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ABANO La celebre località termale del Veneto era ricordata dalla mitologia in relazione con il culto di Gerione (Svetonio, Tiberio, XIV, 3), personaggio divino al quale Eracle aveva razziato le mandrie nel corso della decima delle sue celebri dodici fatiche: tornando, con gli animali catturati, dal remoto regno di Gerione, situato dalle fonti in un Occidente favoloso e indefinito (forse nel territorio di Tartesso, o più spesso in un’isola dell’Oceano), Eracle aveva compiuto un lunghissimo itinerario attraverso la Spagna, la costa meridionale della Francia (anche con occasionali puntate più a nord), le Alpi e l’Italia, scendendo fino alla Sicilia. Nel mito classico «Gerione aveva tre corpi d’uomo che si riunivano alla vita e poi si dividevano di nuovo in tre a partire dai fianchi e dalle cosce. Possedeva delle vacche dal manto rossastro»(Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 10). Ad Abano Gerione presenta tuttavia caratteristiche locali abbastanza singolari, che differenziano il personaggio dal suo aspetto peculiare di mostro tricorpore contro il quale Eracle deve ingaggiare un duro combattimento: qui esso appare invece come una divinità salutifera, messa in relazione con le acque termali sfruttate per le loro virtù fin da epoche molto antiche, ed è venerato come protettore degli invalidi, degli ammalati e di quanti sono incerti e dubbiosi. Probabilmente il Gerione di Abano era in origine un personaggio diverso da quello della saga mitica greca; quest’ultimo vi si sovrappose in un secondo momento, assimilandolo e trasformandolo, da divinità benevola qual era, in creatura mostruosa (cfr. Braccesi, Grecità adriatica, p. 11). Il toponimo (in latino Aponus) era talvolta spiegato, attraverso il greco àponos, come «che scaccia i dolori», interpretazione che ben si adattava a una località termale e alla figura salutifera del Gerione locale.
ABDERA Città della Tracia, sulla costa del mar Egeo, sull’attuale capo Bulustra, alla foce del fiume Nesta; secondo la tradizione doveva il suo nome (che in greco è plurale, ) a un eroe chiamato Abdero. «Egli […] venne straziato dalle cavalle di Diomede, assassine di stranieri»(Pseudo-Scimno, 668-670; Strabone, VII, fr. 46). Abdero, figlio di Poseidone o di Ermes, era infatti stato al fianco di Eracle durante una delle sue canoniche fatiche, quella della cattura delle cavalle del tracio Diomede, re dei Bistoni: animali ferocissimi, che si nutrivano di carne umana. Dopo averle catturate, Eracle aveva posto Abdero alla loro guardia, ma le cavalle avevano divorato il guardiano. La città sarebbe stata fondata, secondo alcune fonti, da Eracle stesso, nei pressi del luogo dove Abdero era stato sepolto (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 8), e in suo onore ne avrebbe preso il nome. Per celebrare la sua memoria lo stesso Eracle aveva istituito dei giochi che, in ricordo delle competizioni sacre svoltesi durante i suoi funerali, non prevedevano, comprensibilmente, gare equestri di nessun tipo. Accanto a questa, c’era poi un’altra tradizione secondo la quale la città aveva preso il nome dalla sorella del citato re tracio Diomede (Pomponio Mela, Corografia, II, 2, 29).
Gli abitanti della città godevano la non invidiabile fama di essere considerati particolarmente ottusi. Luciano di Samosata, nel suo opuscolo Come si deve scrivere la storia, apre la trattazione rievocando una curiosa epidemia che si abbatté sugli Abderiti all’epoca di Lisimaco, generale di Alessandro Magno, provocando una sorta di infatuazione collettiva per la tragedia: «Dapprima tutti in massa furono preda di una febbre violenta e ostinata fin dal primo giorno; al settimo poi, ad alcuni un’abbondante emorragia dal naso, ad altri una sudorazione, anch’essa abbondante, cacciò la febbre, ma diede luogo nelle loro menti a un fenomeno ridicolo: tutti erano ammattiti per la tragedia, dicevano giambi e levavano alte grida, ma soprattutto cantavano le monodie dell’Andromeda di Euripide». Insomma, i cittadini sembravano invasati e, girando per le strade «pallidi e smagriti», gridavano «con voce stentorea». La situazione si protrasse «a lungo, finché l’inverno e il gelo, che fu intenso, posero fine a quel delirio. Sembra che responsabile di tale sconquasso sia stato Archelao, attore tragico allora famoso, che recitò loro l’Andromeda a mezza estate in piena calura» (25 [59], 1). Gli Abderiti rimasero a lungo i protagonisti di battute e storielle scherzose, se dobbiamo dar retta al Philogelos, una curiosa raccolta di barzellette ante litteram risalente al III o IV secolo d.C., scritta in lingua greca ma di ambito romano e presumibilmente derivata da un patrimonio di storielle molto più antico: tra queste spiccava la storia di un Abderita che, incontrato un eunuco con una donna accanto, gli chiese se fosse sua moglie. Alla risposta dell’eunuco, che gli diceva che le persone come lui non possono avere moglie, l’Abderita, mostrando tutta la sua ottusità, gli chiese allora se fosse sua figlia. I cittadini di Abdera erano protagonisti di diversi aneddoti del genere. Sembrerebbe una coincidenza particolarmente curiosa il fatto che proprio di Abdera fosse Democrito, il filosofo greco del V secolo a.C. che di tutto rideva e che, secondo la tradizione, visitato da un celebre medico perché ritenuto pazzo a causa di tale suo riso, venne invece riconosciuto saggio perché aveva compreso, unico fra i suoi concittadini, l’intrinseca assurdità del mondo. Proprio ad Abdera Democrito si sarebbe volontariamente accecato nella convinzione che in tal modo le sue riflessioni avrebbero potuto essere più profonde, e maggiore la sua concentrazione non distratta dalle cose terrene: «Democrito di Abdera, filosofo fisico, collocò uno scudo contro il sorgere d’Iperione [il Sole] per cavarsi gli occhi col bagliore del bronzo. Così con i raggi del sole si cavò la vista per non vedere che i cittadini malvagi se la passavano bene» (Laberio, in Aulo Gellio, Notti Attiche, X, 17, 4). Nel IV secolo, Ammiano Marcellino ricorda Abdera come «patria di Protagora e di Democrito, sanguinosa dimora di Diomede di Tracia» (XXII, 8, 3).
Non è chiaro se con questa stessa città, o con una diversa, anche se dallo stesso nome, si debba identificare l’Abdera attraversata da Eracle al suo ritorno dalla cattura dei buoi di Gerione nell’estremo Occidente del mondo (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 10; per alcuni particolari su questa impresa di Eracle v. ABANO). Potrebbe trattarsi piuttosto dell’Abdera dell’Iberia, odierna Adra, antica colonia fenicia citata da Strabone (III, 4, 3).
ABE, in gr. Àbai. Località della Grecia situata al confine tra la Focide e la Locride, dove si venerava il dio Apollo. Il santuario a lui dedicato è ricordato nell’Edipo re di Sofocle (v. 899). Il toponimo era fatto risalire al nome dell’eroe fondatore, l’argivo Abante (Pausania, X, 35, 1-5; Strabone, IX, 5, 5). Egli, antenato di Perseo, il celebre uccisore della gorgone Medusa, era figlio di Linceo, re di Argo, e di Ipermestra; da lui e dalla sua sposa Aglaia nacquero i due fratelli gemelli Acrisio e Preto, che divennero famosi per la lotta fratricida che li contrappose per il possesso del trono di Argo. Da Abe sarebbero partiti i coloni che si installarono nell’isola di Eubea e che Omero ricorda con il nome di Abanti (Iliade, II, 536 e 542).
ABELLA Città della Campania corrispondente all’odierna Avella, in provincia di Avellino, presso Nola, ricordata dalla mitologia anche con il nome di Moera. La sua fondazione, secondo Servio (ad Aen. VII, 740), si doveva a un eroe di nome Murano (Muranus). Sulla città regnava Ebalo, figlio di Telone, re dei Teleboi e sovrano di Capri. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 740-743): gli abitanti di questa «città produttrice di frutta» (in particolare famosa per le nocciole della zona secondo Plinio, Nat. Hist., XV, 88, ma anche per le mele, da cui il toponimo che vorrebbe dire «città delle mele»), come ricorda Virgilio, sono «abituati a roteare la clava, coperti al capo da una corteccia strappata al sughero, di bronzo scintillanti gli scudi, scintillanti di bronzo le spade».
ABIDO, in gr. Àbydos. Il nome indicava nel mondo antico diverse località dell’Asia Minore e dell’Egitto. In ambito greco la più famosa era una città della Misia, nell’attuale Turchia, situata sulla riva asiatica dell’Ellesponto (l’odierno stretto dei Dardanelli), di fronte a Sesto. Nell’antica Roma era celebre per la sua produzione di ostriche pregiate: nelle Georgiche Virgilio allude alle «fauci ricche di ostriche di Abido» (I, 207). La poesia ne faceva la patria di Leandro, un giovane innamorato di Ero, sacerdotessa di Afrodite che abitava a Sesto, sull’altra riva dell’Ellesponto. Per potersi incontrare, i due giovani dovevano ricorrere a un accorgimento faticoso e rischioso: tutte le sere Leandro attraversava a nuoto l’Ellesponto, trascorreva la notte con la sua amata e sul far del mattino ritornava, sempre a nuoto, ad Abido. Per indirizzarlo nella traversata, Ero teneva una lanterna accesa sulla finestra, ben visibile da lontano. Quando il mare era in tempesta, però, Leandro non poteva arrischiarsi nella sua lunga e pericolosa nuotata. Un’unica volta volle provarci: «i golfi sconvolti da scroscianti procelle in tarda notte, nuotando alla cieca, attraversa; sul suo capo immensa tuona la porta del cielo e sugli scogli infrangendosi urla la distesa delle acque» scrive Virgilio (ibid., III, 259-262). La tempesta e il vento spensero la lanterna di Ero, ed egli, perduto l’unico riferimento che aveva nelle tenebre e nella furia del mare, morì tra i flutti. Ero, quando riconobbe il cadavere di Leandro che le onde avevano restituito alla spiaggia, disperata si tolse a sua volta la vita gettandosi dall’alto di una torre. Il racconto, uno dei più patetici e noti della letteratura antica, era ricordato tra gli altri anche da Ovidio (Eroidi, XVIII e XIX), in un celebre componimento di Museo, Ero e Leandro, e nell’Antologia Palatina ( V, 231 e 263; IX, 215 e 387). Abido e Sesto erano così vicine che soltanto a partire dal chiarore dell’alba era possibile vederle distinte e separate l’una dall’altra (Valerio Flacco, Argonautiche, I, 285).
