I gladiatori e i centurioni stanno tenendo una strana assemblea sindacale di fronte al Colosseo, circondati da centinaia di curiosi e giornalisti. A quanto capisco, un’ordinanza del sindaco proibisce loro di rimanere in zona a farsi fotografare in cambio di una mancia; qualche giorno fa la polizia li ha fatti scappare a suon di manganelli e un tizio si è arrampicato su uno dei cornicioni dell’anfiteatro, minacciando di lanciarsi nel vuoto in difesa dell’attività con cui si guadagna da vivere. Jonás è solidale con i colleghi: è in prima fila con il suo scudo oblungo, l’elmetto con visiera e cresta di piume, la fascia in cuoio su spalla e braccio destro e la daga in plastica. Lo spettacolo si protrae per quasi tutta la mattina; quando finisce, il gigante si allontana in compagnia di altri colleghi per andare a bere qualcosa di fresco, e mi vede. La reazione è amichevole e ampollosa, come se nulla fosse successo nelle catacombe di Napoli. Mi abbraccia con affetto e mi presenta euforico agli altri legionari, neanche fossi il suo più caro amico. La convalescenza dev’essere stata durissima, perché è dimagrito molto e la pancia gli è sparita come per magia. Ci allontaniamo dagli altri, ci appoggiamo al bancone e confermiamo senza bisogno di parole che tra noi non ci sono rancori: per colpa delle sue idiozie ci abbiamo quasi rimesso la pelle, ma io l’ho abbandonato in quel sotterraneo umido, dandolo per morto. Siamo pari, e non andremo a rivangare in quel bidone di sterco e miserie. Si toglie l’elmo e mi racconta il lungo ricovero al Policlinico di Napoli e i dolorosi esercizi per la riabilitazione ai quali si è dovuto sottoporre. Spronato dalla terza birra, parla del calvo, del vecchio senza denti e dei ragazzi di Scampia, e mi propone di tornare con lui a Napoli a regolare i conti. Poiché non ricambio il suo entusiasmo per la vendetta, scoppia a ridere di gusto mentre ricorda la mail collettiva: «La spia che pensa con il culo». Di nuovo, non ricambio l’euforia, poiché gli effetti secondari di quell’incidente sono stati devastanti, e ancora evidenti. Di fronte al mio silenzio, la sua allegria evapora; mi chiede che cosa faccio in Italia e se mi può dare una mano. «Mi serve un cellulare non rintracciabile e un paio di braccialetti», rispondo, e gli conto le banconote sotto il naso. «Nient’altro?» chiede, sorpreso. «Posso trovarti una pistola, al mercato nero.» Faccio segno di no e sorrido. «Le anime in pena non si catturano con le armi da fuoco.» Afferra i soldi, che comprendono una succulenta commissione, e ci diamo appuntamento per l’indomani, a cena, all’Antica Birreria Peroni. Quando ci salutiamo, mi stringe in un abbraccio. Alloggio nell’alberghetto di piazza Venezia; corro di nuovo attorno all’Altare della Patria e vado a lavorare con pesi e guantoni alla palestra di via Sant’Agata de’ Goti. Evitando il quartiere Prati per prudenza, mi infilo nelle chiese a osservare i devoti della Vergine e cammino tutto il giorno cercando Mariela Lioni tra la folla. Assurdo. So che la possibilità che sia ancora nascosta a Roma è minima e folle, ma non riesco a evitare di tentare la sorte. Sono qui da tre giorni, e qualcosa mi dice che forse l’arte di questi imperi sovrapposti è l’unica vera passione che le rimanga. Tutte le altre – l’amore, i poveri, la solidarietà e persino Dio – sono crollate l’una dopo l’altra. Ma l’arte di cui si è cibata in gioventù, quel vizio noioso e inspiegabile per quadri e sculture dei grandi maestri, si oppone a qualunque smacco. Lo so perché Leandro Cálgaris soffre della stessa delirante debolezza.https://www.netshadows.it/ombra
Roma sarebbe un suicidio, per Lioni, ma Firenze? Devo prendere subito un treno per Santa Maria Novella, ma devo anche comprare un biglietto aperto per Buenos Aires, prima di ritrovarmi senza soldi, costretto a tornare a testa bassa a quel pensionamento anticipato in cui vegeto, mio malgrado e senza speranze. È una scommessa contro me stesso che ho enormi probabilità di perdere, ma la rassegnazione è ancora più pericolosa di questo azzardo, questa ricerca assurda. Come ho detto, potrebbe essere in Irak o in Namibia, sta di fatto che è atterrata a Fiumicino, e non mi manca esperienza in materia di caccia all’uomo.
