L’ultima volta che l’avevo visto si era comportato come uno di quei ragazzi-lupo, allattati e allevati da animali selvatici, e non ero riuscito a capire, nei dieci minuti di perplessità che avevo trascorso fermo in mezzo al giardino, se mi avesse riconosciuto o meno. Mi chiese quando avevo intenzione di liberarmi della mia malattia, il che mi portò a domandarmi se stesse parlando in senso metaforico o confondendomi con mio fratello Mike, che è in effetti schizofrenico e vive in una comunità di recupero. Poi sembrò avere un momento di lucidità, e mi diede del fallito per aver mollato il college. Faceva fatica a respirare, l’aria gli raspava la gola e imprecava come uno posseduto dai demoni a un angolo di strada nei quartieri bassi. Tutti i fiori, nei cestini appesi sulla veranda, nei vasi di terracotta, nel barile da whisky, erano morti e sibilavano secchi nel vento, quindi era vero, apparentemente, che aveva innaffiato il giardino con la benzina. La catenella sulla porta rimaneva tirata. Dentro casa, dalla fessura, lo vidi ansimare, gridare, mescolare il latinorum alle parolacce, chiamando le mie sorelle stronze cospiratrici e mia madre vituperevole troia. Le sue urla avevano sempre avuto l’effetto di farmi sentire piccolo piccolo, togliendomi la terra da sotto i piedi anche solo per l’altissimo volume: sembrava che gridasse dal capo opposto del paese, o rivolto al passato, comunque contro qualcuno che non era presente, e più restavo lì ad ascoltarlo, più mi saliva la disperazione. Aveva botte di energia emotiva che gli facevano diventare la testa viola, e durante quell’ultimo incontro la testa gli rimase sempre di quel colore. Quando ero piccolo mi metteva la testa viola a un palmo dal naso, mi prendeva per la mascella e mi diceva: «Se fossi me saresti morto, perché mio padre ti avrebbe ammazzato». Andando via, in macchina, mi sentivo ancora addosso quella sensazione, di echi dentro echi.
Sicuro che fosse definitivamente impazzito e avesse bisogno di cure mediche, chiamai il suo psicologo, il dottor Headberry, ma quel povero dispensatore di pillole tartassato era stato licenziato, o comunque mandato via, e dopo una settimana o giù di lì mio padre cercò di rendere pubblica la sua sofferenza. Venne in chiesa con indosso la sua versione di una tenuta da frate penitente: pantaloni cerati, stivali di pitone, un giaccone di lana con toppe ovali di camoscio sui gomiti e un cappello di stoffa scozzese coi paraorecchi imbottiti di gommapiuma. Era tutta roba confinata da tempo sui ganci appendiabiti alle pareti del garage, e puzzava, lo sapevo già, di olio da motore ed erba falciata e di quell’odore polveroso e dimenticato dei tessuti che si sono bagnati e asciugati, ribagnati e riasciugati, infinite volte, per anni e anni. Aveva messo sotto chiave tutte le sue pistole dopo che mio fratello Jackie (come a lui piaceva dire) aveva succhiato una canna: cioè si era ficcato un Mossberg calibro 12 in zona tonsille e si era fatto saltare il cranio contro la parete della camera da letto.
Mentre tutti e due i miei fratelli maggiori erano palesemente degli scoppiati, io, il più piccolo della famiglia, ero stato fortunatamente protetto dalle mie quattro sorelle. Se non fosse stato per loro, mi rendevo conto che sarei stato ancora più disadattato di quanto già non fossi, se non addirittura già morto o pazzo. Karen, Lucy, Meg e in particolare Roxy avevano tutte una fissazione particolare, uno strano interesse per i posti migliori dove andare in canoa, i rimedi a base di erbe, i parchi in cui si poteva passeggiare senza pericolo la notte, la sardonice e l’opale nero, le strane pratiche curative, le piume di corvo e i gusci d’uovo, la numerologia e i dischi suonati al contrario, il cibo non inscatolato o confezionato. Mio padre era convinto che fossero streghe. Roxy portava al collo un fiore di cardo dentro un colino da tè. Gli indiani Salish credevano che il cardo proteggesse dalla cattiva sorte, e gli antichi Scoti che tenesse lontano i nemici. Roxy ne diede uno anche a me, e una volta mi regalò anche una melagrana. Io non ne avevo mai vista una, e rimasi stupito all’idea che qualcuno pensasse a me, seduto al piano di sotto nella stanza di Jackie, sul vecchio letto di Jackie, e mi portasse un regalo di punto in bianco, senza nessun motivo. Una melagrana. Di punto in bianco, e senza nessun motivo! Non è perfetta?, mi chiese, ed era perfetta davvero.
Guardai mio padre dalla fila di banchi accanto. Era inginocchiato a testa china, con le mani abbandonate penzoloni sullo schienale del banco di fronte, come se l’avessero messo alla berlina. Gli avvocati di ambo le parti mi avevano telefonato per chiedermi se ero disposto a testimoniare, nel caso che la causa di divorzio fosse finita in tribunale, ma io non avevo idea di cosa avrei detto se fossi stato chiamato a deporre. Sembrava sbronzo, insonnolito e drogato, ma aveva anche una strana aria da penitente quasi ripescata dal passato, come se stesse ancora cercando di far fessa una suora dalla gobba di poiana. Si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto stropicciato, si tamponò la nuca e rimase con il pezzo di stoffa stretto fra le dita come una bandiera bianca mentre congiungeva le mani per pregare. Durante l’offertorio cominciò a piangere o a singhiozzare: a singhiozzare, direi, perché sembrava un gesto particolarmente teatrale. Battendosi la testa con il palmo della mano, alzò gli occhi al cielo e disse: «Oddio, oddio, oh Dio mio».
«Vorrei che mi crocifiggessero», mi aveva detto il giorno dopo che gli avevano consegnato le carte. «È quello l’unico modo per sistemare certe faccende».
Nonostante l’assurdità dell’accostare la sua sofferenza a quella di Gesù Cristo, adesso mi rendevo conto che non era pazzo. Era tutto calcolato. Era venuto per minacciare e importunare mia madre. Da anni per lei la chiesa era l’unico bastione e rifugio e lui era arrivato come un invasore a violarlo, a inquinarne la purezza e la calma, a strapparglielo via, e a deturparlo come aveva fatto con ogni altro aspetto della nostra vita: questo avrei detto agli avvocati. Non ero un discepolo o un difensore della chiesa e non mi piaceva granché la gente che ogni domenica andava a messa con la puzza sotto il naso. Con le sue pareti verdoline, i banchi di pino lucido e i finestroni di vetro piombato sembrava un locale adatto per mercatini delle pulci di infima categoria, un posto dove vecchietti pignoli vendevano scatoloni di best-seller del passato, mestoli da minestra e cravattone larghe. I giovani sembravano vecchi e i vecchi sembravano preistorici: vedovi in pantaloni con la piega che una volta smesso di lavorare erano entrati in un’età dell’oro giallognola, uomini abbandonati a se stessi senza nulla da fare se non bersi goccia a goccia la pensione come un tè annacquato in una sala d’attesa la cui unica porta si apriva sulla morte. E le donne... alcune erano così fanaticamente devote al mondo preconciliare che entravano in chiesa solo a testa coperta, e se si erano dimenticate di portarsi un foulard o un cappello aprivano la borsetta, trovavano un fazzoletto di carta e se lo fissavano con qualche forcina ai capelli. Sedute ordinatamente ai loro banchi, queste donne solenni coi fazzoletti di carta in testa sembravano file di petunie piantate in un giardino. Eppure quel sabato, quando mio padre interruppe bruscamente la funzione, mi venne da pensare che forse la linfa vitale di ogni tipo di fede è l’assurdità, e che quelle donne ridicole, venute da un altro mondo, con i loro folli gesti, magari erano delle sante.
La messa si interruppe e tutti distolsero gli occhi dall’altare per guardare lui. Tutti: i Grey, gli Ham, i Wooley, la signora Keyhew, i Grand e gli Stone, e via dicendo. Nonché il prete e i chierichetti. Fu una cesura che subito si riempì di mormorii di incredulità e sconcerto, e solo mia madre, che faceva il ministro dell’eucaristia ed era seduta vicino all’altare, rimase calma e zitta. Intrecciò le mani e se le seppellì in grembo come un uccellino morto. Ferma sul suo sedile, in un raccoglimento glaciale, aveva la stessa espressione che le vedevo da piccolo quando a cena le cose andavano storte: le sere in cui mio padre occupava il capotavola impietrito come una di quelle statue ornamentali di pellerossa che si vedono davanti alle tabaccherie, e il silenzio ci penetrava nelle ossa e non sentivamo altro che il tintinnio delle forchette e il rumore del masticare, e ingoiare il boccone faceva male. Quelle sere io mi rifiutavo di mangiare le cose dure, come le carote crude o i grissini, per paura di fare rumore, e mia madre non toccava cibo. Diceva spesso che era grazie al silenzio che si era mantenuta così snella, e aveva ragione, era magra e a sessant’anni, in jeans, sembrava ancora una ragazzina.
