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Martello e bisturi

Un puntello notturno a Castel dell’Ovo, chiuso al pubblico ma aperto ai desideri della camorra, è un ottimo argomento per presentarti armato fino ai denti. Anche se per esperienza sai benissimo che una Glock sotto il poncho non ti fa sentire affatto più sicuro; il gioco questa volta sta nel mostrarsi calmi, diplomatici e affabili. Siamo a Napoli per lavoro, non per lanciare petardi. Ufficialmente siamo due manager argentini della principale holding del trasporto di cocaina del Cono Sud, venuti a offrire i nostri servizi commerciali. A farci da garanti, un imprenditore ittico di Mar del Plata, che ha già gestito alcune consegne per noi e per la camorra, e un boss recluso in Spagna, ad Aranjuez, il quale ha acconsentito a fornire una raccomandazione discreta ma decisiva in cambio di un alleggerimento della sua situazione giudiziaria. La squadra è stata formata dall’Unità antimafia, e mi rifiuto di credere che sia solo questione di opportunismo, come cercano di darci a bere. «Fortuna che eravate qui», hanno detto i colleghi, spiegandoci i dettagli. Ma che cazzo. Ci hanno fatti venire in Italia per spedirci in questa topaia e forse per qualche altro motivo, ma di sicuro non per scambiare informazioni nei seminari accademici, né per passeggiare ai Fori imperiali come imbecilli.

Scosto le tende e vedo il ponte, il castello illuminato e il porto, con gli yacht e le barche a vela. A destra trovo il buio blu del Mediterraneo e le luci del golfo. Mancano ancora tre o quattro ore all’alba, e mi porto una sigaretta alle labbra. Prima di accenderla, osservo la donna che dorme nuda, a faccia in giù, nel letto king size. Non ricordo bene il nome, un po’ perché non mi interessa e un po’ perché è impronunciabile. Una nera della Costa d’Avorio, con una sorella simpatica che mastica lo spagnolo; due ragazze carine, quasi identiche, che si guadagnano da vivere tra calciatori e clienti degli alberghi di lusso e fanno le veci di guide turistiche tra le vie di questa città chiassosa. Accendo la sigaretta e mi volto verso il mare. Sono più di trent’anni che non uso il mio vero cognome, tanto che mi suona estraneo; nel giro dell’intelligence mi chiamano tutti Remil. I funzionari dell’Unità antimafia se la ridono quando scoprono che per decenni la nostra piccola agenzia ha sbarcato il lunario sistemando guai personali di politici e magistrati: adulteri, pedinamenti, intercettazioni, estorsioni, pestaggi, sorveglianza, bustarelle. A tavola, al termine del pranzo, i colleghi romani mi chiedono di raccontare il periodo alle Malvine, un’esperienza limitata alla battaglia di Mount Longdon e alla poco entusiasmante resa di Puerto Argentino. Nulla suona troppo eroico, anche se in realtà lo è stato, e il loro interesse per quella vicenda sembra più morboso che genuino. Cálgaris non dà mai confidenza a quegli agenti, ma lo fa con i loro capi, in genere nei ristoranti di via Veneto. I miei colleghi nutrono un rispetto particolare per il mio superiore e mentore: il vecchio è arrivato a Roma con tutta una serie di decorazioni top secret, oltre alla fama di aver concretizzato la cattura di Belisario Ruiz Moreno e lo scioglimento della sua ramificata organizzazione di trafficanti e intermediari. Si fanno beffe degli obiettivi minori e illegali della Casita, anch’essa sotto la direzione del colonnello, ma si tolgono il cappello di fronte all’Operazione Dama Bianca, che finora ha totalizzato più di duecento arresti in cinque Paesi e rappresenta la grande novità della stagione in questo ghetto di spie arriviste e poliziotti d’élite. Il caso è sotto i riflettori poiché mostra un nuovo metodo d’infiltrazione, praticabile unicamente nelle nazioni corrotte e sottosviluppate: un’agenzia statale offre protezione e margine operativo a un pesce grosso, lo convince con dedizione e lealtà assolute, infine lo tradisce e lo distrugge dall’interno, come un cavallo di Troia. Cálgaris ha l’accortezza di non rivelare che ero stato un infiltrato a mia stessa insaputa, per non screditarmi davanti ai miei compagni di avventure; non dice nemmeno che in quella lunga operazione avevo avuto una relazione intima, imprudente e sventurata con la donna a capo di quell’agenzia. Ma di certo gli americani avranno messo in giro quella notizia infamante, sebbene nessuno mi abbia mai fatto domande su Nuria. Meglio non stuzzicare il can che dorme, in ogni caso.