Jonás arriva alla Birreria Peroni con un pacchetto e una notizia letta su un giornale che deve assolutamente riferirmi. L’11 novembre 1983 alcuni ladri si sono introdotti a Villa Torlonia e hanno rubato quindici statue di marmo. Una di esse, Torlonia Peplophoros, che rappresentava una donna greca con una strana tunica, nel 2001 è stata venduta a New York a un collezionista. L’acquirente, che aveva sborsato 75.000 dollari, ha poi deciso di disfarsi della statua vendendola all’asta, scoprendo così che era stata rubata, e a quel punto l’ha consegnata all’FBI. E adesso verrà riportata a casa in pompa magna. «Al colonnello piacerà tantissimo, questo aneddoto», mi dice, ignaro del divorzio. «Però ti chiedo di non riferirgli l’altra parte della storia: conosco chi aveva organizzato il colpo. Un nobile romano decaduto, molto colto e dotato. Ho cercato di proporgli qualche affare, ma non ha mai accettato.» Me lo immagino: dev’essere stato qualcosa di originale e minimalista come il Tesoro di san Gennaro.
Vado in bagno: il cellulare è un modello base ed è stato comprato a nome di un «centurione»; i braccialetti sono usati ma funzionano. La Beretta risale alla fine della seconda guerra mondiale; è l’unica cosa che gli restituisco, passandogliela sotto il tavolo. «Non sono mai stato qui», lo avviso. Jonás giura facendosi il segno della croce, e mi chiede del Salteño mentre ingoia le lasagne. La conversazione si sposta inevitabilmente sui fatti di Goose Green. In via San Marcello emette un rutto sonoro e mi augura ogni bene; non perdo nemmeno un secondo: libero la stanza e prendo il treno della notte verso il regno dei Medici. Cerco una pensione economica vicino alla stazione e soprattutto alla Grotta di Leo, dove gli autisti vanno a mangiare a tutte le ore, e dove posso mostrare la foto di Mariela Lioni, uno dei pochi scatti in cui non è in abito nero, con i capelli corti scoperti, mentre partecipa a una maratona sulla Costanera Sur.
Appena fa giorno mostro la foto in zona, balbettando la favoletta della madre che la sta cercando. Qualcuno mi racconta di rapimenti oscuri e del traffico di donne in Europa; il secondo giorno, una vecchia dice che le ricorda una commerciante di Ponte Vecchio. Quando mi avvicino al negozio in questione, però, scopro che la donna ha dieci chili di più e una decina d’anni di meno. Tengo d’occhio gli Uffizi e passo un intero pomeriggio a guardare la processione incessante di turisti; da una finestra del piano superiore vedo l’unico quadro che mi commuove: l’incredibile tramonto alle spalle dell’Arno. Penso a Cálgaris, non solo perché proprio poco tempo fa mi guidava tra queste stesse sale e corridoi, ma perché ormai sa senz’altro che sono qui. Ha due alternative; informare le autorità locali (polizia e ambasciata) o lasciare che vada a schiantarmi contro il muro. La prima delle due è complicata, gli propineranno un sermone senza andare per il sottile: non è nemmeno in grado di controllare i suoi agenti. La seconda è più semplice, a parte il fatto che potrei combinare qualche danno nello schianto. Comunque sia, potrà sempre appellarsi al fatto che mi aveva licenziato e stavo agendo in veste personale, a mio rischio e pericolo, e soprattutto a sua insaputa. Sono sicuro che il vecchio abbia già preso in esame tutte le vie d’uscita e che non sia particolarmente preoccupato da questa insubordinazione. Dal suo punto di vista sono imprevedibile e incapace quanto Jonás.