Il prete bevve il vino rosso dal calice e, asciugandone l’orlo, lo accostò alle labbra di mia madre. Si chinò verso di lei, sussurrandole qualcosa all’orecchio, e lei scosse la testa con decisione. Scesero insieme verso la balaustra dove distribuivano la comunione. Mio padre aspettò che la fila si fosse accorciata e poi si alzò con movimenti goffi e si avviò verso l’altare barcollando, da solo. Vidi la signora Grand appoggiare una mano sulla spalla del marito per trattenerlo. Mio padre si fermò, vacillando leggermente, davanti a mia madre. Tempo dopo, tornata dal suo viaggio in Texas, mi disse che non stava a lei giudicare, specie in quanto ministro dell’eucaristia. La sua fede le dava la capacità di non giudicare nulla, neanche i film che vedeva al cinema. A me, che assistevo alla cosa dall’esterno e non credevo in Dio, la scena che si svolse davanti alla balaustra sembrò una dimostrazione di profonda forza da parte sua, ma mio padre, in seguito, disse sempre che era andato lì per dimostrare quanto era vigliacca. In chiesa c’era un silenzio di tomba. Mia madre sollevò l’ostia come se fosse una moneta scintillante e promessa, tenendola appena al disopra degli occhi, e mio padre alzò lo sguardo. «Il corpo e il sangue di Cristo», disse mia madre, lui rispose: «Amen», e lei, con gran cura, gli depose l’ostia sulla lingua in attesa.
Dopo la benedizione mia madre scese dall’altare e si inginocchiò al primo banco. La porta del vestibolo era tenuta aperta da un fermo di gomma e una corrente d’aria fresca e umida circolava per la chiesa, accarezzando l’orlo ricamato della tovaglia d’altare e i mazzi di gladioli bianchi nei vasi dorati. Le sue amiche sfilarono verso l’uscita e le macchine ripartirono dal parcheggio. Lei rimase inginocchiata sul cuscinetto imbottito a pregare con gli occhi chiusi, e a occhi chiusi sentì, dall’ingresso, il frusciare della tonaca nera del prete che sfiorava il pavimento e i passi pesanti e frettolosi di mio padre. Rimase immobile e continuò a pregare.
«Mi diceva no, sempre no», si lamentò mio padre con il prete. «Diceva no anche alle richieste più semplici che può fare un marito».
Il prete fece un cenno impotente verso i confessionali: gli angoletti del castigo, li chiamava mio padre, quelle due bare verticali all’angolo della chiesa. Probabilmente pensava che la formalità della confessione avrebbe potuto contribuire a mettere un freno alla palese follia di mio padre. Una porta chiusa, quantomeno, avrebbe attutito il volume delle sue recriminazioni. Mio padre non si faceva vedere spesso in pubblico perché era convinto di stare antipatico alla gente, e quelle poche volte che faceva vita sociale, un po’ per il nervosismo e un po’ per il troppo alcol, diventava un logorroico insopportabile e molti cercavano davvero di evitarlo; per questo il fatto che fosse venuto in chiesa e avesse messo su tutta quella sceneggiata mi riportò alla convinzione che gli avesse dato di volta il cervello. Stavo per intervenire, ma il prete mi fece segno di non avvicinarmi.
«Perfino a letto».
Il prete disse: «Sono sicuro che la storia non è tutta qui».
«Non mi parli di storie», ribatté mio padre. «La calunnia è uno dei sette peccati capitali».
«Non è vero», disse con fermezza il prete.
Mio padre lo ignorò e continuò a urlare contro mia madre.
«Come osi giudicarmi! E ti definisci cristiana!»
Il chierichetto tornò sull’altare per spegnere le candele e recuperare le ampolline di acqua e di vino. Mia madre sentì l’odore delle spire di fumo nero che si levavano dagli stoppini bruciati. Sempre a occhi chiusi, le sembrava quasi di poter levitare, di potersi alzare da terra e farsi portare dalle sue preghiere, dal battito d’ali rapido e sussurrato di quelle parole, via da lì, lontano, lontano... mentre mio padre la guardava da dietro quella che sembrava una vita intera di odio. Non si mosse. Aveva la pelle così pallida che sembrava quasi bluastra. Le dita, intrecciate, erano delicate e deboli. Stava ancora ferma su quel banco come l’esangue Cristo crocifisso che la sovrastava dall’altare, ma in realtà non era più lì.
«Che Dio ti stramaledica, puttana maledetta!», gridò mio padre avviandosi all’uscita.
Non ero stato io a mollare il college. All’inizio di marzo la segreteria mi aveva chiesto di ritirarmi fino a che non fossero stati pagati gli enormi arretrati della retta. Riempii uno zaino di vestiti e me ne andai dal campus la sera stessa. Fu un sollievo. La mia s blesa mi rendeva un tipo timido e silenzioso, imbarazzato dal suono della mia stessa voce, nonché uno stronzetto aggressivo. Gli altri si radunavano nelle stanze del dormitorio e fumavano il bong sotto copriletti di batik che si gonfiavano come se respirassero, analizzando all’infinito le proprie famiglie. Io non ce la facevo. Il sibilo sottile della mia voce strideva con le cose che avevo da dire e mi sentivo paralizzato da una pressione, dalla sensazione che se avessi cominciato a parlare c’erano buone probabilità che non sarei mai più riuscito a fermarmi. Per porre rimedio a questo disagio, o almeno trovare una scappatoia, mi ero iscritto a un corso di scrittura, ma l’avevo abbandonato perché non riuscivo a capire l’economia di una storia, l’etica arbitraria che c’era dietro: chi veniva gettato in pasto agli squali, chi si salvava. Alla fine di gennaio ormai avevo smesso di frequentare le lezioni e consegnavo soltanto i compiti scritti, e a un certo punto di febbraio tirai le tende della mia stanza e rimasi a letto per una settimana.
Lasciai l’università senza dirlo a nessuno, in parte perché di norma, per principio, io tolgo sempre il disturbo senza salutare. La sera che me ne andai c’era silenzio, ricordo, quel silenzio di campagna in cui ogni suono sembra avere un posto ben preciso nel mondo, come le note in una sonata di Bach, e a forza di autostop il mattino dopo ero già ad Altoona, nel Wisconsin. Da lì saltai su un treno merci diretto a casa mia, a Seattle. Due volte, mentre il treno passava sopra il fiume Yellowstone e poi sopra il Clark Fork, fui tentato di saltare giù per mettermi un po’ a pescare, ma il divorzio era già avviato ed ero convinto che mio padre stesse per distruggere tutto ciò che avevamo dentro casa. (E non mi sbagliavo: bruciò i vestitini con cui eravamo stati battezzati, buttò via gli album di foto e via dicendo.) Tornato a Seattle, affittai una stanza minuscola e mi trovai un lavoro come cameriere in un ristorante gestito da due lesbiche, sicuro fin dal primo giorno che prima o poi mi avrebbero licenziato. (E non mi sbagliavo.) Passavo quasi tutte le notti a dedicarmi a capo chino al mio vizio: bevevo birra e costruivo mosche da pesca, riempiendo una scatola di orecchi di lepre e code di fagiano, e un’altra di mosche Blue-winged Olive e Pale Morning Dun numero 16. Il mio unico progetto, in quel periodo, era saltare su un treno che mi portasse a Livingston, addentrarmi nel parco di Yellowstone e mettermi a pescare nel Firehole verso il margine occidentale della piana di Fountain Flats, che era uno dei posti preferiti sia di Miles che di Jackie. E poi, dopo il Memorial Day, volevo prendere la tenda e il fornelletto e trasferirmi a vivere nel parco per tutta la stagione. (Cosa che feci, finché un bel mattino non mi svegliai con la tenda appallottolata su se stessa come un paracadute piombato a terra e a metà ottobre la neve mi cacciò via.)
Le uniche cose che volevo recuperare da casa erano la vecchia canna di Miles e le quindici pagine e mezzo della lettera che aveva lasciato Jackie prima di suicidarsi.
L’agenzia immobiliare aveva piantato cartelli nel giardino di fronte e sui lati della casa, e c’era perfino un’insegna a libro sul marciapiede: «Vendesi villino», diceva, «visite libere domenica», e l’agente incaricata si chiamava Cynthia. Sul vialetto era parcheggiata la macchina scassata che mio padre usava per gli appostamenti, la portiera del passeggero tenuta chiusa col filo per stendere i panni, il tetto in vinile tutto scrostato che lasciava intravedere il metallo grezzo sottostante. Da settimane pedinava mia madre per tutta la città a bordo di quella Plymouth ammaccata e arrugginita. Era patetico o pericoloso? Negli ultimi tempi che vivevano insieme, quando la fine era ormai vicina, l’aveva spinta giù per le scale e le aveva graffiato un braccio con un coltello da agrumi: ma la fine si stava avvicinando giorno dopo giorno da vent’anni, da quando ero nato, il tragico spegnersi della loro storia era diventato il battito stesso del nostro cuore, e se due delle mie sorelle, Roxy e Karen, una buona volta non avessero preso mia madre con la forza portandola via di casa, lei sarebbe rimasta, ci scommetto, e mio padre ancora la rincorrerebbe per le stanze con un coltello in mano urlandole dietro.
