Qualche ora prima, quella sera, mi ero messo a fare esperimenti, cercando di creare degli alberelli di rametti e muschio norvegese. Lavorare ai modellini mi costava una pazienza enorme, perciò quando la porta della cucina si aprì e sentii piangere Sarah mi presi un breve time-out, secondo una tecnica che ci avevano insegnato al corso per futuri genitori: chiusi gli occhi e contai fino a dieci prima di riaprirli. Se ne stava lassù, in cima alle scale, ferma e muta, con la luce della cucina che proiettava la sua larga ombra sui gradini del seminterrato. Sapevo che non sarebbe mai venuta giù da sola: erano settimane, ormai, che Sarah non arrivava a vedere dove metteva i piedi, e quegli scalini, tutti gobbe irregolari e pendenze traballanti, non ce la faceva ad affrontarli. Mi concentrai sul montaggio di uno scambio e dei binari di raccordo per la mia ferrovia in miniatura, sistemando un tratto di rotaie a Y che si apriva in due direzioni: un ramo portava verso una città che un giorno speravo di costruire, l’altro non andava da nessuna parte, serviva soltanto a parcheggiarci i treni non in servizio. Il mio modellino è in scala N, e mentre ero chino sul tavolo a cercare di agganciare fra loro quei maledetti connettori microscopici, Sarah soffocò un singhiozzo e disse: «Neal, è per te».
«Chi è?», feci io.
«È Mike», rispose lei.
Salii di sopra.
«Mike, dimmi».
«Neal, ciao... è morto Flajole».
Rimasi fermo lì, a scrostare un angolino di formica dal ripiano della cucina. La formica si arricciò e si piegò, tenuta da filamenti di vecchia colla, poi si staccò di colpo.
«No», dissi. «Stai scherzando».
«Magari», disse Mike. «Magari».
Guardai Sarah che mi guardava a sua volta. Era tardi. Fuori passò un autobus a tutta velocità. Da lì a ventitré minuti, salvo ritardi, avremmo sentito il prossimo. Stavo cercando di ricordarmi quanto tempo era che non vedevo Flajole: quattro anni, cinque?
Mike mi stava raccontando cos’era successo. Negli ultimi tempi Flajole aveva preso l’abitudine di comprarsi una confezione da sei birre, mettersi in macchina e andare in giro scolandosele fino a che non gliene restava una sola. Come in un gioco, la distanza raggiunta dipendeva da semplici fattori, era una funzione della velocità e della sete. Poi faceva dietro-front e si beveva pian piano l’ultima birra sulla strada verso casa – dove «casa» era una bicocca presa in affitto lungo il fiume. A detta di Mike, la sera che Flajole era morto si era diretto verso le montagne e mentre stava facendo inversione all’altezza del passo Snoqualmie aveva sfondato il guard-rail con il Maggiolino ed era finito giù per una scarpata. La macchina era rotolata per una trentina di metri, cappottandosi più volte, si era fermata dritta e aveva preso fuoco. Flajole era morto bruciato. Era morto nell’incendio, ne erano sicuri, perché aveva ancora la cintura di sicurezza allacciata e dall’autopsia gli organi vitali risultavano tutti più o meno intatti.
«Il funerale è domani», disse Mike.
Dedussi che l’argomento era chiuso e non ci fosse altro da dire. Riagganciai. Sarah stava bevendo il suo tè della buonanotte. Aveva rinunciato alla caffeina.
«Aveva chiamato qui la settimana scorsa», disse. «Avevamo parlato».
Il giorno dopo, mentre ci vestivamo per il funerale, Sarah chiese: «Perché doveva succedere proprio adesso?»
«Non ha niente a che fare con te, Sarah, levatelo dalla testa». Tirai il capo più corto della cravatta finché non sentii il nodo stringermi la gola. «Non trasformare questa storia in qualcosa che non è», dissi.
Arrivammo in anticipo. Alcune delle stesse suore che ci facevano da insegnanti alle medie erano già sedute a sgranare i rosari con un ticchettio da ferri da calza nel silenzio della chiesa. Accompagnai Sarah a uno dei primi banchi e poi uscii ad aspettare il carro funebre. Le pietre bianche della chiesa di St. Joseph si alzavano in mezzo alla nebbia e alla pioggerella grigia del mattino, e le campane rintoccavano con il suono distante e sonnolento delle boe. Flajole si sarebbe fatto una risata, a sentire le campane che suonavano per lui. Fermo sotto la pioggia, guardai la gente che entrava in chiesa, salutando con un cenno quelli che conoscevo. Il carro funebre accostò al marciapiede e la bara ne scivolò fuori su un carrello: una cassa bluastra con le rifiniture argentate. In sei la portammo su per le scale della chiesa, fermandoci un attimo sotto la pioggia mentre padre Thomas agitava l’aspersorio, spruzzando il feretro di acqua santa. Poi accompagnammo Flajole lungo la navata e presi posto accanto a Sarah.
Era una cerimonia cattolica con tutti i crismi: sopra di noi le pesanti travi del soffitto si congiungevano come l’armatura arcuata dello scafo di una nave, e i banchi affollati della chiesa erano disposti in file come le panche per gli schiavi che remavano sui galeoni: noi tutti eravamo in viaggio per mare, Flajole era il carico e la destinazione la vedevamo attraverso le vetrate colorate, le solite vecchie scene della passione di Cristo: la casa di Pilato nell’angolo in fondo alla chiesa, il monte Calvario di fronte a noi. Suor Celestine, la preside della nostra scuola media, parlò stringendo forte il pulpito con le mani, battendo di tanto in tanto le nocche sul messale, e il suo discorso si levò sopra i piccoli rumori della folla, i pianti e i mormorii come la professionalissima esposizione di una guida turistica, soffermandosi sui punti di maggior interesse della vita cattolica.
Io li conoscevo tutti. St. Joseph era la chiesa dove eravamo stati battezzati, eravamo andati a messa per la prima volta, ci eravamo confessati, avevamo fatto la comunione e la cresima, e dove, in una modesta cerimonia cinque anni prima, io e Sarah ci eravamo sposati. E ora, il funerale di Flajole.
Mancava solo una cosa. La bara era chiusa, ovviamente, e il corpo del defunto non sarebbe stato esposto, ma dopo averla portata in spalla e sentito com’era leggera, continuavo a chiedermi cosa ci fosse lì dentro, a immaginare Flajole tutto nero e abbrustolito steso su un letto di soffice seta blu. Mi domandavo se gli avevano incrociato le mani in un gesto di preghiera e ci avevano messo in mezzo un crocifisso. Così avrebbe voluto la tradizione, ma Flajole non era credente. Penso che non credesse in nulla se non in se stesso. Lo immaginavo molto simile alla mummia di un principe bambino che avevo visto una volta in un museo: un affarino rattrappito, con la carne scura e grinzosa come una striscia di carne di manzo affumicata. Senza poter dare un’occhiata al corpo, però, tutta la funzione sembrava irreale, una semplice prova in costume: quando la cerimonia finì e padre Thomas sbatacchiò l’incensiere, sollevando nubi nere e dolciastre sopra la bara, fu come essere distratti da una sorta di abile trucchetto da prestigiatore. Mi sentivo imbrogliato e vuoto. Avrei voluto la verità. Avrei voluto guardarlo per l’ultima volta.
Sarah mi raggiunse sul sagrato. Stava ancora piovendo, e nell’aria grigia il suo viso, incorniciato da un velo nero di crespo le cui pieghe le fiorivano attorno come petali di rosa, appariva particolarmente pallido e privo di forze.
«Non è stato tanto male», disse. «Mi è piaciuto il discorso di suor Celestine».
«A Flajole avrebbe fatto schifo», risposi io. «Non sarebbe venuto».
«E invece c’era», disse Sarah.