Di buon’ora, mostro la foto di Lioni alle guide dei musei, e rimango per un po’ nella Galleria dell’Accademia, lasciandomi trascinare dalla folla. A metà pomeriggio prendo un taxi per andare all’Istituto delle Serve di Maria, e nel mio mezzo italiano parlo con la suora più anziana: non riconosce Mariela, ma fa una fotocopia dello scatto per mostrarla a insegnanti e alunne; per qualunque evenienza prende nota del mio numero di cellulare. Mi accompagna a vedere la piccola chiesa risalente al 1899 e mi rende edotto sul culto dell’Addolorata. Torno in centro, che la sera percorro in tutte le direzioni possibili; a notte fonda mi infilo le scarpe da corsa e mi unisco alle donne che fanno running nelle strade deserte. Mostro anche a loro la foto di Lioni, ma non ho risposte positive. È stato proprio lì che ho avuto quella sorta di presentimento, ma adesso penso che si sia trattato di una semplice coincidenza. Strano, perché nel mio mestiere le coincidenze non esistono, come nemmeno le magie. Ma come negare la magia del destino tra cattedrali e basiliche, in mezzo a tutta quest’arte sacra?
Mi avvicino agli agenti in uniforme e attacco la mia solita litania; uno di loro, che si vanta di essere un buon fisionomista, dubita qualche istante, ma non mi sa dare nemmeno una traccia. In piazza della Signoria, una guardia giurata accetta una sigaretta e, notando le mie difficoltà con la lingua, mi suggerisce di parlare con un suo collega che sa lo spagnolo. Lo chiama e me lo passa, gli spiego la situazione. Ha un accento andaluso, e mi rimbalza a un certo Zingaretti, membro della squadra mobile della polizia di Stato, la cui madre è cubana, motivo per cui lui mastica la lingua. C’è un bar in periferia dove i poliziotti si ritrovano al termine del servizio. Zingaretti è calvo, muscoloso ed espansivo, e adora praticare lo spagnolo. È un collega, e non posso mentirgli: sto cercando una donna che è scomparsa da Buenos Aires ed è qui sotto falso nome. «Hai una vaga idea di quanta gente c’è a Firenze, sotto falso nome? Fai bene a controllare i musei, se pensi che possa farsi viva lì, ma è più probabile che viva e lavori tra gli immigrati clandestini. In periferia. Non è una brutta donna, magari ha accettato di lavorare con i marocchini, gli albanesi o i moldavi, che gestiscono il giro della prostituzione. Mandami una scansione della foto, così controllo se c’è qualcosa sul nostro database delle persone scomparse.» È gentile, ma non sa resistere e cerca di capire chi sono davvero: seguo il protocollo che mi hanno insegnato; non credo che indagherà, ma se gli venisse in mente di chiedere conferma delle mie generalità alla Polizia federale argentina inciamperà in una burocrazia estenuante, trovando alla fine una pagina online che conferma il mio ruolo di vicecommissario, se il padreterno della Casita non mi ha fatto sparire anche da lì. La faccia di Mariela Lioni, con la sua vera identità e il falso nome, entra così nei server della polizia ferroviaria, della polizia postale della Toscana, della squadra mobile, della polizia stradale e in altre sezioni affini. Si tratta di un gesto di amicizia e di collaborazione disinteressata, motivo per cui nessuno si impegna più di tanto. E ovviamente nessuno vince la lotteria: quarantotto ore dopo Zingaretti mi informa che nessuno ha alzato la mano.
