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La caccia

Dal momento che è una battuta di caccia in campo aperto il Turco Jalil usa un Winchester 7 mm Short Magnum con mirino telescopico, mentre Alejandro Farrell ha un fucile semiautomatico .280 Remington. A me danno un .243, un ferro per novellini. Sto zitto. Con l’erba che ci arriva alle ginocchia, ci spostiamo da un sentiero all’altro, muti come sciacalli e vestiti con abiti mimetici. Una Land Rover ci ha portati dalla città dei laghi fino a questa tenuta da diecimila ettari, e un gaucho con pantaloni alla zuava e basco rosso ci ha consegnato attrezzatura e cavalli. Si è unito alla cavalcata, che è stata lenta e piacevole e ci ha impegnati per circa due ore. In lontananza, la cordigliera si mostra in tutto il suo splendore, e le chiacchiere accolgono aneddoti e lezioncine: la guida è Jalil, ma Alejandro vuole vantarsi di ciò che sa e non fa che raccontare di battute di caccia fantastiche. È un esperto dell’animale che stiamo inseguendo e mi parla della stagione dei bramiti, il mese e mezzo in cui il maschio lancia gridi minacciosi per marcare il territorio e conquistare la femmina. Non è questo il periodo, ma non è nemmeno un momento in cui la caccia è permessa. Siamo cacciatori di frodo, ma chi farebbe una multa al figlio del governatore e al capo del dipartimento per la Sicurezza? E a chi appartiene questa tenuta immensa? I due si sbellicano dalle risate.

Il sole tramonta in fretta, e raggiungiamo un casotto di caccia poco prima che faccia buio: una costruzione in mattoni, di fronte a un abbeveratoio per il bestiame. Leghiamo i cavalli ed entriamo in quel confortevole rifugio, con tanto di trofei e di gruppo elettrogeno. Il frigorifero è ben fornito; la guida si occupa dei cavalli, poi ci prepara un asado di cinghiale e serve un cabernet della zona di Mendoza. Mi spiegano che c’è una riserva di caccia verso sud, ma che loro preferiscono la sfida dei grandi spazi. «In modo che la battaglia sia giusta e la bestia abbia una possibilità», puntualizza Jalil, da uomo compassionevole qual è. Alejandro parla con entusiasmo delle teste dalle quattordici corna e dei cervi assassini, i cui palchi sembrano stiletti affilati, più che corone. È l’unico argomento, e mi limito ad ascoltare e a scambiare occhiate con il Turco. All’ultimo bicchiere, la guida stende la cartina sul tavolo pieghevole e indica un rettangolo. Dobbiamo continuare a piedi per due o tre ore, senza dimenticare alcuni elementi fondamentali: su un sentiero lontano da qui lui stesso, due giorni fa, ha visto l’orma di un maschio grosso e pesante. Segna il punto con una penna. Più a nord, vicino a una recinzione di filo spinato, ha trovato tracce del passaggio di un altro animale. Ci augura buona caccia e rimane ad aspettarci con i cavalli, lì sulle retrovie. «Domani te ne portiamo uno e ce lo cucini», si lancia Junior, che per l’ennesima volta si preoccupa di educarmi al rito: «Lo mangiamo perché lo rispettiamo. È un dovere».

Poi si infila gli auricolari e si addormenta, cullato dalla musica elettronica. Io e Jalil continuiamo a fumare al buio, senza una parola, cosa degna di nota, considerando la quantità di faccende in sospeso. Ho un sonno agitato, come se la mia vita fosse in pericolo, una sensazione che mi accompagna tuttora, mentre mi muovo in questo terreno inospitale in cui ogni sagoma sembra un cervo rosso. Nel nostro métier siamo in balia di una grossa contraddizione professionale: la paranoia ti può distruggere, ma raramente l’intuito sbaglia. Per tutto il tempo non faccio che chiedermi se il .243 farà il suo dovere al momento della verità, e rimpiango di non aver portato né la Glock né la Smith & Wesson 36.

A un certo punto Jalil rimane indietro per vuotare la vescica e Alejandro mi offre l’acqua della sua borraccia. «Sai una cosa, Remil? Le cazzate che fa o può avere fatto mio fratello mi fregano un cazzo. L’unica cosa che mi interessa è il progetto politico», confida inaspettatamente. Mi inchioda con lo sguardo, ma capisco che non aspetta una risposta; sta elaborando la riflessione successiva. «La piccoletta dovrà inventarsi qualcosa di meglio del condor per guadagnare voti. Perché la gente è ingrata e stronza», conclude, sollevando un dito. «Comunque è meglio che non pestiate qualche merda: il progetto non deve finire a puttane.» Il discorsetto di Junior mi fa sorridere, forse perché nessuno minaccia chi sta per uccidere. Anche se un colpo può scappare a chiunque. Gli incidenti di caccia sono frequenti, e Jalil mi sta alle costole con il suo Winchester.

Stiamo stuzzicando un vespaio con la storia di Carla Jakov, quindi è logico che il Turco sia particolarmente nervoso: è stato lui a cancellare le prove e a cercare falsi colpevoli, e all’improvviso arriva questa gente da Buenos Aires a rivangare nel pasticcio che ha combinato e a salvare con una bella sceneggiata la fragile reputazione della famiglia al potere. Maca e il Grande Jack stanno esaminando uno per uno i presunti amanti abbandonati che compaiono tra i personaggi: sono sei o sette, tutti con ruoli assai dubbi. Gli uomini del Turco li hanno infilati nella trama generale con i trucchi più diversi, per buttare fumo negli occhi e intorbidare le acque, e per far sì che qualcuno cadesse in errore e si ritrovasse intrappolato nel corso del processo. Nel suo ruolo di paladina di Luis Jakov, l’Inglese si è presa il disturbo di smontare quelle montature e di illustrare con una logica poliziesca perché nessuno di loro poteva aver tirato il pugno alla tempia della vittima.