Io ero il più piccolo di sette figli e la storia della mia famiglia per me era sempre stata il mio futuro, un passato nel quale crescendo mi inserivo per ereditarlo, un mondo finito, un posto dove le scelte erano state già fatte, irrevocabilmente. Di conseguenza non mi ha mai interessato molto la faccenda dell’ereditarietà, o il fatto che la mancanza di fede in un fine ultimo dell’universo può diventare un progetto in sé. Sono arrivato troppo tardi per credere che potesse esistere un qualunque altro mondo. Avevo quattordici anni quando Miles cominciò a vivere o sulla Western Avenue dietro la fabbrica di giacconi di Skyway, o al Veteran Hospital o in una serie di case-famiglia una più malmessa dell’altra, e ormai davo per scontato che le voci che sentiva lui presto avrebbero parlato anche a me. Quando Jackie si era ucciso avevo sedici anni. A venti, davo per scontato che la follia mi avrebbe fatto visita, e con lei il suicidio. Ero sicuro che si sarebbero avvicinati lentamente e mi avrebbero teso la mano, mi avrebbero preso con sé e portato dove avevano portato i miei fratelli. Anche Miles aveva cercato di ammazzarsi, le voci l’avevano spinto a buttarsi dall’Aurora Bridge, ma era sopravvissuto. Spesso, ossessivamente, fantasticavo di sedermi sul parapetto del ponte e spararmi in testa. Così, in un solo istante, avrei riunito i miei fratelli dentro di me. Ero convinto che in quel modo li avrei conosciuti. E mio padre? Avrei conosciuto pure lui? Ero in grado anche solo di descriverlo? Spesso non riusciva neanche a cacare senza che mia madre lo tenesse per mano. Ma quello non riuscivo proprio a immaginarmelo.
Alzai gli occhi e lo vidi, incorniciato dalla finestra aperta della vecchia camera da letto di Miles.
«Non puoi entrare», gridò. «L’avvocato mi ha detto che in casa non ci può entrare nessuno. Neanche tu, nessuno. Mi dispiace, lo so che sembra assurdo, ma c’è troppa negatività che mi si ripercuote addosso».
«Sono venuto a prendere la mia roba», dissi.
«Devo isolarmi completamente».
Scomparve dalla finestra e riapparve sulla porta di dietro. La aprì di uno spiraglio, senza levare la catenella.
«Questa scena l’abbiamo già fatta la settimana scorsa», dissi.
«Non puoi entrare. Mi dispiace, troppa negatività. State tutti cospirando con vostra madre. Io non volevo che andasse a finire così. Non era questa la mia idea. Io volevo risolvere le cose. I problemi di famiglia si possono risolvere in famiglia, ma questa cosa, questa cosa è terrificante e oscena, è immorale».
«Tanto ho le chiavi», dissi.
«No, non vanno più bene. Ho fatto cambiare le serrature».
La veranda sul retro era bordata di vasi di terracotta pieni di calendule morte, batuffoli lanosi marroni in cima a gambi neri.
«Cosa c’è che non va?», chiesi.
«Cosa c’è che non va? Niente, tranne il fatto che tua madre mi tiene per le palle, cazzo. Mi ha preso in trappola, ma va bene così».
Tirai su uno dei vasi, avvicinai il naso al terriccio e sentii l’odore freddo della benzina.
«Hai versato la benzina sui fiori?»
«Questa è l’ennesima calunnia di tua madre».
«Secondo me è meglio che chiamiamo il dottor Headberry», dissi.
«Headberry? Ci ho appena parlato. Headberry dice che io non ho nessun vero problema. Tua madre, invece, l’ha analizzata alla perfezione. E non è un bel quadretto. Si è presa il controllo totale della mia vita».
Riguardo a Headberry mentiva, chiaramente, e se non succedeva qualcosa avremmo continuato lo stesso tipo di battibecco di quando sull’autobus rimane un solo posto a sedere.
«Fammi entrare».
«Non capisco che bisogno c’era di arrivare a questo orrore, a questa enormità. Sono in trappola... si sono presi il controllo sulla mia vita».
Lasciai cadere il vaso, che si frantumò sulla veranda, e feci per tornare verso il pick-up.
«E va bene, vado contro i miei migliori istinti», disse mio padre. Chiuse la porta e tolse la catenella. «Vado contro tutto quello in cui credo e anche contro il parere del mio avvocato».
«Grazie», risposi. Feci un cenno con la testa verso i cartelli dell’agenzia immobiliare. «Domani visite libere per i potenziali compratori».
«Eh sì», disse lui. «Be’, già che sei qui ti faccio entrare, parliamo un po’, magari ci beviamo una cosa e poi te ne vai. Cominciamo subito. Dai, entra».
A parte un paio di boxer che gli scivolavano giù sul culo, era nudo. Su uno scaffale della cucina era ammonticchiata la sua tenuta da caccia.
Scosse la testa e si grattò il pelo denso e attorcigliato che aveva sul petto, poi si strofinò le braccia e il viso ispido.
«Mi sembra come se le vene mi si stessero trasformando in vermi», disse.
«Perché sei venuto in chiesa?»
«Ehi, ricordati che ti ho fatto un favore a lasciarti entrare», disse. Prese il giaccone dallo scaffale e tirò fuori dalla tasca un pezzo di carta. «Ho qui l’ordinanza restrittiva del giudice. Me la porto ovunque vado. Sentivo il bisogno di parlare con un prete». Si grattò l’interno pallido del braccio ed esaminò il documento legale. «Secondo me in chiesa non vale», disse. «Una volta entrato in chiesa, hai diritto d’asilo».
Rimise il pezzo di carta nella tasca, poi prese il secchio dell’immondizia, ci infilò dentro la mano e scansò giornali, una scatoletta di tonno, della buccia di melone.
«Vedi?», mi disse.
Voleva mostrarmi un flacone di pasticche in fondo al secchio. Io lo raccolsi, lo scossi e lo guardai rivolto alla luce.
«Ne è rimasta una», dissi.
«Ho smesso», rispose lui. «Dopo trentacinque anni, adesso da un giorno all’altro ho smesso».
Mio padre non parlava mai di suo padre, e la storia più vecchia che mi avesse raccontato su di sé riguardava una nevicata bestiale sopra il lago Erie nell’agosto del 1953, raffiche di vento accecanti e cumuli alti così a perdita d’occhio, tutto il paesaggio estivo scolpito in un mare di bianco. Straordinario! Un miracolo! Ma naturalmente non era affatto agosto. Era stato ricoverato in ospedale, chiuso in un sanatorio di Cleveland dove gli avevano fritto il cervello a forza di elettroshock per sei mesi, e la nevicata era stata a gennaio, il giorno in cui era uscito. Perché, nel raccontarmela, aveva lasciato la storia in quello stato di confusione? Ora ripensavo a quella nevicata d’agosto. All’epoca la terapia elettroconvulsiva era una procedura in via di sperimentazione, e di norma ai casi più lunghi e inguaribili venivano prescritti dei barbiturici. All’epoca, quella era la scienza e quello l’audace futuro fantascientifico. Mio padre, il giorno che lo dimisero dall’ospedale, andò a comprare i medicinali prescritti in una farmacia del quartiere e continuò a rinnovare la ricetta, come l’abbonamento al Wall Street Journal, per i successivi trentacinque anni.
«Quando hai smesso?»
«È durissima, caro mio», disse, grattandosi di nuovo con violenza le braccia e i peli arruffati del petto. «Ho provato a distrarmi guardando la tv. Poi ho provato a farmi una doccia e a sbattere la testa nel muro».
«In pratica hai appena cominciato a disintossicarti», dissi.
«E certo, sennò secondo te che cazzo ci faccio in giro per casa tutto nudo?», gridò. «È che i vestiti mi stavano facendo impazzire, ecco».
«Sarebbe il caso di chiamare Headberry».
Si grattò ancora. «Vermi, caro mio. Mi sembra di stare lì lì per esplodere. Vuoi qualcosa da bere?»
Il gin, i lime e un recipiente di cubetti di ghiaccio mezzi sciolti erano già sul ripiano accanto al lavello. Preparò due cocktail e ci sedemmo al tavolo da pranzo. Dall’altro lato della strada, i Grand e i Wooley uscirono sui due giardinetti confinanti. Sulla linea di separazione fra le loro proprietà era stata tesa una rete da badminton, montata su due pali metallici. I figli, tra cui alcuni della mia età, si piazzarono da una parte e i genitori dall’altra. Tutti avevano in mano una racchetta e il signor Wooley, in pantaloni beige e camicia rosa, aprì una scatola di volani. Bill Grand disse qualcosa e Bill Wooley si piegò all’indietro e lanciò una risata silenziosa al cielo.
«Li odio, quei bastardi inutili», commentò mio padre.
«Non li conosci nemmeno».
«Sì invece. Se ne conosci uno, li conosci tutti». Sorseggiò dal bicchiere con aria da fine intenditore. «Dove va tua madre?»