Noleggio una macchina per fare un giro nei sobborghi, avere conferma della modestia dei quartieri popolari, le zone degradate, con gli edifici occupati e i senzatetto, e infine le cittadine industriali della cintura, fino ai centri medievali di Certaldo, Vinci e Castelfalfi. In ognuno di quei posti scendo, consumo un po’ le suole, chiedo di Mariela e faccio vedere la sua foto. La giornata sembra non finire mai, ceno con una pizza sottilissima e un piatto di spaghetti alla Grotta di Leo, cercando in tutti i modi di ubriacarmi, tanto è lo sconforto. Questa storia è una follia; sempre che la suora si nasconda ancora a Firenze, impiegherei comunque un anno intero a trovarla. E non ho carburante nemmeno per dieci giorni. Quando sono ormai a letto, Mariela mi appare nei sogni come la statua greca di Villa Torlonia; mi sveglio zuppo di sudore gelido, sentendo la sua presenza nel buio della stanza.
Da quell’istante succede qualcosa che non riesco a catalogare: mi abbandono alle vie del centro storico, all’ombra delle vecchie chiese e all’improvvisazione errante. Sento campane ovunque, mi siedo su splendide gradinate e passo le giornate a scrutare donne di ogni età, come un maniaco. In diverse occasioni l’immaginazione mi gioca un brutto scherzo, e mi ritrovo a seguire una donna per le strade, finché non scopro con amarezza che non le assomiglia nemmeno. Una volta mi sembra di scorgerla mentre gira l’angolo e le corro dietro, ma la perdo e mi dico che dev’essere stato un miraggio. Dove ti sei infilata, Mater Dolorosa? Dove? All’improvviso mi ritrovo in una cappella, ad ascoltare il rosario delle vecchie, sento qualcuno che mi sfiora una spalla, ma quando mi giro non ci sono altro che l’aria e l’incenso. Di punto in bianco colgo il sussurro mistico della sua voce nel coro di preghiere di una basilica, ma è solo una chimera acustica. Come nell’epilogo di Mount Longdon, nei padiglioni delle carceri in cui ero infiltrato, nelle cantine della bidonville in cui ho trascorso i miei giorni clandestini, sto perdendo di nuovo il senso della realtà. Ho la nausea e mi sento privo di forze. Sono malato, ma non so che nome dare a questo disturbo languido e acuto.
Faccio visita ai bordelli, pago alcol e donne senza andarci a letto, solo per sapere se qualcuna di loro ricorda quel viso. Nessuna ne ha memoria. A metà di una giornata di tiepido sole, tre giorni prima di lasciare l’Italia per sempre, mi sembra di scorgerla sui gradini di Santa Croce, accanto al monumento a Dante. Un flash nell’andirivieni della folla che mi impedisce di vederla bene. Scettico come non mai, con un timore fisico dell’ennesima delusione, aguzzo la vista, ma ottengo solo una visione frammentaria: una donna dai capelli lunghi e bianchi raccolti in una coda, che sta mangiando qualcosa, forse un panino ormai a metà, avvolto nel cellophane. È vestita di nero, ma ha le scarpe bianche. Mi avvicino a fatica e pieno di dubbi, ostacolato da decine di turisti che si muovono in direzioni opposte. Come se mi avesse sentito arrivare, lei solleva di scatto il mento e mi guarda, in mezzo alla gente. Uno sguardo gentile, con quegli occhi che mi riempiono di incertezze. Non li abbassa mai, però, e io mi muovo al rallentatore, nella quasi certezza che sto andando a sbattere contro un’altra gaffe imbarazzante. A quel punto la donna, senza che nulla cambi nella sua espressione, lascia cadere il panino e sparisce. Due uomini mi bloccano la visuale per una frazione di secondo, e quando si scostano lei è svanita nel nulla. Sgomito per arrivare agli scaloni, li salgo per avere una prospettiva migliore. In quell’attimo sacro, vedo la donna che corre a pugni stretti verso la destra, schivando i turisti. La spossatezza che mi schiacciava sino a un attimo fa sparisce, e sento la scarica di adrenalina nelle vene: corro con la mente sgombra, ben sapendo che ha un vantaggio di almeno una sessantina di metri e sarà difficile raggiungerla. Non penso neanche lontanamente che possa trattarsi di un’altra donna in fuga, che è scappata perché mi ha preso per un poliziotto. Mentre corro a zig-zag in quella marea umana, capisco che quella scattista allenata è davvero la novizia con le ali ai piedi di Villa Puntal.