Dopo aver ispezionato la casa in campagna di Quelo, ho bussato alla porta della signora Burgueño, che mi ha invitato a mangiare uno stufato. È una matrona circondata di cani e gatti, una donna corpulenta che crede nei fantasmi. Mi descrive scene deliranti sugli spettri della zona, racconta di vecchie burle degli abitanti, e mi domando se supererebbe una perizia psichiatrica. Giura sulla Bibbia, tuttavia, che Flavio Farrell si vedeva spesso e che il pomeriggio in cui è arrivata la macchina della polizia lei ha visto «con quegli stessi occhi» la Peugeot 308, bianca come la forfora. Più tardi mi assicura che i suoi gatti sono la reincarnazione di una coppia di briganti, una storia romantica e dolceamara: la giustizia li raggiunge e li fucila su due piedi; accade nel Novecento, quando la Patagonia è ancora deserta. «Per questo i miei gatti tigrati non si mescolano agli altri e se ne vanno in giro sempre insieme.» Non ha la più pallida idea di essere una testimone chiave, e nemmeno sa che non l’hanno chiamata a deporre perché il giudice ha messo un piede sul freno e un po’ di soldi in tasca per i servizi prestati.

L’incontro con il Gringo è più prosaico. Finge di essersi bevuto la storiella dell’ispettore incaricato di nuovi accertamenti e mi accompagna in giardino dove, inginocchiato a terra, cura il roseto. È rosso per davvero, ha una pancia da gravidanza in stato avanzato e due zampette da pavoncella del Cile. L’abbronzatura della Patagonia dissimula a malapena il pallore malaticcio del suo viso. Non gli dà fastidio se fumo, appoggiato alla capote della sua Ford Falcon Rural.

«L’unica speranza, ormai, è che la causa per occultamento di prove proceda e qualche topo esca dal buco», dice, distribuendo il concime. «Che so, uno che si è pentito, uno dei sicari di Farrell che abbia un minimo di sensi di colpa e di paura. Stiamo lottando contro la macchina dello Stato. Non sa gli sgambetti che mi hanno fatto, dottore. Mi hanno accusato di volere soldi per stare zitto, di voler montare un caso politico, mi hanno fatto passare per matto. Ma la gente del posto è sempre più solidale e mi sostiene ogni giorno. Venga a fare un giro in strada con me e vedrà. Loro lo sanno che hanno messo su questa comparsata per salvare uno importante. Nessuno può avere tanta influenza, comprare tutti quei funzionari, capovolgere le prove. Nessuno inventa tanti capri espiatori per confondere le acque, se non perché un alto papavero ci è dentro fino al collo.»

«Aveva mai visto Flavio?» lo interrompo.

Scrolla le spalle e prende una piccola zappa per strappare le erbacce.

«Non lo ha mai portato a casa», dice tra i denti. «Non sono stato un buon padre, mi creda. Troppe volte non trovavo le parole. E Carla non dava spiegazioni, era ribelle e una provocatrice, forse pensava che quella situazione poco chiara non mi sarebbe piaciuta, me l’ha risparmiata, e in questo è stata bravissima. Lo sanno tutti che era ancora legata a quel topo di fogna. Tutti tranne mio genero, che è un povero scemo.»

«Ma lei non ne ha mai parlato con sua figlia.»

«Mai.» Sospira, con le braccia lungo i fianchi. «Ma ero suo padre e dentro di me sapevo che si vedeva con il figlio di Farrell. Andava a letto con lui, che poi faceva l’amicone di Quelo, come se nulla fosse. Quindici anni con questi giochetti; per loro tre ormai era una cosa normale, ma io non posso accettarlo. Ci penso spesso, la notte, quando non riesco a dormire. Ricordo la mia povera moglie e quanto mi è mancata, e mi chiedo perché Carla sia venuta su così.»

«Ha mai chiamato Flavio per capirci qualcosa di più?»

«Mai.»

«E il governatore?»

«Dopo la marcia del silenzio mi ha chiesto di vederci nel suo studio. Sono andato con l’avvocato, ci ha fatto fare due ore di anticamera. Poi ci ha fatti andare al dipartimento per la Sicurezza, che si trova a un altro piano. È stato Jalil a ricevermi, faceva il cerimonioso. Mi ha offerto un aiuto economico per dare vita a una fondazione e ha suggerito di fare attenzione a non offendere nessuno, se non volevo perdere questa casa. Gli ho detto che era un giuda e che sarebbe bruciato all’inferno. Quella sera ho avuto un attacco di angina pectoris.»

Il Gringo parla a lungo mentre sistema piccoli difetti del giardino, ma non aggiunge molto a quello che già sappiamo. Lo aiuto diverse volte a rialzarsi. È nervoso. Me ne vado promettendogli che avrà presto mie notizie, e passo il pomeriggio a nuotare e a fare boxe al Convergencia. La sera salgo alla suite di Belda, dove trovo Marquís. Stanno bevendo Talisker e studiano quella che Beatriz chiama «guerriglia egemonica». Azioni divisioniste che, dietro suo consiglio, Farrell promuove in sindacati e associazioni di categoria. Patriottismo e antipatriottismo, ma in chiave provinciale: amici e nemici del progresso, uccelli in volo e rettili striscianti, difensori della causa federalista e abominevoli burattini del centralismo. Gli uni contro gli altri. La stratega allude anche alla necessità di trasferire il prima possibile Lolo Muñoz e di mettere al suo posto un esperto di Buenos Aires, capace di rendere spettacolare ogni mossa e organizzare grandi feste popolari. «Abbiamo bisogno di luci, schermi, fuochi artificiali e megalomania.» Sorride. E mi chiede di vuotare il sacco.

«Il processo è stato insabbiato, ma è ancora aperto», ricordo loro, accettando una birra dal frigobar. «Nel giro di due anni, a seconda delle dinamiche tra le forze politiche, potrebbero riunirlo a quello per l’occultamento e andare in giudizio. Il vantaggio principale? Probabilmente il vecchio non vivrà così a lungo. E lui è il vero e unico motore. Via il dente, via il dolore. Il vedovo non vede l’ora di voltare pagina e dimenticare quello schifo.»

«E il pavone? L’avvocato non potrebbe andare avanti da solo?» chiede BB.

«Marquís potrebbe trovargli un posto in una delle sue imprese milionarie», suggerisco, cauto. «Tra un po’, quando rimarrà solo quel vedovo smidollato, magari gli passerà la voglia di litigare, soprattutto se per allora avrà un’altra posizione e gli si farà capire che perderebbe tutti i benefici. Dovrebbe essere un’operazione fatta con cura, perché le rozze offerte di Farrell non hanno funzionato. L’avvocato non deve sospettare nulla, in modo da poterlo intortare per bene, e a quel punto per lui sarà troppo tardi.»