La bara era nel carro funebre, infilata in modo da poterla estrarre e trasportare dalla parte dei piedi. Secondo l’usanza cattolica, il defunto va portato alla tomba per i piedi. Di questo genere di cose ero un esperto. Avevo fatto il chierichetto per otto anni, servendo messa a molti funerali, il sabato. Trasportare il defunto con i piedi in avanti distingue il funerale dal modo in cui veniamo al mondo, dato che il parto più semplice è quello in cui il neonato esce dalla parte della testa. Lo sapevo anche perché il dottore aveva appena comunicato a Sarah che il nostro bambino sarebbe uscito capovolto: un parto podalico.
«E tu che ne pensi?», mi chiese.
«Non lo so», feci io. «È stato un bel funerale, direi».
«Non fare il duro, Neal. In questo momento non lo sopporto proprio».
Sarah si aggiustò leggermente il velo.
Ci avviammo al parcheggio. Io accesi i fari e seguii la lunga processione di macchine fino al cimitero. Una volta lì, sulla bara furono ammucchiati mazzi, ceste, corone, bouquet di fiori: sembrava un carro da parata. Ascoltai le preghiere e i singhiozzi, sostenni Sarah quando scoppiò a piangere. Ai piedi della collina vidi un escavatore che apriva un’altra fossa, le zolle di terra calda che svaporavano nell’aria fredda.
Tornando dal rinfresco, Sarah disse: «È inquietante. La settimana scorsa, quando ha telefonato, abbiamo semplicemente parlato. Una conversazione normalissima, quattro chiacchiere, mi spiego? Eppure, a ripensarci, mi sa che c’era qualcosa di più».
Guardavo le spazzole dei tergicristalli fendere la pioggia. «Di che avete parlato?»
«Di niente».
«Ha fatto delle allusioni precise?»
«No, è solo una sensazione», disse Sarah. Disegnò una croce sul punto del vetro, sempre più ampio, che stava appannando col fiato. «Perché avrà chiamato dopo tutto questo tempo? Così all’improvviso?»
«E se Flajole non fosse morto?», le chiesi. «Che ne dici? Ti faresti le stesse domande?»
Sarah si accigliò, premette il viso contro il finestrino. «Deve proprio continuare a diluviare così?»
Io mi allungai verso di lei e provai a darle un bacio.
«Guarda la strada, per favore».
Al rinfresco mi ero bevuto qualche bicchiere di punch e avevo parlato con un sacco di gente che non vedevo da anni. Avevo aggiornato tutti quanti come meglio potevo, sintetizzando al massimo: mia moglie, il lavoro, il bambino in arrivo. Avevo evitato di parlare di Flajole finché la madre non era venuta da me, stringendomi le mani.
«Signora Flajole, come sta?»
«Abbastanza bene».
«Mi dispiace tanto».
«Lo so. Eravate buoni amici». La signora Flajole si frugò nella borsa. Era un donnone che aveva tirato su nove figli quasi da sola. Il signor Flajole era stato un padre negligente; quando era morto, anche quella era sembrata un’evasione, una scappatoia. «Ho una cosa per te», disse la signora Flajole, ancora rovistando nella borsa: quel genere di borsa enorme che la madre di una famiglia numerosa si abitua a portarsi sempre appresso, come un’appendice del proprio corpo. «Io sento che adesso è al sicuro, Neal. L’ho sentito la sera stessa che è successo. Nell’attimo in cui è squillato il telefono. L’ho capito subito. Mi è sbocciata dentro una grande calma».
Mi porse diverse fotografie. «Ho pensato che le volessi tenere per ricordo». La ringraziai, e poi qualcuno ci raggiunse e trascinò la signora Flajole in un angolino riparato del caffè. In una foto c’eravamo io e Flajole dentro una casa su un albero, in un’altra eravamo in posa da teppisti appoggiati al cofano della sua macchina. Me le infilai nella tasca del giaccone e mi misi a cercare Sarah dappertutto, ma nessuno l’aveva vista.
La trovai in chiesa. Era inginocchiata al primo banco con la testa china e le mani giunte. Dopo un periodo di dissolutezza, Sarah era diventata una rigorosissima credente. La sua rinata fede nella chiesa mi sembrava un po’ paradossale, dato che ero stato io a proporre di ricominciare ad andare a messa. Adesso ci va da sola. Mi incamminai tra le file di banchi verso Sarah, ma poi decisi di sedermi ad aspettare in fondo alla chiesa. Per un antico riflesso mi inginocchiai, e una volta in quella posizione ci rimasi. Pensai alla mia vecchia fede, che aveva subito la stessa sorte della fatina dei denti: all’inizio era divertente e proficua, qualcosa a cui guardare con entusiasmo, poi aveva cominciato soltanto a ripagarmi di cose che avevo perso e ormai, ripensandoci, mi rendo conto che era soltanto un trucchetto da bambini, una specie di gioco delle tre carte, e così oggi, quando poso la testa sul cuscino con lo sguardo rivolto all’oscurità sopra di me, l’unica cosa in cui ripongo le mie speranze è una bella notte di sonno.
Dopo il funerale di Flajole, Sarah cominciò ad andare a messa tutti i giorni. Le prime mattine si alzava e usciva di casa prima ancora che mi svegliassi, e mentre era fuori io mettevo su il caffè, preparavo la colazione e ingannavo il tempo leggiucchiando il giornale. La cosa si ripeté per vari giorni, finché un mattino non mi svegliai prestissimo e mi misi ad aspettarla in cucina. Quando le chiesi come mai andava a messa, lei mi rispose con tono secco che ogni causa ha un suo effetto.
«E io sto cercando di accumulare buone cause», disse.
Io bevvi un sorso di caffè e guardai fuori dalla finestra. Otto mesi prima, quando avevo saputo che Sarah era incinta, non le avevo esattamente proposto di abortire. Questo non l’avevo detto. Ma la domanda che avevo fatto era se potevamo permetterci o meno di avere un bambino. Eravamo pronti, era il momento giusto? Nella mia testa, la risposta più cieca e immediata era no, ma non sono mai stato perdonato per il mio momento di dubbio sulla questione, sul nostro primo figlio, e Sarah, che ormai è quasi alla fine del terzo trimestre, porta dentro di sé il bambino come una specie di vessillo e di monito: un vessillo della sua fede, un monito contro la mia. Per questo motivo continuo a rimandare la scelta del nome, rifiutandomi di parlarne, ma Sarah dice che se sarà un maschio vuole chiamarlo come me. Neal Junior.
«Non c’è bisogno che guardi fuori dalla finestra, Neal. Non perdere tempo a far finta di riflettere sulle cose, tanto lo so che non sei d’accordo».
Sarah si riempì una tazza di caffè, se la portò alle labbra e poi la versò nello scarico del lavello. «È la forza dell’abitudine», disse. «Mi manca il caffè la mattina».
«Per una tazza non muori mica», risposi io.
Sarah aveva ragione: a me quel discorso sulle cause e gli effetti pareva superstizioso. Ben presto arrivammo al punto in cui non potevamo più guardare il telegiornale la sera: un incidente aereo a Madrid o un violento colpo di stato in qualche paese assurdo che nessuno aveva mai sentito nominare proiettavano fitte di negatività dalla tv al suo utero. C’erano segni, c’erano presagi. Una mattina particolarmente caotica scoprii che perfino una fetta di toast bruciata poteva gettare ombre sul destino del nascituro. Una fetta di pane di segale si era incastrata fra le serpentine del tostapane, e quando riuscii a tirarla fuori col coltello in cucina si era già formata una nuvola di fumo nero talmente densa che non riuscivamo a respirare. Aprii la porta sul retro per far cambiare l’aria, e quando si fu ripulita Sarah annunciò, come se avesse visto un segnale, che dovevamo cominciare subito gli esercizi.
«Il dottor Harrelson dice che se li facciamo tutti i giorni ci sono buone possibilità che il bambino cambi posizione», disse.