L’inseguimento si dimostra difficile e pieno di ostacoli. All’improvviso lei gira a sinistra, si infila in un vicolo acciottolato e gira ancora. Nessuno dei due ha il ritmo lento dei maratoneti: stiamo bruciando le energie a venti chilometri all’ora in questo labirinto inestricabile. Non riesco a guadagnare terreno. Una moto spunta fuori da una stradina e quasi mi investe, costringendomi a fermarmi. Sento imprecare alle mie spalle e continuo a correre con falcate lunghe e ritmiche, il cuore che mi batte in gola. Mariela continua a correre, veloce ed esile, verso il fiume, poi gira verso ovest e si avvicina a un viale. Le vado dietro, correndo sui marciapiedi, rassegnato a ignorare i semafori. Si sentono colpi di clacson, frenate e insulti. Attraversiamo passaggi angusti, accanto a palazzi e monasteri; la vedo spintonare un vigile che cerca di fermarla. L’uomo cade a terra, incredulo, lei sguscia via tra i passanti e per un minuto e mezzo sparisce dalla mia visuale. Mi fermo a prendere fiato e a biasimarmi per il vizio del fumo, ma intanto cerco di indovinare da quale parte sia andata. Per un attimo penso che si sia nascosta per riprendere fiato, come me, ma poi la vedo che corre lungo la strada, a una velocità fantascientifica. La seguo con tutte le mie forze, a rischio di farmi venire un infarto. Non so se ha un itinerario chiaro in mente o se sta improvvisando; quel che è certo è che ci stiamo allontanando dal centro, verso zone più popolari. D’un tratto la vedo, ferma a un angolo ad ansimare, e mi avvicino senza preoccuparmi delle conseguenze. Lioni, appoggiata alla parete a boccheggiare, mi vede e si rimette in movimento come un pupazzo appena ricaricato. Io sono a terra, costretto a fermarmi dov’era lei un attimo fa, puntellandomi allo stesso muro. Non la perdo di vista un secondo mentre sputo i polmoni e mi passo il dorso della mano sulla fronte per asciugare il sudore. Non riuscirò a prenderla, a meno che qualcuno non la trattenga. Ma non conviene mai aspettarsi miracoli, nemmeno in questa città di angeli e demoni.
Come se fossi immerso nel Río de la Plata, impegnato a lottare per salvarmi la pelle, faccio un ultimo sforzo e riprendo la marcia. Adesso corriamo su una strada asfaltata e ampia, stranamente silenziosa. Riesco quasi a sentire la sua fatica, come se fosse una tennista che ha fatto ammutolire la tribuna, tanto che si sentono i suoi lamenti a ogni rovescio. Ho i crampi allo stomaco e la vista annebbiata, ma non voglio accorciare la falcata; corro, corro senza risparmiarmi in questa vergognosa gara verso il fallimento. Capisco che ha rallentato, ma anch’io sono ormai al limite delle forze e senza fiato. Il ritmo è diminuito, sembriamo due zanzare ridicole e tristi. Mi fermo, cado in ginocchio come un pugile messo al tappeto da un novellino e annaspo come se stessi affogando. Non mi rimane un briciolo di volontà; il mio cervello dà ordini, ma i muscoli si rifiutano di ubbidire e credo che diversi organi stiano per esplodere. Mi conosco: sono alla frutta. Ma a quel punto Mariela Lioni si volta e si ferma. E fa qualcosa di strano: torna indietro lentamente, un passo dopo l’altro, come se volesse osservarmi da vicino, consapevole che ormai sono inoffensivo, forse addirittura preoccupata per la mia vita. È divertente, ma non per me. La Mater Dolorosa sta ansimando a propria volta, ma sembra un soffio di beatitudine. Si avvicina in controluce, e la sua ombra calpesta i miei resti stremati. È una scena spettrale, silenziosa; cerco di pronunciare il suo nome, senza riuscirci. Mi osserva per un tempo indefinito, si allontana senza fare rumore e io mi sdraio sull’asfalto, con una gran voglia di piangere.