Il fatto che sapesse che stava per andare da qualche parte mi sorprese: fui colto alla sprovvista.
«Non te lo dico», dissi, ed ecco che fra noi si era creato un segreto.
«Ha una storia con qualcuno».
«Mamma? Mamma non ha nessuna storia».
«Come fai a esserne tanto sicuro?»
«E con chi, allora?»
Mio padre guardò altrove, fuori dalla finestra. «Con Gesù Cristo, probabilmente». Succhiò via un cubetto di ghiaccio dal bicchiere e lo addentò, sputando schegge che sembravano vetro. «Mi tiene per le palle».
«Non è vero», gli dissi. «Sei libero».
«Libero? Libero un cazzo. Sai, non sono mai stato nella foresta pluviale... non è incredibile? Quella donna mi ha fatto buttare a mare una vita di lavoro».
Per tantissimo tempo ero rimasto convinto che fosse un vecchio adagio che tutti i padri ripetevano ai figli. Non posso buttare a mare una vita di lavoro. Nessuno in questa casa può costringermi a buttare a mare una vita di lavoro.
«Ma dai, queste sono stronzate», risposi.
«Ah sì? Va bene, come non detto. Tu che mi racconti?»
Capii che avremmo ignorato la scena della chiesa. In qualche modo avevamo concordato di far finta di niente.
«Stanotte ti ho sognato».
«I sogni degli altri sono sempre noiosi».
«Ero qui, in cucina. Tu stavi cercando di darmi una qualche medicina, come quando ero piccolo, con un contagocce. Come dell’aspirina liquida. Ma io non ero più bambino. Tu mi tenevi ferma la nuca e mi dicevi di aprire la bocca. “Apri bene”, dicevi, e quando obbedivo mi ci ficcavi una pistola e continuavi a ripetere: “Ecco, da bravo, prendi la medicina. Prendi la medicina, che poi ti senti meglio”».
«Porca puttana», disse lui.
«È solo un sogno».
«Cambiamo discorso. Hai sentito del signor Kayhew?»
«No, che gli è successo?»
«Non lo sai? Gli è scoppiata una vena in testa. Mentre era in aereo, lassù per aria: in prima classe dietro una bella tendina, conoscendo i Kayhew. Non è morto, è solo andato in coma. Ho sentito dire che avevano preso in affitto un appartamento apposta per lui e lo tenevano lì, in coma».
«Non lo sapevo».
«Io praticamente sono arrivato allo stesso punto».
Devo aver fatto una faccia strana.
«Che c’è? Non sto mica scherzando. Quando morirò, scoppierò in mille schizzi di merda. La gente guarderà dentro la bara e dirà: “Oh Signore, ma che cazzo è stato a ridurlo così?”»
Mio padre bevve un altro sorso, tenendomi d’occhio da dietro il bicchiere.
«Tutto», disse, rispondendosi da solo.
«Comunque sia, Kayhew adesso non ha più da lamentarsi».
«Cioè?»
«Era in coma».
«Me l’hai detto. E adesso ne è uscito?»
«Sì, oddio, si potrebbe anche dire così. È morto».
«In genere non si intende questo, dicendo che uno è uscito dal coma».
«Be’, in medicina se ne parla poco, ma la morte è l’uscita opposta».
E dopo un attimo aggiunse: «Eravamo amici, sai, con Kayhew. Non grandi amici, ma a me stava abbastanza simpatico, e io a lui. Secondo me gli ero simpatico. Non che me l’abbia mai detto chiaro e tondo, ma comunque, per tornare al discorso: ho letto il necrologio – marito e padre amatissimo, lascia moglie e figli, e tutte quelle storie lì – e aveva solo sessantacinque anni. Sessantacinque. Sei anni più di me. Lo sai quanti giorni fanno?»
«Tu lo sai?», chiesi io.
«2199», disse mio padre. «Dato il mio stile di vita, ho calcolato che a me ne restano duemila». Inarcò le sopracciglia. «E uno è questo». Scosse le spalle. «Com’è il gin? Ne vuoi ancora? Io me ne faccio un altro».
«Per me no», dissi.
Però mi riempì comunque un bicchiere. Quando tornò a tavola, aveva una sigaretta fra le labbra.
«Fumi?»
«Duemila giorni, caro mio. Chi se ne frega».
Abbandonai i semi spaccati e la polpa galleggiante del mio primo drink e cominciai il secondo. Lo alzai verso la luce e in quel momento il gin appena versato sembrava la cosa più trasparente che avessi visto in vita mia.
«Miles diceva che certi torrenti erano limpidi come il gin», dissi. «Li descriveva così».
«Io odio pescare».
«Era solo un ricordo. Tanto per dire qualcosa».
«Ho lavorato nelle assicurazioni tutta la vita», disse mio padre. «Le tabelle attuariali sono incredibilmente precise. In pratica, ogni volta ti inchiodano al muro. Quando leggi quella roba, puoi chiamare le pompe funebri e prendere appuntamento. Come Jackie».
L’ultimo giorno di Jackie, la sua ultima ora, era un mio chiodo fisso. Avevo ricostruito tutti i dettagli. Sapevo dov’era andato, con chi aveva parlato, qual era l’ultima canzone che aveva sentito allo stereo («Johnny Was» degli Stiff Little Fingers). La sera che Jackie si sparò mia madre era entrata nella sua stanza. Lo aveva trovato al tavolino che scriveva. Erano passate da poco le otto e mezzo. Portava una camicia di flanella verde e grigia, dei jeans con le ginocchia strappate e un paio di anfibi neri. Jackie non si era voluto neanche girare a guardarla. Lei tornò di sopra a dire a mio padre che c’era qualcosa di strano, che Jackie aveva un fucile in camera. «Sto guardando la tv», rispose lui, «lasciami in pace. E uscendo chiudi la porta». Ma questo non spiega nulla. La risposta che diede a mia madre quella sera gliela dava tutte le sere. Se non fosse stata contraddistinta dalla morte di Jackie, la sera del 26 novembre, con tutte le informazioni che avevo raccolto al riguardo, non avrebbe nessun significato particolare. Sennonché alle quattro e mezzo del mattino, mentre i lampeggianti della polizia pulsavano nell’aria che cominciava a ingrigirsi e un paio di poliziotti erano fermi in mezzo al giardino a discutere il caso, io uscii di corsa in pigiama. «Non è stato un suicidio», gridai. «È stato un omicidio!»
«Vuoi una sigaretta?» Mio padre agitò verso di me il pacchetto di Pall Mall. Andò in cucina e ripescò la scatoletta di tonno dall’immondizia, la posò sul tavolo fra noi due. «Niente posacenere. Ho smesso, per risparmiare. Ho fatto il conto che stavo spendendo duecento dollari all’anno in sigarette. E questo mentre lavorando facevo duecento dollari al mese. In pratica buttavo via un salario intero. Allora ho smesso».
«Dov’è il tappeto?», chiesi.
Avevo appena sentito con i piedi sotto il tavolo da pranzo che il tappeto orientale non c’era più.
«Cosa? Il tappeto? Non lo so».
«Strano», dissi io. «È una vita che lo vedo sotto questo tavolo e adesso non c’è più».
«Assurdo, eh?»
Vuotai il bicchiere, mi alzai e dissi: «Ora vado. Ma prima volevo prendere un po’ di roba».
«Fermo qui», disse lui. «Non ti posso far correre in giro per tutta la casa».
«È anche casa mia».
«Dove sta scritto che è anche casa tua?»
«Voglio prendermi solo due cose».
«Senti, siediti. Ok? Rimettiti seduto. Facciamoci un altro bicchiere».
«Voglio la canna da pesca di Miles. Tu a pesca non ci vai, la voglio io».
«Te la lascio, te la puoi tenere. Va bene? Cristo santo, io odio la pesca. Pescare mi fa sentire un povero coglione».
«E il vestito del battesimo. Voglio anche quello».
«Non so più dove è andato a finire», rispose mio padre.
«Assurdo, eh?»
«Eh sì, cazzo, è pazzesco».
Fuori dalla finestra i Grand e i Wooley stavano giocando a badminton nella luce calante. Sentivo a malapena gli strilli e le grida con cui rincorrevano il volano. Sembrava che l’aria grigia stesse riempiendo la casa come la piena di un fiume.
Mio padre disse: «È folle».
Aspettai che dicesse che cosa era folle, ma guardò soltanto fuori dalla finestra.
«Cosa?»
«Non riesco a far stare fermi certi dati».
Bevve un sorso meditabondo e continuò a osservare nella stessa direzione.
«Insomma, che ci va a fare tua madre in Texas?», mi chiese.
«E tu come lo sai che va in Texas?»
«È andata all’agenzia di viaggi. Ha usato la nostra carta di credito per comprare il biglietto. Ecco come lo so».
«Hai fatto una scena niente male, oggi in chiesa».
«Una scena?»
Cominciavo a sentirmi annebbiato, poco lucido. «Sì, una scena. Sembrava quasi che fossi uno da compatire».
