JACINTA

Si erano sposati in una chiesetta bianca in cima a una collina: era un dato di fatto, la pura verità, ma era anche una frase che Dorothy si ripeteva spesso, una frase che le dava la sensazione di un inizio da fiaba. La chiesa era a LaConner, nello stato di Washington. Ai piedi della collina, in tutte le direzioni, distese di campi piene di tulipani, un mare di fiori rossi, gialli e viola agitato in ampie onde dal vento costiero. Dorothy aveva scelto la data del matrimonio in modo che coincidesse con la prima fioritura dei tulipani, una trapunta di colori cucita insieme da una rete di chiuse che tenevano sotto controllo le acque color smeraldo del fiume Skagit. Dorothy portava un vestito bianco molto semplice con lo scollo a cuore e un velo di tulle fissato sulla fronte da una coroncina di perle e fiori bianchi intrecciati. Le sembrava di levitare, impalpabile come un’altissima nuvola candida, mentre percorreva la navata al braccio del padre: lui si occupava di public relations per la Weyerhaeuser, ed era stato merito suo se lei e Bill si erano incontrati, alla Festa dei Boscaioli di Raymond. Pronunciarono i voti tradizionali secondo la formula cattolica, senza cambiare mezza parola. Bill, un uomo silenzioso e schietto, doveva aver trovato la cadenza del linguaggio liturgico arzigogolata e barocca, poco familiare. Sembrava che quelle formule lo mettessero quasi in imbarazzo, e c’era un che di esitante e incerto nel modo in cui le pronunciava. La cosa non preoccupò Dorothy, anche se aveva appena scoperto di essere incinta. Quando Bill disse: «Lo voglio», invece, ancora non sapeva di essere padre.

Lei glielo disse al ritorno, sulla vecchia statale 99. Vedendo che sulle prime non aveva nessuna reazione, aprì appena appena il finestrino e lasciò che la corrente d’aria le soffiasse il velo all’indietro: le si sollevò dalla faccia e prese a svolazzare per tutto l’abitacolo.

«Di’ qualcosa», fece.

Bill alzò una mano dallo sterzo e fece qualche gesto impotente: quella mano funzionava come la bacchetta di un direttore d’orchestra, un oggetto silenzioso ai cui movimenti, seppur minimi, corrispondevano emozioni, e Dorothy spesso sbagliava a interpretarli.

«Sei deluso?», gli chiese.

«No», disse Bill. «Per niente».

«Si chiama Jacinta».

«Chi?»

Dorothy si batté delicatamente la mano sulla pancia. «La bambina».

«Magari è un maschio», disse Bill.

«No, non credo», disse Dorothy. «Me lo sento».

«Jacinta». Bill si provò la parola in bocca.

«Da giacinto, che è il nome del fiore», disse Dorothy, «ma anche di una pietra preziosa».

Era successo tutto così in fretta: si era sposata, era rimasta incinta. Le sembrava ieri il giorno che aveva incontrato Bill a Raymond. Era successo un anno prima, a settembre, e la luce estiva era dolce e lenta a svanire. Dall’altra parte del prato c’era un chiosco dove quelli del Kiwanis Club vendevano bevande dolciastre azzurrine e wurstel allo spiedo e grosse fette di melone. Bill e Dorothy passeggiavano nella direzione opposta, verso il margine della fiera, lasciandosi alle spalle i grossi tendoni a strisce gonfiati dal vento, la ruota panoramica traballante e il puzzo di paglia e letame del recinto degli animali, verso lo spiazzo di ghiaia dov’era parcheggiato il camioncino di Bill. Stava scendendo la sera e le luci al neon sopra di loro imperlavano il cielo del crepuscolo di aloni azzurri, e dagli altoparlanti arrivava la voce del padre di Dorothy, fievole e triste, lontanissima. Poi lei era stravaccata sul sedile del camioncino, con Bill che parlava. Bill masticava un chewing-gum e gli si tendeva la mascella. Bill si arrotolava le maniche della camicia di lana in dure ciambelle attorno ai bicipiti. Di lì a poco le luci in lontananza si andavano spegnendo e la gente arrivava alla spicciolata nel parcheggio. Lei chiudeva gli occhi e si allungava in avanti, offrendo le labbra al buio.

Alla fine trovò il padre seduto in macchina con una lattina di birra Olympia e una sigaretta in bocca, la cenere che penzolava in un lungo arco morto. Quando lei aprì la portiera, la cenere gli cadde in grembo. Rimasero seduti in silenzio nel parcheggio deserto, e Dorothy sentì la risata felice di un uomo e il tintinnio di monete di qualcuno che contava gli spiccioli. Il padre restò in silenzio e sulle sue per tutta la strada del ritorno alla Annie Wright, un college femminile di Tacoma. La scuola aveva un certo fascino agli occhi della madre di Dorothy perché per qualche tempo l’aveva frequentata Mary McCarthy; la madre sperava che lei seguisse ulteriormente le orme della scrittrice, iscrivendosi alla Vassar. Era una donna che adorava la Cultura e tutto quello che faceva «East Coast», e dava costantemente l’impressione di vivere in un intollerabile esilio. Sul vialetto circolare d’ingresso il padre fermò la macchina in folle senza spegnere il motore. Bevve qualche sorso di birra e nella penombra le sue labbra risaltarono, umide e rosse in un viso altrimenti vecchio e grigio. Dorothy vedeva le sagome scure delle sue compagne che si aggiravano dietro le tende delle finestre.

«Sai una cosa, tesoro», disse il padre. «Io tua madre non la amo». Finì la birra e se ne aprì un’altra. «Non è pazzesco?»

Lei aveva aspettato una spiegazione che non era mai arrivata.

Per un anno Bill era uscito prima dal lavoro il venerdì sera e si era fatto tutta la strada in macchina da Hood River per andarla a trovare a Tacoma. Sulla punta di Vashon Island c’era un piccolo parco statale, dove lui montava la tenda e dormiva dopo aver riaccompagnato Dorothy al dormitorio appena in tempo per il coprifuoco di mezzanotte. Nei suoi capelli e nella lana ruvida delle sue camicie c’era sempre odore di fumo di legna e acqua salata. Le amiche di Dorothy erano al corrente della relazione e la invidiavano: il pensiero di un uomo che si accampava su un’isola boscosa al di là di quello specchio d’acqua a loro sembrava profondamente, incredibilmente romantico. Alla Annie Wright avevano tutte la sensazione di essere state chiuse a chiave dentro una torre a languire senza amore per l’eternità.

 

Bill e Dorothy andarono a vivere in una casetta bianca alla fine di una stradina polverosa che serpeggiava in mezzo a una coltivazione di mele di proprietà di Homer Jorgenson, un uomo che Bill conosceva da tutta la vita. Homer aveva costruito quella casa per i suoi genitori, l’aveva costruita da solo durante la guerra, appropriandosi del legno con una menzogna: aveva detto al governo che gli serviva per riparare un fienile spazzato via da una tempesta che aveva colpito la zona attorno al canyon del fiume Columbia quella primavera. Homer, che non si era mai sposato, aveva dato lavoro a Bill come sorvegliante e gestore del frutteto. Aveva sessant’anni, era un uomo spigoloso che sembrava aver assunto la sua attuale forma dura sotto lo scalpello di un vento costante, una lenta erosione, una lunga resistenza; quando era fermo il suo corpo pendeva leggermente in avanti, come un pino appollaiato sul bordo di una scogliera. La sua vita solitaria non ne aveva fatto un tipo petulante e difficile, come succede spesso. Viveva da sempre sugli stessi ottocento acri di frutteto, come suo padre e suo nonno prima di lui, e in quella continuità c’era qualcosa che gli metteva nelle ossa una sorta di appagamento: nel profondo, Homer sapeva perfettamente che cosa doveva fare: sistemare e accendere fra gli alberi bracieri a olio per impedire le gelate improvvise, stanare e uccidere un coguaro che era sceso dalle montagne e aveva attaccato i pochi capi di bestiame che possedeva.

Come regalo di nozze, Homer aveva rimesso a nuovo la casetta: aveva dato una mano di densa vernice bianca sulle pareti interne, installato una nuova cucina a gas, rifatto i vetri smerigliati delle finestre davanti e tolto di mezzo il nido che un uccello aveva fatto proprio in cima al camino. Quando Bill e Dorothy entrarono per la prima volta nella loro nuova casa il nido, intrecciato con la grazia di un cestino di vimini, era posato tutto solo sul tavolo da pranzo, e nell’incavo al centro c’erano due chiavi legate da un nastro azzurro: una apriva la porta di casa e l’altra l’armadietto per i fucili. Nell’armadietto trovarono una bottiglia di champagne a mollo in un secchiello di acqua tiepida. Era un pensiero carino, solo che erano arrivati tardi. La casetta a Dorothy piaceva molto, ma aveva un che di squadrato e di austero, le dava l’idea di un uomo che viveva da solo. Cominciò subito a riempire le pareti di quadri e specchi, e sul davanzale della cucina allineò la sua collezione di galleggianti da pesca giapponesi, sfere di vetro colorato usate come boe per le reti a strascico. Ogni giorno per qualche ora, nel tardo pomeriggio, quando il sole declinava sopra il monte Hood in un ventaglio di luce spezzata dalle nubi – «la luce di Dio», come la chiamavano da quelle parti – i galleggianti trasfiguravano completamente la semplice stanza bianca, portandola in tutt’un altro regno, donandole il colore intenso e tremolante di una chiesa immersa negli azzurri, nei rossi e nei verdi delle vetrate dipinte.