Non so quanto resto lì, in quella posizione umiliante. Impiego un’eternità a sollevarmi e poi ad alzarmi. Quando infine lo faccio, vedo due bambini con una palla, che mi guardano incuriositi. Uno dei due fa segno verso una viuzza laterale, e lo ringrazio con una smorfia stanca. Zoppico in quella direzione per sette, otto isolati, fino a una fermata dei taxi. Regalo a uno degli autisti una banconota e gli mostro la foto sgualcita. Lui mi dice «aspetta», e chiede qualcosa alla radio, parlando con un collega. «Via Baracca», mi fa, non appena chiude. «Ci andiamo?» Frugo in tasca cercando il cellulare che mi ha dato il centurione e chiamo Zingaretti. «È a Novoli», conferma, facendo schioccare la lingua. «Una zona di immigrati e disperati. Ci sono stati molti sgomberi e c’è gente che si crede il Che Guevara. Occhio agli spacciatori di hashish.» Accetto la proposta del tassista e mi faccio portare là. Mi sento sporco e fradicio, e le mie gloriose aspettative sono crollate, anziché crescere.
La prospettiva di un poliziotto deforma qualunque paesaggio: il quartiere non mi sembra così lontano né tanto degradato. Ci muoviamo a venti all’ora, in modo che io possa guardarmi bene attorno. Il tassista mi spiega che la donna della foto è scesa davanti a quei palazzi dall’aria pulita e accogliente, ma che il suo collega non ha fatto attenzione a dove si è diretta. Gli do un’altra banconota e gli chiedo di aspettarmi. Scendo e cammino sul marciapiede, attraverso la strada e torno indietro lungo il marciapiede opposto. Mi infilo nelle vie più strette e guardo le finestre di quegli edifici quadrati. Mostro la foto ad alcune persone, che mi guardano con sospetto, e mi muovo in cerchio, cercando me stesso. Suona bizzarro, ma a forza di girare in tondo mi arriva un segno. È come una di quelle intuizioni inspiegabili degli animali che vivono nei boschi. Abbasso lo sguardo dai balconi e vedo un ristorante modesto e scialbo in una traversa. Rimango immobile, indeciso sul da farsi, come se stesse per succedere qualcosa. Che puntualmente si verifica: la porta di vetro si apre, ed esce suor Mariela. Indossa un grembiule rosso e verde da cameriera e una maglietta pulita a maniche corte. I capelli bagnati sono sciolti, gli occhi castani brillano vivaci. Per un intervallo di tempo infinito si limita a sbattere le palpebre. Potrebbe mettersi di nuovo a correre, invece rimane lì, come se fosse davvero di marmo. Non oso muovermi di un centimetro, nel timore che si spezzi. Lei solleva appena le braccia e le gira, come a mostrarmi le piaghe o le stigmate di cui soffre, e si avvicina come se fosse diretta al patibolo o alla crocifissione. Ha uno sguardo indefinibile, dolceamaro e bello. Quando mi è davanti avvicina le braccia e unisce i polsi sottili come a offrirmeli, e io le infilo con deferenza le manette.