Che il bambino stesse per nascere coi piedi in avanti, rivolto nella direzione sbagliata, per così dire, non faceva altro che stimolarle l’immaginazione. Un parto podalico non è nulla di serio, non pone pericoli alla vita della madre: è un problema che la medicina di oggi può affrontare tranquillamente. Eppure, dopo quella mattina, cominciammo una serie di esercizi che avrebbero aiutato a orientare nella maniera corretta la testa del feto. C’era anche una fiala di essenza di erbe che Sarah aveva rimediato da un qualche agopuntore di Chinatown: un placebo che le spalmavo sui piedi. Dopodiché Sarah, andando a messa e facendo la comunione, si prendeva cura della sua anima e, immagino, anche della mia, purificandole dai peccati e assolvendo il bimbo non ancora nato dai fardelli del mondo: quando fosse arrivato il giorno fatidico, nostro figlio avrebbe avuto dalla sua un mucchio alto così di buone cause e sarebbe partito col piede, anzi, con la testa giusta, tuffandosi a capofitto nella vita, fatta eccezione per la solita macchia, il peccato originale, che il battesimo avrebbe sciacquato via in un secondo momento. Per sicurezza, oltre agli esercizi e alla messa quotidiana, Sarah prese anche altre abitudini. Cominciò a scrivere belle parole su pezzi di carta. «Unità», «Abbondanza», «VITA!», erano attaccate allo sportello del frigo con delle calamite a forma di ananas.
A mano a mano che la frattura tra noi si approfondiva, il mio primo impulso fu quello di farle cambiare mentalità. Poi, come per espiare e dimostrare rimorso, decisi di tenermi a distanza e smettere di lamentarmi o discutere. Esteriormente, mi ritirai nella posizione in cui siamo adesso, uno stallo perpetuo. Ma di fatto cominciai a godermi la libertà e la solitudine che assaporavo nelle ore in cui Sarah non era in casa. La messa cominciava alle sei. E il mio lavoro – al momento faccio l’imbianchino, e guadagno piuttosto bene – non cominciava mai prima delle nove: perciò ogni mattina aiutavo Sarah con gli esercizi, la salutavo quando usciva, preparavo il caffè, prendevo le sigarette e me ne andavo nel seminterrato a trafficare coi miei trenini fino alle otto o giù di lì, quando veniva il momento di caricare in macchina gli attrezzi che mi servivano per la giornata.
Anche se la casa dove abitiamo è in affitto, diverso tempo fa, dopo un anno di esitazione e indugi, ho preso la decisione di costruire un modellino di ferrovia più o meno permanente nel seminterrato, dicendomi che potevo sempre mettermi a smantellarlo quando fosse venuto il momento. Lo stanzone è abbastanza grande, quanto basta per ospitare le quattro tavole di compensato da un metro per due su cui si estendono i miei binari. Per ora ho dipinto le tavole di verde bosco e sistemato quasi trenta metri di rotaie su una massicciata fatta di ghiaia per gli acquari. Con la cartapesta ho costruito una catena di montagne imbiancate di neve e ho dipinto un fiume azzurro che serpeggia di traverso da un angolo all’altro del plastico, sfociando nel blu più scuro del mare. C’è una sola stazioncina, attorno alla quale, prima o poi, spero di costruire la mia città, ai piedi delle montagne. Mi mancano ancora tante cose – gli alberi, le macchine, le strade, i tralicci, le gallerie, i segnali stradali, le fattorie, le case, la gente, i negozi, le fabbriche – ma un sacco di questa roba, anche se è piccola, costa un occhio della testa, specie se uno vuole fare un lavoro coi fiocchi, stando bene attento al realismo dei dettagli. So che mi toccherà mettere insieme il tutto un poco alla volta, ma non mi importa. Provo un piacere enorme anche solo a immaginarlo, a progettare come verrà quando finalmente lo completerò.
Per tutta la vita ho sempre amato i treni. Da piccolo leggevo melensi romanzi storici sull’attraversamento dell’America, su Leland Stanford che piantava il chiodo d’oro completando la prima linea transcontinentale a Promontory, nello Utah, sulle favolose fortune accumulate da uomini come James J. Hill. A volte vado con Sarah a fare un picnic in un parco a nord di Seattle e mi porto dietro una manciata di centesimi e di chiodi da far appiattire sulle rotaie quando passa l’Empire Builder del pomeriggio. Altre volte mi metto seduto da solo sul viadotto di Ballard e guardo i treni merci della Burlington Northern uscire sferragliando dal deposito, quattro o cinque locomotive che trainano una serie infinita di vagoni, con i giunti laschi che si tendono di colpo, sbatacchiando per tutta la lunghezza del treno come tante tessere di domino, e l’ululato triste del fischio quando le locomotive prendono velocità. Sventolo sempre le braccia come un pazzo per salutare il macchinista e il frenatore quando passano sotto di me. In parte è pura eccitazione, in parte è studio: osservo i treni. Scovo dettagli da usare nel mio modellino. Amo allo stesso modo i treni merci e quelli passeggeri, e se ne avessi la possibilità scommetto che mi piacerebbe anche farmi un giretto su una metropolitana; fra i tanti dolci ricordi che ho della luna di miele, devo ammettere che il momento più emozionante è stato la botta di ansiosa esaltazione che ho provato quando io e Sarah abbiamo lasciato la stazione di King Street su una carrozza della Amtrak, diretti a Vancouver per un weekend all’Esposizione Universale.
Stasera, mentre lavavamo i piatti, Sarah ha cominciato a tremare, poi ha avuto una sorta di convulsione in tutto il corpo e una tazza da caffè le è caduta dalle mani, frantumandosi a terra. Avevamo cenato quasi in silenzio. Toccava a me asciugare i piatti. Mi ero messo dietro di lei, pronto con lo strofinaccio in mano. Ho visto il primo brivido silenzioso partirle in mezzo alle spalle, un incresparsi leggero che poi si è trasformato in un’onda. Poteva essere una qualunque cosa: il suo riflesso improvviso nell’acqua sporca dei piatti, il modo in cui tenevo lo strofinaccio. Se la tazza non si fosse rotta, non avrei dato nessun peso alla cosa.
«Sarah, non ti muovere», ho detto.
«Oddio», ha gridato lei. «Oddio!»
Si è coperta il viso con le mani e ha lanciato un urlo.
«È solo una tazza. Non ti agitare».
Mentre andavo a prendere la scopa, Sarah si è accasciata sulle ginocchia, stringendosi la pancia.
«Sarah?»
Non rispondeva. Una goccia di sangue scuro macchiava il punto del linoleum su cui si era inginocchiata. Piangeva e scuoteva la testa di qua e di là, ciocche di capelli le restavano impigliate in bocca. Era irraggiungibile. Mi sono chinato e le ho preso il viso tra le mani, l’ho costretta a guardarmi negli occhi. «Che è successo?», ho detto. «Cosa c’è?» Lei si è morsa una mano. «Cazzo, Sarah, il bambino sta bene?»
«Sì, il bambino sta bene. Non c’entra il bambino, ok?»
«Allora che c’è, Sarah?»
«Oh, cavolo», ha detto.
Le sanguinava un piede. Gliel’ho fatto notare.
Lei ha risposto: «Così non va, Neal».
L’ho aiutata a spostarsi saltellando verso il tavolo della cucina. Si è seduta e con una pinzetta le ho tolto una scheggia di porcellana dal piede. Le ho tamponato delicatamente la ferita con un asciugamano bagnato e ci ho messo sopra un cerotto. Quando ho finito lei ha ricominciato a piangere.
«Sarah, che hai? Che succede?»
«Non te lo posso dire, Neal. Come faccio a dirtelo?»
«Dimmelo e basta, dai».
«Non posso».
«E dai, Sarah...»
Sarah si è alzata e zoppicando è andata in salotto. Io ho preso un bicchier d’acqua. Quando sono entrato era seduta sul divano e si rigirava un filo della federa logora di un cuscino attorno al dito, tirandolo così forte che la pelle perdeva colore. Le ho offerto l’acqua.
«Neal», ha detto. «Tu ci pensi a Flajole?»
«Sì. A volte».
«A me non sembra».
«Una notte l’ho anche sognato».
«E cosa faceva?»
«Bevi un sorso d’acqua, ok?»