Anche in Egitto si trovavano due diverse città di nome Abido, la più nota delle quali era situata nella Tebaide; in periodo classico, soprattutto nell’età imperiale romana, in quest’ultimo centro si era affermato un oracolo del dio Besa, antichissima divinità di origine locale, che, dal ruolo tutto sommato secondario che aveva in età faraonica, durante l’Impero di Roma acquisì maggiore importanza (Ammiano Marcellino, XIX, 12, 3 ss.). L’Abido della Tebaide era una delle città egizie che si contendevano l’onore di possedere entro i propri confini la tomba del dio Osiride: «si dice che Abido sia il luogo di sepoltura più ricercato dagli Egizi ricchi e influenti, che ritengono un onore essere seppelliti nello stesso luogo del corpo di Osiride» (Plutarco, Iside e Osiride, 359 A-B).
ABII, PAESE DEGLI Regione della Scizia dagli incerti confini e dalla collocazione indefinita, abitata da una popolazione semimitica. È ricordata nell’Iliade (XIII, 6: Àbioi), dove i suoi abitanti sono definiti «i più giusti fra gli uomini». Nella sua Anabasi di Alessandro (IV, 1, 1) Arriano ci informa che un’ambasceria di Abii fu inviata ad Alessandro e ci dà qualche ulteriore informazione su di loro: «essi abitano in Asia e sono autonomi soprattutto per la loro povertà e il loro senso di giustizia». Altrove essi sono definiti «i più giusti degli uomini, una razza abituata a calpestare sotto i propri piedi tutte le ricchezze mortali e che Giove contempla dall’alto dei Monti dell’Ida, come canta Omero nei suoi miti» (Ammiano Marcellino, XXIII, 6, 53; lo stesso autore mette in relazione il popolo degli Abii con quello dei Galactofagi parimenti citati da Omero). Il loro nome era interpretato come «senza violenza» (cosa che spiegherebbe le caratteristiche della loro cultura cui accenna Omero) o anche come «senza mezzi di vita» (con allusione alla estrema povertà della loro esistenza).
ABRUZZO Regione dell’Italia centrale, in età tardoimperiale chiamata Provincia Valeria, il cui nome attuale è connesso con quello degli antichi Praetutii insediatisi nel territorio circostante di Interamna Praetutiorum, oggi Teramo. Per i miti relativi alla regione v. soprattutto AMITERNO; CARSEOLI; FORULI; FUCINO, LAGO; MARRUVIA; MARSICA; SULMONA e inoltre, in Molise, VENAFRO e VOLTURNO.
ACACESIO, in gr. Akakèsios. Città dell’Arcadia che secondo la mitologia fu fondata da un eroe di nome Acaco, figlio di Licaone, noto per aver accudito Eracle quando era in tenera età (Pausania, VIII, 3, 2 e 36, 10; Stefano di Bisanzio, ad vocem). Lo stesso nome aveva anche un monte arcade. Il nome significa «benefico», «che conforta».
ACAIA, in gr. Achàia. Il nome indicava anticamente due aree della Grecia: l’Acaia detta Ftiotide, situata nell’area sudorientale della Tessaglia, ritenuta la terra d’origine della popolazione degli Achei, e l’Acaia propriamente detta, regione della costa settentrionale del Peloponneso, dove gli Achei sarebbero migrati, sospinti dall’arrivo dei Dori, stabilendovisi dopo averne scacciato i primitivi abitanti. Nei poemi omerici il nome di «Achei» indica solitamente nel loro complesso tutti i Greci in guerra contro i Troiani. Il toponimo derivava dal nome di Acheo, nipote di Elleno e figlio di Xuto e di Creusa, il quale a sua volta fu padre di Arcandro e Architele, eroi che si stabilirono successivamente ad Argo (Pausania, VII, 1, 6). La genealogia delle stirpi greche proposta dalla più antica poesia (Esiodo) faceva discendere da Elleno (colui che diede agli Elleni il loro nome) i tre figli Eolo, Doro e Xuto, e da quest’ultimo Ione e Acheo; Eolo, Doro, Ione e Acheo sarebbero stati i capostipiti delle diverse nazionalità greche, rispettivamente Eoli, Dori, Ioni e, appunto, Achei. L’intento dei racconti genealogici raccolti intorno alla figura di Acheo era evidentemente quello di sottolineare nella mitologia le basi di un legame molto stretto tra l’Acaia e il Peloponneso in generale. Prima di assumere il nome di Acaia la regione costiera settentrionale del Peloponneso era chiamata Egialo, toponimo che secondo alcuni derivava da Egialeo, re della Sicionia (per il quale cfr. Isidoro, Etimologie, IX, ii, 71), secondo altri dalla natura del territorio, in gran parte costiero, dal greco aigialeios, «litoraneo», «marittimo» (Pausania, VII, 1, 1).
Oltre che ai miti genealogici menzionati, l’Acaia era collegata a diversi altri contesti leggendari. Vi era ambientato, per esempio, il racconto della sfida tra le Pieridi e le Muse: le Pieridi, ossia le figlie di Piero, attraversarono l’Acaia prima di gareggiare nel canto con le Muse (per i particolari del mito v. PELLA). Il fiume principale dell’Acaia era il Piro, detto anche anticamente Piero (ibid., VII, 22, 1), Acheloo (Strabone VIII, 342) e in età moderna Kaminitsa; lungo le sue rive c’era un bosco di platani davvero fuori dell’ordinario, «per la maggior parte cavi a causa della vecchiezza, e di dimensioni così grandi che nelle cavità si può mangiare e, se si vuole, anche dormire» (Pausania, VII, 22, 1). Secondo Ovidio alcune città dell’Acaia un tempo fiorenti furono successivamente coperte dalle acque del mare: «Se tu cercassi le città dell’Acaia Elice e Buri, le troveresti sott’acqua: ancor oggi i marinai sogliono mostrare le città diroccate e le mura sommerse» (Metamorfosi, XV, 292-295). Il dotto tardoantico Isidoro di Siviglia, per parte sua, ricorda che in Acaia si ebbe un grande diluvio, avvenuto al tempo del patriarca Giacobbe «e di Ogige, fondatore e re di Eleusi» (Etimologie, XIII, xxii, 3). Dall’acqua al vino: si diceva che in Acaia, nella località di Cerinia, si producesse un vino che faceva abortire le donne gravide; anche mangiare i grappoli di quell’uva produceva il medesimo effetto (Ateneo, Deipnosofisti, I, 57, 31 f).
Per i miti relativi ad alcune località specifiche v. ALO; ANTEA; ARINNIO; BOLINE; BURA; CERINEA; CRATI; DIME; DRIO; EGE; EGIO; ELICE; IPERESIA; OLENIA, RUPE; OLENO; PATRASSO; PELLENE; RIPE; SELEMNO; TRITEIA.
ACANTO o CITTÀ DEGLI ACANTI, in gr. Àkanthos. Città di difficile identificazione situata in Egitto a ovest del Nilo, «dal lato della Libia», a circa «cento stadi da Menfi», che doveva il suo nome a un boschetto di acacia spinosa; vi si trovava un grande recipiente sacro di terracotta, forato, all’interno del quale trecentosessanta sacerdoti, uno per ogni giorno dell’anno, versavano acqua del Nilo (Diodoro Siculo, I, 97, 2). La cerimonia rievocava, agli occhi di un Greco, il mito delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao che uccisero i propri mariti durante la prima notte di nozze (con l’eccezione di una sola di loro, la primogenita Ipermestra) e furono condannate nell’aldilà a versare eternamente dell’acqua all’interno di un recipiente forato, che non avrebbe mai potuto essere riempito.
ACARNANIA, in gr. Akarnanìa. Regione della Grecia affacciata sul mar Ionio, di fronte alle isole di Leucade e Cefalonia, colonizzata secondo il mito da un eroe di nome Alcmeone, nativo di Argo, fratello di Anfiloco e figlio di Anfiarao; il nome sarebbe stato dato alla regione dal figlio di Alcmeone, chiamato Acarnano, nato dalla figlia del dio fluviale Acheloo, Calliroe: questi eventi si sarebbero svolti dopo la partecipazione degli eroi della regione alla guerra di Troia (Tucidide, II, 68 e 102, 5-6; Apollodoro, Biblioteca, III, 7,7). Altre fonti negano invece che gli Acarnani avessero mai preso parte alla spedizione troiana: Eforo sosteneva che i loro sovrani erano nemici di Agamennone e per questa loro ostilità si erano rifiutati di imbracciare le armi. Strabone al contrario (X, 2, 26) faceva notare che Omero elenca anche gli abitanti dell’Acarnania nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, ma li menziona sotto il nome dei Cefalleni e sostiene che il loro capo era addirittura Ulisse in persona. Secondo lo stesso Strabone gli Acarnani erano anticamente chiamati Lelegi e Cureti (VII, 7, 2; X, 2, 24 ss.), e questo poteva aver creato qualche confusione sulla loro storia più antica. A proposito di quest’ultima, si ricordava che mitici abitanti dell’Acarnania erano stati i Teleboi, che risiedevano anche a Leucade e nelle isole vicine (ibid., VII, 321 ss.; Plinio, Nat. Hist., IV, 53). Il loro eroe eponimo e capostipite era figlio di Poseidone, fratello di Tafio e padre di Pterelao (non di rado i Teleboi sono confusi o scambiati con i Tafii). Nella poesia epica latina essi appaiono insediati nell’isola di Capri (Virgilio, Eneide, VII, 734 ss.); Plauto (nell’Anfitrione, 101) ne ricorda l’origine greca. Una particina è riservata all’Acarnania anche nel mito degli Argonauti: le sue coste vengono infatti oltrepassate da Giasone e dai suoi compagni durante la loro navigazione di ritorno dalla spedizione nella remota Colchide alla ricerca del vello d’oro, e la regione viene chiamata «paese dei Cureti» (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1229). V. anche AZIO ed ENIADE.