Una mattina presto, poco dopo che si erano trasferiti lì, Bill era seduto in veranda con una tazza di caffè e il suo Freedom Arms 454, un fucile abbastanza potente da lasciare stecchito un orso a trenta metri di distanza. Dorothy sentì l’eco del colpo nel sogno che stava facendo quando Bill, fra un sorso e l’altro di caffè bollente, sparò a una cerbiatta a neanche sei metri dalla porta di casa. Una volta uscita in veranda, vide che il marito aveva appeso l’animale a testa in giù a un ramo dell’unico melo del giardino e lo stava sventrando. Lì vicino gli alberi erano neri e ombrosi, ma più in lontananza le foglie brillavano di rugiada argentea sotto il sole. Le mele sui rami erano ancora verdi. Bill tagliò la gola alla cerbiatta e il sangue sprizzò a terra come da un rubinetto aperto. Il coltello che stava usando luccicava nel sole del mattino; era un coltello, così parve a Dorothy, uscito da qualche specie di leggenda antica: la lama d’argento era un raggio di luce quando Bill la cacciò fino all’elsa nel ventre scuro della cerbiatta e aprì l’interno del suo corpo al sole, spalancando l’addome e facendoci entrare la luce come se fosse stato quello il suo unico scopo fin dall’inizio. Poi caddero giù le interiora, calde e fumanti sull’erba verde e umida.

Anche Homer aveva sentito l’eco del colpo e arrivò da casa sua passando in mezzo agli alberi. Guardò la cerbiatta e l’erba insanguinata e poi si grattò la testa, facendo scorrere le dita nella spessa capigliatura bianca. Dorothy aveva notato la cura con cui Homer si pettinava i capelli, che profumavano sempre di qualche unguento e rimanevano rigidi e ordinati al proprio posto a tutte le ore del giorno. Le dava l’idea che fosse un’abitudine presa fin da bambino. E immaginava che si rifacesse anche il letto ogni mattina.

«È giovane», disse Homer.

«Un anno o poco più», rispose Bill. Un raggio di sole colpì il grasso scintillante e per un attimo la cerbiatta parve un pezzo di sego penzolante dall’albero, una candela accesa che girava lentamente su se stessa nel vento.

Bill avvolse il cuore morbido in un pezzo di giornale.

«Vorrei pulire il canale di scolo davanti casa», disse Homer. «Mi sembra un po’ intasato».

«Arrivo subito», disse Bill. «Appena finisco qui».

Da sotto la camicia da notte sottile e trasparente di Dorothy si vedevano il suo seno e la curva rigonfia della pancia. Si accorse che Homer la fissava e il fatto di essere in bella vista le diede una sensazione piacevole. Anche Bill la stava guardando. Soffiava un venticello leggero e nel silenzio, per un attimo, le sembrò quasi che la sua presenza fosse il nocciolo della questione. Dorothy incrociò le braccia sul petto, come per spezzare l’incantesimo e far sì che gli uomini riprendessero a parlare. Homer guardò dall’altra parte del frutteto, in direzione del monte Hood, un cono bianco di neve scolpito come un cammeo contro il cielo azzurro che si andava schiarendo.

Bill disse: «Ti va un po’ di caffè?»

Quando Dorothy rientrò in casa, Homer osservò: «Non è che fosse proprio necessario».

Bill socchiuse gli occhi. «Me la sono vista lì di fronte. Mi ha colto di sorpresa».

«Non è un buon motivo».

«Be’», disse Bill, «ormai è fatta».

Dorothy uscì di casa con due tazze. Aveva i piedi scalzi e le prime foglie d’erba primaverili, soffici e umide, le diedero una bella sensazione sulla pelle. Ultimamente si sentiva sempre gonfia e ottusa, una specie di catafalco ambulante, ma l’erba che le accarezzava i piedi per un momento la liberò di quella pesantezza e le risollevò lo spirito.

«A tuo marito è venuta la smania dell’ordine, come succede alle donne incinte. Si vede che è entrato in simbiosi con te. A certi uomini capita».

Bill disse: «Ti farà comodo quando dovrai metterti a letto, Dot».

«Mi stai promettendo che ti metti a cucinare?», gli chiese lei.

Lui si asciugò le mani sui calzoni. «Be’, non mi pare che ho detto questo».

«Cucino io», disse Homer. Scapolo da una vita, aveva acquistato una sorta di dimestichezza con le faccende di casa che lo faceva apparire, a volte, un po’ effeminato. A Dorothy era capitato di chiedergli tazze di zucchero e di farina e ci si era scambiata ricette, facendo avanti e indietro lungo il consunto sentierino sterrato fra le due case; lui non sembrava affatto fuori luogo quando si legava alla vita i lacci di un grembiule e si piazzava davanti ai fornelli pieni di pentole in ebollizione, con una macchia di lievito sulla fronte. Ma era più di questo, più di un uomo con un frullino in mano, più di un uomo chino sul ripiano della cucina a togliere un pezzetto di guscio da una ciotola di bianco d’uovo: dato che era solo da tanto tempo, si era assunto quel ruolo perché non c’era nessuno a cui assegnarlo.

«Io lo stufato di selvaggina lo so fare bene», disse. «Possiamo surgelarne un po’».

«Buona idea», disse Dorothy.

«Se sapevo che avevi tutti questi talenti segreti», fece Bill, «sposavo te».

«E questo che vorrebbe dire?», chiese Dorothy.

Bill rispose: «Dai, che cazzo ne so».

La cerbiatta girava lentamente in tondo, la corda si attorcigliava da una parte e dall’altra nel vento.

«Sto facendo altro caffè, se ne volete», disse Dorothy.

Nell’allontanarsi, si sentì addosso lo sguardo dei due uomini: aveva una percezione acutissima di quanto si fosse allargata, di quanto fosse pesante e sfatta. Essere sotto esame le rendeva ogni passo goffo e calcolato; temeva di inciampare e cadere. Avrebbe voluto sentirsi senza peso e si diresse subito nel bagno sul retro della casa, dove cominciò a riempire la vasca dai piedini a zampa di leone. Mentre l’acqua scorreva, tornò in cucina a farsi una tazza di tè. Lasciò lungo il percorso una scia di sangue, impronte rosse perfette del suo alluce e della larga parte anteriore della pianta del piede, come uno strano animale che si muovesse sul linoleum, le assi di pino, il tappeto, le piastrelle del bagno. Il sangue chiaro e ricco di ossigeno si era sparso sull’erba bagnata. Prese uno strofinaccio dal lavandino della cucina e pulì le macchie come meglio poté, e quando la vasca fu piena si adagiò nell’acqua, sentendosi per un attimo leggera e libera da ogni fardello, poi, faticosamente, si allungò in avanti e si lavò i piedi.

 

Jacinta nacque ad agosto e morì un anno dopo senza aver mai pronunciato una parola. Aveva imparato a camminare, aveva imparato a montare sul divano e a scalare le sedie della cucina, con Bill che le insegnava, che la elogiava per come si sapeva reggere bene, che la incoraggiava e si beava della sua gioia senza parole. Pochi giorni dopo il suo primo compleanno affogò in una bassa mangiatoia di latta piena di acqua piovana. Nel primo pomeriggio scavalcò il bordo del vascone e ci cadde dentro, e quando Bill la trovò galleggiava a pancia sotto, con i corti capelli biondi che le si arricciavano attorno alla testa come alghe nell’acqua trasparente. Dorothy stava glassando una torta di mele quando Bill arrivò di corsa dal giardino tenendo la bimba fra le mani come un fagotto di stracci zuppi. La posò sul tavolo da pranzo e le aprì la zip della tutina rosa. Si chinò su di lei. Le tappò il naso e mise la bocca sopra la sua e ci respirò dentro. La pancia di Jacinta si gonfiava a ogni respiro e poi si appiattiva di nuovo. Nel silenzio della stanza si sentiva una debolissima espirazione, un sussurro segreto, ogni volta che il fiato di Bill usciva dalla bocca senza vita della bambina. Lui si alzava e inspirava e poi si chinava di nuovo, come per baciarla sulle labbra. Sopra la sua testa dondolavano pigramente avanzi flosci di festoni, residui di una festicciola che avevano fatto diversi giorni prima. Mentre Bill cercava di ridare fiato a Jacinta, Dorothy gli afferrò la camicia sulla schiena. Poi lui cominciò a battere il pugno sopra il cuore della bambina. Dalle labbra le uscì un rivoletto d’acqua. Dorothy chiamò Homer. Homer chiamò l’ambulanza. Bill continuò imperterrito per mezz’ora, facendole la respirazione bocca a bocca, battendole sul petto, premendole la pancia per liberarle la trachea, ma alla fine arrivò l’ambulanza dal paese. E anche allora Bill non ne voleva sapere di smettere. All’ultimo, Homer gli mise una mano sulla spalla e lo strattonò. Bill alzò lo sguardo. Sembrava sorpreso di ritrovarsi qualcuno accanto.

«Non puoi fare niente», gli disse Homer. «È morta».

Bill guardò Jacinta e per un istante parve un uomo coraggioso, il tipo di uomo capace di tirare avanti per la sua strada e non guardarsi mai indietro, poi puntò gli occhi su Dorothy.

«Che cazzo stai guardando?», le disse. Gli tremavano le mani, e si aggrappò alle cuciture dei pantaloni per calmarle.