Sarah ha bevuto un po’ d’acqua. L’ho sentita deglutire. A terra, tutto intorno a me, erano sparsi una serie di giocattoli per bambini che avevamo già comprato: animali di peluche, palle, cubi, macchinette e camioncini di plastica. I dischi erano appoggiati contro lo stereo come piaceva a Sarah, fuori dalle foderine. Ma quello non era il momento di lamentarsene.
«Allora?»
«Non era un granché, come sogno. Anzi, in verità era abbastanza stupido».
«Raccontamelo».
«Va bene, ecco». Ho chiuso gli occhi per un attimo, per rivedermelo davanti. «Flajole stava riparando una macchina fuori da casa nostra. Era un Maggiolino modificato, con un sistema di scappamento complicato. Aveva smontato una ruota e ce n’era un’altra, piccola, sul davanti, e due grosse dietro. Di punto in bianco se ne usciva così: “Una volta ho provato a smettere di fumare. Ero in seconda media. È stata dura. Non ridere”, mi diceva. Mi diceva così, nel sogno: “Non ridere”. Ma non mi pare che avevo riso».
Ho tirato fuori una sigaretta dal pacchetto e poi l’ho rimessa dentro. Almeno fino a quando non nasce il bambino, posso fumare solo nel seminterrato, oppure fuori, sulla veranda di dietro.
Ho continuato. «Ad ogni modo, poi mi diceva: “Stavo sveglio tutta la notte e non avevo niente da fare. Non riuscivo a dormire. C’erano quegli animali che volano di notte”. Diceva solo così, ma io capivo subito che intendeva i pipistrelli. A quel punto cominciavamo a tirare monetine per aria. E i pipistrelli si fiondavano a prenderle, scambiandole per insetti. E io chiedevo a Flajole: “Non è che conosci qualcuno che si vende un Maggiolino?” Gli spiegavo che non ne volevo uno in versione limitata o truccato, come quello su cui stava lavorando lui. Mi bastava un modello normale. Lui sorrideva. Un attimo dopo, vedevo dei pipistrelli che scendevano dalle montagne».
«E poi?»
«Finiva così».
Sarah mi ha chiesto: «E cosa significa?»
In genere non perdo tempo a rimuginare sui miei sogni, ma su questo qualche vaga idea me l’ero fatta. «Per me», ho risposto, «ci sono un paio di cose molto chiare. Una è che Flajole, nel sogno, stava smanettando su un Maggiolino, ed è proprio la macchina su cui è morto».
«Ma Flajole stava sempre a smanettare sui Maggiolini. Era famoso per questo».
«È vero. Ma su quello lì stava facendo un lavoro serio, e poi mi diceva che aveva provato a smettere di fumare. Per me è come se mi avesse fatto un’ammissione. Non so bene su cosa... magari voleva cambiare. Aggiustare se stesso così come stava aggiustando la macchina».
Sarah ha acceso una lampada, ma tenendola bassa. Fuori era buio, il buio profondo e improvviso che scende a prima sera, d’autunno. C’era anche silenzio. Abitiamo in un quartiere dove la gente smette di far rumore e va a dormire sempre alla stessa ora.
«Aveva paura», ha detto Sarah. «Aveva paura dei pipistrelli».
«No, Sarah, Flajole non aveva paura. Non l’ho mai visto aver paura di niente».
«No, Neal, mi dispiace. Ti sbagli. Faceva sempre tanta scena. Era una posa. Quando la gente insiste tanto, è perché ha qualcosa da nascondere».
Non era vero. In certi periodi Flajole si metteva a vivere in macchina, e per un po’ aveva abitato in un’autofficina, l’officina di Ransom, su Aloha Street. Parcheggiava la macchina da un lato e dormiva dall’altro, su un letto che in realtà non era altro che un materasso appoggiato su degli scivoli. Non ce la fai a vivere così, se sei un tipo pauroso.
«Be’», ho detto, «secondo me nel sogno comparivano i pipistrelli perché i pipistrelli hanno il radar. Ci vedono anche di notte. E Flajole è morto di notte, probabilmente perché non ha visto dove andava. Ricordati che alla fine c’erano tutti quei pipistrelli sulle montagne... lassù dove è morto Flajole».
«Ma nel sogno i pipistrelli vanno a caccia delle monetine», ha detto Sarah. «Non ci capiscono niente. Si sbagliano».
«Anche Flajole si è sbagliato».
«Sai come la vedo io? Secondo me Flajole rappresenta la morte».
Ho spento la sigaretta e ne ho presa un’altra.
«Magari non voleva fare quella parte, magari si rendeva conto che non aveva senso. Ma nel tuo sogno era la morte».
«Non lo so, Sarah. Mi sembra un po’ tirata per i capelli, come interpretazione».
«Non è vero, Neal. Ti dice che ha provato a smettere di fumare e tu ti metti a ridere. Nel sogno, capisci che lui è la morte. E tu no. Per questo ridi di lui. Per questo non vuoi una macchina come la sua. Perché non sei lui. Perché non vuoi davvero la morte». Mi ha guardato. «Neal, tieni presente che è un tuo sogno. Sei stato tu a farlo».
A questo punto, Sarah si è coperta il viso con le mani e si è messa a piangere piano piano da sola. Poi più forte. Era seduta con tutto il suo peso sul divano, a gambe larghe, con le piante dei piedi appoggiate per terra, spiattellate lì come capita alle donne incinte. Il sogno su Flajole mi si è dissolto davanti, tramutandosi in una complessa lezione sulla sacralità della vita.
«Lui è stato il primo, per me».
«Cosa?»
«Prima di te, Neal».
Già lo sapevo. Non era una novità.
«È questo che penso quando penso a lui. È per questo che prego quando sono in chiesa».
«Ci sei andata a letto, vero?»
Sarah ha annuito.
«Ma io questo già lo so, Sarah. È stato tanto tempo fa».
«Non era amore», ha detto. «Non eri tu».
«Quante volte?», le ho chiesto. «Quante volte non è stato amore?»
«Non fare lo stupido, Neal». Si è asciugata gli occhi, biglie di vetro azzurro scuro. «Ascoltami».
Ho annuito. «Ti ascolto».
«Neal?»
«Sarah, dimmi».
Sarah si è stretta in se stessa, si è stretta la pancia. Ha alzato lo sguardo.
«Lo so già», le ho detto. «L’ho sempre saputo».
«Cosa intendi?»
«Lo sai cosa intendo. Ti ha messa incinta». Avevo crudelmente sperato che fosse lei a usare quella parola, a pronunciarla, ma guardandola ho perso coraggio. «Hai abortito».
Sarah non ha detto niente. Non so da dove venisse, tanta crudeltà. Forse volevo lasciarmi alle spalle il suo mondo fatto di belle parole e incantesimi cosmici. Non volevo ripeterlo ma l’ho fatto, con piacere. Volevo che quella parola uscisse fuori.
«Hai abortito».
Ci siamo guardati in faccia in un silenzio sempre più duro. Potevamo essere due pietre. Pensavo che non ci saremmo mossi mai più. In genere uno spera sempre che la verità venga fuori, che a un certo punto, nella vita, gli compaia davanti. Poi succede. E allora? Dove vai, una volta che hai saputo la verità?
«Una volta non credevo», ha detto Sarah. Si è alzata ed è andata a dormire.
Era mezzanotte passata. Le stelle in cielo erano chiare e brillanti, l’aria pungente quanto bastava perché un leggero strato di brina ricoprisse i prati e imbiancasse i parabrezza delle macchine lungo la nostra strada. Mi sono fermato a un minimarket a comprare le sigarette. Nel parcheggio qualcuno aveva investito un’anatra, un maschio con la testa e il collo di un verde iridescente che ha luccicato sotto i miei anabbaglianti quando ho accostato per fermarmi. Sta per arrivare l’inverno, quell’anatra ormai avrebbe dovuto prendere il volo per il sud da un bel pezzo.
Nel negozio ho comprato due pacchetti di Marlboro.
«Là fuori c’è un’anatra morta», ho detto al commesso.