ACARNE, in gr. Acharnaì. Città situata a una sessantina di stadi a nord di Atene, ricordata dagli storici come assai popolosa e capace di fornire numerosissimi soldati. I suoi abitanti sono protagonisti della commedia Acarnesi di Aristofane. La principale fonte di sostentamento degli Acarnesi era l’estrazione del carbone dal monte Parnete, e questa attività aveva loro procurato la fama di essere «robusti, duri come lecci […] forti come l’acero» (Aristofane, Acarnesi, 180-181), ma anche alquanto rozzi. Secondo Pausania (I, 31, 6) nel demo di Acarne spuntò per la prima volta l’edera, chiamata in greco cisso: per questo motivo qui Dioniso era venerato con l’epiteto di Cisso.
ACHELOO, in gr. Achelòos o Achelòios. È il principale fiume della Grecia, scorre fra le regioni dell’Etolia e dell’Acarnania e ha le sue sorgenti nella catena del Pindo, ma si riteneva nato, secondo la mitologia, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-340). Il delta del fiume venne regolarizzato, secondo la tradizione, da Eracle (Strabone, I, 3, 8). Personificato, come la maggior parte dei corsi d’acqua greci, e rappresentato solitamente nell’iconografia antica come un essere ferino con il volto umano, era innamorato di Deianira, eroina etolica figlia di Oineo re di Calidone. La stessa Deianira ricorda, nelle Trachinie di Sofocle, il modo in cui l’incomodo spasimante tentò di sedurla e come Eracle alfine la liberò dalle attenzioni del dio acquatico: quest’ultimo «tre volte, in tre forme diverse, mi chiese a mio padre. Dapprima venne con aspetto di toro, poi con le spire cangianti di un serpente, poi uomo con fronte di toro, e dalla folta barba scorrevano rivi di fonte […] più tardi, per la mia gioia, venne il figlio glorioso di Zeus e Alcmena [Eracle], che sostenne il conflitto con lui, e mi liberò» (vv. 9-21). Nella lotta contro l’Acheloo trasformato in uomo dal capo di toro Eracle gli strappò un corno, che successivamente venne identificato con la cornucopia, il famoso corno dell’abbondanza (che secondo altre tradizioni era invece il corno della capretta Amaltea, che nutrì Zeus infante): nel racconto dello stesso Acheloo, «mentre m’afferra inferocito un corno, rigido com’era, lui [Eracle] me lo spezza e lo strappa, mutilandomi la fronte» (Ovidio, Metamorfosi, IX, 85-86). A seguito di questa vicenda Eracle sposerà Deianira e avrà da lei cinque figli, quattro maschi e una femmina (tutta la vicenda che aveva per protagonisti Eracle e l’Acheloo è riassunta e discussa da Strabone, X, 2, 19).
Il fiume «dai vortici argentei» (cfr. Callimaco, Inni, VI, 13) trascinava nel suo corso molto fango, che restava intrappolato negli stretti passaggi tra le isole Echinadi poste alla sua foce; qui, nei pressi, si sarebbe installato l’eroe Alcmeone (Tucidide, II, 102, 3-6; v. ENIADE per i particolari): Alcmeone sposa la figlia di Acheloo, Calliroe, e «fonda una città nel luogo formato dai depositi alluvionali del fiume» (Apollodoro, Biblioteca, III, 7, 5). La forza turbinosa delle acque dell’Acheloo costituì un impedimento al passaggio di un altro grande eroe del mito, Teseo, che di ritorno dalla caccia al cinghiale calidonio (per i cui dettagli v. CALIDONE) si imbatté nel fiume «gonfio di pioggia», che lo mise personalmente in guardia dal cimentarsi con le sue acque vorticose: «Non esporti alla violenza dei miei flutti: sradicano i tronchi più robusti e con fragore immenso travolgono i macigni in bilico. Ho visto, vicino alla riva, grandi stalle trascinate via con tutto il bestiame […] e quando sui monti si sciolgono le nevi l’impeto del fiume ha inghiottito persino dei giovani nel turbine dei suoi gorghi» (Ovidio, Metamorfosi, VIII, 551-557). Teseo accoglie l’invito del dio fluviale e penetra all’interno del suo umido palazzo: «Entrò in un atrio dai muri di pomice spugnosa e di ruvido tufo; molle e umido di muschio era il piancito, il soffitto a cassettoni ornati di conchiglie e di murici» (ibid., VIII, 562-564).
Come divinità fluviale Acheloo era padre delle Ninfe che da lui prendono il nome di Acheloidi, nonché delle Sirene («le melodiose Sirene, figlie dell’Acheloo», secondo Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 893). L’idronimo era noto anche come Toas (Toante); dal Medioevo il fiume venne ribattezzato Aspropotamo. Anticamente, secondo il mito, prima di chiamarsi Acheloo aveva anche avuto il nome di Asseno, che mutò quando un eroe di nome Calidone, per un malinteso, uccise il padre Testio credendo che avesse commesso incesto con la propria madre; resosi conto di essersi sbagliato, disperato si gettò nel fiume, che prese il nome del padre, Testio, appunto, prima di essere definitivamente rinominato Acheloo (Pseudo-Plutarco, De fl., 22, 1, e 4). Talvolta il nome dell’Acheloo veniva usato dai poeti, per metonimia, per indicare l’acqua (per esempio in Euripide, Baccanti, 625, o in Ovidio, Fasti, V, 343; sul tema si sofferma dettagliatamente Macrobio, Saturnali, V, 18, 5 ss.). Per le singolari qualità della galattite, una gemma che si riteneva prodotta dalle sue acque, v. NILO.
ACHERONTE, in gr. Achèron, -ontos. Il nome indicava nell’antichità classica diversi fiumi. Nella geografia reale del mondo antico era così chiamato un corso d’acqua greco che scorre nella Tesprozia, in Epiro, e dopo aver attraversato la palude Acherusia si getta nel mar Ionio; il suo nome attuale è Phanariotikos. Un altro fiume che anticamente aveva questo nome scorreva in Italia meridionale, nel Bruzzio, e corrisponderebbe all’odierno Mucrone o all’Acri; sulle sue rive morì Alessandro d’Epiro. Un fiume dallo stesso nome scorreva poi in Peloponneso, nella Trifilia. L’Acheronte più famoso era però un fiume immaginario che scorreva nel mondo dei morti e che spesso, nella poesia e nella mitologia, veniva citato per indicare, in generale, l’aldilà. Spesso il suo nome viene usato come sinonimo di «morte»: particolarmente struggente l’invocazione di Antigone nella tragedia di Sofocle a lei intitolata, dove l’eroina, condannata a morte per aver reso gli onori funebri al fratello Polinice (per i particolari v. TEBE), si dirige verso la grotta in cui sarà sepolta viva pensando alle proprie nozze negate: «Non ci sarà imeneo, non inno nuziale cantato per me. Acheronte è il mio sposo» (vv. 813-816). La tradizione faceva infatti dell’Acheronte uno dei quattro fiumi principali dell’Ade, dove avevano il loro sbocco altri due fiumi infernali, il Cocito e il Flegetonte. Una descrizione del corso dell’Acheronte dell’oltretomba, con la precisazione delle sue funzioni e del suo ruolo nella geografia dell’aldilà, si legge nel Fedone di Platone (113 a, d): esso scorre in senso contrario al fiume più grande e misterioso di tutti, l’Oceano, «e dopo aver attraversato regioni deserte ed essersi inabissato sotto terra, giunge alla palude Acherusia, dove arrivano le anime della maggior parte dei defunti, che, dopo un periodo stabilito di permanenza» nell’aldilà, «sono rimandate a rigenerarsi in esseri viventi». «Quelli che risultano esser vissuti mediocremente, arrivati all’Acheronte, salgono su barche preparate apposta per loro e su di esse giungono alla palude. Qui abitano e si liberano dalle colpe, se ne hanno commesse, purificandosi con lo scontarne la pena, e sono ricompensati delle loro buone azioni, ciascuno secondo il proprio merito.» Svariati racconti del mito ricordavano che le anime dei morti dovevano attraversare il fiume, a nuoto o sulla barca di Caronte, per raggiungere il mondo dell’aldilà. Con parole suggestive Ifigenia, figlia di Agamennone, accetta di andare incontro alla morte per assicurare la clemenza di Artemide che permetterà alle navi di suo padre di salpare per Troia: «Andrò verso l’Acheronte intorno a cui si stendono i tesori della morte» dice nell’Ifigenia di Ennio, ripresa latina dell’omonima tragedia di Euripide. In tutta la letteratura greca e latina le citazioni dell’Acheronte sono innumerevoli e, al di là delle variazioni descrittive che ogni autore mette in campo, il fiume infernale appare concordemente delineato come luogo cupo, orrido e inquietante. Il mito, personificandolo, ne faceva un figlio di Gea, la Terra, o di Demetra, e raccontava che per aver aiutato i Giganti a dare l’assalto al cielo, fornendo loro l’acqua, venne punito da Zeus e trasformato in fiume.
ACHERUSIA o ACHERUSIADE, PALUDE, in gr. Acherousiàs, -àdos. Palude infernale nella quale ristagnavano le acque del fiume Acheronte, il corso d’acqua dell’aldilà. Per estensione lo stesso nome veniva usato per indicare, sulla terra dei vivi, le paludi nelle quali si riteneva di poter localizzare un accesso al mondo dei morti. A seconda delle diverse epoche, regioni e tradizioni locali esistevano diverse paludi reali che venivano indicate con questo nome, prevalentemente nell’Italia meridionale e in particolar modo in Campania. Plinio il Vecchio, per esempio, nella Naturalis Historia, cita con questo nome una palude della Tesprozia formata dalla foce del fiume Acheronte e un lago della Campania tra Miseno e Cuma. Un «lago chiamato Acherusia» era ricordato anche in Egitto (Diodoro Siculo, I, 96, 7), e benché non possa essere identificato con certezza si ritiene che potesse essere il lago che si trovava presso Menfi (cfr. Strabone, XVII, 1, 32). Lo stesso nome, senza alcuna associazione alle paludi, aveva anche una caverna della Bitinia, parimenti ricordata da Plinio, corrispondente alla località oggi nota come Baba Burun, dove secondo il mito Eracle era penetrato negli Inferi per catturarvi Cerbero. «Si racconta che Eracle discese sotto terra per catturare il cane Cerbero, proprio nel punto in cui viene mostrata, come prova della sua discesa, una voragine profonda più di due stadi [circa trecentosessanta metri]» (Senofonte, Anabasi, VI, 2, 2). L’impresa fu una delle più impegnative fra le dodici fatiche di Eracle, poiché Cerbero era il mostruoso cane posto a guardia del mondo dei morti e per catturarlo l’eroe dovette quindi discendere nell’oltretomba (cfr. Odissea, XI, 623-626). V. anche ACHERONTE e ACHERUSIO o ACHERUSIADE, CAPO.