Al termine di quella sfortunata missione, di ritorno a Buenos Aires, quando Belisario e la sua amante erano ormai a un passo dall’estradizione, Cálgaris ha pensato bene di riaprire la Casita senza dare fiato alle trombe, ma ha subito forti pressioni per farmi sparire dalla circolazione. Almeno finché non avessero ripulito i fascicoli e unto i giudici. La Secretaría ha preteso una sospensione senza stipendio, così il colonnello mi ha fatto diventare un «dormiente». La sera in cui mi ha comunicato la brutta notizia ha avuto la delicatezza di invitarmi a mangiare un baccalà criollo, per poi raccontarmi la storia di un tassista piuttosto ingenuo reclutato negli anni Cinquanta, una guardia in pensione. Un maggiore dell’esercito lo aveva convinto che le sue informazioni sarebbero state ben ricompensate. L’uomo ascoltava ciò che dicevano i suoi passeggeri e prendeva nota di tutto. Una volta al mese, stendeva un rapporto e lo spediva a un dato indirizzo. Metodico e pieno di entusiasmo, per anni aveva svolto quel compito senza incoraggiamenti né ricevute di ritorno, e ovviamente senza uno straccio di remunerazione. Ma partiva dall’assunto che il mondo dello spionaggio fosse alieno alle parole e alla generosità, e che il proprio contributo potesse rivelarsi prezioso per difendere la repubblica dai suoi numerosi nemici. Non aveva mai vacillato né messo in dubbio l’importanza dei dati che forniva; per di più aveva letto su un giornale che nei servizi segreti si usava mettere a «dormire» gli agenti ufficiosi per «svegliarli» molti anni più tardi e mandarli in pericolose missioni. Il tassista era rimasto in attesa di quel fatidico giorno, che mai era arrivato, e quando i militari avevano dichiarato guerra alla Gran Bretagna era ormai vecchio, sebbene infiammato dal patriottismo del momento. Incapace di aspettare ancora, aveva deciso di presentarsi al Comando generale. Un amico di Cálgaris aveva ascoltato il suo racconto. Il maggiore che lo aveva reclutato era morto e sepolto da almeno quindici anni, e nessuno aveva ereditato quel presunto «dormiente». L’indirizzo era quello di una generica cassetta della posta dove arrivavano pubblicità, scritti deliranti e spazzatura che finivano dritti nel tritadocumenti. In nessun dipartimento apparivano menzioni ufficiali né cenni a quel poveretto e ai suoi resoconti di strada. «Il mio amico non ha avuto il coraggio di dirgli la verità», ha detto ridendo il colonnello. «Così gli ha assegnato un altro compito difficile e fondamentale: avrebbe dovuto imparare un minimo di inglese e cercare di intercettare qualunque conversazione che gli agenti dell’MI6, travestiti da turisti, avessero tenuto nel perimetro della capitale nel corso del conflitto nel Sud dell’Atlantico. Il vecchio se n’era andato, per non tornare mai più. «Lo sapevi che studiare una lingua straniera rallenta l’Alzheimer?» L’ho guardato dritto negli occhi. «E qual è il compito fondamentale che sta per assegnare a me?» Il colonnello mi ha esaminato puntandomi addosso gli occhi chiari e lisciandosi i baffi giallastri, poi, con la voce impastata dall’aguardiente, mi ha spiegato che dovevo farmi un lungo sonnellino, e che grazie ai suoi maneggi mi aveva già procurato un posto come capo della sicurezza su una nave da crociera.

Ho passato un anno a bordo di quegli alberghi galleggianti che rimbalzano in giro per il mondo; tenevo d’occhio gli ubriaconi, separavo pugili improvvisati e cercavo oggetti smarriti. La cosa più emozionante che mi sia successa è stata neutralizzare una vecchia aristocratica che perdeva montagne di soldi a poker e poi rubava nelle borsette delle signore. Una cleptomane con stile e lingua tagliente, cultrice dell’arte, che offriva il proprio corpo rugoso affinché tutto venisse dimenticato, e che per soprammercato è riuscita a convincere il comandante che in uno dei successivi scali avrebbe potuto mettere le mani su una fortuna: un quadro sottovalutato appeso a un chiodo in una galleria d’arte brasiliana. Alla fine non solo la signora è arrivata in porto indenne, ma si è pure intascata i contanti della commissione. Sottovoce mi ha assicurato che il comandante aveva appena comprato un falso piuttosto mediocre, e mi ha lasciato una mancia.