Il commesso, che aveva l’aria sonnolenta, ha risposto: «E io che ci posso fare?»
Ho scosso la testa. «Non lo so».
«Serve altro?», mi ha chiesto lui.
«Aspetti». Mi sono avvicinato al frigo e ho preso una confezione da sei di Rainier. «Anche queste», ho detto.
Risalito in macchina, ho attraversato il lago, mi sono fatto un labirinto di svincoli e rampe e alla fine sono sbucato sull’autostrada. Appena mi sono lasciato alle spalle i sobborghi, inoltrandomi nell’oscurità della campagna, mi sono acceso una sigaretta e aperto una birra. La campagna era bassa e ondulata, perlopiù allevamenti di bestiame con fienili e silos che si stagliavano in cima alle collinette come navi sulla cresta di un’onda. Per divertirci con poco, un tempo io e Sarah preparavamo un grosso pranzo al sacco, prendevamo la macchina e facevamo brevi gite in questa zona. Le stradine secondarie erano in buone condizioni, lisce e tortuose, ottime per girarci senza fretta, e il paesaggio era bellissimo, perciò poco importava dove andavamo, o se per un po’ ci perdevamo. Durante una di queste gite avevamo scoperto per caso una piccola fattoria tra Fall City e Carnation dove uno si poteva raccogliere i mirtilli da solo: avevamo finito per riempirne tre scatole enormi. L’avevo quasi superata quando Sarah mi disse di fermarmi e tornare indietro.
«Perché?», feci io.
«L’hai visto quel posto? Fai inversione. Lo devi vedere».
Passammo sotto un cancello aperto e parcheggiammo in uno spiazzo di ghiaia. La fattoria era tenuta da un operaio della Boeing in pensione, uno strano vecchietto in salopette jeans con la barba grigia tagliata come quella di un troll, senza neanche un pelo sul labbro superiore. Anche la moglie portava una salopette, e aveva i capelli biondi arruffati raccolti sotto un fazzolettone rosso scolorito dal sole. Il vecchio possedeva un po’ di asinelli di legno, qualche cervo di ceramica, un mulino a vento ancora in funzione, uno stagno pieno di trote e una pergola ben riparata, fatta di graticci bianchi coperti di tralci di vite. Sotto il pergolato c’erano delle panchine di ferro battuto con le stanghe di legno su cui sedersi a riposare. Sopra lo stagno passava un ponticello arcuato, e in mezzo c’era la statua di un negretto che pescava. Sul prato, due scoiattoli di plastica che mangiavano una ghianda.
Non c’era nessun altro, e decidemmo di fermarci. Perdemmo la cognizione del tempo. Facemmo su e giù tra le file di piante, muovendoci lungo i sentierini di terra battuta, mangiando un po’ di mirtilli e conservando il resto in recipienti di cartone. Continuammo a raccoglierne finché non venne a piovere. Stavamo per lasciar perdere, quando il vecchio ci trovò in mezzo a una delle ultime file. «Aspettate che smetta», ci disse.
Ci sedemmo al riparo e mangiammo il pranzo al sacco, facendo congetture sulla vita sessuale dei due vecchietti. Sarah immaginava che fosse spettacolare, e prevedesse travestimenti e strani oggetti erotici. Sotto la pioggia lo stagno prese vita, una serie di cerchi cominciarono a spandersi lentamente su tutta la superficie, sovrapponendosi, e poi l’intero specchio d’acqua si mise a ribollire quando la pioggia iniziò a cadere forte. Assaggiammo un altro po’ di mirtilli: erano così maturi che avevano piccole fenditure sulla pelle. Mi ricordo le macchie di succo sulle dita di Sarah. Strie viola scuro le rigavano le venature della mano, e le pellicine si erano tinte di blu, risaltavano contro il bianco del panino che stava mangiando.
«Non li finiremo mai», disse Sarah. Guardò le tre scatole e si mise a ridere. «Che cazzo ci facciamo con tutti ’sti mirtilli?» Ne gettò una manciata nello stagno. «Esprimi un desiderio», disse. «Un desiderio blu».
Io chiusi gli occhi. Ascoltai il rumore della pioggia. Poi lanciai i mirtilli.
«Che desiderio hai espresso?»
«Non te lo posso dire. Non si può dire, altrimenti non si avvera».
«Non è vero», disse Sarah. «Dai, Neal, dimmelo».
Esitai, poi cercai di inventarmi qualcosa, ma ero così felice che non mi venne in mente niente.
Superata l’uscita per Fall City, la campagna ha ceduto il passo ai primi pendii, colline dolci fittamente coperte di boschi e tanto scure che l’alto banco di nubi che si stava radunando mentre mi dirigevo verso est in confronto sembrava pallido e luminoso, quasi fosse bagnato dalla luna. Di lì a poco mi sono ritrovato su una strada tutta tornanti che solcava in profondità le colline, e non vedevo quasi nulla per via di tutti gli alberi ammassati fin sul ciglio della strada. La radio perdeva e ritrovava il segnale di continuo, e un mare di crepitii copriva la frequenza. Ho girato la manopola e quando ho trovato una stazione che si sentiva bene mi sono riappoggiato all’indietro sul sedile, mezzo ascoltando la musica, mezzo pensando a Flajole.
L’ultima volta che l’ho visto è stata la sera che rubammo un motore per sostituire quello che aveva fuso sul suo Maggiolino grigio topo, che tutti chiamavamo la Talpa. Aveva perlustrato Queen Anne Hill tutte le sere per una settimana al volante del camioncino del fratello, studiando la situazione, confrontando su ogni Volkswagen della collina le cifre del contachilometri con il numero di serie. Diceva che voleva essere sicuro di prendersi un motore originale, non uno bastardo, mezzo rifatto. Flajole su questo punto era molto ostinato, e alla fine la ricerca diede i suoi frutti. Trovò esattamente quello che stava cercando, un quaranta cavalli del 1967. L’ultimo motore buono fatto dalla Volkswagen, a suo dire. I successivi erano troppo complicati, sosteneva, e per lui quello era un difetto, anzi il peggiore dei mali. Per via dell’aggiunta dello starter automatico, dell’iniezione elettronica e di filtri vari, i motori delle versioni successive erano lenti a rispondere e privavano il Maggiolino della sua caratteristica più geniale, la semplicità.
Eravamo a una festa, io ero sbronzo fradicio e stavo parlando proprio con Sarah, che non era ancora mia moglie, e neppure la mia ragazza, anche se avevo già dei progetti in tal senso. Come ho detto, all’epoca Sarah aveva la reputazione di ragazza piuttosto disinibita, e anche se questa fama mi attirava, con la sua promessa di libertà, mi spingeva anche ad assumere il ruolo di paladino della moralità. Pensavo che insieme avremmo potuto goderci il meglio dei due mondi. Comunque sia, mi ricordo che nello stereo c’era The Dark Side of the Moon – all’epoca quel disco era perennemente sul piatto – e all’improvviso mi ritrovai Flajole a fianco che mi tirava la manica della giacca. Salutò Sarah e le sorrise. Non era particolarmente bello – altezza media, testolina a forma di arachide, occhi gonfi e sempre rossi per l’erba, mani costantemente nere di sporcizia. Anche allora smanettava in continuazione con i motori. Flajole sorrise di nuovo a Sarah, facendole l’occhiolino, e disse: «Te lo riporto presto».
«Mi devi aiutare», disse mentre metteva in moto il camioncino. Tirò fuori una canna che aveva nascosto dentro un manometro, me la passò e premette il tasto dell’accendisigari. Per rollare la canna aveva usato un pezzo di paglia di grano, secondo una sua tipica abitudine. Dallo specchietto retrovisore penzolava un arbre magique scolorito che spandeva nell’abitacolo il denso puzzo del bagno di una stazione di servizio.
«Dove andiamo e a che ti servo?», gli chiesi. Guardai alle nostre spalle mentre ci inerpicavamo sulla ripida salita di Queen Anne Hill e vidi le luci della città che si sfocavano e si mescolavano in grumi di azzurro e di giallo.