Dorothy uscì dalla porta, sotto shock, senza dire una parola. La notte prima aveva piovuto forte, ma adesso c’era il sole e tra gli alberi soffiava un vento gagliardo e costante. Sull’erba le ombre si muovevano come cose vive. Abitando in una casa in mezzo a un frutteto, era difficile capire dove finiva il proprio giardino e dove cominciava il mondo: file e file oblique di meli si estendevano a perdita d’occhio verso un infinito soleggiato e luccicante. Dorothy si fermò accanto alla mangiatoia. Non era più grossa di una vasca per lavare i panni. Qualche foglia verde galleggiava sul pelo dell’acqua, e quando ci guardò dentro Dorothy vide la propria faccia, riflessa sulla superficie e incorniciata da nuvole bianche. In quel momento – o forse in seguito – si convinse che anche Jacinta aveva visto il proprio riflesso sull’acqua, una faccia tonda in mezzo all’azzurro e al bianco del cielo, e che aveva cercato di seguire la sua immagine in quel paradiso finendo invece nel buio dov’era affogata. Dorothy andò nel fienile e trovò un punteruolo. Fece un singolo, piccolo buco sulla parete della mangiatoia, non più grande di una stella. Guardò il cielo azzurro e le nuvole bianche in movimento riversarsi sul prato. La vasca cominciò lentamente a svuotarsi. Lei si chinò, giunse le mani sotto quel minuscolo schizzo e bevve l’acqua che le sgocciolava fra le dita. Rimase lì finché la mangiatoia non fu vuota.

L’ambulanza era ripartita per il paese, piano piano, con i lampeggianti spenti. Dorothy rientrò in casa. Homer era appoggiato al bancone della cucina con le mani in mano. Bill era sul divano e fissava il muro bianco di fronte. Non aveva detto una parola da quando l’infermiere aveva sollevato il corpo perfetto e senza vita di Jacinta da una pozza d’acqua sul tavolo e l’aveva portata, ancora sgocciolante, sull’ambulanza.

«Se solo non avesse piovuto», disse Dorothy.

«E invece ha piovuto», disse Bill. Aveva la voce calma. «Ha piovuto tutta la notte, cazzo».

Dorothy infilò una candelina avanzata dal compleanno al centro della torta e avvicinò un fiammifero allo stoppino. La fiammella che si alzò attorno allo stoppino nero somigliava a un paio di mani giunte in preghiera. Si sentiva malissimo. «Dio», disse. Bill alzò la testa verso di lei come se fosse cieco e avesse solo avvertito un leggero movimento in un angolo della stanza. Dorothy avrebbe preferito la rabbia, l’indignazione, qualunque cosa piuttosto che quella calma proveniente da un punto di completa insensibilità che Bill aveva scoperto dentro di sé.

«Cantiamo», disse Dorothy. La cucina era inondata dalla luce rossa, blu e verde dei galleggianti in fila sul davanzale. «Ok, non dobbiamo cantare per forza. Forse non è il caso». Si mise a piangere. «Però non vedo perché no».

Bill uscì di casa, scardinando con un calcio la porta con la zanzariera. Homer trattenne Dorothy per le spalle, poi la abbracciò. Sulla torta la candelina era ancora accesa.

Homer cullò delicatamente Dorothy fra le braccia e lei percepì la sua conformazione sobria ed essenziale: le ossa, i muscoli, la pelle ruvida nel punto in cui il viso di lui le strusciava contro la tempia. Al di là della sua spalla vide la radiosveglia con l’ora che lampeggiava, un insulto verdolino. Un vento pulito muoveva le tende e nell’aria sentiva odore di ginestra. Udì il fischio di un treno riecheggiare lungo il fiume Columbia. Un cane abbaiò, poi ci fu un lungo silenzio. Dorothy rimase in ascolto. Per un bel pezzo non si sentì più nulla, ma lei immaginava che già esistessero nuovi suoni, in viaggio verso di lei attraverso tutto quello spazio.

«La candela si sta per spegnere», disse Homer.

Si inumidì le dita di saliva e soffocò la fiamma tra pollice e indice. Adagiò Dorothy sul divano e andò a darsi da fare in cucina. Mise a bollire due patate, tritò del prezzemolo fresco e affettò finemente un po’ di aglio. Si infilò due fiammiferi in bocca e affettò anche una cipolla. «Così non mi lacrimano gli occhi», disse, masticando i fiammiferi. Mise a friggere un pezzo di bacon, bagnò due piccole trote arcobaleno nel grasso e le rotolò nella farina di granturco, poi le fece rosolare rapidamente in un tegame di ferro sfrigolante.

«Se ti va parlare, parla», disse Homer. «Ti ascolto».

L’aglio e la cipolla finirono in un’altra padella insieme a un bel tocchetto di burro, e quando furono al punto giusto Homer tagliò le patate e ci versò dentro anche quelle.

Dorothy accarezzava distrattamente l’orecchio ammuffito della bambola preferita di Jacinta, una bambola che piangeva se le si riempiva d’acqua un piccolo serbatoio che aveva nella testa. Sua figlia se n’era andata, ma quella stupida bambola c’era ancora, c’era ancora il lavello della cucina con la macchia marrone di ruggine, c’erano ancora le larghe assi di pino tenero del pavimento con la stessa superficie butterata di ieri e del giorno prima, che ne faceva una mappa di divani e poltrone mossi da un punto all’altro, di posti in cui la gente si era seduta, aveva parlato e mangiato, si era amata e aveva litigato nei quarant’anni di vita della casa.

Homer appoggiò un piatto di fronte a Dorothy. Le mise un tovagliolo di carta in grembo e una forchetta in mano. «Mangia», le disse.

«E Bill?», chiese lei.

«Tu intanto mangia. Vedrai che torna».

Dorothy mangiò: era già abbastanza difficile muovere la bocca attorno a qualcosa di solido.

Quella sera Dorothy andò nel fienile. Staccò una coperta di lana dal chiodo appeso al muro e si sedette accanto a Bill. Lui era rannicchiato su un fianco. Vicino aveva una bottiglia di vodka, vuota e rovesciata a terra. I capelli erano impastati di fango, paglia e piume bianche di qualche uccello che aveva appena fatto la muta; dalla bocca, premuta al suolo, gli colava un filo di bava scura che si spandeva sul terriccio. Diede un calcio alla terra dura con la punta degli stivali come se stesse tentando di cavarne una risposta. Dorothy si chinò su di lui e gli girò la faccia. Gli usciva il sangue dal naso. Aveva le labbra incrostate di briciole di terra. Gliele pulì e le baciò. Il fiato di Bill era un vento umido e mefitico che si levava dalla caverna della sua bocca.

 

Nelle settimane dopo il funerale, Dorothy cominciò ad andare a messa tutti i giorni. Non si trattava tanto di fede religiosa quanto di un’esigenza di spiritualità, e faceva quindi un’attenta selezione all’interno della dottrina, scartando tutto ciò che riteneva vecchio e marcio e conservando quanto c’era di maturo e bello. Non le servivano norme incise sulla pietra: era lì per il raggio obliquo di luce che scendeva dall’alta fila di finestroni, il silenzio azzurro delle candele votive negli attimi di raccoglimento prima che cominciassero le prime luttuose intonazioni della messa solenne in latino: c’era qualcosa che le piaceva moltissimo nel sentir parlare una lingua morta, e le parole, sciolte dal peso del significato, volavano libere, diventavano una musica a cui poteva abbandonarsi per sempre.

Bill riparava staccionate, aggiustava il tetto del fienile e al calar della sera beveva con gli immigrati. Cominciava con loro nel tardo pomeriggio, poi tornava a casa e continuava a bere sulla poltrona, tenendosi il bicchiere in equilibrio sul braccio e guardando in silenzio Dorothy che preparava la cena. Teneva il whisky nell’armadietto dei fucili, che non era mai chiuso a chiave, e ogni sera, quando ne aveva avuto abbastanza, riponeva il bicchiere e il cucchiaio che usava per rimescolarlo, senza sciacquarli, sullo scaffale accanto alla bottiglia. Una volta che Dorothy aveva lavato il bicchiere e il cucchiaio, Bill si era arrabbiato a morte, ma con quella calma che ormai era diventata il suo atteggiamento costante: le aveva stretto il braccio in una morsa così forte che appena sotto la spalla le era rimasto un livido viola e giallo corrispondente al suo pollice. Gli occhi di Bill avevano assunto una sorta di confusa immensità, ma l’unica cosa che aveva detto era stata: «No. No. No». Adesso, quando lui la guardava affaccendarsi ai fornelli, puntandole addosso gli occhi vitrei, Dorothy aveva paura; e per la paura si distraeva, si dimenticava le cose sul fuoco finché non si bruciavano o le lasciava a mollo nel tegame finché l’acqua bollente non evaporava quasi tutta.