ACHERUSIO o ACHERUSIADE, CAPO, in gr. Acheroùsios. Promontorio della Bitinia, in Asia Minore. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio è situato sulla costa del paese dei Mariandini, «si leva con rupi impervie e guarda al mare bitinico: sotto vi sono piantati scogli lisci, battuti dal mare, e tutto attorno terribilmente risuona l’onda che li avviluppa; in alto, sopra la cima, sono dei platani amplissimi» (II, 727-32). Il luogo è particolarmente impressionante: «Mai il silenzio possiede questo terribile capo; geme al rimbombo del mare, alle foglie mosse e agitate dai venti della caverna» (ibid., II, 740-742). È qui, infatti, che, secondo Apollonio Rodio, si apre la grotta di Ade, l’ingresso al mondo dell’oltretomba, e che scorre il fiume Acheronte. È un luogo dove il mare rumoreggia in continuazione e si sente perennemente lo stormire delle fronde agitate dai venti che escono dalla caverna di Ade. Sulla sommità del promontorio il sovrano del luogo, Lico, aveva fatto costruire un grande tempio dedicato al culto dei Dioscuri, che fungesse da riferimento per i naviganti e che li esortasse a venerare i divini gemelli (ibid., II, 805-08). Poco sotto la vetta del capo, poi, gli Argonauti seppelliscono uno dei loro compagni, l’indovino Idmone, ucciso da un gigantesco cinghiale in una vicina palude: a segnacolo della sua tomba viene posto un tronco di olivo ricco di fronde (ibid., II, 815-844). Una diversa tradizione ricordava invece che Idmone morì nelle sabbie della Libia, divorato da un serpente (Seneca, Medea, 652-653). Per l’accesso agli Inferi collocato in questi luoghi cfr. anche ACHERUSIA o ACHERUSIADE, PALUDE; ERACLEA; PAFLAGONIA.
ACHILLEION Città posta sulla costa nordoccidentale della Troade, in Asia Minore, presso il golfo di Besik. Il toponimo era messo in relazione con il tumulo dell’eroe Achille, che si riteneva fosse stato sepolto qui e che fu cercato in questo sito, fra gli altri, da Alessandro Magno e dall’imperatore romano Caracalla. V. anche SIGEO e cfr. LEUKE.
ACI, in gr. Akìs. Fiume della Sicilia che scorre nei pressi dell’odierna Acireale e sfocia a nord di Catania (l’odierno Jaci). Alla sua «sacra acqua», dimora delle Ninfe, allude Teocrito (I, 69); e sempre le sue acque freschissime godettero di grande fama e divennero proverbiali. Il dio corrispondente era ritenuto figlio di Fauno e di una figlia di un altro dio fluviale, Simeto. Aci fu protagonista di uno dei più famosi miti del mondo antico, quello del suo amore per la ninfa Galatea, che lo vide contrapposto al ciclope Polifemo, a sua volta innamorato della bellissima giovane; nella contesa Aci ebbe la peggio e venne trasformato nel fiume che porta il suo nome (Ovidio, Metamorfosi, XIII, 780-897). Il suo corso è testimone anche di un altro episodio celebre della mitologia, quello del ratto di Persefone, figlia di Demetra (la Proserpina dei Latini, figlia di Cerere) da parte del dio degli Inferi. Oltre le sue rive «sempre coperte d’erba», infatti, passa la dea Cerere quando, disperata per il rapimento della figlia, si pone alla sua ricerca percorrendo l’intera Sicilia: secondo una versione del mito il ratto aveva infatti avuto luogo nei pressi di Enna (Id., Fasti, IV, 468).
ACIREALE Cittadina della Sicilia, situata a nord di Catania, in prossimità del fiume chiamato anticamente Aci e delle località di Aci Trezza e Aci Castello. La leggenda associa il centro abitato e il toponimo alla figura dei Ciclopi (per i quali v. ACI TREZZA) e al mito di Aci, Polifemo e Galatea (per il quale v. ACI).
ACI TREZZA Località della Sicilia, a nord di Catania, situata sulla cosiddetta «riviera dei Ciclopi» che la mitologia associa all’avventura di Ulisse e dei Ciclopi narrata da Omero nel IX canto dell’Odissea. Le isole che si possono ammirare di fronte alla cittadina sono infatti chiamate Isole dei Ciclopi, e Scogli dei Ciclopi sono detti i faraglioni, rupi basaltiche (la più alta delle quali raggiunge una settantina di metri) che la tradizione vuole fossero state lanciate da Polifemo, accecato da Ulisse, per cercare di colpirlo.
ACMONE Mitico bosco del Ponto, in Asia Minore, ricordato nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (Akmònion àlsos, «selva Acmonia»): in esso Ares, il dio della guerra, e la ninfa Armonia si unirono, generando le Amazzoni (II, 991; v. anche AMAZZONIA).
ACRAIA, in gr. Akràia. Collina rocciosa dell’Argolide, nel Peloponneso. Derivava il nome da quello di una Ninfa, figlia del dio fluviale Asterione, che generò anche Eubea e Prosimna: le tre sorelle furono nutrici della dea Era (Pausania, II, 17, 1).
ACRE, in gr. Àkrai. Città greca di Sicilia fondata a una quarantina di chilometri a ovest di Siracusa, in posizione dominante sul corso dell’Anapo, da coloni provenienti dalla stessa Siracusa (Tucidide, VI, 5, 2). È stata identificata con l’attuale Palazzolo Acreide. Benché non siano noti miti specifici che la riguardano, è un centro di estremo interesse per la storia della religione antica, perché vi sono attestati in diverse forme culti ai morti venerati come eroi: le latomie dette dell’Intagliata e dell’Intagliatella, utilizzate come cave di pietre in età greca, recano varie tracce di questo culto, con incavi sulle pareti che dovevano alloggiare tavolette dipinte dedicate agli eroi e con un grande rilievo rupestre di età ellenistica ispirato allo stesso culto; agli eroi erano dedicati anche i cosiddetti templi Ferali, una latomia scavata nella parete verticale della roccia, che reca ancora iscrizioni acclamanti il defunto come demone benevolo. Non molto lontano, nella contrada del Santicello, si conservano alcune sculture rupestri risalenti al III secolo a.C. circa, note localmente come Santoni, che riproducono la Magna Mater (ossia la dea Cibele) con i suoi attributi: la patera, il timpano, leoni accovacciati ai piedi del trono e altre figure secondarie.
ACROCORINTO, in gr. Akrokòrinthos. Nome con il quale era indicata la collina sovrastante la città greca di CORINTO (v.), e che significa «parte alta di Corinto», «altura di Corinto», «Corinto alta». Nella mitologia essa aveva un ruolo significativo nell’ambito della leggenda della contesa che aveva visto contrapposti Poseidone ed Elio per il predominio religioso sulla città. Arbitro fra i due dèi fu Briareo, il Gigante dalle cento mani, «il quale aggiudicò a Poseidone l’istmo e le terre a esso connesse e assegnò a Elio l’altura [appunto l’Acrocorinto] che domina la città. Da allora l’istmo, come dicono, appartiene a Poseidone» (Pausania, II, 1, 6). E da allora l’Acrocorinto fu teatro di svariati altri episodi leggendari.
Dalla sommità dell’Acrocorinto, per esempio, si getta in volo l’«uomo sopra le nubi» protagonista del dialogo Icaromenippo o l’uomo sopra le nubi di Luciano di Samosata (46 [24], 10-11), che riesce a volare – emulo di Icaro e antesignano di Leonardo e delle sue macchine per il volo – con l’aiuto di ali che si è procurato tagliandole a un’aquila e a un avvoltoio. A un altro racconto del mito era poi legata una fonte che sgorgava sulla collina dell’Acrocorinto nei pressi di un tempio di Afrodite; la leggenda voleva che fosse stata donata a Sisifo da Asopo quando quest’ultimo era alla ricerca della figlia, Egina, rapita da Zeus. Il re degli dèi si era infatti innamorato della bella fanciulla e l’aveva sottratta al padre Asopo (la divinità preposta al fiume dello stesso nome), che si era messo disperatamente a cercarla. Imbattutosi in Sisifo, aveva saputo che egli era al corrente della sorte della fanciulla, ma che non gli avrebbe detto nulla se prima non avesse avuto da lui una fonte sull’Acrocorinto. «Asopo allora gli donò quell’acqua e così Sisifo gli fece la rivelazione, e di questa rivelazione paga il fio nell’Ade (e lo creda chi vuole)» (Pausania, II, 5, 1). La punizione riservata a Sisifo nell’Ade, e alla quale, come magnanimamente ci concede Pausania, possiamo credere o meno, era quella, ben nota e divenuta proverbiale, che consisteva nello spingere su per una ripida salita un masso enorme e pesantissimo, che una volta arrivato in cima rotolava di nuovo in basso, costringendo l’infelice Sisifo a riprendere la sua immane fatica. La leggenda della fontana dono di Asopo era variamente ricordata da altre fonti, che la chiamavano anche Pirene, con il nome cioè di un’altra celebre fonte di Corinto (v. CORINTO per i particolari), o dicevano che fosse scaturita da un colpo di zoccolo del cavallo alato Pegaso (Stazio, Tebaide, IV, 60 ss.). Indipendentemente dall’esatta identificazione della sorgente, il ricordo dei protagonisti di quel mito si mantenne a lungo vivo nell’area: sull’Acrocorinto si osservavano, ancora ai tempi di Pausania, ruderi di una costruzione che veniva chiamata palazzo di Sisifo.