«Ha una sua logica, bisogna solo saperlo fare», conferma Marquís, accarezzandosi il pizzetto. «E la vicina?»

«È una mezza matta. Se ci inventiamo qualcosa per obbligarla a presentare una denuncia assurda, potremmo farla apparire come una mitomane e silurare la sua testimonianza.»

«Tutte queste cose costeranno un po’», osserva Marquís, evocando le famose parole che Cerdá si è dovuto ingoiare.

«Quello che si aggiusta con i soldi è quello che costa meno», dice Beatriz, pensierosa. «C’è modo di mettere il ragazzo in una botte di ferro?»

«Potremmo cercargli un altro alibi», spiego. «Sarà difficile, e non sono nemmeno sicuro che si possa fare. Bisognerà cercare un caso dello stesso periodo che presenti punti in comune. Offrire soldi e uno sconto di pena alla persona sotto processo affinché aggiunga qualcosa alla dichiarazione, con un motivo plausibile, e lasci scritto che quella sera si è fermato a casa di Flavio per vendergli una cosa qualunque. Qualche riga in mezzo al testo, niente di più, perché il resto della dichiarazione deve rimanere convincente e solida. Con un giudice dalla nostra, quel processo seguirà il suo corso, ma quel particolare verrà messo agli atti, e l’avvocato difensore potrà disseppellirlo tra un paio d’anni, dire che Flavio si era dimenticato di aver visto quella persona e sfruttare il dubbio.»

«Abbiamo fatto ben di peggio, Betty», aggiunge Marquís. «Un assegno e un alleggerimento della pena per il plebeo, e una carta di credito per sua signoria. Non è un testimone chiave, ma rinforza l’arringa conclusiva.»

«Bisogna indirizzare, istruire e controllare da vicino il plebeo, altrimenti il rimedio sarà peggiore del male. Potrebbero chiamarlo a testimoniare, anche se non sempre succede», li avviso.

«È un metodo di Cálgaris?» chiede lei.

«Le poche volte che ci abbiamo provato ha funzionato. Ma, ovviamente, avevamo a che fare con giudici ragionevoli.»

«Anche qui ci sono persone molto assennate», conclude Marquís, che con un dito fa girare il ghiaccio nel bicchiere ormai vuoto.

Belda glielo riempie ancora, ma sembra pensierosa, cosa che ci obbliga a tenere la bocca chiusa per qualche minuto. Si avvicina alla finestra, scosta la tenda e guarda la strada e la piazza, senza vederle. Rimane lì per un po’, e alla fine scuote la testa.

«Non ci infileremo in questo ginepraio finché non avremo scoperto che cos’è successo davvero con quella hippie, e non prima di avere il controllo del dipartimento per la Sicurezza», sentenzia, con voce roca. «Oltretutto, il problema non è quell’ipotetico processo, ma la sfiducia attuale, che mette a rischio la rielezione. Mi sono impegnata a scrivere una favoletta e a metterla in giro. Niente di più. E non è nemmeno così semplice, perché non ho abbastanza materiale.» Fa un gesto, come se stesse impastando, e mi inchioda con uno sguardo di rimprovero. Bevo un lungo sorso di birra.

«Il passo successivo è la famiglia reale», anticipo.

«Andando a fondo. Senza concessioni», riflette, sbattendo le palpebre.

«Potresti riferire a Farrell la nostra strategia processuale e usarla come esca per farlo sbavare un po’; a quel punto, zacchete: gli chiedi collaborazione da parte della famiglia, dicendo di non preoccuparsi se li rivoltiamo come calzini. Perché Jalil deve stargli addosso giorno e notte.»

«Romero se ne sta occupando», puntualizzo.

«Con molta calma», si lamenta Marquís, che non vede l’ora di entrare nella parte.

La ridefinizione della rotta rimane sospesa per una decina di giorni ancora. Mi occupo di alcuni pedinamenti, fotografo le proprietà delle persone coinvolte, ordino al Grande Jack di lasciar perdere definitivamente il caso Jakov e di stringere il cerchio attorno ai giri di Jalil e all’esportazione di cocaina. Convinto che il Turco sia il collegamento tra i due trafficoni, il commissario vola a Buenos Aires per passare un intero fine settimana a chiacchierare con Leandro Cálgaris: BB ha chiamato il colonnello per lamentarsi della lentezza di quell’indagine, e il padreterno della Casita ha convocato Romero per fargli da tutor. Quando, al ritorno, ci troviamo al pub irlandese, mi racconta che hanno promosso il Salteño, il quale ha preso il mio posto all’agenzia. Cálgaris parla con tutti, tranne che con me. Romero pontifica sull’acquisto di informatori: gli hanno fornito fondi riservati per procurarsi qualche talpa al porto, sulla costa; questo gli ricorda i tempi in cui si presentava nelle carceri di massima sicurezza con pacchi di cibo, faceva visita in una stanza riservata alle spie che lui stesso aveva messo in galera e passava il pomeriggio a raccogliere informazioni sulle bande da galera. «La vita è durissima, al fresco. A volte con due sacchetti di yerba mate e tre stecche di sigarette facevi un macello. Un giorno uno mi ha spiegato in dettaglio in che modo si stavano formando le bande dei sequestri di persona. E aveva ragione, bisognava ottenere dal servizio penitenziario la mappa dei padiglioni e tenerla aggiornata, perché le bande non si formavano tra specialisti, ma tra compagni di padiglione. Per questo un ladruncolo qualunque o un borseggiatore si ritrova a partecipare a un colpo importante. Noi pensavamo che si mettessero insieme tra migliori, come in Quella sporca dozzina. Invece no. Le bande nascono tra ladri e alleati dello stesso padiglione. Se sapessi quanto mi ha aiutato, questa cretinata! Abbiamo trovato il bandolo della matassa e neutralizzato diversi gruppi pericolosi.»