Di sopra, a letto, con il vento che fischiava negli interstizi dei muri o le finestre che tremavano, o la luce nebulosa del paese che sovrastava gli alberi, o una falce di luna dorata che scivolava in un angolo della finestra, o la lenta lucina rossa lampeggiante di un aereo partito da Portland che compariva alla vista e poi se ne andava via, Dorothy restava stesa immobile, perfettamente sveglia. Aveva una percezione fastidiosa e acutissima di ogni punto del suo corpo, lo manteneva impietrito in una stessa posizione finché, pesante e insensibile com’era, le sembrava che il tempo stesso si fermasse. Per diverse settimane Bill la prese ogni notte: senza baciarla, senza davvero toccarla, senza esplorarla esitante, la rigirava e la penetrava da dietro con un affondo rapido, si agitava frettolosamente sopra le sue natiche e appena finito usciva immediatamente e crollava nel sonno. Dorothy rimaneva sveglia. Cominciò a passare quasi tutte le notti sveglia su una poltrona di vimini, sotto la finestra. Guardava il marito sepolto nella trapunta. Lui sorrideva, come se qualcuno gli avesse raccontato una barzelletta: sorrideva spesso nel sonno, durante le ore silenziose in cui lei lo guardava. Poi, verso l’alba, Dorothy si addormentava e sognava, sogni fatti di sole e di sabbia e dell’ombra di qualcosa, una volpe o un coyote, ma al risveglio non si ricordava mai niente.

Una mattina, dopo la messa, si fermò a chiacchierare con il parroco, padre McGill. Nel catrame nero e gommoso che riempiva gli interstizi del marciapiede si vedevano incastrati i granelli di riso lanciati sugli sposi alla fine di un matrimonio, e Dorothy rimase ad aspettare fuori dalla chiesa, dopo la benedizione, mentre i parrocchiani andavano via uno a uno, posando una mano ancora bagnata di acqua santa nel palmo roseo del prete; c’era sempre un certo numero di uomini che andavano a messa ogni giorno, ma soltanto, sembrava, per via di una qualche mancanza di vigore: erano disoccupati, in pensione, sciancati, soli. La comunità dei fedeli era composta perlopiù di donne che indossavano abiti vecchi e sciatti risalenti ai loro ultimi giorni felici, donne vestite di nero che piangevano lutti irrevocabili, vecchi ormai di anni. Nel guardarle, a Dorothy veniva la paura di diventare una di quelle donne squilibrate e ferite che portavano sempre il cappello in chiesa, come si usava una volta, e arrivavano prima della messa per inginocchiarsi in un lungo banco di legno e pregare solennemente, farfugliando ad alta voce, con la testa china, sole nel loro folle cordoglio.

Quando tutti gli altri se ne furono andati, Dorothy disse: «Padre, le posso parlare?»

«Ma certo», rispose lui.

Le toccò il gomito e la accompagnò di nuovo dentro la chiesa, nell’aria fresca e buia, e insieme percorsero la navata e si genuflessero davanti all’altare. A Dorothy sembrò strano fare questo gesto senza avere nessuno intorno, inginocchiarsi e farsi il segno della croce nella chiesa vuota le parve una specie di pantomima. Padre McGill la fece passare per una porta a lato dell’altare; le offrì una seggioletta pieghevole e si sedettero insieme in sacrestia.

«Si vuole confessare?», le chiese il parroco.

«No», disse Dorothy. «Non sono venuta per questo. Non sono venuta per parlarle di me».

Lei conosceva la chiesa solo dal proprio posto a sedere, non era mai entrata nel presbiterio e men che mai aveva messo piede nella sacrestia, questa stanza sul retro dove il prete si infilava la tonaca e stringeva forte la cintura. Si guardò intorno. Appesa al muro vide una veronica sfilacciata, una riproduzione, ovviamente: veniva da una delle stazioni della Via Crucis, ma Dorothy non si ricordava quale. In un angolo erano ammucchiate delle casse di ostie per l’eucaristia. Sul bancone c’era una bustina di plastica: ostie bianche con un laccetto blu di fil di ferro a chiudere il collo del sacchetto.

Padre McGill aspettava con pazienza.

«Lei sa che abbiamo perso una figlia», disse Dorothy.

«Sì», disse il prete.

«Da quel momento il nostro matrimonio è stato difficile».

Sapeva che doveva parlare del proprio corpo, doveva parlare del rapporto che Bill aveva con quel corpo: ormai aveva smesso di prenderla tutte le sere, non la toccava proprio più, ma la paura che lei si sentiva addosso non era scomparsa.

Il parroco accarezzò la nappina all’estremità della sua cinta. «Come mai?»

«Purtroppo ho paura che dovrò lasciarlo». Dorothy non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi finché non pronunciò quelle parole. Mentre guardava padre McGill le sembrarono crudeli e brusche, e rimpianse di essersele fatte sfuggire.

«Un matrimonio non è una cosa che si può mandare all’aria a cuor leggero».

«Ogni respiro è una tragedia», disse lei. «Quando ce l’ho vicino, non riesco a respirare».

«La morte di vostra figlia ha imposto un tremendo fardello di tensione sul vostro rapporto», disse il prete. La guardò con benevolenza. Teneva le mani giunte in grembo. «Ma forse bisogna soltanto lasciar passare un po’ di tempo, non crede?»

«Non lo so», disse Dorothy.

«È successo ad agosto, se ben ricordo. Ora siamo a marzo. Otto mesi».

«Sembrano di più».

«Con le tragedie è sempre così. Pensi che la messa è vecchia di duemila anni».

Dorothy si rese conto che non voleva affrontare la questione in termini religiosi. Voleva dei consigli pratici. Guardò padre McGill e poi il bancone con il sacchetto di ostie. C’erano due piccole ampolle per il vino e per l’acqua su un vassoio d’argento. Alle spalle del parroco c’era una porta che dava sull’esterno.

«Probabilmente ha ragione», disse Dorothy.

«Infatti», disse il prete. Si alzò e aprì la porta. La luce si riversò nella sacrestia e ne illuminò le pareti verdastre. Era una stanza piccola e brutta. In vita sua Dorothy era entrata solo una volta in casa di una persona cieca, e anche lì le pareti erano dipinte di quello stesso verde sgradevole.

«Gli resti accanto», disse il parroco. «Ha bisogno di lei».

 

Ogni mattina Bill, su un vecchio camioncino Ford carico di immigrati e braccianti a giornata, imboccava la stradina a due corsie piena di buche che correva in mezzo al frutteto, e ogni sera prima di rientrare a casa si fermava davanti alla fila di capanne bianche e scommetteva sui combattimenti fra i galli. Dalla finestra della cucina, nella luce calante della prima sera, Dorothy vedeva la scia di polvere bianca scolorita levarsi dalla strada e capiva che Bill stava andando alle lotte dei galli. I messicani lo chiamavano El Blanco. Avevano delimitato uno spiazzo di terra con del filo spinato e dei paletti di acciaio non tanto spessi, e si mettevano seduti attorno al ring su vecchi barili, casse di legno e sedili di automobile. I galli combattevano finché uno non squarciava la gola all’altro con delle minuscole lame di rasoio che gli venivano fissate alle zampe. Quando faceva buio, qualcuno avvicinava un paio di macchine al ring e accendeva i fari, e gli uomini si stravaccavano sui cofani, e le grida e gli strilli ubriachi si alzavano in un pennacchio di polvere e di eco su tutto il frutteto, tanto che li sentiva anche Dorothy.

Bill aveva cominciato una tresca con una ragazzetta messicana, e glielo aveva detto. La sua confessione sembrava mirata con il proposito di farla allontanare. Dorothy una volta era andata a trovare la ragazza, ma non ne aveva ricavato nulla. Non era andata a minacciarla, a metterla in guardia o a fare scenate. Ci era andata perché amava il marito di un amore che non era mai stato messo in discussione, e voleva sapere tutto di lui, della sua vita segreta, della messicana e dei combattimenti dei galli, e capire se possibile cos’era che aveva trovato in quel gruppetto polveroso di baracche bianche: quel mondo di fili per il bucato svolazzanti e brulicanti di magliette e jeans lavati a mano, di tricicli rovesciati per terra con la ruota davanti tutta storta che ancora girava lentamente nel vento. La ragazza parlava quasi solo spagnolo, ma Dorothy ebbe l’impressione, ascoltando quelle frasi smozzicate, che sognasse una relazione duratura con Bill; c’era un vago accenno di bramosia nelle sue parole, un che di lavatrici, macchine in corsa, vita beata nella casa del fattore bianco. A Dorothy il tutto sembrò superbo, acido e aggressivo.

Poi, quella sera, quando Bill tornò a casa e si mise a sedere al solito posto, scoppiò a piangere. Non emise nessun suono. Le spalle non sobbalzavano. Le labbra non gli tremavano. Le lacrime gli colavano lentamente dagli occhi celesti, goccia a goccia, come se sul viso gli si stesse sciogliendo, e poi evaporando, del ghiaccio. Non se le asciugò.

Dorothy si inginocchiò ai piedi della poltrona. «Bill?»

Lui la attraversò con lo sguardo come se fosse trasparente, senza nessuna reazione. Dorothy fece per toccargli una spalla, ma lui le respinse la mano con uno schiaffo.

«Non mi toccare», disse.

«Voglio parlare», disse Dorothy.

«E parla», fece lui.

«Non voglio starmene qui a parlare per niente», fece lei. «Questa situazione non può continuare».

«Sì, invece», disse Bill. «Può anche continuare per sempre».

Lei tornò ai fornelli e diede una girata a un tegame pieno di zucca.

«Sei sempre lì che mi guardi, che mi fissi», disse. Lui teneva gli occhi puntati sui suoi e la trafiggeva con uno sguardo immobile, ma Dorothy ebbe l’impressione che non la stesse ascoltando. Andò avanti comunque. «Sto cominciando a impazzire. Mi sembra di non essere libera di fare niente. Tutto quello che faccio, ogni mossa, è un errore. Ho paura di te».