Al compiersi di quattordici mesi e cinque giorni di sonno e noia, Cálgaris mi ha svegliato con una novità: ce ne andavamo in Italia per qualche settimana: il veto era stato annullato. Ora siamo coinvolti in un progetto di cooperazione al quale prendono parte i servizi di diversi Paesi. Una sorta di convenzione segreta auspicata da Europol e DEA, che si terrà nella leggendaria sede del quartiere Prati. Sui muri si legge ancora l’antica consegna: «La pace dorme all’ombra delle spade». Il colonnello alloggia al Plaza e spedisce me in un alberghetto da quattro soldi vicino a piazza Venezia. Ogni mattina all’alba corro una quindicina di chilometri attorno all’Altare della Patria. Più tardi, se non sono previste attività a Prati, faccio una colazione leggera e poi vado a tirare di boxe alla palestra di via Sant’Agata dei Goti. Al tramonto, una professoressa in pensione assoldata da Cálgaris mi insegna i rudimenti della lingua. In quei primi giorni, nei quali il seminario si perde in convenevoli, il colonnello divide il proprio tempo tra le riunioni all’ambasciata e al Quirinale e le passeggiate vagamente soporifere alle quali mi obbliga a partecipare, tra Musei Vaticani, Villa Borghese, Palazzo Barberini e Castel Sant’Angelo. I quadri e le statue mi entusiasmano quanto una sala operatoria o una rivendita di carbone. Trascorriamo un intero giovedì ai Fori: il vecchio sprizza un entusiasmo adolescenziale e snocciola aneddoti ridicoli sull’impero romano che già conosco grazie alle cronache, ai saggi e ai romanzi che lui stesso mi ha costretto a leggere. Parliamo un po’ di Giulio Cesare mentre mangiamo fettuccine per turisti incauti: «Gli uomini credono facilmente nelle cose in cui ripongono speranza». Davanti al Colosseo incrociamo Jonás, che ci omaggia con un saluto teatrale: indossa un costume da centurione e raccoglie spiccioli facendosi fotografare accanto a signore affascinate dal sangue dell’arena e dai suoi muscoli da culturista. Un altro sopravvissuto di Goose Green, allenato senza pietà dal colonnello a Campo de Mayo, in quel lontano 1982, dopo che l’esercito ci aveva dato una medaglia e il reparto di psichiatria dell’ospedale militare ci aveva dimesso con riserva. Cálgaris non ha mai sopportato il carattere instabile e un po’ licenzioso di Jonás, per cui dopo i corsi di tattica e criminologia lo ha lasciato andare. È stato un «martello» nell’intelligence della Polizia Federale e ha avuto qualche rogna legale. In gergo, io sono un martello e Cálgaris un bisturi. I primi muoiono giovani, i secondi fanno carriera. Jonás è emigrato in Europa negli anni Novanta. Di tanto in tanto ci arrivavano notizie delle sue gesta, immancabilmente condite da aneddoti assurdi e ridicoli. Erano dieci anni che non sapevamo niente di quel gigante, e vederlo travestito da arredo scenico da quattro soldi, mentre chiedeva elemosine come un barbone, i capelli lunghi, tinti di un biondo accecante, e la pancia gonfia, è stato come ricevere un calcio nelle palle. In qualche modo ho visto me stesso su quel marciapiede. Sebbene Cálgaris cerchi di toglierselo elegantemente di torno, accetto di incontrare Jonás da solo quella stessa sera all’Antica Birreria Peroni; al termine dei bagordi, mi ritrovo pure a dover pagare, perché Jonás è più che mai al verde.

Ci sono chiacchiere di rito con i colleghi e presentazioni in giacca e cravatta, ma il seminario in senso stretto non inizia che quindici giorni più tardi; approfitto di queste vacanze romane per conoscere la città e rimettermi in forma, migliorare un po’ il mio povero pidgin e andare a donne due volte, per gentile concessione dei padroni di casa. Cálgaris tiene una conferenza sull’attuale situazione della narcopolitica nei Paesi emergenti, e alcuni tecnici illustrano il modus operandi dei cartelli delle droghe sintetiche. Mafia, ultratecnologia dello spionaggio, nuove forme di riciclaggio di soldi sporchi, diffusione territoriale del Cartello di Sinaloa ed esposizione di casi emblematici. Ho un breve momento di gloria quando mi presentano, insieme ad altri tre «martelli» infiltrati in organizzazioni internazionali. Nessuno di noi ha tutte le rotelle a posto, e nemmeno si distingue per loquacità. La mia esposizione suona lacunosa e mal tradotta, eppure i presenti mi tartassano su quell’operazione, che per un po’ ha fatto parlare di sé. Lontano dai riflettori, lego con alcuni ispanoamericani dalla moralità assortita. Se Cálgaris è completamente a suo agio in quell’ambiente, io rimango un lupo solitario capace solo di ululare.

Un fine settimana andiamo a Firenze a visitare la Galleria dell’Accademia e gli Uffizi; mentre mangiamo una pizza sottile come carta alla Grotta di Leo, pretendo di sapere che diamine stiamo facendo. Cálgaris si accende la pipa e sorride. «Affari.» Attraversiamo la strada e il vecchio si compra un profumo decisamente particolare a Santa Maria Novella. «Che cosa ci facciamo in Italia?» prosegue, senza che debba ripetergli la domanda. «Aspettiamo, Remil. Stiamo aspettando. A noi piace tantissimo che la gente ci debba dei favori.»

In preda all’insonnia, durante la notte esco a correre nella città deserta. Vicino al Ponte Vecchio mi unisco a un gruppo di donne che fanno running e si allenano come maratonete professioniste. Corro insieme a loro senza scambiare un solo sguardo; sembriamo un branco di cavalli spettrali e scontrosi che si muovono all’unisono lungo le strade acciottolate, dentro un groviglio di vicoli che partono e finiscono nell’Arno. Avverto un fremito interiore che non riesco a definire né a comprendere nella sua interezza, e che interpreto come un brutto presentimento. Per un giorno intero mi porto addosso quell’ansia inspiegabile mentre esploriamo Firenze e parliamo dei Medici: pane e feste tengon il popol quieto, e via dicendo.