Quella stessa sera Silvia Miller suona alcuni pezzi di Tom Jobim e, a mo’ di concessione, una versione docile e cadenzata della Yumba. Ci ritroviamo nella sua casa tra le rocce, ma prima di sfilarsi il maglione mi chiede, a bruciapelo: «Sei andato dal Gringo. Che succede? Farrell è nervoso?» È una donna che non si abbassa a fare una scenata, ed è l’unico motivo per cui non mi dà del figlio di puttana, ma ha l’insulto a fior di labbra. Ha gli zigomi arrossati e le pupille gialle. È arrivata alle conclusioni in fretta, e sono tutte corrette. Non mi ha portato qui per soddisfare la sua lussuria, ma per discutere a porte chiuse e farmi un interrogatorio approfondito. Mi gratto la nuca. Sono finito in un’imboscata.

«Sei troppo sicura. E per un giornalista non è un pregio», le dico.

«Non venire a dare lezioni di giornalismo a me!» grida, e la gatta persiana salta dal pavimento al davanzale. «Il solo fatto che ti abbiano coinvolto non fa che confermare che è colpevole. O mi sbaglio?»

«Quello che hai scritto non era male, ma è una strada senza uscita.»

«Solo perché hanno il coltello dalla parte del manico!»

Capisco che vorrebbe qualcosa di impossibile. Che io confessassi le mie intenzioni e diventassi la sua fonte, o almeno che mi degnassi di discutere con lei i dettagli dell’indagine. La guardo dispiaciuto; presto mi mancheranno la sua voce e il suo corpo. Mi avvicino alla porta trascinando i piedi.

«Se te ne vai, non torni mai più», rincara, senza desiderio né rabbia. Nessuno di noi due ha altra fede se non quella nelle regole del mestiere, prigionieri di quelle poche certezze. Un peccato.

Torno alla pensione e passo la notte insonne, facendomi domande su Cálgaris e il mio mal di gola. Al mattino ricevo l’ordine di andare a prendere Diana Galves e Juan Domingo in aeroporto. Ci troviamo sulla pista con Lolo Muñoz. Carico tutti e tre sulla 4×4. L’assessore alla Cultura è in ansia per il Festival delle Lettere. Arriveranno scrittori argentini importanti e penne famose da tutta l’America Latina; sono perfino riusciti a procurarsi un autore francese che ha vinto il Goncourt e che vuole solo fare il turista. Lolo non conosce nessuno di quei grandi nomi, non ha letto altro che il canzoniere popolare della Patagonia e vuole un minimo di infarinatura. Frizzante e di buon umore, la diva non risparmia cattiverie: «Sono dei morti di fame, Lolo, non ti agitare. Quelli che hanno accettato l’invito non li leggono nemmeno le loro madri. Arrivano al successo grazie a professori e critici che vivono di aria fritta, con l’aiuto di cricche che prosperano sugli scambi di favori. Si consolano pensando che non vendono perché sono troppo complessi per la massa. Gli rimane la fama postuma e, intanto, i viaggi e le fiere in giro per il mondo, dove mangiano come re e bevono come spugne, si fanno immortalare in pose da intellettuali e cercano di farsi tradurre. Qualcuno ci riesce pure, ma poi viene fuori che nemmeno i lettori europei sono in grado di comprendere il loro talento sconfinato. Per cui diventano matti per quello che gli stiamo offrendo: finanziamenti provinciali, laboratori ben pagati e il non plus ultra: un soggiorno di fronte a due laghi, dove possono scrivere sentendosi delle divinità.» Il sarcasmo di Lady Di non lenisce l’inquietudine dell’assessore, che si agita sul sedile come se avesse il pepe al culo. «Se Farrell gli tira un osso, lo difenderanno e giustificheranno come se fosse Lorenzo de’ Medici», aggiunge lei. «I progressisti non sbagliano mai, su questo.» Lolo Muñoz probabilmente pensa che Lorenzo de’ Medici sia un governatore di una provincia del Nordest. Non si calmerà finché l’ultimo genio delle lettere non sarà tornato al proprio cenacolo.

La regina della battaglia culturale si muove tra romanzieri e poeti con la stessa grazia impunita che sfoggia tra registi e attrici, sebbene le sue letture non vadano oltre i risvolti di copertina. Sembra però che, fra teatro e cinema, abbia interpretato diversi scrittori di fama universale, e nei circoli si difende grazie agli aneddoti sulla sua vita privata. Durante una delle cerimonie, si concede di leggere alcuni versi di Borges e di García Lorca, svelando che i due si detestavano a vicenda, a quanto pare. Cita un certo Barnes, che ha conosciuto nel Regno Unito, autore di una scultura in cui diversi insetti si soffocano a vicenda per arrivare più in alto. Ambiente letterario londinese, questo il titolo dell’opera. Alcuni tra gli invitati ridono e applaudono. Sento uno che, a bassa voce, la chiama pescivendola; nel gregge c’è un diffuso cinismo, ipocrita e discreto. Cerdá fa chiudere al pubblico il suo ristorante sul fiume e offre un banchetto. Beatriz e Diana sfoggiano il loro francese con il vincitore del Goncourt e ridono alle sue battute. Prima del previsto, il governatore saluta gli astanti e li lascia in buona compagnia. Vedendomi accanto alla porta si gira e mi chiama. Lo seguo fino alla macchina; mi chiede se posso accompagnarlo. Il tragitto è breve. Le signore non hanno bisogno di me, per cui accetto. Avrà perso dieci, dodici chili. Diana aveva ragione: viste da vicino, le tempie argentate gli danno un che di nobile. Ordina alla guardia di scendere e chiede all’autista di portarlo a casa. Vuole fare due chiacchiere da uomo a uomo, con la massima discrezione possibile.

«Non sa la fatica che faccio, Remil. Capisco quello che dice Beatriz, bisogna fare pulizia, altrimenti siamo fritti. È logico. Ma ho una paura fottuta, e lei capirà bene il perché.»

«Capisco. La famiglia.»

Allarga le braccia e guarda oltre il finestrino come se cercasse di connettersi ai propri pensieri.

«Soprattutto mia moglie. È sempre stata debole di salute, è molto apprensiva e non vuole saperne niente. È terrorizzata. Non le piace neanche un po’ che si vada a riaprire quella ferita, nemmeno per curarla.»