Meno di due ore dopo saliamo sul primo treno. Docile e muta, assolutamente inespressiva, Mariela Lioni si è lasciata portare in taxi al mio albergo, mi ha seguito in camera, ha aspettato seduta sul bordo del letto che mi lavassi, mi cambiassi e preparassi la valigia; ha ascoltato senza tradire emozioni le mie telefonate alla segreteria del Vaticano e alla portineria di Santa Marta, oltre ai messaggi per padre Pablo che ho lasciato in tutti gli uffici. Più tardi le ho tolto i braccialetti e le ho spiegato con precisione scientifica quanto potrei farle del male premendole due dita tra la clavicola e la scapola, oppure sotto la mandibola, appena dietro l’orecchio. Non ha reagito, ma sembrava che avesse accettato con serenità il mio ordine implicito. Si è lasciata addirittura abbracciare mentre camminavamo l’uno accanto all’altra in stazione e quando siamo saliti sui vagoni diretti alla stazione Termini. È un treno ad alta velocità, quindi nessuno dei due dovrebbe avere bisogno di usare il bagno. Stranamente, non riesco a rallegrarmi di questa cattura né cerco di farle qualche domanda; del resto non so nemmeno se mi risponderebbe. Quando le ho tolto il grembiule rosso e verde, nella tasca anteriore ho trovato una banconota da cinque euro, forse una mancia. Adesso la stringe nella mano sinistra, come se ne andasse della sua vita. Di persona è più magra e più alta, e i lievi solchi sulla fronte, tra le sopracciglia e attorno alle labbra che non conoscono il rossetto sono molto più profondi. Gli occhi castani si perdono nelle pianure toscane e nelle città frenetiche che attraversiamo. Mi torna in mente la teoria di Delfina Maggi, la ferita dell’anima. Tutti siamo stati feriti, e passiamo gli anni a lottare contro quella sofferenza, che alcuni di noi non sono nemmeno in grado di riconoscere.
Il cellulare vibra; il mio interlocutore si presenta come il segretario personale di padre Pablo. Mi chiede il numero del treno e l’orario di arrivo in stazione: verrà a prenderci in macchina. Stendo le gambe senza muovermi dal sedile; Lioni giocherella con i suoi cinque euro. Dietro di lei, il sole si sta coricando sulle colline e sui campi seminati. Mi chiama Pablo, che non perde mai l’aplomb: gli racconto in sintesi dove si nascondeva suor Mariela. «La magnifica ironia del Signore», commenta. Non credo che sia una frase sua, né che sia diretta a un semplice bracconiere. Adesso la martire di Villa Puntal sta trasformando la banconota in un origami, simile a un uomo con la coda da scorpione. Alla stazione Termini troviamo ad attenderci il pretino solerte e preciso che ci aveva introdotto nel Palazzo Apostolico. Saluta Mariela, senza risultato, prende la mia valigia e ci accompagna su una BMW nera fino alla città santa. Lioni osserva le pareti riccamente decorate delle stanze vuote, mentre i nostri tacchi risuonano come scoppi nella Stanza della Segnatura. Con il taccuino nero e la matita, Pablo ci aspetta di fronte alla Scuola di Atene, come se non se ne fosse mai andato. Quando ci vede, però, lascia andare i suoi strumenti, inarca le sopracciglia e fa un sorriso aspro. «Che gioia», dice, senza la minima traccia di allegria, e accenna un abbraccio. Mariela Lioni retrocede di una spanna, rifiutando il gesto di pace, e gli mostra la figurina stropicciata fatta con la banconota. Pablo strabuzza gli occhi, senza capire, e a quel punto lei si vede obbligata a pronunciare un’unica parola, «Gerione», a voce spenta. Il sacerdote vacilla, con la fronte aggrottata, prende con due dita il mostro dalla coda da scorpione e lo sostiene in aria, come se fosse velenoso. «Dante», commenta, e deglutisce. Il pretino solerte mi sfiora un gomito, invitandomi a lasciare il suolo sacro.
Quando vedo il mio riflesso nello specchio dell’ingresso, penso agli occhi stanchi e minacciosi, armati di spade e di pesanti armature, che proteggevano il Bambino nella Casina delle Civette. Prendo la valigia e cammino come un viaggiatore senza meta e senza tempo, indifferente a tassisti e venditori ambulanti, ai turisti e allo sfarzo. Arrivato a ponte Vittorio Emanuele, poso la valigia e accendo l’ultima sigaretta, guardando il Tevere. Il vento mi spettina e mi culla come in una ninna nanna. Non so quanto tempo rimango con i gomiti su quella ringhiera ornamentale. Mi riscuote il telefono che vibra. Riconosco il numero di Leandro Cálgaris, ma per la prima volta in vita mia non gli rispondo.
Il mal di gola è sparito.