Al rientro a Roma ci aspettano grosse novità: l’occasione fa l’uomo ladro. Come possiamo sprecarla, se può diventare un’esca? Cálgaris si mostra falsamente sorpreso alla proposta e acconsente felice al mio viaggio a Napoli nel ruolo di mediatore. Lui si chiama fuori, dicendo che una sua foto è finita sul Corriere della Sera, affermazione senza prove concrete a sostegno. Ci vuole un secondo uomo con l’accento di Buenos Aires. Dal momento che nessuno si fa avanti, né ha suggerimenti, propongo Jonás. Il colonnello si oppone categoricamente, ma i giorni passano e non si trovano alternative.

Intanto partecipiamo vestiti di tutto punto a due o tre ricevimenti all’ambasciata, di fronte alla basilica di Santa Maria Maggiore, oltre che a una riunione in una vecchia sede al limite di Trastevere. Si festeggia il compleanno di un cardinale, ed è attesa la partecipazione di Bergoglio. Il quale però non si presenta, e dobbiamo farci bastare un Sette di Denari: un salesiano di nome Pablo, compagno di studi di Francesco e suo sottoposto con diversi incarichi nella Chiesa argentina, che oggi svolge il proprio compito al Palazzo Apostolico e a volte dorme a Santa Marta. Un sacerdote calvo, elegante e discreto, che parla a bassa voce e ha uno sguardo diffidente, quasi minaccioso. Non vorrei averlo come nemico.

Due giorni più tardi, l’Unità antimafia comincia ad accelerare: il certificato di buona condotta partito dal carcere di Aranjuez ha centrato l’obiettivo, e i compratori si mostrano interessati. Cálgaris cerca di convincere i suoi amici che Jonás non sia una buona idea, ma ormai ho messo in giro il suo nome e pare che non ci si possa più tirare indietro. In un giorno di pioggia torrenziale ci incamminiamo sotto gli ombrelli verso Santa Maria del Popolo e ci fermiamo più di un’ora ad ammirare fin troppo nei dettagli La conversione di san Paolo e La crocifissione di san Pietro. Sto sbadigliando sull’ultima panca, con i piedi sull’inginocchiatoio, quando Cálgaris si siede accanto a me. «Questi non sono ragazzini fumati di Scampia, ma professionisti con le palle. Jonás è arrugginito da anni, ormai, ed è sempre stato un idiota pericoloso. Se qualcosa va storto, non te lo perdonerò mai», mormora. Scrollo le spalle. Sento i passi e i mormorii dei curiosi, i flash vietati sui Caravaggio, le preghiere dei baciapile e l’acquazzone in strada. Il colonnello rimesta il tabacco nella pipa, ma non l’accende. «Tu sarai il bisturi e l’idiota il martello, sia chiaro. Ed evita in qualunque modo che faccia il creativo o il coraggioso.»

È tardi quando chiamo Jonás alla pensione; gli dico che c’è un lavoretto e che si presenti in abito elegante. Arriva in ritardo; ha addosso giacca bianca, pantaloni neri e camicia fucsia che gli tirano da tutte le parti e risalgono al tempo in cui pesava dieci chili meno. All’Unità antimafia ci consegnano un voucher; devo firmare un modulo e una ricevuta per ritirare di lì a poco un viatico succulento. La sartoria è in via del Corso, ma ci sono solo capi in saldo e stracci a buon mercato. Eppure, un completo grigio, camicia bianca e soprabito in poliestere al duecento per cento gli danno un aspetto più o meno presentabile. Compriamo anche un completo casual chic in offerta e due paia di scarpe economiche. Il centurione è felicissimo e chiede se può tenerle. Gliele scaleranno dalla paga. Durante il briefing si lancia in un catalogo di inciampi verbali, e Cálgaris non perde occasione di fustigarlo. Jonás sostiene di conoscere benissimo Napoli e ogni città importante d’Italia; chiede la pistola regolamentare per difesa personale. Gli viene risposto che viaggeremo disarmati e soli, senza rinforzi di sorta; ci muoveremo come turisti pigri, in attesa che i nostri potenziali clienti si mettano in contatto. Alloggeremo in camere contigue al Grand Hotel Vesuvio, cercando di non sembrare poliziotti e di non sollevare vespai. Mi passano i punti cardine della proposta, le nostre nuove identità e le informazioni sulla struttura della holding che andremo a rappresentare. La missione consiste nel superare le barriere di sicurezza, scalare la gerarchia del clan e suscitare l’interesse del numero 1. Nessuno si fa troppe illusioni, ma se abboccheranno sarà un trionfo, e avanzeremmo verso la successiva tappa della trattativa. Cálgaris ordina a Jonás di lasciar gestire a me la transazione, senza fare battute o altro. Dovrà rimanere muto, sobrio e obbediente. Il gigante glielo giura, facendosi il segno della croce, e il vecchio alza gli occhi al cielo.