Cerco di incrociare lo sguardo dell’autista nello specchietto retrovisore. L’uomo ha gli stessi anni di Farrell, è un impiegato di estrema fiducia: non mi concede neppure un grammo di complicità.

«La riceverà domani per il tè», dice a sorpresa il governatore, grattandosi la nuca. «È stata un’impresa, convincerla. Non si aspetti grande collaborazione, non è molto propensa.»

Non gli rispondo, quindi si gira verso di me con un sorriso stanco. Tocca la mia spilla con il condor e ci strofina il pollice.

«Secondo lei, tutti noi abbiamo una ferita. Non so dove abbia pescato quell’idiozia. ’La ferita dell’anima.’ E dice che passiamo la vita a lottare contro quell’handicap, che qualcuno non è nemmeno in grado di riconoscere.» Lascia andare la spilla. «Dice che sono io la causa di tutti i suoi mali, e che la sfortuna di Flavio è una conseguenza di quella stessa ferita originaria.»

«Ci sarà anche suo figlio?»

«Non lo sa nemmeno lui! Non ha idea di quante volte mi ha disobbedito e ci ha bidonato. Mi manca di rispetto da quando era piccolo, immagino che sua madre me lo abbia messo contro. Non siamo mai riusciti a raddrizzare le cose.»

«Ma avrete pur parlato della morte della Polacca.»

«Una volta sola, perché Delfina lo ha obbligato», ammette, e stringe forte gli occhi, come per una fitta dolorosa. «Una lite terribile.»

«Gli ha creduto?» chiedo, e adesso l’autista non riesce a non guardare nello specchietto.

Farrell ci pensa per una ventina di secondi. «Jalil ha indagato seriamente, può chiedere a lui», dice con un sospiro. «È stato un complotto per affossare la mia amministrazione.»

Non abbandonerà mai quel copione. È inutile metterlo alle corde facendo cenno alle manovre che il direttore del dipartimento per la Sicurezza ha orchestrato per levare il figlio dai guai. Se l’Inglese lo avesse a portata di microfono, lo stenderebbe con un solo colpo.

Un muro a prova di curiosi circonda la residenza di famiglia; impossibile sapere se ci sono ancora luci accese. Farrell ordina all’autista di riportarmi al ristorante; scende a fatica e si china verso di me.

«Guanti di velluto, Remil. La politica ci ha già fatto abbastanza danni. Guanti di velluto.»

Quando torno, vedo che la maggior parte degli scrittori se n’è andata; chi rimane sta vuotando la cantina e intona beffardamente L’Internazionale. Cerdá sopporta con fare stoico la confusione, anche se la riga perfetta tra i capelli non è più tale, e Lolo Muñoz se ne sta zitto e muto. BB mi chiede di riaccompagnarle all’Hotel Río Azul. Il francese, piuttosto su di giri, le segue. Sento che ordinano a gran voce due bottiglie di Cristal e chiedono di non essere disturbate fino all’indomani. Rifletto sui significati di quella nuova abitudine; chissà quali altri segreti mi nascondono le due signore.

Sono nella hall quando mi arriva una telefonata di Palma: ogni tre giorni un tecnico della Cueva controlla la suite di Belda, la stanza di Galves, la Conigliera, la Villa e ciascuno dei nostri veicoli, in cerca di microspie. «Questa volta il fumigatore ha trovato qualche coleottero», annuncia. Sin dall’inizio sono stati rilevati tentativi di infrangere il nostro scudo informatico e di controllare i nostri cellulari, ma è la prima volta che il Turco arriva a tanto, a dimostrare che la sua preoccupazione è pericolosamente aumentata. «I coleotteri sono stati schiacciati», aggiunge Palma, come se ce ne fosse bisogno. Chiudo la chiamata.

Mi presento per il tè con una puntualità britannica. Il portone automatico della residenza si apre e due guardie mi invitano a passare dal metal detector. Non suonano allarmi, ho lasciato gli attrezzi nel vano portaoggetti della macchina. Un maggiordomo, o qualcosa di simile, mi accompagna in una sala lunga una ventina di metri e mi invita a sedermi. Prendo dal tavolino una biografia sulle sorelle Romanov: a giudicare dal segnalibro, la proprietaria è molto avanti nella lettura.

«Poveretta», commenta lei, entrando nella sala.

«Chi, Anastasia?» chiedo, sorpreso.

«No, la zarina. Si è fatta in quattro per allevare i figli come persone normali e tenerli lontani dagli orrori del potere. Ma non ce l’ha fatta.»

Mi tende la mano e me la tiene per un po’, mentre mi studia con gli occhi spenti. Delfina Maggi sembra più bassa e con più rughe rispetto al ricevimento di benvenuto al quale l’ho conosciuta. Indica la poltrona sulla quale devo sedermi e si accomoda a un lato del divano. Nella sala ci sono alcune opere d’arte, ma è un locale austero, diversamente da come immaginavo.

«È un appassionato di storia?» mi chiede, accavallando le gambe.

«Sto leggendo un romanzo su Amenemhat III», rispondo.

È acida persino quando sorride.

«Non credo nelle coincidenze», afferma, e solleva il mento guardando il maggiordomo. Il quale posa sulla tovaglietta del tavolino porcellane, scones e un tè in foglie scuro e profumato.

«Mio marito dice che lei è il Jalil di Belda.» Aggiunge una zolletta di zucchero alla sua tazza. «E che vuole aiutare Flavio. Che tenero. Deve sapere una cosa: per aiutare mio figlio bisogna lasciarlo in pace. Ha sofferto molto per la morte di Carla e per tutte quelle calunnie.»

«Non abbiamo dubbi che sia stata commessa un’ingiustizia», mento. «Ma finché la gente ha in testa certe menzogne…»

«A Flavio non interessa quello che pensa ’la gente’, come la chiama lei», mi interrompe, decisa. «Quello che non ci dorme è un altro ramo della famiglia, che vive delle opinioni e delle miserie della ’gente’.»

Beve un sorso di tè fumante mentre misura la mia reazione. Abbasso gli occhi per impedirle di guardarci dentro. Il tè mi piace con uno spruzzo di gin, ma non dico niente.

«Lei vedeva spesso Carla Jakov?»