Il silenzio di Bill sminuiva e smentiva le sue parole. Dal ripiano sopra il lavandino Dorothy prese uno dei galleggianti, verde con il gambo un po’ rovinato, un galleggiante che le aveva mandato la sorella da Seattle, e lo scagliò contro il muro alle spalle di Bill. Il vetro si ruppe e piovve al suolo in mille pezzi.

Bill bevve un sorso di whisky. «Pessima mira».

Quella sera Dorothy rimase alzata insieme a Bill e Homer. Quando arrivò Homer, la situazione migliorò: lui bevve parecchio, ma sembrò soltanto rilassarsi, diventare sempre più gentile col passare della serata, sprofondare in se stesso e restare lì, comodamente. Quando Bill sproloquiava, scivolando in un suo gergo incomprensibile, Homer stava sempre attento ad annuire con fare eloquente e comprensivo all’indirizzo di Dorothy, lasciandole intendere che non era del tutto sola. Lei gli era riconoscente: Homer teneva Bill occupato col frutteto, e quando il lavoro scarseggiava andavano in montagna; aveva fatto entrare Bill nel gruppo di ricerca e soccorso del Monte Hood, e insieme avevano scalato il Monte Adams e il Rainier. Dopo queste escursioni Bill tornava sempre a casa più calmo, come se la montagna gli fosse rimasta dentro, un picco altissimo dalla cui cima fermarsi a guardare in lontananza la vita che viveva ogni giorno.

Bill e Homer parlavano, con aria sognante, di un futuro viaggio in Nepal. Fra l’uno e l’altro sembrava che conoscessero tutte le montagne del mondo, e quando ne parlavano, sempre più esaltati, pareva che ci fosse una forma di libertà nel formulare programmi che non si sarebbero mai realizzati. Il nome Himalaya, disse Bill, significava casa della neve.

«Perché andare così lontano?», chiese Dorothy.

Citando una famosa risposta di Mallory, Bill disse: «Perché sta lì».

Dorothy si accigliò. «Che sciocchezza», disse.

«Non c’è un altro motivo», disse Bill. «Uno ci va perché le montagne stanno lì. Se non ci fossero, uno dove andrebbe? Se la Terra fosse tutta piatta? A quel punto uno dove andrebbe? Non andrebbe da nessuna parte, no, perché ogni posto sarebbe uguale all’altro».

«Stai dicendo cose assurde, Bill».

«Saranno assurde per te», ribatté lui, ma decise di riprovarci. «Se tutto fosse piatto e uguale, uno non avrebbe mai bisogno di andare da nessuna parte perché non ci sarebbe niente di diverso nel resto del mondo, uno sarebbe come Dio, cazzo, ovunque e in nessun luogo contemporaneamente».

«Sarebbe un inferno», fece Dorothy. Si alzò e si versò un altro bicchiere. Si rese conto che non le importava cosa diceva Bill, purché continuasse a parlare.

«Infatti», fece lui.

«Io invece», disse Homer, «io ci devo andare perché sto invecchiando. Ormai sono quasi alla frutta». Sorrise della sua stessa melensaggine. Diede un morso a un cubetto di ghiaccio. «A vivere da soli non ci si rende tanto conto di come passa in fretta la vita».

Dorothy si risedette, incrociando le gambe. I calzoncini le risalirono sulle cosce. Non trovava sgradevole restare così esposta, lasciarsi guardare. Quando incrociò gli occhi di Homer, lui si voltò dall’altra parte. Mosse i piedi.

«Casa della neve», ripeté. «Una decina d’anni fa un Piper Cub si è schiantato sulla cima del Monte Hood. Si era perso in una nube attorno alla vetta. Non so che ci faceva lassù».

«Cercava di vedere la cima», propose Dorothy.

«In mezzo a una nuvola non si vede un accidente», disse Homer. «Si sono schiantati a centocinquanta all’ora. L’aereo si è ribaltato, e quando si sono tolti le cinture sono caduti a testa in giù. Erano uomini d’affari, erano in giacca e cravatta». Homer si versò due dita di scotch. «Ha nevicato tutti i giorni per una settimana di fila, quindi nessuno è potuto andare a recuperarli. L’aereo è stato coperto da un metro e mezzo di neve, ma è stata una fortuna. La neve li ha tenuti al caldo, sepolti lì sotto. Sono sopravvissuti».

«Grazie a Dio c’è la neve», disse Bill.

«L’aereo è ancora lassù, vero?»

«Sì», disse Bill. «Ancora lì». Guardò nel bicchiere.

Quella sera fu come altre sere, le sere in cui parlava di montagne, montagne che lui non aveva mai visto ma della cui esistenza era certo, come un tempo gli uomini erano certi dell’esistenza dei confini del mondo al di là dell’orizzonte. Bill si rianimava quando parlava di montagne, di scalate, di neve; soprattutto di neve: parlava di neve farinosa, di neve granulosa, di neve marcia, di crosta di rigelo e di neve soffiata, di brina, di gragnola e di firn, del modo in cui l’inclinazione del pendio e la luce del sole si combinavano per formare una patina brillante di fuoco ghiacciato; una volta l’aveva visto coi suoi occhi, un nastro dorato e luccicante di fuoco che saliva come un sentiero fino alla cima; e parlava dei crepacci e delle distese di penitenti che si trovavano ad alta quota, colonne di neve simili a suore in una chiesa, oblique e leggermente arcuate in avanti verso il sole di mezzogiorno. Parlava di nuvolaglie e di cornici, del disgelo d’argento, che si ha quando tutto è ricoperto da un dito di ghiaccio, così che le rocce sembrano fatte di vetro e gli alberi incastonati nel cristallo. «Non si muove nulla», diceva. «Se qualcosa si muove, si spacca. Si sente un rumore come di vetri rotti. Si frantuma tutto». Ad alta quota il tempo si ferma, diceva. «A quell’altezza, con quel freddo, le cose non cambiano. Si conservano. Anche il corpo umano, quando arriva sotto i 32 gradi, scende a due, tre battiti cardiaci al minuto, non di più. E a quel punto non si capisce neanche se uno è vivo o morto». Il tempo è visibile, si vede con gli occhi, insisteva, quando le folate di vento passano sopra la neve e si lasciano dietro un’impronta sotto forma di accumuli e cornici, come onde che si increspano senza mai infrangersi.

«Fantasmi di neve», disse Homer.

«Sembrano persone in carne e ossa», disse Bill.

Andò all’armadietto a riempirsi di nuovo il bicchiere. Guardò Homer e disse: «Io e lei non facciamo più sesso».

«Bill, ti prego», disse Dorothy.

«A te piace mia moglie». Bill bevve un sorso. «Lo vedo come la guardi. E non è la prima volta».

Bill finì il bicchiere, ci mise dentro il cucchiaio e appoggiò il tutto nell’armadietto.

«Sono stanco», disse. «Buonanotte».

Quando se ne fu andato di sopra, Dorothy disse: «Non dice sul serio».

«Non è vero che non fate sesso?»

«Quello è vero», ammise lei, con imbarazzo. «Fa la parte di quello che vuole allontanarmi, ma è solo una posa. In realtà mi vuole vicina, a fare da testimone a tutto quanto».

Dopo un po’, Dorothy diede la buonanotte a Homer. Lui si chinò a darle un bacio, un bacio asciutto e imbarazzato, e poi svanì immediatamente nel boschetto di cedri che separava le loro case. Dorothy salì al piano di sopra. Passò davanti a Bill, attraversando la linea del suo sguardo. Si spogliò lentamente. Si sbottonò la camicetta e la lasciò cadere a terra. Si sfilò le tette dalle coppe del reggiseno e rimase lì, a tenersele in mano. I capezzoli le si indurirono sotto le dita. Sentì il proprio tocco e le proprie carezze viaggiarle per tutto il corpo. Si tolse anche i pantaloncini e si voltò verso Bill.

«Non sei andata con Homer?», le chiese lui.

Lei si sedette sul bordo del letto. Dopo che avevano sepolto Jacinta, Bill aveva fatto il giro della casa togliendo di mezzo i suoi vestiti, i giocattoli, la culla; aveva staccato tutte le sue foto dalle pareti, e anche quelle che erano fissate con le calamite allo sportello del frigo; le aveva strappate via con una frenesia mostruosa. Sul muro sopra il comò di Dorothy era appeso un grande ritratto incorniciato di Jacinta che avevano fatto fare apposta da un fotografo: era un ritratto che a Dorothy ricordava i lunghi pomeriggi pigri e sonnacchiosi passati sul letto insieme alla bambina, quando un raggio di luce, pesante di pulviscolo, pioveva giù dalla finestra; dopo che Bill aveva distrutto il quadro, sulla parete era rimasto uno spazio bianco e pulito, e quel vuoto irritava a tal punto Dorothy che aveva preso un secchio e una spugna e si era messa a lavare tutta la parete. Ma in quel momento le sembrò di vederlo ancora lì, per un attimo. La liquidò come un’illusione ottica.