ADE, in gr. Hàides, Hàdes. Propriamente il nome «Ade» non indica un luogo, bensì una divinità: si riferisce infatti al dio dei morti, figlio di Crono e di Rea, re dell’aldilà, rapitore e poi sposo di Persefone e identificato solitamente con Plutone. Dall’espressione ricorrente «casa di Ade» che si incontra nella poesia per indicare il mondo dei morti si passò poi a identificare il regno di Ade, chiamato spesso semplicemente Ade, con l’aldilà che attende ogni defunto, e con tale significato il nome è a lungo sopravvissuto nella letteratura occidentale. Il nome «Ade», secondo una etimologia diffusa presso gli antichi, derivava da , «non visibile» (Platone, Gorgia, 56 b; Fedone, 80 d; Cratilo, 403 a); secondo una diversa interpretazione, che lo stesso Platone riferisce nel Cratilo (404 b), tuttavia, «è più probabile che dall’
(conoscere) tutte le cose belle, a partire da ciò il legislatore lo abbia chiamato
. La varietà delle opinioni che circolavano sull’origine del nome non è che un riflesso della molteplicità delle immagini e delle teorie che sulla natura del mondo dei morti erano state formulate nel mondo classico. Tale molteplicità si spiega in parte anche con il fatto che, benché la concezione dell’aldilà dell’uomo fosse, allora come ora, di pertinenza più della sfera religiosa che di quella propriamente letteraria, l’immagine del mondo che attende le anime dopo la morte fu in gran parte definita, presso i Greci e i Romani, dalla poesia e dal mito, intrecciati a svariate credenze popolari; ne scaturì quindi una visione che non rappresenta quasi mai una concezione coerente basata su dogmi assoluti (dogmi che del resto la religione classica, non rivelata, non conosce), ma caratterizzata al contrario da svariate modifiche nel corso del tempo. Conseguentemente, anche la geografia mitica dell’oltretomba risulta molto sfaccettata, e parimenti i nomi riservati al luogo che attende tutti gli uomini dopo la morte sono molto vari. Qui ne viene proposto un quadro d’insieme, prescindendo dalle implicazioni filosofiche del tema e puntando invece agli aspetti più propriamente letterari; per ulteriori dettagli si rinvia inoltre alle voci specifiche via via menzionate.
Mondo dei morti e mondo degli dèi. Colpisce innanzitutto il fatto che nella mitologia classica il regno dei morti non abbia nulla a che fare con il regno degli dèi, dal quale è fisicamente ben distinto, benché una divinità, il già ricordato Ade (chiamato anche Aidoneo), sieda in trono negli Inferi accanto alla sposa Persefone, anch’essa una creatura divina: nonostante la presenza di questi sovrani soprannaturali, il paradiso degli dèi e quello degli uomini sono due mondi separati, diversi e distanti l’uno dall’altro. Diverso dal regno dei morti è, nell’età più antica, anche il Tartaro, che si trova al di sotto degli Inferi, in profondità ancora più remote e inaccessibili: qui, secondo la Teogonia di Esiodo, gli dèi hanno scaraventato i Titani. Più tardi i poeti useranno il termine «Tartaro» come sinonimo di «Ade», per indicare con esso, in generale, gli Inferi. I poeti latini chiameranno il regno dei morti anche con i nomi di «Orco», «Averno», «Erebo», ispirati spesso a singole parti di esso, come fiumi o paludi. Altre espressioni ricorrenti per indicare la dimora dei defunti sono «Isole dei Beati», usata da Esiodo, che indica un luogo dove la generazione degli eroi vive in una condizione di perenne beatitudine; «Campi Elisi», che designa un luogo dal clima mite e dolce; «Isola Bianca» (Leuke, presso le foci del Danubio), isola dove a pochi grandi protagonisti dell’epos è concesso di protrarre indefinitamente una serena esistenza.
Collocazione del mondo dei morti. Tutti questi luoghi variamente indicati e descritti sono collocati di solito agli estremi confini del mondo, in un punto remotissimo e inavvicinabile della terra. Della terra, appunto: il nesso geografico tra il mondo dei morti e quello dei vivi non è infatti mai annullato del tutto, anche se le distanze sono così remote e incommensurabili da rendere l’oltretomba del tutto inaccessibile se non a pochissimi vivi dallo speciale destino (Eracle, Orfeo, Teseo, Ulisse, Enea…). La sua ubicazione è varia, già a partire dai testi più antichi: il regno di Ade è posto sotto terra nell’Iliade, all’estremità del mondo, al di là dell’Oceano, nell’Odissea. Apparentemente meno inavvicinabile può apparire la porta d’accesso all’Ade: l’ingresso è per esempio oltre il fiume Oceano, al di là delle PORTE DEL SOLE e della RUPE BIANCA (v.) nell’Odissea (XXIV, 11-13); nelle Argonautiche di Apollonio Rodio è situato nella terra dei Mariandini, sul capo ACHERUSIO (v.), dove si trova «la grotta dell’Ade, completamente avvolta da rocce e foreste: ne spira un soffio gelido, che senza tregua esala dal profondo angoscioso recesso e tutt’intorno crea la candida brina, che scioglie soltanto il sole di mezzogiorno» (II, 734-42). La dimensione sotterranea del mondo dei morti è prevalente e viene scherzosamente sottolineata nelle Rane di Aristofane, dove Dioniso, che si consuma di rimpianto per il poeta Euripide ormai defunto, desidera scendere a cercarlo «giù nell’Ade», e «anche più in giù, se c’è un posto più in giù» (vv. 69-70); l’espressione «giù nell’Ade», anziché semplicemente «nell’Ade», è frequente in moltissimi passi di svariati poeti antichi. Alcune tradizioni (cfr. per esempio Pindaro, Pitica IV, 4; Aristofane, Rane, 187) collocavano le porte degli Inferi sul promontorio di Tenaro (il capo Matapan, all’estremità meridionale del Peloponneso); che varcare quella soglia rappresentasse un passo senza ritorno sembra sottolineato da quei testi che associano all’idea della porta dell’aldilà quella della durezza, dell’incorruttibilità e dell’immobilità: di una «porta di acciaio dell’Ade» parla per esempio Teocrito (Carmi bucolici, II, 33-34). Spesso, poi, soprattutto nel mondo latino, l’accesso all’aldilà era collegato alla presenza di paludi dalle quali esalavano nebbie e vapori e che per il loro aspetto sinistro e insalubre erano rifuggite dagli abitanti del posto. Tali erano i casi del piccolo lago del Sannio di nome AMPSANTO (v.) o AMSANTO, presso l’antica località di Aeculanum, le cui rive erano perennemente avvolte da basse nebbie. Altre porte dell’oltretomba erano collocate presso la palude Acherusia, nello stagno Alcionio o presso il lago di Averno in Campania, o in generale nelle vicinanze di Cuma, dove si trovava la grotta della Sibilla. Ma ci sono anche collocazioni diverse, come per esempio nelle più remote plaghe della Scizia (Ovidio, Metamorfosi, VII, 407 ss.). L’accesso al mondo infero è tutt’altro che lineare: se molteplici sono gli ingressi, svariate sono anche le vie che dietro quegli accessi si aprono. Come si legge nel Fedone (108 a) di Platone, «il viaggio non è come dice il Telefo di Eschilo: egli dice che una semplice strada conduce all’Ade, ma a me non sembra semplice né unica. In questo caso non ci sarebbe bisogno di guide: nessuno sbaglierebbe, se ci fosse un’unica via. Pare, invece, che abbia molte biforcazioni e incroci». E una guida, come scoprirà Dante molti secoli dopo, appare più che mai necessaria. Solo a pochi eletti, come a Edipo nell’Edipo a Colono di Sofocle, è dato di compiere l’estremo passaggio in un’atmosfera di serenità (v. COLONO).
Geografia e paesaggi degli Inferi. Molte fonti si sforzano di delineare un quadro geografico preciso del mondo dei morti, collocandovi fiumi, paludi, praterie, alberi e descrivendone topografia e paesaggio. Nell’oltretomba scorrono i fiumi infernali Acheronte, Flegetonte, Piriflegetonte, Cocito, Stige, Erebo, Amelete, Lete, variamente collocati e descritti dagli antichi poeti, che talvolta li presentano come paludi invase dalla putredine e spesso si sbizzarriscono a sottolinearne gli aspetti più macabri o disgustosi: come fa Aristofane, che nelle Rane parla di un «fiume di sterco» (v. 146) e nel Geritade accenna a un «fiume di diarrea» (fr. 156, 13). Sulla palude Acherusia, o sul fiume Acheronte, Caronte traghetta le anime che si affollano subito dopo la morte sulla riva e che secondo la tradizione popolare gli offrono una sorta di pedaggio, l’obolo che veniva messo in bocca al defunto. La porta del regno infernale è sorvegliata da Cerbero, il mitico cane a tre teste. In alcune laminette d’oro rinvenute in sepolture greche sono state trovate le dichiarazioni che l’anima doveva rendere nell’aldilà e i suggerimenti per superare le difficoltà del viaggio. Una delle più antiche descrive alcuni particolari topografici degli Inferi: la presenza di una fonte accanto a un cipresso, il lago di Mnemosine, lo snodarsi di due strade che divergono, una a sinistra per gli empi e una a destra per i giusti, sono elementi che arricchiscono o confermano le descrizioni di Omero, Esiodo e Virgilio. A proposito dei fiumi degli Inferi già Pausania aveva notato che «ci sono presso Cichiro (in Tesprozia) una palude chiamata Acherusia e un fiume chiamato Acheronte. Vi scorre anche il Cocito, acque inamabili. E io credo che Omero abbia notato le caratteristiche di questi luoghi e se ne sia servito liberamente per tutta la descrizione degli Inferi e inoltre abbia posto ai fiumi infernali i nomi dei fiumi della Tesprozia» (I, 17, 5).