«Quando erano fidanzati veniva sempre», puntualizza, cauta, trascinando le parole. «Poi l’ho vista a qualche compleanno di Flavio, già con suo marito. Che cosa vuole sapere? Se era una brava ragazza? Se andava a letto con mio figlio?»

«Ci andava a letto?»

Rimane con la tazza a mezz’aria, calcolando la portata della mia sfacciataggine. Poi, con gesti lenti e controllati, rimette la tazzina al suo posto.

«Perché non lo chiede a lui? Sta arrivando», mormora.

In un gesto simmetrico, poso anch’io la tazza sul tavolino. Provo a raggiungere la seconda base, ma lei mi blocca.

«Aspettiamo, non ci metterà molto.»

Valuto se tentare una conversazione forzata sui Romanov o sugli egizi, ma capisco subito che lei non aprirà bocca finché il figlio non sarà qui. Tiene la schiena dritta e mi sfida con lo sguardo. Fatico a reggerlo, sento il bisogno di una sigaretta. Che temperamento. Questa donna sarebbe capace di uccidere? Non ha la forza necessaria a sferrare un gancio mortale, ma per il resto, sì. Potrebbe uccidere, e non una sola volta. Sono un esperto, riconosco d’istinto quella vena oscura.

La teiera si fredda in quei lunghissimi minuti; in quel silenzio glaciale riesco addirittura a sentire il battito del mio cuore. Il maggiordomo ritira la merenda; l’unico movimento della statua è quello di scavallare le gambe e scuotersi dal grembo qualche briciola immaginaria. Il rumore della porta e i passi lungo il corridoio ci salvano da questa partita a scacchi passiva. Con mio sollievo, Flavio Farrell si è presentato all’appuntamento. Ha le basette più corte e i capelli più lunghi, ma indossa di nuovo scarpe da complessato e una camicia con il collo alla coreana, chiuso. Bacia la madre sulla fronte e non si disturba a stringermi la mano. Riconosco il tatuaggio sul polso sinistro, quello che secondo Maca è un kanji giapponese che significa «forte» o «forza». Flavio si lascia cadere all’estremo opposto del divano, ma non si toglie gli occhiali scuri.

«Cos’altro c’è?» sbuffa.

«Il signore mi stava chiedendo se andavi a letto con Carla», lo aggiorna la madre.

«Ovviamente. L’ho anche uccisa. C’è altro?» risponde, serio.

«Perché l’ha uccisa, se l’amava tanto?»

Infila le mani sotto le ascelle e solleva il naso, come se sentisse il profumo di lei in lontananza.

«Perché voleva lasciarmi?» improvvisa. «Perché Quelo ci aveva scoperti? Perché stavamo litigando? Perché sono uno psicopatico?»

«Questo umorismo le garantisce un certificato di innocenza?» ribatto, duro. La gentilezza non mi sta portando da nessuna parte. «Che cosa ci faceva la sua Peugeot a casa di Carla?»

«Quella vecchia non sa distinguere una Mercedes da una Fiat 600.»

«Perché il dipartimento per la Sicurezza si è dato tanto da fare per proteggerla?»

«Perché sono il figlio del capo? Perché sono più papisti del papa?»

«Perché suo padre pensa che l’abbia uccisa lei?»

«E questo chi l’ha detto?» scatta, si sfila gli occhiali e mi incenerisce con lo sguardo. «E comunque a chi cazzo interessa che cosa pensa mio padre?»

«Perché non ha mai chiamato né Quelo né Luis Jakov?»

«Mi sta facendo il processo? Che cos’avrei dovuto dire a Quelo? Fargli le condoglianze? ’Scusami, fratello, ma Carla non ha mai smesso di amarmi.’ Non diciamo cazzate, per favore.»

Nella sala cade un silenzio denso e prolungato. L’ammissione del triangolo è solo verbale, il sospettato non lo ha mai messo nero su bianco. Ma, tolto Quelo, sembra che lo sapessero persino i sassi.

È la madre a intervenire: «L’amore è una cosa contorta e complicata, ma che io sappia non è citato nel Codice di procedura penale.»

Flavio le rivolge un’occhiata affettuosa e le accarezza una spalla.

«Io e mia madre condividiamo una passione per la cultura giapponese», dice, senza staccare lo sguardo da lei. «C’è un proverbio molto divertente che lei mi ripete sempre.»

Sposto lo sguardo dall’uno all’altra; ho capito che non intendono collaborare, è stata una commedia e me ne andrò a mani vuote.

«Al chiodo che spunta tocca sempre una martellata», recita Delfina, e il figlio ride di gusto.

«Per il signor governatore io sono sempre stato quel tipo di chiodo.»

Delfina si alza, obbligando me e Flavio a imitarla.

«Avete qualche idea?» azzardo.

«Nessuna», dice lei.

Non appena ho superato il metal detector mi accendo una sigaretta. Sono stanco e ho sete, come se avessi camminato giorni interi per steppe e savane. Guanti di velluto… Figli di puttana. A Belda non piacerà affatto il risultato di questo incontro. Mi sfogo nella piscina olimpionica del Deportivo Convergencia e vado a letto presto. Al mattino Beatriz è una furia, in effetti, ma non per la farsa della zarina, quanto per un articolo che l’Inglese ha postato sul suo blog, in cui denuncia un’operazione costosissima per riabilitare l’immagine in crisi di Farrell, cita numeri, nomi di finanziatori che sono fornitori dello Stato e dettagli su fondi per la sanità dirottati al marketing politico. In una nota, smentisce l’eroismo del nonno scalatore e descrive la creatrice del mito, un’esperta in operazioni sporche e in egemonia populista che ha perso il posto alla Casa Rosada e adesso vende in provincia i suoi servizi e le sue «tattiche della discordia». Promette di rivelare nei successivi articoli il programma dell’ex procuratore Marquís per colonizzare il sistema giudiziario e i «movimenti segreti» di alcuni agenti dell’intelligence per seppellire la causa per insabbiamento che pesa su diversi funzionari della Giustizia in seguito alla morte di Carla Jakov.