 

Dorothy aveva comprato un biglietto a data aperta per il pullman che portava a Seattle, dove abitava sua sorella, e nell’ultimo mese era andata due volte alla stazione. Era una stazione piccola e malmessa, poco più che uno sportello di biglietteria e una panca di legno con un posacenere a un’estremità, pieno di carte di chewing-gum e cicche e stuzzicadenti masticati; dietro la panca c’era una fila di armadietti per il deposito bagagli. Dorothy aveva ripiegato il biglietto e l’aveva infilato in una piccola borsa da viaggio che conservava in uno degli armadietti. In certi momenti della giornata pensava al deposito bagagli, all’armadietto e al biglietto per Seattle, ma le due volte che era veramente arrivata in paese, l’impatto con lo squallore della stazione l’aveva spaventata e fatta tornare indietro.

La seconda volta era rimasta fuori dalla porta, impietrita. Dentro c’era un soldato, stravaccato sulla panca, con il suo borsone verde ai piedi e un paio di cuffie nelle orecchie; una bambina con i capelli biondi stopposi stava infilando le dita nello scomparto per il resto del distributore di caramelle, alla ricerca di qualche monetina dimenticata; la madre era ferma davanti a una vetrata che dava sulla strada e guardava fuori, il viso screziato dalla luce che entrava dal vetro sporco. Ai suoi piedi c’erano due valigie, una bambola nuda e un asciugacapelli.

Dorothy si allontanò dalla stazione e si mise a girare per il paese. C’erano gigli in fiore lungo i bordi dei vialetti e dei marciapiedi, e in piccole aiuole nei giardini. Le case più graziose avevano siepi squadrate e curate. Una brezza sostenuta, rigenerante, agitava i castagni e faceva cadere a terra i ricci, che si accumulavano graffiandosi l’un l’altro nelle grondaie. Ora i bambini stavano uscendo da scuola e correvano in cerchi slabbrati, coi cappotti svolazzanti, agitando in mano disegni caotici di coniglietti e uova pasquali, fatti immergendo le dita nel colore. Le madri, a coppie, li seguivano a passo più lento. Dorothy le superò a testa china.

Si avviò verso il parco che sovrastava il paese. Di tanto in tanto, col fiato grosso, si guardava alle spalle, ammirando la vista sempre più ampia man mano che saliva. Nei negozi e nei bar andavano accendendosi le luci. Il sole al tramonto colpiva il Monte Hood sul versante occidentale, mentre su quello orientale si spandeva un’ombra fredda e azzurra. In un campo giochi sotto di lei c’erano dei bambini che si rincorrevano, piroettavano, si buttavano a terra, cadevano, strillavano, cercando di acchiapparsi. Una madre gli gridò di rientrare in casa. Un gruppo di ragazzi più grandi aveva acceso il fuoco in un barbecue. Bevevano birra e scherzavano, con le voci che riecheggiavano nette nel freddo. L’aria limpida della sera era pungente: se avesse fatto abbastanza freddo, presto Bill e Homer avrebbero riempito i recipienti d’olio e messo i bracieri ad ardere lentamente nel frutteto, emanando un bagliore arancio e azzurro sulle colline che scendevano verso il canyon e mantenendo in vita i primi germogli.

Un treno passò fischiando lungo il fiume, sulla sponda dello stato di Washington. A quella distanza il corso d’acqua sembrava immobile; il Columbia era ampio, somigliava più a un lago che a un fiume che andava a buttarsi nel Pacifico. Un faro giallo lampeggiava nella corsia per le barche, indicando una profondità sufficiente per i mercantili provenienti dal Giappone, dal Venezuela e dalla Grecia. Le voci del paese salivano fino al parco. Dorothy sentì uno spesso mazzo di chiavi che sbatteva contro una serratura. A un semaforo scattò il verde. Una portacontainer cominciò ad avanzare sul fiume, e del suo scafo nero e possente ormai si vedeva solo il profilo, una massa più scura della sera. I ponti erano illuminati e c’erano uomini che si muovevano avanti e indietro, ombre minuscole, ma Dorothy guardava solo lo scafo, più in basso, nero, che tagliava l’acqua. Hood River non era propriamente un porto, ma distava solo una sessantina di chilometri di fiume da Astoria, e poi c’era il mare aperto, il Pacifico, subito oltre gli scabri banchi di sabbia della foce del Columbia.

 

Quanto tornò a casa, quella sera, sentì la voce di Bill al piano di sopra. Capì subito cosa stava succedendo ma era troppo tardi per sentirsi tradita, troppo tardi per soffrirne, troppo tardi per fare scenate. Appoggiò la borsa sul bancone della cucina e si tolse il cappotto. Si legò un grembiule alla vita e ispezionò il frigo: due bistecche belle alte lasciate a scongelare in un tegame, la carta bianca della macelleria macchiata di succo rosso. Le tirò fuori, le mise sulla bistecchiera e regolò la temperatura. Di sopra sentì il passo soffice di due piedi nudi, lo sciacquone del bagno, l’acqua che scorreva nei tubi. Capiva vagamente che era spossata e incapace di opporre resistenza, che la sua vita era un sogno e che qualunque cosa le capitasse andava perfettamente bene. Punzecchiò le bistecche con una forchetta, le salò e le mise in forno, facendo partire il timer.

Bill scese di sotto. «Non c’eri».

«Ero in paese», disse lei.

Lui si sedette a tavola. Mise di fronte a sé una forchetta, un coltello e un tovagliolo.

«Non è che quella può restare di sopra tutta la sera», disse Dorothy.

«No, in effetti no». Bill stava diventando timido, mansueto: era un vecchio sketch, una farsa da camera da letto, e la familiarità lo svuotò, per un attimo, della sua ferocia.

«Yolanda», gridò verso il piano di sopra.

Lei scese. Si era pettinata i capelli e sotto la luce del corridoio splendevano di un nero corvino, quasi blu. Indugiò per un attimo in cucina, guardandosi intorno, poi sfiorò la spalla di Bill e uscì.

Dorothy servì la cena. Mangiò in silenzio. Tagliando la carne a pezzetti precisi, ascoltando i denti della forchetta che raschiavano contro il piatto, la lama dentellata del coltello che segava la carne, guardando l’ombra della mano di Bill che si alzava e si abbassava sul tavolo. Quando ebbero finito, sparecchiò e cominciò a pulire. Bill si versò qualcosa da bere e rimase dietro di lei, appoggiato al bancone. Bevve un sorso dal bicchiere, il ghiaccio tintinnò e il suono colpì Dorothy alla base della nuca. Le scese lungo tutta la spina dorsale.

«Che facevi in paese?»

Lei notò un granello di pepe che galleggiava nell’acqua sporca dei piatti. Lo tirò su con due dita.

«Hai deciso di non parlare più?»

Lei si mise d’impegno a strofinare con la spugna una forchetta, anche se era già pulita.

«Che buffo», disse Bill. Ma non spiegò cos’era che trovava buffo.

Dorothy aveva la vaga impressione che se avesse continuato a fare i piatti, se avesse continuato a infilare la mano nel lavello, aprire il rubinetto e lavare coltelli e forchette, alla fine Bill l’avrebbe riconosciuta, avrebbe visto in lei qualcosa di vecchio e familiare, e quella sarebbe stata la sua salvezza.

«Che cazzo», disse Bill. Morse un cubetto di ghiaccio, che scricchiolò sonoramente nella sua bocca aperta.

Lei si immaginò a preparare impasti di torte, versare cucchiaiate di mirtilli nelle formine per i muffin, infornare panini e pagnotte, arrostire un pollo, mettere uno stufato sul fuoco. Si immaginò a rivestire gli scaffali degli armadi di carta pulita, a stirare le camicie buone di Bill e disporre riviste a ventaglio sul tavolino davanti al divano. Si immaginò a passare l’aspirapolvere, raccogliere da terra spille da balia, fermagli, bottoni, chinarsi per infilarsi in tasca un penny che, dopotutto, forse le avrebbe portato fortuna.

Tirò su un piatto dal lavandino e poi dovette farsi forza per resistere. Si sentì venire addosso la rabbia di lui prima ancora che arrivasse: un’improvvisa immobilità. Il pugno le arrivò su una guancia, vicino all’occhio. Il piatto ricadde nell’acqua, nella schiuma del detersivo. La forza del colpo la fece girare. Lui aveva ancora il pugno chiuso e se lo portò alla bocca, mordendosi una nocca sbiancata. Poi abbassò le mani lungo i fianchi e cominciò a tremare fortissimo, come se stesse facendo una sofferta imitazione di qualcuno che piange; ma non aveva lacrime negli occhi, erano asciutti, secchi come la pietra.

«Abbracciami», la implorò.

L’abbraccio fu solo il ricordo di un abbraccio, una lezione mandata a memoria e ripetuta a pappagallo. Lui l’aveva picchiata, ma era troppo tardi per toccarsi. Bill si sedette sulla sua poltrona e Dorothy uscì dalla porta. C’erano ragnatele tese da una parte all’altra del sentiero, che trattenevano sui loro fili un po’ della pioggia che aveva cominciato a cadere. Dorothy ci passò in mezzo rompendole, alla cieca.

Quando Homer andò ad aprire alla porta, le chiese immediatamente: «Che è successo?» Ma lo sapeva già. Fece sedere Dorothy su una vecchia sedia a dondolo che era stata di suo nonno. Spinse la sedia avanti e indietro e le disse: «Puoi restare qui, se vuoi».

«Me ne voglio andare».

«Mi dispiace tanto».

«Non mi ricordo più niente. Niente, capisci?»

Homer scomparve dentro la cucina e ne riemerse con una pezza umida. Ci infilò al centro due cubetti di ghiaccio e appoggiò l’involto sull’occhio di Dorothy, che iniziava a gonfiarsi.