Arriviamo a Napoli in treno, verso mezzogiorno, e mentre siamo al check-in osservo le foto di Sophia Loren, Grace Kelly e Humphrey Bogart nella zona degli ascensori: evidentemente negli anni Cinquanta l’albergo era il preferito dal jet set del cinema. Le camere sono rimaste ampie e maestose; le nostre due danno sul golfo. Abbiamo appena posato a terra le valigie quando suona il telefono; una voce dall’accento spagnolo mi saluta brusca e mi dà appuntamento a Castel dell’Ovo per l’indomani, all’ora delle streghe. Jonás non vede l’ora di mostrarmi la città. Camminiamo senza meta per ore, mentre ascolto storie su san Gennaro e la leggendaria collana da tremila diamanti, cento rubini e duecento smeraldi, oltre che sulle prodezze mistiche di Maradona, i quadri e gli affreschi erotici del Museo archeologico, che abbiamo il buonsenso di non visitare. Mancando Cálgaris, non c’è bisogno di quei sonniferi. Bighelloniamo tra i vicoli, mangiamo qualche stuzzichino al Caffè Gambrinus e al tramonto, al bancone di un locale del Vomero, offriamo da bere alle sorelline della Costa d’Avorio. Bazzicano abitualmente la zona e sono più facili della tabellina del due, salvo che poi pretendono un occhio della testa. La loro compagnia fa gioco alla nostra copertura, così le facciamo salire in camera. Una delle due è qui accanto a me, che dorme della grossa; l’altra ha fatto festa per ore con il manico di Jonás. Il portiere li ha invitati a darsi una calmata, ma loro hanno continuato come se nulla fosse. Dalla finestra si intravedono le prime luci dell’alba, e per la prima volta sento che ci stanno tenendo d’occhio. Leggo un dépliant su Castel dell’Ovo nel quale si parla di Virgilio e della leggenda dell’uovo, del ruolo di fortezza e insieme di carcere; osservo le foto dell’interno del castello, la terrazza con i cannoni e la torre Normanna. Fuori dall’orario di visita e nel buio di quei corridoi sul mare, potrebbero farci saltare la testa senza nemmeno svegliare i gabbiani.

Jonás scende a divorare la colazione luculliana e più tardi torna a mangiare con noi in piazza Bellini. Le sorelle ci lasciano per un po’ sotto la pioggia e vanno a cambiarsi nell’appartamentino che affittano ai margini dei Quartieri Spagnoli; ci raggiungono più tardi nel centro storico. Quei tre hanno confabulato di andare a Capri, ma le escursioni sono state cancellate per via del cattivo tempo. Rimane Pompei. Le ragazze scherzano con i souvenir sconci all’ingresso: Jonás compra loro due falli con le ali, lavorati a mano, e più avanti ci mostra, felice come un bimbo, il lupanare sopravvissuto integro al disastro, la lava e la cenere, le pitture sgretolate sui muri che illustrano le diverse specialità delle meretrici del posto. Di ritorno in albergo, i tre intonano canzonette mentre io penso a Nuria e al destino, impegnato in una silenziosa battaglia di volontà contro i cattivi presentimenti. Vorrebbero riprendere la festa, ma pago le ragazze in contanti e le saluto. La pacchia è finita. Corriamo un’ora lungo la costa, sotto una pioggia ormai intermittente, poi ci facciamo una doccia e ci vestiamo come due geni della finanza. A mezzanotte in punto attraversiamo la strada e oltrepassiamo il portone socchiuso.