«Meno ne sai», rispose lui, «meglio è».
Flajole accese la canna, socchiudendo gli occhi. «Ecco, adesso io parcheggio e mi faccio un pezzetto a piedi. Tu resta fermo qui e aspettami. Non fare niente, non pensare nemmeno. Stai qui seduto e basta».
«Cazzo, Flajole», dissi io. Feci un tiro dalla canna e gliela passai.
«Guarda che non ti succede niente», disse. «Non succede niente a nessuno».
Accostò al marciapiede e spense il motore.
«Devo solo fare una cosetta», disse. «Tu aspetta qui finché non ti faccio segno, poi metti in moto e vienimi incontro, ok?» Scese e poi da fuori si sporse dentro il finestrino. «Siediti al volante, dai». Prese un cric dal cassone del camioncino e si riempì le tasche di attrezzi. Si avviò lungo il marciapiede imitando come meglio poteva un onesto cittadino che si fa quattro passi dopo cena, poi scomparve nello spazio fra un lampione e l’altro, riapparve per un attimo e svanì.
Seduto nel camioncino, continuai a fumare quel che restava della canna, sforzandomi di tenere d’occhio nel buio il punto in cui immaginavo che sarebbe comparso Flajole una volta finito, per darmi il segnale. Ero lesso, il tempo si fermò e io entrai in una sorta di trance. Avevamo parcheggiato di fronte a una casetta squadrata, dalle cui finestre usciva il chiarore di una luce opaca dorata dietro tende spesse e ruvide. Mi parve di vedere un’ombra passare al di là dei vetri. Mi venne paura dell’eventuale estraneo e per calmarmi mi dissi: stai solo facendo una cosa normalissima. Sulla veranda si accese la luce e dalla casa uscì un uomo. Si mise in bocca una sigaretta, e quando si avvicinò il cerino alla faccia riparandolo con le mani, la fiammella gliela illuminò. Poi raccolse un bicchiere di whisky e lo rigirò lentamente prima di berne un sorso. Le falene sbattevano contro la lampadina sopra di lui e la luce sfarfallava di ombre; sembrava che l’uomo stesse esaminando la propria vita, facendone l’inventario, assaporandola. Guarda che non ti succede niente, continuavo a ripetermi. Stai seduto qui e non pensare a nulla. Sentii tintinnare del ghiaccio nel bicchiere del tipo. Passò una macchina. Poi l’uomo gettò la sigaretta nei cespugli, finì in un ultimo sorso quello che aveva nel bicchiere e tornò in casa, lasciando la luce accesa sulla veranda.
Se ricordo bene la mia vita, dopo quella sera io e Flajole ci allontanammo. Un anno dopo mi sposai. Andai al college per un paio d’anni e seguii i corsi di ragioneria perché avevano una qualche utilità pratica. Ma volevo prendere la laurea breve in storia, perché era quello che mi piaceva. Poi, a un certo punto, decisi che il percorso universitario era troppo lungo e mi misi a fare l’imbianchino a tempo pieno. Flajole lavorava per un concessionario di macchine in città, revisionava le Volkswagen, e ogni tanto mi chiamava, ma con lui non ci uscii più. E quindi dall’ultima volta che l’ho visto sono passati cinque anni, quasi sei... e ormai sarà l’ultima volta in assoluto.
Ma quella sera Flajole era in mezzo alla strada che mi faceva segno sventolando un braccio. Io tolsi il freno a mano e mi avviai verso di lui a fari spenti. Mi fece cenno di avvicinarmi finché non arrivai a fianco di un Maggiolino rosso. A quel punto alzò le mani, con le palme rivolte a me.
«Che fai, dormi?», disse. «Dai, sbrigati. Lascia in moto».
Sollevammo la carrozzeria del Maggiolino afferrando il paraurti davanti, uno a destra e uno a sinistra. Una volta staccato il motore, lo chassis della macchina era sorprendentemente leggero. Flajole aveva fatto cadere il motore sotto il pianale, posandolo sul cric; lo issammo sul camioncino usando una rampa di assi appoggiate contro la sponda ribaltabile.
Mentre ci allontanavamo, tenni d’occhio la strada alle nostre spalle.
«Ci sono solo quattro bulloni a fissare il motore di un Maggiolino», disse Flajole mentre scendevamo dalla collina. «Tagli un po’ di fili, ed è tutto tuo».
Mi sono schioccate le orecchie per il cambio di altitudine, e una volta arrivato al passo la strada è diventata pianeggiante. Ho fatto un’inversione a U, mi sono fermato al bordo della carreggiata sul lato opposto e ho inserito le quattro frecce.
Mi sono ficcato una birra in tasca e ho preso una torcia dal cassetto del cruscotto. La notte era fredda, parecchi gradi sotto zero, e c’era un filo di neve azzurra che mulinava sulla strada. Mi sono incamminato lungo il guard-rail, cercando il punto in cui Flajole era volato di sotto. La torcia sfarfallava, spegnendosi e riaccendendosi a seconda dell’angolazione con cui la tenevo. Dietro di me un camion ha scalato la marcia, grattando. I piccoli catarifrangenti gialli sul guard-rail brillavano come occhi di gatto. A un centinaio di metri dal punto in cui mi ero fermato, la barriera si interrompeva all’improvviso e c’era un buco irregolare dove il metallo era piegato violentemente all’indietro e spezzato. Appena oltre il ciglio della strada cominciava un pendio ripidissimo, un dirupo roccioso e scosceso che a un certo punto si appiattiva un po’ all’altezza di un gruppetto di alberi. Mi sono messo la torcia in tasca e sono sceso per la scarpata, facendomi gli ultimi tre o quattro metri sul sedere.
Il vento che soffiava tra gli alberi teneva il mondo a un sospiro di distanza dal silenzio. La macchina di Flajole era ancora appoggiata contro gli alberi, un guscio bruciato, completamente annerito fatta eccezione per i punti in cui la neve fresca era caduta dai rami e si era posata sul tetto e sul cofano, coi cristalli gelati che luccicavano come zucchero. Ci ho girato intorno. Tutti i finestrini erano sfondati ma le gomme erano ancora in buone condizioni. Gli ho dato un calcio. Ho fatto tutto il giro della macchina e mi sono seduto sul paraurti di dietro, guardando verso la strada da cui ero sceso e ancora più su, verso la montagna, dove la linea scura degli alberi finiva bruscamente, quasi con un taglio da rasoio, e la cima era incappucciata di bianco. Mi sembrava improbabile che Flajole avesse toppato un’inversione e fosse caduto nel dirupo per sbaglio. Ci voleva la concomitanza di troppi fattori: la velocità, l’angolazione, la posizione, e poi l’errore che in qualche maniera incastrava e incollava insieme tutti quei pezzi per comporre la tazza del destino di Flajole. Un’ipotesi più probabile poteva essere la collisione con un altro automobilista che era scappato, o anche solo una macchina che gli era venuta incontro prendendo la curva troppo larga e costringendolo a uscire di strada in un punto che gli si era rivelato fatale. Ma un puro e semplice incidente era fuori questione.
La coltre di nubi, salendo, si è spezzata e si è diretta a est, sopra le vette, e dalle fessure è sceso un chiarore latteo di luna. Col rasserenarsi del cielo l’aria si è fatta più fredda, ha cominciato a pungere anche se avevo addosso il giaccone. Mi sono spostato verso il muso della macchina. Il cofano sagomato era stato in parte divorato dall’esplosione. Il Maggiolino ha il serbatoio sul davanti, e le fiamme dovevano essersi sprigionate prima di tutto lì, sotto il cofano, per poi divampare nell’abitacolo. Sarà vero che la morte di una persona dà forma alla sua vita, la definisce? Quando studiavo storia, la pensavo così. Ho cercato di immaginare Flajole che ripartiva scendendo dal passo, scalando bruscamente le marce e prendendo velocità, ma non ce l’ho fatta. Non pensavo che la sua morte fosse stata un incidente, ma d’altra parte non direi neanche che si è ucciso di proposito. Quale può essere la via di mezzo? Sarah risponderebbe: il volere misterioso di Dio, il progetto divino, qualche forma superstiziosa di provvidenza.