«Vorrei che ci fosse qualche rivelazione», disse Dorothy. «Qualcosa che mi potessi dire sul conto di Bill che ancora non so».

«Non ci sono scuse».

«Non è solo la bambina».

Dorothy non era mai stata al piano superiore della casa, ma aveva indovinato: il letto di Homer era rifatto a puntino, una grossa coperta comprata dagli indiani Umpqua era stesa senza una piega sopra il materasso e due cuscini con le federe verde chiaro erano appoggiati sotto la testiera, stranamente in attesa. Homer viveva da solo da così tanto tempo che Dorothy si era quasi immaginata che avesse tolto uno dei cuscini, se ne fosse sbarazzato come se fosse stato superfluo, ridondante, assurdo. E invece aveva due cuscini, e anche due comodini con abat-jour identiche ai lati del letto.

Andò in bagno. C’era un pettine nero posato sul bordo del lavandino. Due asciugamani puliti sopra un termosifone argenteo. Sulla parete sopra la vasca da bagno era appesa una foto di Jacinta. Homer la stava sollevando in alto, sopra la sua testa, nel cortile dietro casa, accanto al melo. Quel melo, le aveva detto, era stato il primo di tutto il frutteto, piantato da suo nonno, ordinato ancora piccolissimo da un catalogo. Accanto alla foto di Jacinta ce n’era una molto vecchia, dei tempi in cui tutto il mondo veniva immortalato con una dolce sfumatura dorata: il nonno di Homer accanto all’alberello, che indicava fiero i rami minuscoli e spogli, ancora semplici stecchetti. Alle sue spalle lo sfondo era poco chiaro, ma più vicino c’era un campo pieno di ceppi appena tagliati. In un angolo della foto arrivava l’ombra di chi l’aveva scattata, una sagoma scura e incappucciata che dava alla scena un’atmosfera di silenzio.

Nella camera da letto le finestre erano aperte.

«Non piangere», disse Homer. «Vedrai che si sistema tutto».

La prese per la vita e si chinò per baciarla sotto il colletto aperto della camicia. Quando scansò il tessuto e infilò un dito sotto l’orlo di pizzo del reggiseno, il petto di lei ebbe un sussulto: tremava per il freddo e per il semplice fatto di ritrovarsi così scoperta. Le tende si alzarono. Una piuma marrone e bianca svolazzò sopra un piccolo scrittoio e si posò a terra. Homer chiuse le finestre e Dorothy continuò a spogliarsi. Quando rimase nuda, la sua pelle sembrava incredibilmente bianca, come qualcosa che fosse rimasto a lungo sepolto. Homer la fece sedere sul bordo del letto e le chiese: «Sei sicura?» Ma non era una domanda a cui lei era davvero in grado di rispondere. Homer si spogliò, appendendo la camicia nell’armadio e ripiegando i pantaloni sullo schienale di una sedia. Una monetina gli cadde dalla tasca e rotolò via girando in tondo, fino a fermarsi tremolando sotto il letto.

 

Dorothy era tornata a casa e stava aspettando l’alba quando arrivò la telefonata: un gruppo di escursionisti si era perso in un’insolita bufera di neve primaverile che aveva colpito il versante occidentale della montagna.

Mentre Bill si vestiva al piano di sopra, Dorothy mise su il caffè. In una specie di trance rituale, riprese dove aveva lasciato la sera prima, strofinando i piatti con gesti lenti e circolari. Sulla ceramica c’erano isolette bianche di grasso freddo. Li passò sotto l’acqua bollente e vide le isolette sciogliersi, staccarsi e scivolare via. Asciugando un piatto con uno strofinaccio si rese improvvisamente conto che li aveva sempre puliti in senso antiorario, come se la pulizia fosse il contrario del tempo, un’azione che andava nel senso opposto. Fuori dalla finestra della cucina c’era un tralcio di convolvoli attaccato al telaio esterno; al di là di quello, Dorothy non scorgeva nulla se non una luce grigia e nebulosa. Sul vetro della finestra si vedeva ancora benissimo il suo riflesso: la chioma disordinata di capelli rossi, il pendio bianco della gola che si incurvava scomparendo alla vista. Un livido grigio le chiudeva l’occhio sinistro. Dorothy si sorprese a guardarsi e, riconoscendosi con un leggero shock, abbassò la testa, infilando la mano nell’acqua calda per prendere un altro piatto.

Mentre si vestiva, Bill percorse mentalmente le successive ventiquattr’ore, visualizzando l’operazione di soccorso, seguendola per filo e per segno fino al momento del trionfo e del successo. Aveva fatto interventi del genere un numero infinito di volte, spesso alla ricerca di gente che conosceva ma il più delle volte per trarre in salvo sconosciuti, il che era peggio, perché non poteva prevedere cosa avrebbero pensato o se sapevano qualcosa delle tecniche di sopravvivenza. Gli escursionisti scomparsi erano cristiani provenienti da un ritiro spirituale di Portland, e dato che era primavera, pensò Bill, si erano stupidamente fidati della presunta benevolenza della stagione: avevano scalato la montagna con un’attrezzatura leggera, cantando le lodi di Dio durante il cammino, e forse la neve, nel weekend di Pasqua, gli aveva ricordato la resurrezione o l’agnello o le ali degli angeli in volo. Bill Hughes aveva visto abbastanza altarini commemorativi sul bordo dei sentieri – ne aveva eretti parecchi lui stesso, con sassi, pietrisco e due bastoncini incrociati – per sapere quanto fosse inutile rivolgersi a un Dio personale in situazioni del genere.

Per Bill non esisteva il concetto di «perdersi»: esistevano solo vari gradi di incertezza. Il gruppo aveva lasciato il campo base due giorni prima: ciò significava duemila metri, duemila e tre, forse duemila e cinque. Con un margine di tre, quattrocento metri al massimo; la regola era: restare fermi in un posto. Quelli che continuavano a marciare spinti da una qualche folle speranza non venivano ritrovati fino al disgelo estivo – ossa, un coltellino, una bussola – o addirittura anni dopo, congelati nel loro ultimo gesto, rannicchiati come feti in un grembo di ghiaccio. Oppure non venivano ritrovati mai più: un sogno, una cosa su cui interrogarsi, per sempre. Lui aveva già fatto quella scalata altre volte, aveva smesso di contarle una volta arrivato a cento, e aveva visto gente – pazzi scatenati – farla in calzoncini e scarpe da tennis alla fine dell’estate. Senza neanche pensarci troppo, prendeva forma un certo scenario: la neve primaverile era pesante e scendeva facilmente verso il basso, la neve fresca bagnata conteneva poca aria, e Bill pensò allo spazio necessario per respirare, alla compressione del torace, alla neve che saliva e si chiudeva attorno alle costole come una morsa.

Sopra il suo comodino era attaccata una cornice con una frase di Ben Franklin ricamata all’uncinetto: «C’è chi si intende di tempo, e chi di altro».

Anche Dorothy ormai si intendeva di certe cose. A seconda della situazione, e le variabili erano tante – variabili legate all’esperienza e all’età, alla fede e alla tenacia, ai cambiamenti improvvisi del tempo – Dorothy sapeva che la speranza durava intatta per ventiquattr’ore. Gliel’aveva spiegato Bill. Tutti avevano quelle ventiquattr’ore; ma dopo, il pericolo più letale era l’ipotermia: la temperatura del corpo sempre più bassa, la difficoltà di parola, i vuoti di memoria, un tremito incontrollabile che si trasformava lentamente in una stordita insensibilità e nella perdita di coscienza. «Quando la temperatura corporea raggiunge i 32 gradi», le aveva detto Bill, «il cuore batte solo tre volte al minuto». Ventiquattr’ore: da quel punto in poi, la speranza e l’ottimismo diventavano un debito, come soldi presi in prestito che venivano spesso restituiti dopo un bel pezzo sotto forma di delusione e rimpianto. Dorothy sapeva anche questo. I postumi di una missione di salvataggio fallita erano intollerabili. Tutte le donne, le mogli e i membri del gruppo parrocchiale si riunivano in casa di questo o di quello a preparare da mangiare per i soccorritori, consapevoli dell’impotenza, della pochezza del loro sforzo – facevano il caffè, infornavano torte, preparavano stufato e panini, rispondevano al telefono, pregavano, aspettavano – le donne facevano quello che sapevano fare, ma in realtà i loro sforzi non servivano a nulla. Lo capivano, e nell’aria c’era sempre un senso di rimozione: chiacchieravano di mercatini dell’usato, telenovele, conserve. Nel parlare, erano come esploratori in cerca di un passo agevole, di un sentiero che girasse intorno alla montagna che si ergeva in mezzo a loro, incombendo sulle loro teste come una sorta di silenzio.

Dorothy si asciugò le mani sul grembiule e accese la radio. La porta della camera da letto si chiuse. Bill percorse a passi pesanti il piano di sopra. Dorothy lo ascoltò scendere le scale, il cuore le batteva a ritmo con i piedi che calpestavano i gradini.

Bill si fermò sulla porta, riempiendola.

«Ti preparo qualcosa da mangiare?», chiese Dorothy.

«Devo andare, Dot», disse Bill. Si stava difendendo contro le sue obiezioni. Si aspettava che gli opponesse resistenza, ma Dorothy non lo fece. Bill aprì con un calcio la porta con la zanzariera ma restò lì, lasciando che si richiudesse sbattendo.

«Non ho scelta», disse.