Il castello è illuminato all’esterno, ma l’area interna è al buio. Dall’ombra emerge un napoletano che ci ordina di mettere le mani contro il muro e divaricare le gambe, poi ci perquisisce in cerca di armi e microfoni. Rimane alle nostre spalle e ci guida lungo corridoi, cortili, gallerie e scale, sino alla terrazza fortificata. È un palazzo in pietra medievale, teso verso il vento, il mare e la sagoma di una città illuminata. Un tizio calvo con una cicatrice sullo zigomo ci rivolge un freddo benvenuto. Riconosco la voce, è la stessa che ho sentito al telefono; dev’essere cresciuto in Spagna, o forse ha imparato la lingua da un galiziano. Ci circondano cinque stronzi con stivali in cuoio e pistole a canna lunga. Hanno tutti una torcia e fumano come ciminiere. Il calvo menziona il boss di Aranjuez; seguendo il copione di Cálgaris, dico che tiene duro, anche se le sue prospettive giudiziarie non sono delle migliori. Non azzardo una sola parola di più; gli idioti sembrano pupazzi di cera, così rimaniamo zitti e muti. Si sentono soltanto il fragore del mare, il fischio del vento e il gracchiare di alcuni uccelli. Il calvo si appoggia alla parete, guarda a sinistra, fa schioccare le dita e dice due o tre parole in dialetto stretto. Un attimo dopo appare un vecchio senza denti, infilato in un giaccone antivento. Ha più rughe di un testicolo. Mi si avvicina, fin quasi a toccarmi, e mi illumina la faccia con la torcia da sorvegliante. La luce mi acceca, ma lui non desiste: sembra un medico legale intento a esaminare un cadavere millimetro per millimetro. Il fiato sa di pomodoro fritto e grappa; anche lui mi sta fiutando come un segugio. Mi palpa i bicipiti e le mani, come se cercasse i segni di una professione, poi si rivolge a Jonás e ripete la procedura. Al termine di questa strana ispezione, lo spettro spegne la torcia ed estrae dalla giacca a vento una piccola camera fotografica. Ci immortala di fronte, di profilo, poi sussurra qualcosa all’orecchio del tizio pelato, che non batte ciglio, sposta lo sguardo e si passa una mano sul naso. Quando muove le labbra, lo fa senza traccia di emozione: possiamo andare, non sa dire se ci chiameranno, ma nel dubbio è meglio che teniamo il telefono a portata di mano. Se nel giro di due giorni non lasceranno messaggi alla portineria dell’albergo, significa che non c’è interesse e, per la nostra incolumità, è meglio se non restiamo in zona mezz’ora di più. Ci accompagna fino al portone. Attraversiamo la strada e, al bar dell’hotel, chiediamo due gin con ghiaccio, per calmare il battito cardiaco e commentare i dettagli. Jonás fa lo splendido, ma è spaventato. Mi propone di chiamare le sorelline per rilassare i nervi; glielo proibisco.

Leggo fino a tardi un testo di Robert Hughes sulla cronistoria dell’antica Roma, poi mi chiudo in palestra finché non sono sfinito. Non ci sono novità, quindi tiro fino a mezzogiorno con una lunga corsa sul lungomare, dalla quale Jonás si ritira, senza fiato. Chiedo alla gente del posto qual è la spiaggia migliore per nuotare al largo: sento molto la mancanza delle bracciate domenicali nel Río de la Plata; un sommozzatore della Marina non abbandona mai l’esercizio né il vizio. Il programma però subisce presto un’interruzione: qualcuno ha lasciato una busta per noi alla reception. Un altro appuntamento notturno, questa volta alla «Napoli sotterranea». Non abbiamo idea di dove sia, quindi chiediamo informazioni a un’impiegata leziosa. Con l’aiuto di una cartina, la donna ci spiega che si trova in piazza San Gaetano 68 ed è una rete di catacombe con più di duemila anni di storia: tombe cristiane, gallerie, grotte, vicoli, acquedotti, rifugi antiaerei della seconda guerra mondiale. Visite guidate a dieci euro, gestite da un’associazione serissima, della durata di novanta minuti circa. Inadatte a chi soffre di claustrofobia. Presumo che a mezzanotte il posto sarà chiuso ai turisti ma aperto, ancora una volta, ai nostri bizzarri interlocutori. Questo secondo abboccamento, tuttavia, ha qualcosa di teatrale o di grottesco, e mi salta la mosca al naso: Divertiamoci un po’ con questi due gauchos ignoranti. Scendano quaranta metri sottoterra e se la facciano addosso. Lì sotto non c’è campo, tra l’altro. Puzza di trappola, se non di rituale, ma non presentarsi all’appuntamento manderebbe all’aria tutti i nostri sforzi. Che cosa direbbe Cálgaris, se potessi chiedergli un consiglio? E se lo chiamassi da un telefono pubblico? No, le carte ormai sono sul tavolo, non possiamo correre il rischio di farci intercettare dai padroni di Napoli, che controllano ogni cosa con la loro tecnologia.

Jonás è una corda di violino e continua a massacrarsi le nocche; propongo due ore di sauna e idromassaggio. Il centurione mi racconta le sue avventure europee, sempre al limite dell’illegalità e del ridicolo, ma i suoi aneddoti non sono divertenti. Un sesto senso mi dice che siamo alla vigilia del combattimento. E credo che il gigante, a modo suo, abbia lo stesso presentimento. Qualche strana associazione di idee lo porta a riferire un vecchissimo e violento incidente tra carabinieri e i guardaspalle di un giocatore del Napoli che pagava benissimo, ma che aveva una relazione adultera con la propria cognata. Sembra che la donna fosse nipote di un boss mafioso, il quale aveva pagato qualche carabiniere per dare una lezioncina al ragazzo. Era finita a pugni, calci e spari. Jonás si era ritrovato con il setto nasale rotto, sbattuto in cella per quindici giorni. Il calciatore era rimasto in panchina per tre settimane, quindi era stato venduto al Paris Saint-Germain. La cognata era emigrata a Palermo con un occhio maciullato, e lì si era dedicata alla cucina e a una vita accanto al focolare.