Se la geografia infernale appare densa di toponimi e di dettagli, nel complesso il paesaggio dell’aldilà del mondo greco si presenta però, a partire dai poemi omerici, come galleggiante nel vuoto: è estremamente cupo, squallido, immerso nella tenebra, e le anime vi vagano senza uno scopo. Una visione così opprimente induce Achille, il più valoroso degli eroi, a dichiarare che preferirebbe essere un semplice operaio a giornata sulla terra piuttosto che un principe nel regno dei morti (Iliade, XI, 489 ss.). L’oltretomba di Omero è presentato soprattutto nel canto XI dell’Odissea, che descrive il viaggio di Ulisse nell’aldilà e contribuisce a definire alcune delle caratteristiche del mondo degli Inferi che rimarranno costanti in tutta la poesia greca arcaica. Nella spiegazione che Circe fornisce a Ulisse in procinto di partire per il suo pericolosissimo viaggio nell’oltretomba, «quando con la nave l’Oceano avrai attraversato, dov’è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone, alti pioppi e salici dai frutti che non maturano, tira in secco la nave in riva all’Oceano gorghi profondi, e scendi nelle case putrescenti dell’Ade» (Odissea, X, 508-12). La dimensione opprimente e tenebrosa che emerge da tale descrizione, con la cupa ombra dei boschi e i frutti che non maturano, rimarrà a lungo dominante nei paesaggi infernali: nella commedia essa si arricchirà di immagini più concrete (Aristofane, nel citato passo delle Rane, 145-50, accenna alle anime immerse nel fango e in materiali anche più disgustosi). In rari casi tali immagini si fanno anche positive (nel frammento 113 della commedia I Minatori di Ferecrate, del V secolo a.C., per esempio, una donna di ritorno dall’aldilà descrive il mondo dei morti come un paese di delizie nel quale abbonda ogni ben di dio e dove scorrono «fiumi pieni di polenta e di brodo nero»). Il senso di oppressione senza speranza tuttavia prevale, anche quando i riferimenti sono più vaghi e generici (per esempio a «ogni sorta di mali», come si legge nel fr. 837 Pearson di Sofocle).
Premi e punizioni nell’aldilà. Più difficile è cogliere, quando vi fu, l’idea di un rapporto tra l’operato degli uomini in vita e una ricompensa o una punizione dopo la morte. Nel periodo greco arcaico un rapporto stretto in questo senso non esiste se non in casi molto specifici: una punizione terribile attende, per esempio, tutti i nemici degli dèi, sprofondati nel Tartaro, quell’abisso, posto molto al di sotto dell’Ade, dove sono stati precipitati i Titani; punizioni sono descritte per Tizio, per Sisifo e per Tantalo nell’Odissea, anche se non ne viene ricordata la colpa in modo esplicito; nell’Inno omerico a Demetra la dea Persefone, come regina del mondo dei morti, assegna punizioni eterne a chi non le ha rivolto in vita il dovuto omaggio. Tradizionalmente, Minosse e Radamanto sono presentati come giudici infernali che valutano il comportamento degli uomini in vita e ne decidono conseguentemente i destini e le punizioni dopo la morte. Nella religione classica tuttavia un rapporto di causa ed effetto tra il comportamento tenuto in vita e il premio o il castigo dopo la morte non è presentato come inevitabile e viene stabilito soltanto con l’affermarsi delle dottrine misteriche: soprattutto quelle orfico-pitagoriche ed eleusine promettono ai loro adepti – e a loro soltanto – un destino di beatitudine nell’oltretomba. Pindaro, nell’Olimpica II, esalta la sorte felice che attende gli iniziati nell’aldilà: l’anima del defunto per tre volte rientra nella vita, e a seconda del comportamento che ha tenuto, superata la prova, giunge «là dove il fresco alito dell’Oceano spira intorno alle Isole dei Beati»; chi viene trovato puro da Radamanto «intreccia ai capelli fiori splendenti come oro» (fr. 129-33 Schroeder). Si diffondono la credenza nella psicostasia (la pesatura delle anime) e nella metempsicosi (la trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro); in che cosa specificamente consista la beatitudine dell’oltretomba non è però sempre spiegato nei testi. Non senza una venatura polemica, nel secondo libro della Repubblica Platone offre una sommaria descrizione di quanto aspetta gli iniziati nell’aldilà: «Museo e suo figlio [Eumolpo], in nome degli dèi, […] in immagine li conducono all’Ade, li fanno sedere a mensa ed imbandendo loro il banchetto degli eletti, coronati di fiori, fanno che passino tutto il tempo ad ubriacarsi, come se il premio più bello della virtù consistesse in un’eterna ebrietà […] Gli uomini ingiusti, invece, li affondano nella melma dell’Ade e li condannano a portare l’acqua nel crivello» (363 c-d). In generale, il «paradiso» greco e romano è identificato con i Campi Elisi, o le Isole dei Beati, luoghi dalla vita facile (come quella degli dèi, spesso definiti «coloro che vivono con facilità», o come quella raffigurata da Esiodo nella sua descrizione dell’età dell’oro), dove sono abolite la fatica e il lavoro, la terra produce spontaneamente i suoi frutti e alle anime non resta che goderne in perpetuo. Tale beatitudine, nella descrizione esiodea, è riservata agli eroi caduti a Troia o a Tebe, per estrema concessione di Zeus. Il rapporto tra la beatitudine eterna dei defunti e il mondo degli affetti non è sempre chiarito: Plutarco è il primo Greco che si prospetti come gioia più pura dell’oltretomba la possibilità di rivedere i propri cari; mentre in precedenza una svolta decisiva nella concezione dell’oltretomba si era manifestata, rispetto alla religione tradizionale, con Platone, dalla cui rappresentazione dell’aldilà svaniscono gli elementi e i riferimenti materiali: dall’esistenza incorporea che attende l’uomo dopo la morte il filosofo si aspetta soltanto la perfetta conoscenza, bandendo nel contempo tutto quanto nella tradizione poetica e letteraria concorreva a gettare l’aldilà in una luce sinistra (Repubblica, III, 386-388).
Descrizioni letterarie e filosofiche del destino delle anime nell’oltretomba. Abbiamo già sommariamente accennato alla topografia infernale; essa viene analizzata da Platone non per mero gusto descrittivo, bensì in una più generale visione che associa a ciascun luogo una specifica funzione. Così nel Fedone (113-114), accanto a una sorta di vera e propria geografia dell’aldilà, con l’indicazione dei fiumi (Acheronte con la palude Acherusia, Cocito, Piriflegetonte, Stige con la palude Stigia) e della voragine del Tartaro, è precisata la destinazione di ogni anima dopo la morte: sull’Acheronte le barche appositamente predisposte traghettano alla palude Acherusia coloro che devono scontare qualche pena, a causa della loro vita non irreprensibile, prima di tornare in vita. Quanti invece si sono macchiati di colpe tali da risultare «incurabili» vengono scaraventati nel Tartaro, «dal quale non riemergono più». Quanti, poi, «risultano aver commesso colpe gravi, ma curabili» vengono dapprima precipitati anch’essi nel Tartaro, ma dopo un anno vengono sospinti dalla corrente rispettivamente verso i fiumi Cocito e Piriflegetonte, a seconda che si siano macchiati di omicidio o di violenza contro il padre o la madre; da qui, trascinati verso la palude Acherusia, cercano di invocare le loro vittime e di ottenerne il perdono, condizione per non essere relegati nuovamente nel Tartaro. Quanti, infine, hanno condotto in santità la propria vita, lasciano le viscere della terra e tornano sulla sua superficie, ottenendo di continuare a vivere «per tutto il seguito del tempo» e di farlo «senza corpo», liberi da ogni legame materiale, in residenze meravigliose. Nel mito di Er, che chiude la Repubblica platonica, il mondo dell’oltretomba è descritto dal protagonista Er in modo minuzioso: subito dopo la morte, avvenuta sui campi di battaglia, egli giunge in un luogo caratterizzato da quattro voragini, due sulla terra e due nel cielo, tra le quali i giudici dell’aldilà indirizzano le anime dei defunti: a sinistra i dannati, in direzione di una delle voragini terrestri, a destra i beati, in direzione del cielo. In un grande prato Er può vedere anime che salgono, sporche e impolverate, dalle viscere della terra, e altre che scendono liete dal cielo, scambiandosi reciproche narrazioni delle esperienze vissute nel loro viaggio sotterraneo durato mille anni. Egli apprende così che a ogni colpa corrisponde nell’oltretomba una punizione decupla, e che tale punizione è particolarmente penosa specialmente per i colpevoli incalliti, per esempio i tiranni ingiusti e malvagi, ai quali sono riservate le pene più tremende. Dopo una sosta di sette giorni nel prato, le anime si mettono in cammino fino a raggiungere uno straordinario fascio di luce, simile a una colonna: la «cerniera che tiene unito l’universo» (616c), alla cui descrizione Er riserva particolare attenzione, con un linguaggio ricco di riferimenti filosofici e iniziatici. È il fuso delle Parche, e a Lachesi, appunto una delle Parche, le anime devono presentarsi e scegliere le sorti che, raccolte dal suo grembo, vengono poi gettate da un araldo. In questo episodio del mito di Er è espressamente dichiarata la libertà dell’agire umano: «La sorte non vi assegnerà il vostro demone» dice l’araldo alle anime radunate «ma ciascuno di voi sceglierà la sua»; e ancora: «Ciascuno è responsabile della propria scelta: la divinità non ne ha colpa» (617e). La scelta compiuta in tal modo determina la vita delle anime nella loro successiva reincarnazione, ed Er può assistere alla scelta compiuta da personaggi che nella loro vita precedente erano stati illustri e famosi. Una volta fatte le loro scelte, ratificate dalle Parche, le anime si dirigono in una pianura arida e caldissima, dove si fermano presso le rive del fiume Amelete: bevendone le acque, esse dimenticano completamente ogni cosa del proprio passato e di quanto era loro avvenuto poco prima, e sprofondano in un totale oblio. Tutti cadono allora addormentati, fino a che, nel cuore della notte, un tuono terribile fa tremare la terra e scaglia le anime in tutte le direzioni, come stelle cadenti, ciascuna nel luogo della sua nuova nascita. Solo a Er viene riservato un diverso destino: senza aver compiuto la sua scelta, senza aver bevuto le acque del fiume dell’oblio, egli, ignorando come tutto quanto sia avvenuto, si risveglia sulla pira dove i suoi compagni lo avevano deposto, miracolosamente salvatosi per narrare agli uomini ciò che li attende dopo la morte.