Scossi il pacchetto e ne feci uscire un’altra Pall Mall. Mio padre guardava la partita di badminton che volgeva al termine. Pareva che i Wooley e i Grand stessero scorrazzando per il giardino cercando di ammazzare delle mosche. Si levavano grida di gioia, grugniti, strilli, ma non vedevo più l’oggetto che inseguivano con le racchette. Era troppo buio. In soggiorno ticchettava un orologio, il frigo ronzava e doveva essersi alzato il vento, perché alle mie spalle un ramo graffiò il vetro della finestra. Da dietro l’angolo sbucò un gatto.
«Vado a prendermi quella roba», dissi.
«Lo sai che mi ha detto l’agente immobiliare? Cynthia – così si chiama, Cynthia – mi ha detto che questa casa ha una certa aura negativa».
«Non capisco».
«Ci toccherà venderla per meno del prezzo stimato», disse mio padre. «Nessuno sarà disposto a pagare quello che chiediamo. Tutti sanno che Jackie si è ammazzato giù di sotto, sanno che Miles è matto, e cazzi vari».
«Chi? Chi è che lo sa?»
«La gente». Mi guardò. Mi rivolse un sorriso mesto. «Fai quello che devi fare. Io me ne bevo un altro bicchiere. Questo gin è speciale, eh?»
Il nostro seminterrato era un museo che ospitava una collezione dei manufatti più tipici. Dentro le casse di plastica e sulle rastrelliere c’erano mazze da baseball, sci rotti, racchette da tennis con i fili deformati, aeroplanini senza ali, mazze da golf, acquari, hula hoop, una palla da bowling e diversi giubbotti di salvataggio arancioni che mio padre aveva comprato insieme a una vecchia tavola O’Brien per fare sci d’acqua e a una bombola di gas da qualcuno che svuotava il garage, con l’idea, un’idea molto improvvisa e impulsiva, che prima o poi si sarebbe comprato anche una barca. Da quel giorno, per diverse settimane eravamo andati a vedere barche scintillanti esposte negli showroom o parcheggiate sui rimorchi nel vialetto di qualche garage o pronte a prendere il largo o ancorate a un molo del porticciolo della Union Bay. Non so che fine fece quell’idea, ma ne erano rimasti quattro giubbotti salvagente scoloriti, appesi a chiodi lunghi tre dita. Allineate su uno scaffale di legno traballante c’erano casse di fagioli e mais in scatola e olio da motore, uno scatolone di latte in polvere, parecchie bottiglie di vino da quattro soldi: scorte comprate all’ingrosso per una famiglia numerosa. C’erano anche scatole piene di attrezzi, attrezzi per riparare qualunque cosa, dalle gambe malferme delle sedie ai rubinetti che perdevano. Morsetti, pinze, una sega circolare. Con un attrezzo in mano, mio padre non se la cavava meglio di un cavernicolo. Non sapeva aggiustare niente. In genere finiva per prendere a botte l’oggetto che non funzionava, danneggiandolo ancora di più. Ma adorava gli attrezzi, passeggiava dentro i negozi di ferramenta soppesando torce elettriche e lame azzurre da sega con l’entusiasmo che altri potrebbero riservare al Louvre.
Trovai quello che stavo cercando: una scatola di legno di ciliegio lucido, stretta e lunga un po’ meno di un metro. La portai al piano di sopra e accesi una luce. Feci scattare le fibbie e la aprii. L’interno era rivestito di velluto, e alle estremità della custodia c’erano due ponticelli intagliati a mano che tenevano la canna al suo posto. La presi in mano dalla parte dell’impugnatura, accarezzai il sughero scartavetrato. La canna era di un legno biondo chiaro, senza nodi o irregolarità nella grana, e la verniciatura, trasparente come il gin, sembrava solo esaltare la semplicità del bambù; il portamulinello era di palissandro, le ghiere placcate in nichel, gli anelli luccicavano, le ferrule erano avvolte da spirali di filo azzurro e verde. Sentii tintinnare il ghiaccio nel bicchiere di mio padre e poi me lo ritrovai lì accanto, che guardava la canna da dietro la mia spalla. Me la rigirai fra le mani. Miles aveva chiamato tutta la famiglia intorno al suo banco da lavoro nel seminterrato, il giorno che ci aveva messo sopra la firma. Aveva usato un pennello cinese da cui aveva staccato tutte le setole tranne una. Mi ricordo che l’avevo guardato mentre lo faceva: si teneva ferma una mano con l’altra e intanto miracolosamente il suo nome si disegnava, in un unico tratto di pennello, lungo la canna.
«Questa è arte. È un capolavoro», dissi.
«Niente male, per un pazzo furioso», concordò mio padre.
«All’epoca non era pazzo». Inclinai la canna per guardarla meglio sotto la luce. «Questa canna è esattamente l’opposto di come è lui adesso. È semplice».
«Ti va un altro bicchiere?»
«No», dissi.
Dalla cucina, papà mi chiese: «Hai in programma un viaggio?»
«Nel Wyoming», risposi. «Voglio passare tutta l’estate nel parco».
«Che sciocchezza», disse lui. «Eccoti il gin».
«Ti ho detto che non mi va. Perché è una sciocchezza? Ci vado ogni anno».
«E con l’università come la mettiamo?»
«Dimmelo tu come la mettiamo».
«Non mi guardare in quel modo», disse mio padre. «Non ho un soldo».
«Comunque, è lì che ho sparso le ceneri di Jackie», dissi io. Dopo la cremazione, avevano dato a ciascuno di noi una bustina di ceneri, giusto un pizzico, meno dell’origano che si mette in un tegame di sugo.
«Dove?»
«Be’, tu non ci sei mai stato, è difficile descrivertelo».
«Sai una cosa, ciccio? È bello vederti».
«Sei ubriaco».
«Mi sa che erano dieci giorni, due settimane che non parlavo con nessuno».
«Be’, stasera parli parecchio, in compenso».
«Sì, direi di sì. Pensa se fossi Dio e dovessi stare a sentire tutte queste boiate».
E poi devo aver detto di sì. Me ne sarei dovuto tornare in quel buco di stanza dove abitavo, ed ebbi quattro o cinque occasioni per dire no, no, basta così, ho preso quello che volevo, ci vediamo. Ma la serata continuava ad aprirsi sempre di più, a spalancarsi, ad accettare anche la parola più vaga e l’idea più balorda. Tutto stava trovando una sua collocazione: c’era una stanza libera in ogni locanda. La serata si stava trasformando in una favola in cui ogni momento critico viene salutato con un sì e i bambini, tenendosi per mano, si incamminano tutti contenti per il sentiero buio che porta dentro una fornace. Il gin scorreva limpido, la scatoletta di tonno era piena di Pall Mall spente, io ero sbronzo e sveglio e mio padre era sbronzo e sveglio, c’era uno spazio che ci si apriva proprio davanti e qualcosa doveva per forza succedere.
«Me lo dici dove sta tua madre?», stava chiedendo papà.
«Assolutamente no», ribadii io.
«Dai, dimmelo».
«Ok», risposi. Lo guardai di sottecchi dall’altro lato del tavolo. «Ma voglio una cosa in cambio».
«Ti sei già preso la canna da pesca».
«Voglio l’originale della lettera di Jackie».
«Non te la posso dare. Non so dove sia».
«Be’, allora...»
«E va bene».
«Valla a prendere», dissi.
«Non ti fidi di me?»
«No, non direi proprio».
Quando mi portò la lettera controllai che le quindici pagine e mezzo ci fossero tutte, leccandomi le dita e contandole come banconote.
Poi dissi: «È andata a vedere un angelo».
«Un angelo, eh?»
«Un angelo sulla corteccia di un albero, di un pioppo. In mezzo a uno sfascio di automobili, in Texas. Ha sentito girare la notizia ed è voluta andare a vedere coi suoi occhi».
«L’hanno scritto sul giornale. L’ho letto anch’io». Si accese una sigaretta, agitò una mano per allontanarsi il fumo dalla faccia. «Ma insomma, ce l’abbiamo pure noi delle macchie di caffè sul tappeto che sembrano angeli. Ce li abbiamo pure qui dentro casa, gli angeli».
Fuori passò un autobus. In virtù di un’antica abitudine, guardai fuori dalla finestra per vedere se qualcuno dei miei fratelli o sorelle stava rientrando a casa.
«Tua madre non è mai stata altro che una gran puttana. Mi ha fatto cacciare dal lavoro. A forza di calunnie».
«Guarda che se ti hanno cacciato è perché non ti sopporta nessuno. Sei uno stronzo, testuali parole».
«E chi te l’ha detto? Markula?»
«Non te lo dico».
«Ho qualcos’altro da darti», disse mio padre.
Scomparve di nuovo e quando tornò a tavola mi appoggiò davanti il fucile e una scatola di pallottole.
Io dissi: «È il fucile».
«La polizia se l’era portato via come prova», rispose mio padre. «Il suicidio è un crimine. Era un reperto dell’inchiesta? Peccato. Io sono riuscito a farmelo ridare».
In garage ci procurammo dei sacchi di tela, dello spago e una torcia, e caricammo tutto sulla Plymouth.
