzò ancora un tantino la fiamma, così da svegliarsi con un bel calduccio, poi aprì il lenzuolo di sopra, ripiegandolo delicatamente su se stesso. Spense le luci e vide di nuovo la neve che cadeva fuori dalla finestra, scendendo a spirale.
Ma quando la musica finì era ancora sveglio, e c’era troppo silenzio. Mise via la carta da lettera e riavvitò il tappo della penna placcata d’oro. Davvero non aveva nulla da dire, o quantomeno nulla che non potesse aspettare il giorno dopo, o quello dopo ancora. Il giorno dopo, o quello dopo ancora, doveva ricordarsi di dire alla madre che a quanto pareva anche altra gente aspettava l’Epifania per buttare via l’albero.
Lui aveva un giorno di ritardo. Staccò il serafino dall’alberello e lo posò sul tavolo della cucina. Portò l’albero vicino alla finestra. Alzò la tapparella, aprì i vetri e guardò fuori. Nella sua strada i netturbini non erano ancora arrivati. Decine di alberi di Natale, appoggiati ai cancelletti o caduti a terra, fiancheggiavano i marciapiedi. Affacciandosi alla finestra, a Potter sembrò di sentire la sirena, ed era sicuro di aver sentito qualcosa, qualcosa che sembrava un grido di avvertimento, carico di una certa urgenza, però forse no, non era una sirena da nebbia, perché non erano affatto vicini al mare. Anzi, erano in pieno entroterra. Guardò da una parte e dall’altra della strada, staccò un ultimo Bacio dall’alberello e lo lasciò cadere.