La visione dell’aldilà può talora non essere così densa di riferimenti simbolici e filosofici, e venarsi invece di sfumature marcatamente comiche, come avviene nelle Rane di Aristofane, dove la geografia tradizionale dell’oltretomba («la roccia dello Stige dal nero cuore», lo «scoglio di Acheronte che stilla sangue», le «cagne che corrono lungo il Cocito», vv. 469-472) viene rivisitata con spunti dichiaratamente volti a far ridere e dove non manca neppure una rappresentazione del palazzo di Plutone, al quale Dioniso, una volta giunto davanti alla porta chiusa, non sa come farsi aprire: «come bussa la gente di qui?» (ibid., 461), si chiede imbarazzato.
Come nel caso del mito di Er, anche in altri autori la descrizione dell’aldilà dà luogo a veri e propri complessi racconti. Una visione articolata del mondo dell’oltretomba si legge in una delle opere di Plutarco (De sera numinis vindicta, 563 B ss.) nel mito di Tespesio di Soli o Soloi (il suo nome significa «il meraviglioso», «il provvidenziale»), un uomo che per aver dissipato nella prima parte della vita tutti i suoi beni si trovò ben presto spinto dalla necessità a una esistenza di vizio e di malaffare, alla ricerca della ricchezza; le sue imprese gli guadagnarono, a parte un modesto recupero di benessere economico, soprattutto una solida fama di disonestà. Un giorno egli interpellò l’oracolo di Anfiloco, che aveva sede nelle vicinanze della città di Soloi, chiedendo se poteva aspettarsi dal resto della vita una situazione più favorevole; ma l’oracolo gli rispose che sarebbe stato più felice da morto che da vivo. Poco tempo dopo Tespesio cadde e batté la testa senza ferirsi, ma per la violenza dell’urto rimase in uno stato di morte apparente, riprendendosi solo qualche giorno dopo, quando già si stava per seppellirlo. Ritornato all’onor del mondo, non senza un cambiamento straordinario – in meglio – nei comportamenti, raccontò ciò che gli era capitato in quel periodo di assenza dalla vita: e l’autore ha così l’occasione per presentare un ampio quadro, denso di riferimenti mitici ma anche filosofici e religiosi, dell’aldilà e del destino delle anime dei defunti. Così, per esempio, ci viene spiegato che «le anime dei morti, venute dal basso, si elevavano nell’aria che si apriva davanti a loro, formando una bolla luccicante», dalla quale, apertasi dolcemente, usciva una forma umana di piccole dimensioni in preda a un movimento frenetico caratterizzato da una straordinaria leggerezza. Mentre alcune di tali forme, le anime, si muovevano in modo rapido e inconsulto tra gemiti ed espressioni di panico, altre si avvicinavano reciprocamente nelle zone più elevate e luminose dell’atmosfera. Una di esse, nelle quali Tespesio riconosce un lontano cugino, gli spiega che egli non è morto: «per un decreto degli dèi, tu sei venuto qui con la parte pensante della tua anima; tu hai lasciato il resto nel tuo corpo, come un’ancora. Ma che questo ti serva come indizio per ora e per più tardi: le anime dei morti non fanno ombra né essi sbattono le palpebre». È questo stesso cugino che spiega a Tespesio l’organizzazione del mondo dei morti, la funzione degli dèi, il ruolo di Adrasteia, figlia di Zeus e di Ananke (la necessità) come giustiziera di ogni colpa, quello di Poiné (la pena), che punisce blandamente coloro che già hanno espiato in vita con patimenti di vario genere, quello di Dike (la giustizia) che si occupa dei casi più delicati, infine quello di Erinni, preposta alle situazioni più gravi, che dopo alcuni trattamenti estremamente crudeli fa sprofondare le anime in un luogo di orrore e di patimenti indicibili. Ogni colpa, ogni difetto umano rende le anime colorate di una diversa sfumatura; e solo quando hanno espiato le loro colpe esse perdono i colori e appaiono splendenti e luminose. In questo quadro dell’oltretomba il Lete, il «Luogo dell’Oblio», si presenta come un ampio spazio libero, dal quale emana un profumo soavissimo e in cui, nelle profondità di un baratro vasto e insondabile, si moltiplicano le fronde, i fiori, le risa e i canti di una festa perenne dalle sfumature dionisiache. Per contro, il luogo dell’espiazione appare pervaso da patimenti e torture strazianti di ogni tipo. La visione di Tespesio si chiude con un’anticipazione del destino dell’imperatore Nerone, che, al pari di altre anime destinate alla reincarnazione, viene plasmato in forma di vipera (ma una misteriosa voce divina ne cambia la destinazione e ordina di farne «un animale che canta sulle paludi e gli stagni», forse un cigno, come ricompensa per aver «liberato il popolo migliore e più religioso sottomesso al suo impero, la Grecia»); finchè Tespesio, «come aspirato dal soffio violento e irresistibile di un sifone, ricade nel suo corpo e riapre gli occhi, quasi tornato ai piedi della sua tomba».
Se nel quadro offerto da Plutarco concezioni religiose, misteriche, filosofiche si fondono in un affresco di ampio respiro, una visione tradizionale dell’oltretomba, tuttavia venata di umorismo e pervasa da una satira amara, si legge invece nel dialogo Menippo o la negromanzia di Luciano di Samosata, nel quale il protagonista, Menippo, descrive – faticando un poco a farsi prendere sul serio da chi lo ascolta – la storia del suo viaggio nell’aldilà, che lo accomuna a eroi famosi del mito (e in particolare a Ulisse) e al quale si accinge con la guida di Mitrobarzane, saggio persiano. Dopo aver caricato sulla barca il necessario per il sacrificio propiziatorio, i due protagonisti intraprendono il percorso fluviale che li deve portare all’accesso degli Inferi. «Entrammo nella grande palude nella quale finisce l’Eufrate; attraversata anche questa, arriviamo in un luogo deserto, selvoso, buio.» L’accesso al mondo infernale viene proiettato, per una volta, nelle remote lontananze di un Oriente sconosciuto, anziché nei più frequenti orizzonti dell’estremo Occidente. Compiuto il sacrificio, «subito tutto tremò, per la forza dell’incantesimo si squarciò la terra e da lontano s’udiva il latrato di Cerbero […] ormai si vedeva quasi tutto, la palude, il Piriflegetonte, la reggia di Plutone». Non manca neppure il battello guidato da Caronte, né il «grandissimo prato di asfodeli, dove ci volavano intorno stridendo le ombre dei morti», né il tribunale di Minosse, né il luogo delle pene, che – come suggerivano le religioni misteriche – erano comminate a chi aveva condotto una vita scellerata. Sono visibili anche i grandi personaggi del mito, e alcuni antichi «disfatti e, come dice Omero, senza vigore, altri ancora recenti e ben messi, gli Egizi specialmente, per la lunga durata della loro imbalsamazione. Tuttavia riconoscerli ad uno ad uno non era molto facile, giacché, scarnite le ossa, diventano tutti perfettamente uguali gli uni agli altri»: è la giustizia estrema della morte, che tutto livella. Ci sono semidèi ed eroine nella piana dell’Acheronte, e soprattutto ci sono i grandi e i potenti della storia e della vita trasformati in poveretti ignoti, mendichi, dispersi nella ressa di tutti gli altri morti, «come i più abietti degli schiavi»: Mausolo di Caria, che aveva dato il suo nome a un sepolcro noto come una delle meraviglie del mondo, il Mausoleo, va ramingo nella folla confusa degli altri morti, piccolo e insignificante; e il grande Filippo di Macedonia rabbercia scarpe rotte in cambio di una modesta mercede. L’uscita dal mondo infernale avviene in modo non ricostruibile neppure nella memoria del protagonista dell’eccezionale viaggio: egli sa soltanto che, condotto all’imbocco di una specie di fessura, cerca di inerpicarvisi attirato dalla luce che vi filtra in lontananza e, senza sapere come, si ritrova nel tempio dell’indovino Trofonio a Lebadea.
Non mancavano altri racconti ambientati nell’aldilà; una sintesi della visione dell’oltretomba che circolava comunemente in età ellenistico-romana, nella quale un velo d’ironia cela il riconoscimento dell’impotenza umana a scoprire i segreti della morte, si legge in un epigramma dell’Antologia Palatina, dove in un immaginario dialogo di un passante con un defunto di nome Carida veniamo a sapere che cosa ci attende dopo la fine. «“Carida, che c’è laggiù?” “Buio pesto.” “E le vie del ritorno?” “Bugie.” “E Plutone?” “Un mito.” “Poveri noi!” “Questa è la risposta sincera che vi do; ma se preferisci quella piacevole, un grosso bue costa un soldo nell’Ade.”» (VII, 524).