Gli habitué del blog in genere non superano i duemila, ma la bomba è diventata virale: ventimila persone hanno letto il pezzo e diecimila l’hanno condiviso su Facebook. Assisto, per la prima volta, a una crisi di frustrazione: Beatriz Belda ingoia due aspirine, riunisce la squadra e ordina con voce alterata di elaborare un testo per confutare quelle dicerie infondate. Chiama Diana Galves, che è appena arrivata a Buenos Aires, affinché contatti di nuovo gli intellettuali più vicini spiegando loro la situazione: è in corso un attacco alla cultura, diretto da giornalisti al soldo del totalitarismo. Serve un comunicato schiacciante e un appoggio incondizionato. Non è necessario spiegare a Lady Di la metodologia, perché la diva l’ha messa in pratica un’infinità di volte. Deve informare prima di tutto un piccolo gruppo attivo, che riceverà la cattiva notizia con sdegno e si farà carico di cercare la solidarietà degli altri. Diana, in parallelo, farà proselitismo con i più significativi e cercherà di far cambiare posizione ai più difficili. Come posso non firmare se lo fanno i miei compagni, per di più per una ragione così nobile? Beatriz sa che alcuni si opporranno lucidamente, ma che molti tra i poeti, romanzieri, attori, registi e sceneggiatori acconsentiranno, e il ripudio apparirà per quello che non è: massiccio e compatto. Chiama Cerdá per accaparrarsi pagine sui quotidiani della domenica, ma lo avvisa di non informare le testate nazionali: non vuole attirare la loro attenzione, è sufficiente frenare i pettegolezzi di provincia. Ha bisogno che la gente del posto metta in dubbio le intenzioni e l’affidabilità di Silvia Miller. Ci saranno trentasei ore di veglia, nelle quali la Villa e le sedi distaccate di Buenos Aires saranno sotto torchio, senza un attimo di tregua, in allerta e mobilitate. A mezzanotte, la stratega mi chiede di salire nel suo ufficio e di chiudere la porta. È scalza e ha i piedi appoggiati alla scrivania.

«Non possiamo permettere che la tua ragazza stabilisca un precedente», spara.

Dal momento che non vale la pena spiegarle che non è la mia ragazza e che la mia lealtà non è in discussione, lascio che esponga la sua teoria.

«Se quella ne esce serena, altri possono giungere alla conclusione che siamo deboli, e cominceranno a sfotterci come nel cortile della scuola. Ci vuole una misura disciplinare per la tua ragazza», dice, facendomi il sermone.

«Di che livello stiamo parlando?» indago.

«Diciamo un livello tre», risponde, ironica. «Niente sangue, non c’è bisogno di spaventarla a morte. Solo un pochino.»

«Palma potrebbe infettarle il computer con un virus e distruggere tutto, darle il tormento per mesi in modo che non possa aprire nemmeno una casella di posta su Gmail. E dare una lezione anche a quelli che potrebbero sostenerla pubblicamente. Può farla diventare una lebbrosa.»

«Una persecuzione informatica», commenta soddisfatta, lo sguardo al soffitto.

«Con il rischio che diventi un boomerang.»

«E dove pensa di accusarci, se i giornali sono nostri ed è una notizia che non merita nemmeno la copertura nazionale?»

«Associazioni di difesa della libertà di espressione. Organizzazioni per i diritti umani.»

«Magari! Così la categoria si renderebbe conto che mettersi contro di noi costa caro», esclama, di buon umore.

Estraggo il cellulare per attivare Palma, ma lei solleva una mano.

«Lunedì, dopo la pubblicazione del comunicato», puntualizza. «Un’altra cosa, Remil. Quella ragazza piace anche a me, è una femmina con una gran testa. Pensi che potrebbe cambiare parrocchia, prima o poi?»

«Nemmeno tra cento anni.»

«Quant’è complicato il cervello di voi maschi», si lamenta, ironica. «Vuoi scommettere?»

Il comunicato è schiacciante, i soldati della cultura non tradiscono mai, e l’attacco di Palma è devastante. Alejandro Farrell e il Turco Jalil si presentano alla Villa, un evento del tutto eccezionale, e si complimentano con Belda per come ha gestito la crisi. Mi invitano di nuovo a una partita di caccia nella zona dei laghi. «Sento puzza di bruciato», dico a Beatriz, non appena se ne sono andati. «Potrebbe essere un’ottima occasione per studiarli meglio», mi sprona lei. Ragione per cui alla fine imbraccio di nuovo il .243 di scarsa portata e mi muovo nel bosco della cordigliera con due compagni armati.

La camminata verso la traccia indicata dalla guida dura tre ore. Alejandro è il primo della fila, in ansia, aggrappato al Remington come se fosse un giocattolo e la nostra una missione pericolosa. Non sa cosa significhi camminare davvero in territorio comanche. Jalil approfitta della distanza per posarmi una mano sulla spalla. «Il commissario non ha idea del casino in cui si sta infilando», annuncia, lasciandomi di ghiaccio. Potrebbe sorpassarmi a destra, ma rallenta per tenermi davanti a sé, rimanendo alle mie spalle. «La tua capa pensa davvero che Jakov mi faccia uscire di testa?» La domanda è un sussurro che mi sfiora la nuca. «O che impazzisca per questo ruolo ridicolo? Per piacere, Remil, così mi offendete.» Risaliamo un altopiano. Il Turco sta mandando un messaggio inatteso. «Grattate il fondo del barile con la maestra e quell’impotente di suo marito, inventatevi il film che preferite», dice, senza mai ritrovarsi con il fiato corto. «Quel verme di Marquís prenda il timone, una buona volta, e Cálgaris si prenda la sua fetta di torta. Va benissimo. Ma Romero deve piantarla di rompere, perché ci sta prendendo un po’ troppo gusto, e non so come andrà a finire.» Alejandro, duecento metri più avanti, avvisa con il walkie talkie e Jalil solleva il binocolo. «È il maschio. Muoviamoci.» Non vedo altra soluzione che seguirlo e aspettare qualcosa di più preciso, ma ho la sensazione che si tratti di una conversazione privata e non gli convenga coinvolgere il figlio del governatore. I due hanno alcuni interessi in comune, ma molti altri divergono completamente.