«Capisco», rispose lei, e allungò la mano nel lavandino per lavare un altro piatto. Lo mise ad asciugare sullo scolapiatti. Si sentivano cantare dei pettirossi sul vecchio melo nodoso, un’ombra grigia nel cortile sul retro. E cominciavano ad apparire anche altre forme: la carriola rovesciata su un lato, il telo giallo di una sedia a sdraio, il bordo azzurro di un secchio di plastica. L’acquazzone della sera prima aveva formato pozzanghere argentee negli avvallamenti del terreno.

Bill fece voltare la moglie verso di sé e vide che stava piangendo. Il suo dolore era lontano un milione di chilometri; con un dito le asciugò una lacrima dalla guancia. Poi avvicinò il pollice alla bocca di Dorothy e lei leccò la lacrima, assaporandone il sale, e sentì la pelle ruvida di Bill strusciare contro il suo labbro bagnato.

Bill sollevò le mani e le guardò come se stesse immaginando con grande nitidezza di sorreggere qualcosa. Poi le lasciò cadere, vuote. Quando chiuse la porta con un colpo secco, nella cucina si sparse un odore di legno di cedro freddo e bagnato. Mise in moto il camioncino sul vialetto. Dal tubo di scappamento si levarono nubi di fumo bluastro e il motore sferragliante fece dondolare lo chassis come una culla. Mentre il motore si riscaldava, Bill gettò sul piano di carico qualche ciocco di legno preso dalla catasta per il camino, in modo da appesantire il veicolo e migliorare la trazione. Poi partì, coi rami dei lillà che gli sferzavano il parabrezza, e imboccò la strada che portava in paese.

Dorothy si appoggiò contro il lavandino. Tuffò le mani nell’acqua grigiastra alla ricerca di un altro piatto, ma aveva finito. Tolse il tappo dello scarico e guardò l’acqua che veniva risucchiata giù e spariva, poi pulì il filtro.

 

Nel tardo pomeriggio si fece accompagnare in paese da Homer. Tutte le vetrine dei negozi erano state decorate con scene pasquali: coniglietti che saltavano in mezzo a prati verdi, un Gesù che levitava sopra un sepolcro vuoto, salendo fra le nuvole. Mentre attraversava la strada accanto a Homer, sentì il palmo della sua mano premerle delicatamente la curva del fianco. All’altezza del marciapiede le finestre del bar erano tinte di scuro, fatta eccezione per una sorta di spioncino a forma di rombo. Homer tenne aperta la porta per farla passare. Alcuni vecchi avventori si voltarono verso la luce improvvisa, socchiudendo le palpebre, poi tornarono a chinarsi sulle birre. Dietro il bancone, la piastra sfrigolava e una densa nube di fumo si arricciava sotto la cappa intasata. A Dorothy una volta era stato presentato il barista. Come si chiamava, Talbot? No, in un altro modo. Un cugino, un nipote di qualcuno. Girò un hamburger, poi si spostò ciabattando lungo il bancone, ripulendolo con uno straccio. Salutò Homer e guardò Dorothy.

«Sono Dorothy Hughes», disse lei. «Dot Hughes, la moglie di Bill. Ci siamo già conosciuti, una volta».

«Dotty», disse lui, ricordandosi. «Ho sentito che ci sono dei ragazzi nei guai, lassù».

Gli altri avventori alzarono la testa ma appena incrociarono il suo sguardo la riabbassarono. Il bar aveva un’atmosfera sonnolenta da tempo di guerra: vergogna, letargo, come se solo gli inabili al servizio fossero rimasti indietro, isolati, e lo sapessero benissimo.

«Ci sono novità?», chiese Homer.

«Solo la radio e il giornale», disse il barista. «Telefonate niente, per ora».

Strizzò lo straccio e ne sgocciolò dell’acqua color ruggine. Dorothy ordinò un hamburger. Il barista tornò alla piastra, ne girò uno, lo premette per farne uscire il grasso. Da dietro la spalla disse: «Ma credo che ne arriveranno nel giro di poco». Schiacciò le due metà di un panino su dei tocchi di burro sfrigolanti, parlando da solo, adesso, in mezzo alla debole corrente del fumo grigio che saliva e si apriva a ventaglio in pigri arabeschi.

Homer andò a fare una telefonata. Arrivò il piatto di Dorothy.

«Offre la casa», le disse il barista.

Era bello mangiare. Lo fece lentamente. L’Oregonian del pomeriggio era già stato consegnato e ne esaminò una copia: la prima pagina, la notizia. Cercò nomi familiari nell’elenco dei dispersi, ma non ne trovò. Ispezionò con gli occhi le parole nere nere dei titoli in grassetto, poi sprofondò negli intervalli, negli spazi bianchi. Disegnò uno schizzo della montagna, la intagliò con una matita. Dentro ci scrisse:

 

Dot

 

Dotty

 

Dorothy

 

Ordinò un’altra birra e guardò Homer: era ancora al telefono. Era qui che sarebbe venuto Bill, con la squadra di soccorso, dopo la missione. Se fallivano, gli uomini restavano sulla montagna più a lungo, due, tre, quattro giorni, molto più di quanto fosse ragionevole. Per paura di ammettere la verità restavano lassù a cercare, in un silenzio tetro, ostinati, soli nel loro mondo. Nessuno voleva essere il primo ad arrendersi, e quando alla fine rientravano, esaurite anche le ultime illusioni, si sedevano tutti insieme a un tavolo in fondo alla sala.

«Non voglio che te ne vai», disse Homer.

«Restare con te?», disse Dorothy. «Sarebbe impossibile».

Lui annuì. «Ti mando quanto prima quello che ti serve».

«Me la caverò».

Aveva solo quello che c’era nel borsone da viaggio, nell’armadietto. I galleggianti li aveva lasciati a casa, e sapeva che Bill li avrebbe tolti da lì, avrebbe cominciato a smantellare la sua presenza come aveva fatto con quella di Jacinta, finché non fosse rimasta traccia di nessuna delle due. La cucina, senza i galleggianti, sarebbe diventata una semplice stanza bianca, un po’ squallida e piccola. Il suo primo galleggiante, di una sfumatura di azzurro slavata dal mare, l’aveva trovato impigliato in un groviglio di alghe sulla spiaggia di capo Alvarez; nel corso degli anni, ne aveva raccolti altri dai rigattieri, nei mercatini delle pulci e nelle vendite improvvisate di chi svuotava il garage, e ancora si ricordava, per ciascuno, il giorno in cui l’aveva scoperto. Spesso si chiedeva quale calamità aveva staccato il galleggiante dalla rete, quale incidente l’aveva strappata, a mezzo mondo di distanza, per far sì che il galleggiante se ne andasse alla deriva nella corrente per tutto il Pacifico finché un’onda non l’aveva depositato sulla riva: un gioiello trovato sulla spiaggia e conservato in casa di qualcuno, custodito con cura per qualche tempo e poi di nuovo buttato via; lei aveva sempre avuto fantasie romantiche di mari aperti, squali e pescherecci naufragati.

La luce fuori dal bar era di un biancore scioccante, e Dorothy si fermò per un attimo, inebetita, riparandosi gli occhi con la mano. Attraversò la strada. Nella sala d’attesa trovò il borsone. Quel weekend c’era tanta gente che partiva. Era Pasqua. Vide delle ragazzine con indosso vestiti pieni di gale, le calze di cotone bianco, le gonne a campana e dei guantini eleganti, le punte delle dita già macchiate di nero benzina per tutte le cose sporche che avevano toccato in quella stazione decrepita.

«Magari ti vengo a trovare», disse Homer.

«Sì, mi farebbe piacere». Dorothy sollevò il borsone.

«Bill mi chiederà dove sei andata. Lo vorrà sapere».

«Digli quello che ti sembra giusto».

Salì sul pullman e fece ciao a Homer dal finestrino. Il pull­man partì e lei si aggrappò a un poggiatesta per non perdere l’equilibrio. Mentre il pullman risaliva la gola del Columbia, diretto verso l’autostrada e poi a nord, Dorothy guardò la montagna. Non sapeva bene cosa facevano gli uomini lassù, esattamente. Spesso a bassa quota usavano i cani, ma in quella zona alta e bianca, spazzata da venti di bufera e ricoperta di neve, era difficile, se non impossibile, trovare delle impronte o degli odori, e quando ce n’erano, non duravano a lungo e ci voleva poco a perderli. Sapeva che usavano lunghi pali di alluminio e li spingevano in profondità negli strati più soffici di neve, sperando in un contatto, sperando di toccare qualcosa di solido. Incontrare resistenza gli dava energia, accendeva la speranza, ma spesso si trattava solo di una roccia sepolta, una lastra di ghiaccio spezzata, della terra. Con il passare del tempo, la minima traccia dava vita alle più esagerate aspettative. Solchi e incavi nella neve apparivano come impronte di passi vaganti sulle bianche distese deserte, e le nuvole, spostandosi nel cielo, gettavano rapide ombre scure che sembravano in movimento, vive. I cumuli di neve ammassati dal vento prendevano la forma di corpi rannicchiati, e una folata che sibilava sopra una sporgenza rocciosa pareva un debole grido d’aiuto. Oppure, in quegli improvvisi, attutiti silenzi che a volte calano su in montagna, quando il vento muore e tutto resta sospeso in una quiete cristallina, capitava che qualcuno sentisse il pulsare delle proprie vene e lo scambiasse per il battito del cuore di un altro.