Mi sono acceso una sigaretta e ho bevuto un po’ di birra. Ho guardato al di là del parabrezza. L’interno era nero e completamente squagliato. Della tappezzeria non era rimasto nulla e i sedili erano ridotti a un groviglio di molle, la manopola del cambio era rimasta appiccicata su un lato della leva come un marshmallow bruciacchiato. Sul volante da go-kart la plastica formava una serie di bolle, e agli strumenti montati ad hoc da Flajole per misurare i giri del motore e la temperatura dell’olio era saltato il vetro: restavano solo buchi nel cruscotto. Sul lato del guidatore, la portiera penzolava appesa al cardine, aperta a forza con un piede di porco. Sono entrato. Nell’abitacolo l’aria aveva un sapore bruciato e metallico. Ho premuto la frizione, ho pigiato sull’acceleratore, ho pestato sui freni, strattonato il volante. Flajole, ho pensato, brutto bastardo cieco come un pipistrello, sei morto! Ho trovato un cacciavite e ho forzato il cassetto del cruscotto. Il contenuto era intatto: una cartina stradale degli Stati Uniti, qualche cassetta e un manometro per misurare la pressione delle gomme. Ho svitato il quadrante: l’interno era cavo e ne è uscita una canna rollata nella paglia, come sempre.
Me la sono accesa con la sigaretta.
«Fla-jole!»
Ho sentito l’eco della mia voce, un suono stupido e sempre più esile. Ho chiuso gli occhi e fumato. Nel periodo in cui avevo visto Flajole per l’ultima volta, aveva perso la casa e viveva nel garage di Potter, in attesa di trovare un altro posto. Non abitava più con i suoi da tre anni. Non so bene perché, ma si rifiutava di tornarci. Diceva soltanto: «Quella è acqua passata». Avevamo diciannove anni. Dopo aver rubato il motore, io e Flajole ce ne andammo a bere qualche birra in un punto panoramico, un belvedere. Lui arrivò in retromarcia fino sul ciglio del dirupo, dove un’alta quercia frondosa sporgeva i rami nel vuoto, con le foglie secche autunnali che frusciavano nel vento. Ci sedemmo sulla sponda del camioncino, con le gambe penzoloni, e sotto di noi la città si estendeva a perdita d’occhio, una serie di colline sfavillanti di luci che sembravano onde di bassa marea in una tarda notte d’agosto, vive di fosforescenza. Flajole mi fece vedere tutte le modifiche che aveva in progetto di fare al motore, per aumentarne l’efficienza e i cavalli vapore semplificandolo, riducendolo alla sua essenza.
«Ci tolgo lo starter automatico», disse, indicando lo spinterogeno. «Con quello meccanico la partenza è più brusca, ma è meglio».
«Il re degli smanettoni», dissi io. «Non ci posso credere che ci sei riuscito davvero».
«Guarda che uno di questi affari io sono capace di smontarlo pezzo a pezzo in un’ora».
«Non intendevo questo».
«Sei contento di avermi accompagnato?» Flajole rise. «Non pensavo che l’avresti fatto veramente. Ecco perché non ti ho detto niente».
Mai in vita mia mi ero domandato cosa ci vedesse Flajole in me. Da piccolo ero affascinato dalla vita degli uomini potenti, quelli che avevano influito sulla storia quanto bastava per donarle il proprio nome: il magnate delle ferrovie James J. Hill – così almeno si racconta – attraversò il Montana sulla linea della Great Northern estraendo nomi a caso da un cappello e assegnandoli, in tutto il loro esotismo, alle varie stazioncine: Malta, Glasgow, Havre, nomi dei posti che preferiva fra tutti quelli che aveva conosciuto viaggiando intorno al mondo. Ma nell’enorme galassia degli esseri umani, io non sono così spettacolare, non sono uno capace di creare onde d’urto che si propagano in tutto l’universo. C’è una costanza orbitale nelle cose che faccio, e forse, al massimo, la dote migliore che ho è la capacità di essere una brava persona, di comportarmi in una maniera che gli altri possono prevedere. Se uno parcheggia la macchina la sera, la mattina dopo si aspetta di ritrovarci ancora dentro il motore. Per me la vita è questo. Eppure, la sera che rubammo quel motore feci la mia parte e me ne lavai le mani. Flajole era potente, in un certo senso, e mi piaceva stare con lui, ma non avevo idea del motivo per cui lui trovava simpatico me.
Restammo seduti sopra la città. Restammo seduti a bere e a chiacchierare.
«Sarah ti piace proprio, eh?»
«Be’, sì».
Ufficialmente ci ero uscito solo una volta. Ancora mi riempiva di emozione sentir pronunciare il suo nome ad alta voce. Quando lo sentivo, mi vedevo davanti i suoi occhi azzurri e la pelle levigata.
«A te non dà fastidio?», gli chiesi.
E Flajole: «Ma va’».
«Che è successo fra voi due?»
«Mi ha chiesto di non dirlo a nessuno».
«L’hai messa incinta».
«No comment».
«Ho ragione?»
«Magari alla fine vi sposate. Magari andate a vivere da qualche parte laggiù», disse Flajole. Sollevò la birra con un movimento che abbracciava tutta la città. «Eh? Una di quelle lucine potreste essere voi, no?»
A quel punto ormai eravamo belli sbronzi e mi girava la testa, quasi non mi importava più di niente. Il cielo stava cominciando a passare dal nero a un grigiastro slavato.
«Eh?», disse lui, alzandosi. «Dai, scegline una, Neal, indicala col dito. Abbiamo il camioncino, abbiamo i miei attrezzi. Sono proprio dell’umore giusto».
Flajole saltò giù dal camioncino e montò a cavalcioni su uno dei rami bassi della quercia. Pian pianino si spostò verso l’estremità e rimase lì a dondolarsi nel vuoto, ridendo, e risi anch’io. Poi si lasciò penzolare a testa in giù tenendosi con le ginocchia e battendosi il petto. Il ramo si piegò, le foglie tremarono. La maglietta gli calò fin sulla faccia e qualche monetina e carta di chewing-gum gli cadde dalle tasche.
«Tirami una birra, Neal».
La prima lo mancò completamente e ruzzolò giù dalla collina. La seconda, Flajole la acchiappò, la aprì e la bevve, sempre dondolandosi sul ramo. Anch’io mi ci arrampicai, ma mi rannicchiai con la schiena contro il tronco.
«E domani che facciamo?», chiese Flajole.
Aprii anch’io una birra e me la scolai. Il vento soffiava e Flajole oscillava avanti e indietro sul ramo, con la birra che gli schizzava in faccia, sui capelli, e colava via. Mi ricordo che pensavo: sono su un albero, sono complice di un reato e c’è una ragazza fuori di testa che mi ama. Ero un fuorilegge, un bandito, ero uscito dal solco della mia vita. L’intera città si stendeva sotto di noi, e vedevo un traghetto che attraversava il Puget Sound, con i finestrini illuminati di giallo che brillavano contro il grigio pallido e vitreo dell’acqua: si stava lentamente allontanando da noi alla volta dei promontori scuri di Bainbridge Island. «È già domani», dissi.
Flajole accartocciò la lattina di birra e la lasciò cadere. Con un colpo di reni si rimise a sedere dritto, scuotendo il ramo con le gambe. Tirò fuori dal pacchetto due sigarette, le accese e me ne passò una. Fece un bel tiro ed espirò.
«Allora che facciamo adesso?», mi chiese.