Intorno alle nove ordino la cena in camera, bistecca con verdure grigliate. Quando la portano, richiamo il room service chiedendo un coltello serio. Me ne portano uno con punta affilata e lama seghettata. Impiego qualche minuto a spezzare la lama, staccandola dal manico di legno: ora è un pezzo d’acciaio di quindici centimetri impossibile da impugnare; un sottile machete da infilare sul lato della scarpa sinistra, tra la calza e il cuoio. Più che una procedura da protocollo è un banale trucco da mandriano, ma aiuta a sentirsi meno coglione.

Verso le undici ci allontaniamo dall’albergo, camminando come due vecchi amici che hanno voglia di andare a bere qualcosa, saliamo lungo stradine tortuose, schiviamo moto temerarie e ci guardiamo alle spalle con noncuranza. Fumiamo una sigaretta a cinquanta metri dall’ingresso, una doppia grata in ferro che, oltre la facciata vecchia e grigia, conduce a una porta, a un atrio con una biglietteria e una scala che va verso il basso. Vediamo passare in strada orde di cinesi; sentiamo risate, canzoni inframmezzate l’una all’altra e battute in dialetto. Poco distante, alcuni adolescenti innocui bevono birra, ignari della drammaticità dell’incontro che ci aspetta. A mezzanotte in punto, lo stesso usciere di Castel dell’Ovo apre grate e porte e ci fa cenno di avvicinarci. Spegniamo i mozziconi e obbediamo. Questa volta evita la perquisizione, e non so se dovrei esserne sollevato o preoccupato. Diverse luci sono spente, e scendiamo centoventi gradini seguendo la torcia della nostra guida. Finiamo in una spelonca enorme e fredda, che porta a una cripta in roccia calcarea dove due energumeni ci aspettano armati. In quel labirinto umido e buio ci muoviamo incollati alle calcagna del primo tizio, con gli altri due che ci tengono il fiato sul collo. Lungo il cammino vediamo un bunker pieno di bombe giocattolo appese al soffitto, recinti in ferro pieni di oggetti antichi e monitor, spenti. Attraversiamo stretti corridoi in salita e in discesa, strettoie nelle quali bisogna avanzare di profilo: Jonás si gratta la pancia e respira affannato. Ci sono tratti di buio assoluto e gallerie illuminate da piccoli candelabri. Più avanti sentiamo scrosciare dell’acqua e, sotto le mani, una balaustra di metallo. Stiamo passando sopra una cisterna, in preda alle vertigini, aggiungerei, come se ci avessero fatto fare un giro assurdo per confonderci.

D’un tratto svoltiamo a sinistra, sbucando in una grotta in cui le ombre si allungano. Il tipo con la cicatrice fuma senza remore; gli fanno da spalla altri tre gorilla e il vecchio con la giacca a vento, che ha un sorriso sdentato. «Levati i vestiti», mi dice il calvo, cordiale, quindi si rivolge a Jonás: «Anche tu, figlio di puttana». Il tono è grave e non c’è traccia di rabbia, ma due o tre dei suoi scagnozzi fanno scorrere il carrello delle pistole, come a farci capire che è un ordine al quale non possiamo opporci. Io e il gigante ci scambiamo un’occhiata. I brutti presentimenti stanno prendendo forma.