«Io e Miles lo facevamo sempre», disse mio padre mentre partivamo.
«A me non è che piacciano tanto le armi», dissi io.
«Neanche a Jackie. In questo hai preso da lui».
«Spero di no».
«Un’arma in sé non significa niente».
«Eh?»
«Prendi un uomo delle caverne», disse mio padre. «Prendi un’arma di qualche tipo, che ne so, una 38 o quello che ti pare, e appoggiala per terra insieme a qualche altra cosa, tipo un sasso, una macchina da cucire e una banana. Roba di tutti i giorni. Secondo te che fa il cavernicolo? Non è che guarda la banana e pensa: ah, mi sa che questa coi cornflakes è la fine del mondo. Non è che prende la macchina da cucire e si fa un bel tutù. E non è che guarda la pistola e pensa: quasi quasi mi faccio saltare le cervella. Capisci cosa intendo?»
Per un attimo mi parve di sì, e poi mi convinsi di no.
«Sono quasi al verde», disse mio padre.
«Non è vero».
«Pensavo che a quest’età avrei potuto vivere in maniera un po’ più dignitosa, ma a quanto pare non ci sarà verso».
«Stai dicendo balle», dissi io. Non era un’accusa, ma più che altro una constatazione. Eravamo fermi a un incrocio. Mio padre bloccò il tremito delle mani stringendole forte attorno al volante.
«Forse dovrei fare anch’io come Jackie», disse.
«Vaffanculo», dissi io. Le parole mi saltarono via dalla bocca come un tappo di champagne. Adesso erano le mie mani a tremare, e me le infilai in tasca. «Non lo dire mai più».
«Perché di punto in bianco ti incazzi così?»
«Andiamo, dai. Andiamo a prendere ’sti uccelli».
L’ultima lettera di Jackie l’ho letta e riletta mille volte, nell’ultimo capoverso ho cercato una conclusione riassuntiva. Ora avevo la copia originale. È una lettera lunga, in cui elenca le cose che gli piacciono: i lupi e i treni, il fiume Skagit, scendere in bici lungo Market Street fino a Ballard Avenue. Parla di mamma, di papà, delle nostre quattro sorelle e di Miles, ma a me non mi nomina mai. Verso le ultime pagine ho sempre l’inquietante sensazione di un passaggio di proprietà, come se sopra la mano di Jackie ci fosse quella di mio padre, che guida la penna sul foglio pagina dopo pagina. Mio fratello sta cercando di dire qualcosa su di sé o su mio padre? La lettera va avanti per quindici pagine e mezzo, scribacchiate fitte fitte, ma io smanio sempre per arrivare alla fine, anche se ormai la conosco. Guardo l’ultima parola e penso al momento in cui ha messo giù la penna, preso il fucile e tirato il grilletto. Quanto tempo sarà passato? Ci avrà pensato parecchio? Per premere il grilletto deve aver usato lo stesso dito con cui premeva la penna contro la carta. Che cosa è successo in quell’intervallo, fra la penna e il fucile?
Sotto la superstrada trovammo un lastrone sporgente di cemento. Da lì sopra veniva un tubare sonnolento e di tanto in tanto uno sbatacchiare di ali. Sembrava un convento di suore all’ora della siesta.
«Tu resta qui», disse papà. «Gli uccelli te li passo io».
Si issò sul lastrone di cemento con un sonoro grugnito. Si ripulì le mani dal guano e io gli porsi la torcia. La puntò contro gli uccelli, che erano appollaiati tutti in fila lungo il cornicione. Il primo aveva le penne screziate, grigie e marroni, e gli occhietti piccoli e tondi come due gocce di cioccolato sciolto. Rimase con gli occhi spalancati, sbigottito, come in trance, a fissare il raggio della torcia senza riuscire a muoversi o a voltarsi dall’altra parte per sfuggire a quella luce bianca. Papà gli accarezzò delicatamente la gola. «Vieni da papino», disse, e appena lo ebbe un po’ calmato lo afferrò per il collo e lo passò a me. Io gli sentivo il cuore che mi batteva in mano. Lo infilai nel sacco. Il piccione si dibatté, tentando di ritrovare l’orientamento. Papà puntò la torcia su un altro, e un altro ancora. Alcuni erano bianchi come colombe, alcuni neri come corvi. Dopo averne catturati cinque chiusi il primo sacco con un pezzo di spago e ne cominciai un altro. Papà mi passò altri cinque piccioni paralizzati e poi saltò giù dal cornicione di cemento.
«Dovrebbero bastare», disse. Si spazzolò il viso e le braccia per ripulirli dalle piume grigie della muta. «Guarda lì», disse.
I sacchi pieni di piccioni confusi avevano preso vita, erano due malloppi informi che rotolavano giù per la collina. Si vedeva che gli uccelli si sforzavano di prendere il volo, sbattendo stupidamente contro la iuta. Noi gli corremmo dietro, due ubriachi a un rodeo di piccioni, e riacchiappammo un sacco a testa.
Mettemmo gli uccelli sul sedile posteriore della macchina. Io raccolsi una piuma soffice dal sedile di mio padre.
«Sei ancora incazzato?», disse.
«Non buttare lì delle minacce tanto per fare».
«Secondo te era tanto per fare?»
«Non è la prima volta che la sento, questa».
«Mi pare ieri che giravo in macchina per i boschi con la reginetta di bellezza, cercando di infilarle una mano sotto la gonna».
Mio padre scoppiò a ridere. La reginetta di bellezza era mia madre. Nel 1954 era stata eletta miss della contea.
«Be’», disse, facendo un gesto ampio con la bottiglia in mano. «Alla fine ce l’ho fatta. Sette figli. Uno morto, uno pazzo. Quattro femmine che non vogliono saperne un cazzo di me. E poi ci sei tu. Chissà che diavolo avrai di storto tu, mi domando».
«Andiamo?»
I piccioni erano fuori di testa, saltavano dentro i sacchi all’impazzata. Erano due folli voliere di iuta. Mio padre scese dalla macchina, prese i sacchi e li fece roteare in tondo per un po’. Quando li rimise sul sedile, gli uccelli non si muovevano più».
«Tu sei l’unico rimasto. Sarai tu a seppellirmi», disse mio padre. «Ti toccherà anche scrivermi il necrologio».
In genere mio padre era quello che chiamano un ammazzacartoni. Prendeva la macchina, andava al poligono di tiro, si infilava un paio di cuffie di protezione, si piazzava in uno scomparto rivestito di isolante acustico e sparava a bersagli da quattro soldi. Bersagli tondi da arciere, sagome nere, e di tanto in tanto, per scherzo, il faccione di un dittatore di profilo. Alla fine di un pomeriggio di tiro, arrotolava i bersagli colpiti e li legava con un elastico, per attaccare i migliori a una parete del suo studio, a mo’ di trofei. «Quando uno spara, spara contro la persona che era una volta», mi diceva. Tra noi maschi, era a mio fratello Miles, quello pazzo, che piacevano le armi. A Jackie facevano schifo. La prima e unica volta che adoperò un fucile aveva la canna in bocca. Ovviamente non bisogna avere una mira infallibile per ammazzarsi. Anche prima del fatto di Jackie, a me le armi non sono mai piaciute. Mio padre percepiva questa riluttanza e mi portava nel bosco, cercando di insegnarmi a scorgere gli animali e di convincermi a sparargli e farli cadere giù dagli alberi. Scoiattoli, pettirossi. L’unica volta che usai davvero un’arma da fuoco insieme a lui fu in una cava di ghiaia. Lui si mise alle mie spalle e rimase a guardare mentre puntavo la sua calibro 22 a otturatore scorrevole contro una fila di lattine di bibite. Mi diede istruzioni con grande calma, ma io mirai subito alto e feci partire un colpo, mancandole completamente, poi misi un’altra pallottola in canna e le mancai ancora, coi bossoli vuoti che schizzavano ai miei piedi in un lampo d’ottone, fino a quando non premetti il grilletto a vuoto e capii che le munizioni erano finite. Avevo dieci anni ed era la prima volta che mi sentivo privo di controllo su me stesso. Provavo il desiderio impellente di girarmi e sparare a mio padre.
Era quasi l’alba quando arrivammo alla cava di ghiaia. Non ci mettevo piede da dieci anni e ormai era abbandonata, un labirinto di stradine sterrate senza uscita che morivano tutte in qualche spiazzo di terra smozzicata. Io avevo i piccioni e il gin e papà il fucile. Il cielo cominciava appena a schiarirsi e un’alba metallica faceva risaltare il profilo di una striscia scura di alberi. Ci sedemmo.
«Non sono più capace di bere come una volta», disse mio padre.
Io alzai un sopracciglio. «Come una volta?»
«Non è che non bevo più come una volta», disse. «È solo che non sono più capace». Ridacchiò tossendo, con brevi, veloci respiri che gli graffiavano la gola. Si accese una sigaretta. «Ti ha chiamato il mio avvocato?»
«Sì».
«Che fai, ci vieni a testimoniare?»