Ho riaperto gli occhi. Si è alzata una raffica di vento che ha sibilato attraverso il parabrezza rotto, e l’odore di metallo bruciato e tessuto carbonizzato si è fatto più aspro nell’aria fredda. Dal tettuccio venivano giù pezzetti di vernice scrostata e cenere, come neve nera. Ho tirato dal mozzicone di canna finché un semino non è scoppiato, cadendomi in grembo. Strano: per riflesso e abitudine mi sono subito tolto la minuscola brace di dosso, per paura di dare fuoco a qualcosa. Ero strafatto. Stava diventando sempre più freddo. Dovevo cominciare a muovermi. Ho fatto scorrere ancora una volta il fascio di luce della torcia per tutta la macchina. Un Gesù di plastica colava dal cruscotto come un malloppo di formaggio da spalmare nero. Me lo ricordavo, era uno di quei tipici Gesù pacchiani. Flajole gli trafiggeva sempre le braccia con una serie di pinzette piumate, le stesse che usava per fumare le canne fino al filtro senza scottarsi le dita. Ho battuto sullo specchietto retrovisore con la torcia che avevo in mano. Lo specchietto era quasi completamente distrutto, ma qualche frammento incrinato restava ancora al suo posto, annerito dal fumo e da strisce di plastica bruciata. Ho deciso di conservare il manometro, per ricordo. Sono rimasto seduto lì, impietrito, e a un certo punto mi è parso di sentire un ramoscello che si spezzava.
Tornato sulla strada, mi sono voltato per dare l’ultimo addio. Ero circondato dalle montagne, una massa ancora più scura che pesava contro il cielo nero. Ho bevuto quel poco di birra che restava. Mi sono appoggiato al guard-rail per non cadere, ho fatto qualche passo barcollante e mi sono fermato. Il vento soffiava forte, ma sono rimasto lì immobile per un attimo. Lungo la scarpata luccicava un angolino di paraurti cromato, quasi sorridente. Avrei voluto fare un bilancio finale, aggiungere anch’io il mio piccolo discorso funebre, ma non ne ero capace: mi sentivo come quella volta con Sarah alla fattoria dei mirtilli: non mi veniva in mente niente. Ho gettato la lattina vuota al di là del muretto. L’ho sentita rotolare fra le rocce per un po’, poi si è fermata ed è tornato il silenzio.
Sto contemplando il mio modellino, la sua ampia distesa verde. Da una finestra del seminterrato entra un raggio di luce, denso di particelle di pulviscolo che fluttuano e cadono giù: spiove obliquo sopra la mia montagna di cartapesta, come una piccola alba, l’inizio di una minuscola giornata nella mia stazioncina. È una stazione dall’aria tradizionale, a mo’ di baita alpina di altri tempi, di quelle in cui il capotreno sale su una predella, si accosta le mani alla bocca e strilla: «Tutti in carrozza!» Accendo il trasformatore e il treno comincia ad avanzare sbuffando verso la stazione. Aumento la velocità. Un giorno inizierò a costruire la mia cittadina, e dentro ci saranno un po’ di casette e un po’ di omini, cani e gatti, strade e automobili, semafori e passaggi a livello e una fila di negozietti con le vetrine sulla strada, fra cui un rigattiere e una tavola calda, con un vecchietto che passa il suo tempo a regalare alla gente storielle esilaranti, e ci sarà anche una chiesa, una chiesa su una collina, a dominare tutto il paesaggio, e ovviamente il mio fiume, più azzurro che mai, passerà in mezzo alla città.
Di sopra sento i rumori della giornata che comincia, dell’acqua che scorre perché Sarah si sta facendo la doccia, e so che presto, dato quello che è successo ieri sera, lei se ne andrà a messa, a pregare con rinnovato ardore per l’intercessione divina a nome di nostro figlio. Mi accendo una sigaretta. Sarah scende dalla camera da letto a passi pesanti. Ultimamente cammina come un mandriano. La sento attraversare la cucina. La porta del seminterrato si apre di uno spiraglio.
«Neal?»
Ascolto senza rispondere.
«Neal?»
Sto cercando di capire cosa penso.
«Neal, se sei lì e stai bene, dimmelo».
Questo lo posso fare. «Sto bene».
Lei resta lì, e so perché. Risalgo le scale. Ci spostiamo senza dire una parola nel salotto in penombra e Sarah si stende supina. Di fuori passa un autobus. Le arrotolo la felpa fin sopra le tette, due lune bianco pallido che si incurvano e traboccano oltre l’orlo di pizzo del reggiseno. Lei chiude gli occhi e respira delicatamente: la pancia le si gonfia, è circondata di tortuose vene blu. Inizio a massaggiarla in senso orario: è calda e bianca come pasta lievitata, e faccio un giro dopo l’altro, una mano dopo l’altra, per aiutare il bambino a cambiare verso, a voltarsi e uscire nell’altro senso, portato senza pericolo dalla corrente, immagino. Il dottore potrebbe fare un cesareo ma il rischio e la violenza insiti nel bisturi Sarah preferirebbe evitarli, se possibile. Ha ragione, la violenza non è un bel modo di venire al mondo. Provo a immaginare che i movimenti che faccio in superficie scatenino all’interno una serie di piccole onde, una marea a spirale che si distende in un mondo dove non c’è mai silenzio.
Sarah dice: «Tu sei convinto che andrà tutto bene, vero?»
Io continuo a muovere le mani. Cosa sta succedendo? Piano piano, a una velocità impercettibile se lo si osserva troppo da vicino, ma costante e fluida e ineluttabile, il bambino si sta girando.
Le chiedo: «Quattro settimane?»
«Forse tre».
C’è tempo. Dal punto in cui sto inginocchiato, la pancia di Sarah mi appare tesa e liscia come una pelle di batteria. Accarezzo con le dita la superficie tondeggiante, un posto meraviglioso in cui vivere. Mentre penso che l’immaginazione di Sarah sia un puro atto di fede, il bambino all’improvviso scalcia. È una bottarella leggera, quasi non si sente, ma poi ce n’è un’altra, ecco, ecco, lì, contro il palmo della mia mano, sono così insistenti che sono tentato di toglierla. Immagino che lì dentro queste sgambate da nuotatore provochino un mezzo cataclisma. Premo l’orecchio sul pancione e anche se il suono è lontanissimo e attutito la delicatezza con cui mi arriva non smorza minimamente il senso di rimprovero. Ascolto: echi, ripercussioni, poi prima di rialzarmi a sedere ci lascio sopra un bacio umido, a mo’ di battesimo. «Neal», fa Sarah, toccando il punto ancora caldo e bagnato.
«Lo voglio tanto questo bambino», dice.
«Anch’io», le rispondo.
Fuori sento passare un altro autobus, in perfetto orario. Apriamo gli occhi e ci guardiamo da dietro un velo tremolante di lacrime. Sarah se le asciuga e si alza, correggendosi: «Ci vediamo dopo, Neal». La porta si chiude con un clic, è scomparsa.
Mi preparo una tazza di caffè. Mentre si scalda, giro per la casa, mettendo via i giocattoli, riaccoppiando i miei dischi con le foderine che avevano perso da chissà quanto tempo, svuotando i posacenere e raccogliendo i bicchieri sparsi qua e là. Nel giro di un mese o giù di lì saremo una famiglia di tre persone: mi rendo improvvisamente conto che quel momento è già arrivato, che siamo tre già adesso. Ci servirà una casa più grande. Mi fermo in mezzo al salotto. Mi fanno male gli occhi e tutto quello che ho intorno, nella prima luce del mattino, appare un po’ spoglio e squallido. La nostra casa è piccola, è di quelle che a Seattle si chiamano spite houses, mezze case costruite su mezzo lotto di terreno, a dispetto – come dice il nome – delle norme edilizie. Non sono mai stato in altri posti abbastanza a lungo da venirlo a sapere, ma può darsi che non siamo solo noi a dargli questo nome. Sarah scende a fatica gli scalini davanti a casa, si avvicina alla macchina. Mentre la guardo passo le dita sugli infissi delle finestre, sentendo che in certi punti si scrostano e rivelano altri strati di vernice, diversi colori. Lei apre la portiera della macchina. A quel punto io chiudo le tende. Non tornerà a casa prima di un’ora, e mi dico che stamattina il sollievo di chiudere le tende è un piccolo regalo che mi posso concedere, nel frattempo. Poi sento il motore che si avvia.