Iniziamo il nostro striptease; il vecchio non si esime dal controllare e annusare gli indumenti come se fosse un mastino. Mi sfilo le scarpe con attenzione, lasciando il più vicino possibile a me la scarpa portafortuna. Restiamo nudi come vermi, ma non sentiamo nemmeno il freddo: a volte la paura ti rende insensibile alle temperature. Sento una breve risata: sono divertiti dallo spettacolo del nostro culo bianco e vulnerabile. Il vecchio mi punta la torcia sul torace, esaminando le cicatrici e i tatuaggi del carcere, in particolare l’aquila sul cuore e la spada con il teschio. Ora è la volta del centurione, che sfoggia a sua volta cicatrici, una raffigurazione di Nostra Signora di Luján e una di Spartaco, che gli copre mezza schiena. Il vecchio dice qualcosa in dialetto che suona come un commento finale; non dovrebbe essere un cattivo verdetto, dal momento che siamo puliti, eppure il calvo ci ordina di inginocchiarci. Adesso sono sicuro che le cose si stiano mettendo davvero male, e temo il peggio. Ci genuflettiamo come a messa. «San Gennaro amava le catacombe», dice il calvo, che non leva mai gli occhi di dosso al «figlio di puttana». Il gigante ha il colorito del David di Michelangelo. Aggrotto la fronte nel rendermi conto che tra quei due c’è una questione in sospeso, e in quell’istante il vecchio strilla di gioia: ha trovato il coltello nella mia scarpa. Si ferma alle mie spalle e mi appoggia il filo affilato sulla gola, cercando la giugulare; è talmente felice che sbava. Jonás dice qualcosa in un italiano ermetico, parla in fretta, come a chiarire un malinteso. Per la prima volta, l’uomo della cicatrice sorride, e fa più paura di quando è serio. Il gigante ripete la propria arringa, inciampando nelle parole, ma il calvo scuote la testa, come se stesse ascoltando le scuse ingenue di un bambino di prima elementare. Poi si volta e inchioda gli occhi nei miei. Provo a fare l’offeso: «Non capisco il motivo di questa umiliazione», ma non suono granché convincente. «Ottimo affare, ma socio sbagliato», ribatte lui. Del monologo isterico del mio amico comprendo soltanto una frase, che ripete tre volte: «Tesoro di san Gennaro». Ho la bocca secca. Mi giro verso il gigante, gli grido: «Cos’hai combinato, coglione? Che sta succedendo?» Jonás sbuffa come un bufalo, apre e chiude le braccia e stringe le dita a pigna; sembra un tano, un immigrato italiano, mentre spiega a un giudice di Buenos Aires che non voleva strangolare la sua adorata moglie. Alle mie domande, fa uno sguardo da agnellino sgozzato. «È successo mille anni fa, Remil, è stata una cazzata. Ti giuro, credevo che ormai fosse acqua passata. È assurdo», conclude, ma tre spari cancellano le ultime lettere. Tre colpi rapidi, dal basso verso l’alto: coscia, addome, petto. Il centurione di Goose Green trema come un pupazzo e cade a terra, immobile. D’istinto mi agito, ma il vecchio affonda di poco la lama: questo è capace di tagliarmi il collo in un attimo, muore dalla voglia di farlo. Il sangue mi martella alle tempie e il cuore è stretto in una morsa; non riesco ad alzare gli occhi: so che leggerei il mio destino negli occhi dell’uomo con la cicatrice e come un bambino cerco di rimandare quel momento, che potrebbe essere l’ultimo. «Ancora non so cosa fare con te», taglia corto il Signore dell’universo, e la voce riecheggia intorno a noi. Alzo la testa e lo affronto. Il sorriso gli è sparito dalla faccia da un pezzo. Potrei parlargli del camerata di Aranjuez e del mucchio di soldi che gli faremo guadagnare, ma ho la sensazione che strisciare e umiliarmi non servirebbe a niente. La morte è inevitabile, però posso scegliere di non fare cazzate.

Sul pavimento si allarga un’enorme pozza di sangue, e il silenzio non potrebbe essere più assoluto. Il calvo accende un’altra sigaretta e fa un gesto al suo vassallo. A malincuore, il vecchio scosta la lama. Senza parole, mi ordinano di alzarmi. Lo faccio, lentamente, aspettando il momento della fucilazione, ma nessuno alza un dito. Il capo sembra riflettere, avvolto da un fumo denso. «Ancora non so cosa fare con te», ripete, come tra sé e sé, ma, inaspettatamente, con il pollice mi indica l’uscita. Come un topo di fronte alla trappola, guardo la galleria buia dalla quale sono arrivato, e calcolo la posizione del re e dei suoi sicari. Pensano di spararmi mentre scappo? È impossibile capire a che gioco stiano giocando, così faccio ciò che mi suggerisce il corpo. Corro fino all’apertura nella roccia e continuo lungo quei passaggi stretti e claustrofobici, letteralmente alla cieca, senza torce, candele né una sola luce di riferimento. Sento urla e spari in lontananza, come quelli di un gruppo di apache chiricahua impegnati in una battuta di caccia. Sfreccio attraverso strettoie e gallerie, oltrepasso sale scavate nella roccia che nemmeno riconosco, cercando di orientarmi in quella città sotterranea. Cado e mi rialzo, mi graffio le braccia cercando di uscire dal labirinto. Mi nascondo in un angolo, cerco di recuperare il fiato e aguzzo le orecchie. Sento ancora le voci e gli spari, ma sembrano più lontani, come se i miei aguzzini avessero imboccato un’altra direzione. Forse perché loro ricordano la strada e io invece sto girando in tondo come un imbecille, se non mi sto dirigendo addirittura verso il fondo del pozzo. Cammino nel buio per chissà quanto tempo, a volte a tentoni, e mi stupisco nel ritrovarmi nella grotta con le bombe appese al soffitto. Mi guardo bene attorno per non fare errori, poi sento di nuovo i colpi, fortissimi, addirittura il fischio delle pallottole, e mi lancio come una freccia, quasi sicuro di aver imboccato la strada giusta. Ed ecco che mi appare davanti l’ultima caverna, illuminata da una luce flebile, e la scala da centoventi gradini. Le grida dei bastardi mi costringono a riscuotermi: adesso sembrano a una cinquantina di metri o poco più. Salgo i gradini tre alla volta, scivolando; penso solo a tornare in superficie. L’usciere non si vede, e le grate sono ancora aperte. I chiricahua di Scampia galoppano su per le scale ridendo come matti. Mi butto in strada come un folle e percorro sei isolati a velocità olimpionica. Giro un angolo dopo l’altro, e finalmente capisco che nessuno mi sta seguendo. Solo a quel punto mi rendo conto che in strada c’è tutta Napoli, e che turisti e cittadini mi rivolgono sguardi sorpresi e beffardi. Sono completamente nudo nel cuore di una città nemica. Bello spettacolo, penso, pieno di vergogna.