Ci pensai su per qualche istante, mentre nella cava le forme cominciavano ad acquistare solidità. La gente ora la usava come discarica. Lavatrici, qualche sedia scompagnata, scatoloni e cassette di plastica, pezzi di grondaia piegati e ritorti, una valigia.
«Al tuo posto non avrei lasciato che la cosa arrivasse in tribunale», dissi.
«Cioè, secondo te non ho speranze?»
Immaginai la vita di mio padre intrappolata fra le leggi, le aule di tribunale, la tela di ragno della nostra storia familiare, tutte faccende in cui l’arma vincente è la coerenza con le proprie posizioni, e mi resi conto che non se la sarebbe cavata bene.
«Io avrei patteggiato».
Mio padre annuì. Puntò il fucile contro il sacco pieno di piccioni.
«È meglio del tiro al piattello», disse.
«Io apro i sacchi».
«Non vuoi sparare? Comincia tu, se vuoi».
Guardai il fucile che mio padre teneva in grembo. Sapevo che l’arma in sé non possedeva nessuna magia, che era un fucile qualunque, ma anche se fossi riuscito a convincermi che quell’oggetto non ospitava nessuno spirito maligno, non l’avrei toccato comunque.
«No, libero gli uccelli e basta».
Portai i sacchi a una cinquantina di metri di distanza, ben conscio del fatto che stavo dando le spalle a mio padre. Un punto alla base della nuca cominciò a scottarmi. Il cuore mi batteva così forte che ne sentivo il rumore. Slacciai lo spago che chiudeva il primo sacco e presi dolcemente in mano un piccione. Gli coprii gli occhi e guardai mio padre. Lui annuì. Feci roteare l’uccello un po’ di volte e poi lo posai sul terreno. Si cappottò immediatamente. Gli attimi successivi ebbero un che di comico. Il piccione batté le ali, sollevando una nube di polvere, poi fece una corsetta laterale, inciampò e finì col culo per terra, e infine prese il volo, alzandosi ebbro nell’aria, eseguendo qualche goffa virata e giravolta. Pareva che per istinto la bestiola sapesse di dover volare, ma non riusciva a capire come si faceva. Si schiantò al suolo, a peso morto, poi si rialzò. Prima che riuscisse a riprendere l’equilibrio e a volare dritto, sentii il suono basso e percussivo del fucile e il piccione sobbalzò all’indietro per la forza d’urto del colpo e cadde giù come uno straccio floscio. Presi subito un altro uccello. Gli sentii il cuore che batteva all’impazzata contro la mia mano. Papà mi diede il segnale con la testa. Io lo feci girare in tondo e lo lasciai libero, guardandolo alzarsi in aria appena prima di esplodere in una deflagrazione di piume grigie sotto il colpo della contraerea. Ogni volta, nell’attimo in cui tenevo in mano l’uccello, sentivo la sua vita, il cuore e le ossa dello sterno e il delicato tubare che aveva in gola, ma di fatto per me non esisteva il momento della decisione, né un attimo di esitazione, prima di lasciarlo libero. Ne lanciai un altro in aria e lo osservai sbatacchiare disperatamente le ali per non piombare giù, poi alzarsi in volo a zig zag e sollevarsi fin sopra gli alberi, prima che il colpo di fucile lo facesse cadere dal cielo.
«Prova tu», disse mio padre.
«No, grazie», risposi.
Si avvicinò e ci sedemmo di nuovo. Bevve un sorso di gin e mi passò la bottiglia.
«Una volta qui era aperta campagna», disse. «Ma mi sa che adesso non siamo neanche fuori città. Mi sa che siamo in periferia».
Bevvi un sorso anch’io e dissi: «Hai presente il vestito da battesimo? Noi siamo stati battezzati tutti con quel vestito addosso. E anche mamma e nonno».
«Sì, e allora?»
«Dove sta?»
«Vedrai che tua madre ottiene l’annullamento. Farà ridurre tutto a niente, agli occhi di...»
Lo interruppi. «Quel vestito non lo rivedremo mai più, vero?»
Quando vidi che non rispondeva, dissi: «Andiamocene, va’».
«È rimasto un ultimo piccione».
Ripiegai all’infuori l’imboccatura del sacco e lo feci uscire. Si mise a zampettare qua e là, facendo su e giù con la testa, fra i compagni morti.
Mio padre, quando era sotto torazina, tornava sempre bambino. Camminava a scatti precipitosi, sbilenchi, maldestri, che si interrompevano quando finiva contro un muro o incespicava e si accasciava sul tappeto. Si nascondeva negli armadi, si spaccava la testa cadendo dalle scale. Noi ripulivamo lo schifo che lasciava in giro, passavamo lo straccio sul pavimento del bagno allagato di piscio, aiutavamo mamma ad asciugargli il culo imbrattato. A cena, gli legavamo al collo una federa e gli ficcavamo in bocca cucchiaiate di purè di carote, spaghetti precotti e piselli verde pallido che spappolavamo con la forchetta. Facevamo a gara per avere l’occasione di imboccarlo, di giocare all’aeroplanino con il cucchiaio avvicinandoglielo alle labbra. Lui farfugliava e sputacchiava e di tanto in tanto da dietro le nebbie della torazina affioravano dei rudimenti di linguaggio. Una volta, mentre eravamo seduti a tavola tutti e nove a cenare in silenzio, cominciò a borbottare, e tutti ci chinammo in avanti per sentire meglio. «Vaffanculo», disse. «Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo». Mia madre gli infilò in bocca un altro cucchiaio di purè e lui lo rigurgitò nell’ennesimo vaffanculo.
Dato che ero il più piccolo, non mi lasciavano mai da solo con mio padre, non mi lasciavano mai a badargli senza nessun altro accanto: tranne una volta, e per pochissimo tempo. Erano usciti tutti e mi ricordo la sensazione strana di trovarmi a casa da solo con lui. Gli chiesi se gli andava di guardare la tv. Quando andava fuori di testa, tenevamo costantemente la televisione accesa. Feci un po’ di zapping fra lo sport, i cartoni animati e un servizio del telegiornale sull’ultima missione lunare, quella dell’Apollo 17. Poi mio padre parlò: fu come un miracolo, come sentire un figlio che pronuncia le sue prime parole. Voleva che mi mettessi a girare per casa e raccogliessi tutti gli occhiali da sole che trovavo. Nonostante i suoi continui scoppi di follia, era sempre mio padre, non più pazzo di certi padri del Vecchio Testamento, per cui obbedii. Pensai che fosse un gioco. Corsi qua e là per tutta la casa. «E bravo», mi gridava ogni volta che recuperavo un altro paio di occhiali. Misi insieme quelli di Jackie con la montatura sottile di metallo, un paio di occhiali a specchio da aviatore e uno con la montatura squadrata di tartaruga, nonché quelli di plastica di Walt Disney, rossi, gialli e verdi, delle mie sorelle. Maschere da sci, maschere protettive. Mio padre li dispose tutti sul pavimento, li rimescolò da una parte, poi dall’altra, e infine mi chiese: «Secondo te chi possiamo chiamare, che ci aiuti con tutti questi occhiali?» Io dissi che secondo me non c’era nessuno. E lui: «Be’, allora siamo fregati. Mi sa che non c’è speranza. Sicuro che non possiamo chiamare nessuno?»
Questo ricordo mi tornò in mente il giorno delle visite libere alla casa. Mio padre aveva indossato il completo buono e le scarpe della domenica ma aveva ostinatamente deciso di non mettersi gli occhiali. Sembrò subito smarrito. Cominciò a girare per le stanze con passo malfermo, riempiendo piccoli piatti di noccioline salate, aprendo un tavolo pieghevole e apparecchiandolo con patatine, pretzel e bibite. Mancavano talmente tante cose in casa – cose come le foto di famiglia e i nostri biglietti di auguri preferiti, cose che si erano guadagnate un posto alla parete, o sulla mensola del caminetto, per il semplice fatto di averlo sempre occupato – che mio padre appariva confuso in quello spazio, e continuava a risistemare i vassoi di stuzzichini, poggiandoli prima sul tavolino basso davanti al divano, poi su quello piccolo accanto alla poltrona, e rimettendoli infine nel punto di partenza.
«Siediti», gli dissi.
«Io non ci dovrei neanche stare, qui», disse mio padre. «Cynthia mi ha chiesto di andarmi a fare un giro per un po’».
Cynthia, l’agente immobiliare, rimase visibilmente seccata quando vide mio padre. Presentò i potenziali acquirenti a me e si affrettò a passare oltre. Io li seguii. Fece girare i primi estranei per le stanze con l’aria da padrona di casa. Accompagnò di sopra una coppia giovane senza figli e gli fece vedere la camera da letto dei miei. Si fermò accanto alla finestra e indicò il panorama, il lungo pendio della collina, le montagne a ovest, descrivendo la vista come un possibile investimento futuro. Visitammo poi la cucina e il soggiorno. Infine scendemmo tutti quanti nel seminterrato. Metà della stanza era priva di rifiniture, l’altra era rivestita di pannelli di legno di pino pieno di nodi. Mentre l’agente immobiliare parlava di come trasformare il seminterrato in una sala hobby, io aprii il coperchio di una vecchia scatola di sigari Te Amo e ci trovai dentro qualche centesimo e qualche tappo di penna, un po’ di bottoni, un’armonica e diverse siringhe. Fra i quindici e i sedici anni Jackie era stato un tossico, e si bucava proprio nel seminterrato. Mi capitava di trovarlo lì sotto, mezzo addormentato, con l’ago penzolante dal braccio. Ormai sembravano passati secoli da quel periodo, dalla mia infanzia. Richiusi la scatola.