Nonostante il tempo trascorso, l’orma è ancora nitida. Discutono una strategia e decidono di proseguire verso nord, sempre controvento. I cervi sono in grado di fiutarti anche a quattrocento metri, e Junior è convinto che questo non si sia allontanato molto. Jalil, che è il suo maestro, non è così speranzoso, ma non vuole raffreddare i suoi entusiasmi. Il veterano mi cede nuovamente il passo, con una cortesia sospettosa, e Alejandro mi chiede perché preferisco la boxe alle arti marziali. Gli spiego che sono cintura nera di karate, che ho fatto judo e jujitsu e sono stato addestrato al combattimento corpo a corpo nelle Forze speciali, ma che mi sento sicuro solo se riesco a mandare al tappeto un campione dei pesi medi. «Una volta ho perso un incontro con un ranger che tirava di boxe ed era in un’altra categoria. Mi ha fatto nero, per poco non mi ha steso. Ma nessuno che pratichi arti marziali ci è mai riuscito. Forse faccio boxe per quella superstizione da vecchio soldato.» Junior guarda Jalil con malizia. «Remil non si è mai trovato davanti un vero ninja.» Il Turco gli rivolge un sorriso di approvazione, ma lo mette in guardia: «Io non sfiderei qualcuno che è stato infiltrato in un carcere ed è tornato per raccontarlo. E poi non credo che un karateka abbia mai impensierito Monzón. Tu sì?» Farrell si fa serio. «E chi si ricorda di Monzón? Siete due fossili!» borbotta.

Camminiamo in silenzio un’altra mezz’ora in quella policromia autunnale di rossi, ocra e gialli; passiamo accanto a una pineta e a tratti ci accovacciamo tra gli arbusti. In una zona di lievi alture, Jalil abbassa il binocolo e sfiora il gomito del discepolo. Alejandro solleva il Remington e lo punta, rastrellando il terreno. «Aspetta, è ancora troppo lontano!» lo frena il Turco, sussurrando, ma Alejandro è impetuoso: spara una, due, tre volte. E sbaglia. Fatico a individuare il maschio, non ho lo sguardo da cacciatore, ma alla fine mi sembra di scorgerlo in un avvallamento: è sempre rimasto al di fuori della nostra portata. Alex vuole seguirlo di corsa, Jalil lo convince che sarebbe inutile. Il ragazzo è irritato, ferito nel suo enorme orgoglio. Riposiamo per un po’ al sole, sotto un concerto di avvoltoi e parrocchetti, poi Jalil propone di modificare il percorso e provare in un dirupo a ovest. «È il burrone fortunato», gli dice, come per tirarlo su di morale. «Ricordati dell’anno scorso.» L’altro però è di malumore, non vuole nemmeno sentire quella storia incredibile. Sotto le sopracciglia folte, il Turco mi lancia un’occhiata insolita, chiedendo aiuto. Per cambiare argomento, chiedo ad Alejandro Farrell perché, vista la sua abilità, non ha mai partecipato ai campionati internazionali di taekwondo. La prende male, mi guarda con rabbia. «Pensi che non abbia le palle per farlo? Mi vuoi mettere sotto esame?» Svio lo sguardo; Jalil si accarezza le acciughe di peli ispidi sopra il labbro superiore. Il rampollo si irrigidisce e mi domanda: «Vuoi mettermi alla prova adesso?» Che bella famiglia, mi dico: lo zar, la zarina e i loro deliziosi pargoli. «Scusa, non volevo offenderti», soggiungo, chinando la testa. «Oltretutto, sono un po’ vecchio per te.» Le scuse non fanno che irritarlo ancora di più. Si mette in mezzo Jalil: «È quasi mezzogiorno, Alex. Se ci sbrighiamo, scommetto quanto vuoi che in quel burrone troviamo un altro maschio». Si è alzato anche lui e ha imbracciato il Winchester. Per un attimo, maestro e allievo sembrano due cowboy sul punto di uccidersi a vicenda. Non sono loro, ma le loro ombre, il loro subconscio. Non si accorgono di quanto sia assurda la situazione: agiscono di riflesso. Alejandro ammorbidisce i lineamenti e ride di nuovo: «Dai, stronzo, che siamo in ritardo».

Iniziamo una marcia forzata; per la prima volta mi danno le spalle, camminando l’uno accanto all’altro. Adesso so che non ci saranno incidenti di caccia: il messaggero deve tornare in città sano e salvo. Ma è un pomeriggio interminabile, perché nel burrone della fortuna non c’è nemmeno un mangia mais. Verso le quattro, spuntano altri due cacciatori: un albino e un mapuche con zaini e fucili calibro 12. Il senso di pace svanisce; riconosco immediatamente la postura e la faccia dei colleghi. Jalil me lo conferma: sono «ragazzi» del dipartimento per la Sicurezza, ci portano da mangiare. In uno degli zaini ci sono empanadas e birra in lattina; so che i gorilla del Turco avevano ordine di intercettarci se non fossimo rientrati per l’una. Se ne stanno per conto loro mentre noi mangiamo sotto un cipresso, quindi ci seguono in silenzio, prestando un’attenzione estrema a ciascuno dei miei movimenti. Alle cinque e mezzo, quando la luce comincia a scemare, Jalil trova altre tracce nel sottobosco, ma sono confuse. Va da sé che, se non fosse per l’impazienza del ragazzo, saremmo rientrati al casotto di caccia da un pezzo, ma chi può negare qualcosa a un bambino ricco?

In questo epilogo, accetto il mio ruolo di principiante e rimango incollato al Turco. Adesso ci muoviamo quasi accovacciati, scrutando il terreno scoperto, in un silenzio da chiesa vuota. Finché Alejandro, più avanti, non si alza, portandosi il fucile davanti agli occhi. «È una femmina», lo avvisa Jalil con il walkie talkie, dando per scontato che Junior abbasserà il Remington. Ma non lo fa. Il Turco abbassa il binocolo e ripete: «Lasciala andare, è una femmina giovane!» È il codice dei cacciatori del posto, un precetto accettato all’unanimità per non spezzare l’equilibrio del branco. Stabilita la norma, violarla sarebbe un’eresia. Spio l’albino e il mapuche, che rimangono leggermente indietro, impavidi, e torno a guardare Jalil, che ha un’aria incredula. «È una femmina, Alejandro», insiste per la terza volta, con un filo di voce.

Ma Alejandro preme il grilletto.