I compratori più seri e motivati furono quelli che arrivarono prima, seguiti da qualche svampito che palesemente non era in grado di fare un’offerta dignitosa. Nel pomeriggio, tuttavia, l’atmosfera cambiò. Ero seduto davanti alla portafinestra quando vidi la signora Wooley che veniva su per il vialetto. Portava una gonna corta e i tacchi. Suonò il campanello e la feci entrare.
«Bobby», mi disse. «Che sorpresa».
Era amica intima di mia madre e sapeva senz’altro che avevo lasciato l’università. Aveva una figlia in procinto di laurearsi a Yale.
«Che piacere vederla, signora Wooley», dissi io.
«Chiamami Lois», rispose. «Direi che ormai puoi anche darmi del tu».
Le offrii qualcosa da bere. Lei guardò l’ora e disse: «No, grazie».
Si morse un labbro e sui denti le rimase un po’ di rosa.
«L’ultima volta che ti ho visto», mi disse, «è stato al funerale».
«Sta pensando di comprare la casa?»
«Mi trovavo soltanto da queste parti».
«Ma non ci si trova sempre? Abita qui di fronte».
«Lois, Lois». Era la voce di mio padre. Le strinse la mano e le rivolse un sorriso cordiale. «È una vita che non ci vediamo. Come stai?» Si guardò i piedi e disse: «È stato un periodo assurdo».
«Eh sì», disse la signora Wooley.
La signora Kayhew trotterellò anche lei verso casa nostra e salì con cautela gli scalini di pietra della veranda, come se volesse evitare di mettere il piede sulle fessure. Poco dopo arrivò anche la signora Greyham, seguita da diverse altre vicine. Mio padre le salutò tutte con lo stesso sorriso gioviale e un po’ contrito, e poi, come la guida di un museo, portò tutto il gruppo a fare un giro della casa. Fu particolarmente gentile con la signora Kayhew, che abitava di fianco a noi. La prese sottobraccio e la accompagnò su per le scale. Lei voltò il viso giallastro verso mio padre, tenendolo alzato secondo un angolo preciso, come se i suoi occhi azzurri fossero bacinelle d’acqua che non voleva rovesciare.
Il gruppetto si fermò sul ballatoio in cima alle scale. Tutte le porte delle camere da letto erano chiuse, e lo spesso strato di vernice marrone gli dava l’aria di essere sigillate da un’infinità di tempo.
Mio padre toccò un crocifisso con la punta del piede. L’aveva scaraventato giù dal muro il giorno che era tornato a casa e aveva scoperto che mia madre se n’era andata. Il Gesù di ottone si era staccato dai chiodi e conficcato fra due colonnine della ringhiera. La signora Greyham guardò la croce e poi mio padre. Aspettavo di sentire quale balla si sarebbe inventato.
«L’ho buttato giù dal muro con un cazzotto».
Mio padre si tirò su i calzoni e si chinò su un ginocchio. Raccolse la croce e il Gesù e tenendoli una in una mano e uno nell’altra cercò di riassemblarli.
Aprì lentamente la porta della sua camera e tutte le signore ci si infilarono dentro. Gli mostrò il balcone e il bagnetto e il grosso armadio ancora pieno dei vestiti di mia madre. Il grande letto matrimoniale conservava ancora la sagoma di mio padre sulle lenzuola spiegazzate, l’intaglio di una testa e un paio di gambe e un braccio proteso verso l’altro cuscino. Lui guardò l’impronta, come se da un momento all’altro volesse infilarsi di nuovo nel letto, a occupare il proprio stampo.
Poi si offrì di fare un tè per tutti.
«Tè?», sbottai io.
«Perché no?», disse lui.
Ma nessuna delle signore era venuta per vedere la casa, che in sé non aveva nulla di speciale: erano venute per vedere lui. E adesso erano pronte ad andarsene.
Chiesi a mio padre se gli andava di bere qualcosa. L’ultima luce della giornata stava svanendo e i lampioni prendevano vita, sfarfallando. Mio padre aveva l’aria sconsolata.
«Mi sa che mi metto un po’ seduto qui», disse. Indicò la sua poltrona in salotto e seguì la direzione del dito. Si sedette e si tolse le scarpe eleganti, i calzini blu, e cominciò a massaggiarsi i piedi.
«Mamma mia, quanto sono indolenzito», disse, strizzandosi le dita.
Rimase seduto nel buio, in gran silenzio, come se avesse scoperto un punto di perfetta quiete.
«Acquirenti ce ne sono?»
«Eh? Boh, forse».
Andai in cucina e ripescai dal secchio dell’immondizia la sua ultima dose di barbiturici. Scossi la boccetta marrone, aprii il tappo e ingoiai la pillola senz’acqua. Un tempo le rubavo in continuazione dall’armadietto delle medicine. Il bello dei barbiturici è che ti fanno sentire accarezzato o stretto in un abbraccio morbido, con la pelle che ti vibra come se la toccassero mille dita contemporaneamente. Mi misi a sedere al tavolo da pranzo e smontai il vecchio mulinello di Miles, versando olio da fucile Remington sul nottolino, poi uscii e preparai la canna da mosca, facendo passare il filo nelle guide. Ne srotolai sette o otto metri e cominciai a far finta di lanciare. All’inizio ero fuori allenamento, descrivevo ampi cerchi che si abbassavano troppo all’indietro e si appesantivano in avanti, ma a ogni spinta del braccio facevo un piccolo aggiustamento e di lì a poco cominciai a sentire il ritmo, a prendere il tempo. Alla signora Wooley, dall’altro lato della strada, dovevo sembrare un marinaio che faceva segnali in codice a una nave lontana. Continuai ad allungare il filo fino a lanciare a dieci, quindici metri di distanza, e il movimento avanti e indietro prese vigore, piegando la canna fino all’impugnatura. Con la mano sinistra raccolsi altri due giri di lenza e li lanciai in avanti. Il filo corse veloce in mezzo alle guide e volò fino al lato opposto della strada.
Tenendo la sua canna in mano mi venne spontaneo pensare a Miles, al mio fratello sopravvissuto ma devastato. Qualche settimana dopo che si era buttato dall’Aurora Bridge avevo deciso, una sera, di andare a vedere il posto. Soffro terribilmente di vertigini e mi ero incamminato sul ponte con lentezza, passo dopo passo, strusciando la mano sul parapetto sporco, fino ad arrivare in mezzo alla campata. Mi stavano per cedere le gambe, le mani mi tremavano e bruciavano di sudore. Non avevo ancora guardato giù, ma non ce n’era bisogno: la paura era salita da sola ad agguantarmi. Chiusi gli occhi e sentii il vento ruvido che veniva risucchiato dalle macchine in arrivo. Udii il rumore delle gomme sul cemento, lo stridio di un gabbiano. Quando mi affacciai, a novanta metri di altezza, verso le acque nere della Union Bay che scintillavano delle luci della città, non riuscii a muovermi, rimasi impietrito. Le gambe non mi funzionavano. La sensazione della caduta mi colpì allo stomaco: un aprirsi, uno svuotarsi. Non riuscivo ad avviarmi verso l’altro capo del ponte né a tornare indietro. Non riuscivo a staccarmi dal parapetto. Sarò rimasto lì per un’ora, non di meno, poi passò una donna che portava a spasso il cane. Le vertigini vinsero la mia abituale timidezza nei confronti degli estranei, e le confessai che non riuscivo a muovermi. «Ho paura», dissi, indicando il bordo del ponte. Lei si passò il guinzaglio nell’altra mano. «Pensavo di farcela ad attraversarlo tutto», le spiegai. Lei mi prese per mano. Mi accompagnò dall’altra parte chiacchierando, di questo sono sicuro, perché mi ricordo il suono della sua voce, ma non ho idea di cosa mi abbia detto, e dall’altro lato del ponte la ringraziai in maniera ridicola, mille volte, e il giorno dopo tornai in autobus a riprendermi la macchina.
Uscì mio padre. Era a piedi scalzi, ma aveva ancora addosso il completo buono. Si grattò il dorso della mano e si girò a guardare la casa. Io tirai su la lenza dalla strada e ricominciai a lanciare.
«Patteggiare, mai».
«La scelta è tua, in fondo».
Continuai a lanciare, agitando la canna avanti e indietro, con il filo che scorreva dolcemente in cerchi acquosi, sussurrando sopra le nostre teste.
«Che bello», disse mio padre. «Come un haiku».
«Fammici provare», aggiunse.
Io lasciai cadere a terra il filo e mi misi dietro di lui, stringendogli la mano sull’impugnatura e poi chiudendo la mia sopra la sua.