L’aldilà dei Romani. Alla concezione dell’oltretomba del mondo romano contribuiscono, accanto alle credenze popolari indigene e alle convinzioni ereditate dalla religione greca, le creazioni dei poeti, dei filosofi e degli eruditi latini (da Virgilio a Ovidio, da Seneca a Silio Italico, per non nominarne che alcuni). Talvolta la dimensione poetica di tali creazioni, pur nel rispetto di una visione tradizionale dell’aldilà, raggiunge livelli nuovi ed eccelsi. Ecco per esempio la descrizione che del mondo degli Inferi ci ha lasciato Ovidio (Metamorfosi, IV, 432 ss.): «C’è un sentiero in declivio che fra le tenebre di tassi funerei conduce agli Inferi in un silenzio di tomba. Fra le nebbie che esala la palude dello Stige da lì scendono man mano le ombre, i fantasmi di chi ottiene l’onore del sepolcro. Pallore e gelo ristagnano ovunque in quei luoghi in abbandono e gli estinti arrivando ignorano la strada che conduce alla città infernale e dove sia l’orrenda reggia di Plutone. L’immensa città ha mille entrate e porte dovunque, spalancate […] Esangui, senza più corpo e ossa, errano le ombre: in parte s’accalcano fuori, in parte nella reggia di Plutone, in parte esercitano un’attività, a imitazione della vita passata, un’altra parte ancora sconta la pena che ha meritato». Espressioni come «squallido mondo dei morti» o «tenebre del Tartaro» definiscono nello stesso Ovidio la cornice entro la quale si svolge la discesa agli Inferi di Orfeo, che osa inoltrarsi «per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno» (ibid., X, 29-30). Giustamente celebrato è il passo dell’Eneide virgiliana nel quale è descritto il preinferno, una specie di limbo nel quale sono ospitati i bambini morti prematuramente (abstulit atra dies et funere mersit acerbo, dice Virgilio: «li strappò un oscuro giorno e in un funerale li immerse, precoce»), e inoltre coloro che sono stati ingiustamente condannati a morte, i suicidi, i morti per eccesso e per difetto di amore, i guerrieri caduti in combattimento (VI, 426 ss.). Altrettanto famoso è l’ingresso di Enea nelle «dimore di Dite» descritto nel libro VI: «Andavano oscuri sotto la notte solitaria per l’ombra e per le dimore di Dite, vuote, e i regni inanimati, quale per un’incerta luna sotto la luce maligna è il cammino nelle foreste […] Davanti al vestibolo e nelle prime gole dell’Orco» abitano gli affanni, la vecchiaia, il tremore, le malattie, la povertà e una terrificante accolita di tutte le paure e le angosce dell’uomo; «al centro i suoi rami come annose braccia distende un olmo opaco, immenso, che quale loro sede abitualmente i Sogni vani occupano», e poi tutte le creature mostruose che la mitologia ha saputo inventare, dai Centauri all’Idra di Lerna, per finire con Caronte, che sorveglia il traghetto delle anime attraverso i fiumi infernali: «Di qui la via del Tartaro, che porta alle onde dell’Acheronte. Torbido di fango, da una vasta voragine questo gorgo ribolle, ma tutta nel Cocito entra la sua fanghiglia. Traghettatore di queste acque, orrendo, il fiume sorveglia, terribilmente luttuoso, Caronte».
Nonostante l’efficacia descrittiva di passi del genere, essi tuttavia non apportano, rispetto al panorama delineato per il mondo greco, innovazioni davvero significative. Né particolarmente innovativa appare la descrizione dell’aldilà nel poema di Lucano, la Farsaglia o Guerra civile, dove a predominare è il presagio di morte per le disgrazie terribili che stanno per abbattersi sui Romani, preannunciate in un sogno da Giulia, figlia di Cesare e prima moglie di Pompeo, proprio a Pompeo addormentato: qui a colpire è soprattutto l’ampliarsi «del Tartaro per poter accogliere un maggior numero di dannati», e l’attività frenetica delle Parche, addette a filare la vita di ciascuno, che ora si affannano «esauste per il taglio di tanti stami», incapaci, pur lavorando a ritmo sostenuto, di far fronte alle stragi imminenti (III, 10 ss.).
Una visione assai suggestiva del mondo dei morti è espressa nella parte finale del VI libro della Repubblica di Marco Tullio Cicerone, nota come Somnium Scipionis: Scipione Emiliano, protagonista dell’intero dialogo della Repubblica, narra un sogno che aveva fatto molti anni prima, nel quale gli era apparso l’avo adottivo Scipione Africano: quest’ultimo gli aveva profetizzato quali imprese gloriose lo attendevano, gli aveva anticipato la sua morte prematura e gli aveva presentato una visione delle sfere celesti e dell’immortalità. Quest’ultima è riservata ai benefattori della patria e ai grandi uomini di Stato, per i quali una dimora eterna è approntata nella Via Lattea.
Accanto a queste immagini suggestive e permeate di un afflato mistico la rappresentazione dell’aldilà conoscerà anche nel mondo latino, come già era stato in quello greco, risvolti comici: una delle opere più efficaci in tal senso è l’Apocolocyntosis, forse traducibile come «elevazione tra le zucche» del divo Claudio, satira di Lucio Anneo Seneca nella quale si immagina che dopo la morte l’imperatore salga in cielo, con l’intenzione di rivestirvi il ruolo che ritiene gli spetti, ma susciti una animata discussione tra gli dèi, i quali decidono alla fine che il suo posto non è in cielo, bensì all’inferno. Claudio comincia così il viaggio verso l’oltretomba (nel corso del quale può assistere, sulla via Sacra, al proprio funerale), e giunto nei regni infernali viene accolto da tutti coloro che hanno subito in vita gli effetti della sua crudeltà, finché diventerà schiavo prima di Caligola, quindi di Eaco, infine di Menandro. La descrizione degli Inferi è qui subordinata al desiderio di rivalsa nei confronti dell’imperatore e interamente costruita in funzione del dannato d’eccezione che vi viene accolto: l’aldilà appare così come luogo dove finalmente si ristabilisce un equilibrio nelle sorti degli individui, un bilanciamento tra felicità e sofferenza. È il caso di ricordare, infatti, che in età imperiale il diffondersi di credenze e dottrine religiose di origine orientale, come il mitraismo, accentuò l’orientamento già segnalato a proposito delle religioni misteriche greche, volto a individuare nell’oltretomba una consolatoria salvezza per gli iniziati e una retribuzione o punizione in base ai meriti e i demeriti di ciascuno; su questo terreno non faticherà a imporsi anche la religione cristiana con la sua promessa di salvezza eterna per i credenti (e di punizione per i colpevoli). Lo stesso Seneca, peraltro, non si distacca dalla tradizione quando descrive, sulle rive dell’Acheronte, la reggia di Dite, immensa dimora coperta da un bosco ombroso, nelle tenebre di una caverna oscura (La follia di Ercole, 717-718). Parimenti ancorata alla tradizione è la visione del mondo dell’oltretomba fornita da Silio Italico nella Guerra Punica, dove la geografia infernale e la concezione dell’aldilà sono delineate a far da cornice al viaggio del giovane Scipione fra i morti, per interrogare il padre e lo zio circa i destini di Roma, afflitta dalla calata di Annibale in Italia (libro XIII).
L’aldilà degli Etruschi. Un cenno a parte merita la concezione dell’oltretomba degli Etruschi. Benché la mancanza di testimonianze letterarie renda meno certa la ricostruzione della loro visione del mondo dopo la morte, l’abbondante documentazione archeologica e artistica, in gran parte pertinente alla sfera religiosa e in particolare funeraria, permette di farsene un’idea. Debitore delle idee greche, ma anche di tradizioni locali, e connesso altresì alle credenze elaborate dai Romani, tale mondo appare solitamente come un luogo di pericoli e di infelicità per i dannati, il cui aspetto più oscuro e spaventoso è rappresentato però soprattutto dal viaggio che occorre compiere per raggiungerlo. L’inferno appare popolato da esseri inquietanti, come dimostrano alcuni dipinti nelle tombe di Tarquinia note come tombe dei Caronti o dei Demoni azzurri. Il principale dei Caronti etruschi è armato di un martello, che usa per bloccare con paletti la porta degli Inferi alle spalle del defunto che vi è appena entrato; un demone di nome Tuchulcha, essere mostruoso dalle ali serpentiformi e dal becco adunco, si occupa di fare la guardia a speciali dannati; Vanth, l’angelo della morte, detiene i fati di ciascun defunto; e numerosi altri demoni, lase e creature infere popolano l’aldilà. Divinità connesse al mondo infernale sono Mantus (Manto), Aita o Eita (Ade), Phersipnai (Persefone), Tinia calusna (Giove infero), Calu e Nortia (una dea del destino). Ai privilegiati che appartengono alle élite dominanti è consentito accedere ai Campi Elisi e trascorrere in beatitudine, in un interminabile banchetto, l’eternità; ma per tutti, beati e dannati, è fondamentale affrontare il viaggio pieno di insidie che porta all’oltretomba, nei penetrali della terra, con la guida dei libri fatales e dei libri Acherontici, che contengono l’indicazione meticolosa e dettagliata di tutti i rituali che è necessario rispettare per uscire indenni dal pericolosissimo viaggio e dalle insidie dei demoni infernali. L’oltretomba, inoltre, come luogo ove risiedono gli antenati, è in qualche misura in continuo contatto con i vivi, in quanto i defunti sono garanti della propagazione e della sopravvivenza della stirpe; da qui l’insistenza quasi ossessiva sulla conservazione di legami materiali e ideali stabiliti dalla comunità dei vivi con i propri avi, evidente soprattutto nell’iconografia e in generale nella documentazione archeologica, prevalentemente, come è ovvio, in quella di matrice funeraria.
Viaggi mitici nell’aldilà. Accanto alla descrizione dell’oltretomba, della sua geografia e dei suoi paesaggi, di particolare interesse sono i racconti relativi all’esperienza eccezionale, concessa a pochi esseri mortali dalle particolari qualità, di visitare il mondo dei morti da vivi e di farne ritorno per descrivere ciò che hanno visto. Si è già accennato al fatto che questa esperienza tocca a eroi quali Ulisse, Enea, Orfeo, Teseo, Eracle, Dioniso e perfino a un personaggio storico come il giovane Scipione (nella Guerra Punica di Silio Italico, libro XIII, e in sogno nel Somnium Scipionis), mentre un particolare viaggio nell’oltretomba è messo in scena nelle Rane di Aristofane. La più celebre di tali spedizioni è senza dubbio quella di Ulisse, descritta nell’XI canto dell’Odissea e che divenne un modello anche per tutti i racconti successivi sullo stesso tema. L’eroe ha ricevuto dalla maga Circe il consiglio di spingersi fino alla regione dei morti per interrogare l’indovino Tiresia, che saprà dirgli come si svolgerà il seguito del suo viaggio; si reca perciò nelle terre dei Cimmeri, che risiedono sulle rive dell’Oceano, in una regione perennemente avvolta dalle nebbie, e qui, dopo aver scavato una fossa nel terreno, offre un sacrificio ai defunti, immolando poi una vittima specificamente destinata a Tiresia. Fino a un certo punto del racconto l’incontro tra Ulisse e i defunti sembra avvenire non nel mondo dell’aldilà in senso proprio, bensì intorno alla sacra fossa scavata dall’eroe, dove le anime dei defunti si accalcano per bere il sangue delle vittime offerte per loro. Così Ulisse incontra Elpenore, uno dei suoi compagni, morto cadendo accidentalmente dal tetto della casa della maga Circe; la madre Anticlea, che gli dice di essere morta di crepacuore per la sua assenza, e che in una scena toccante l’eroe cerca vanamente di abbracciare («per tre volte mi volò via dalle dita simile a ombra o a sogno», XI, 206-207); lo stesso Tiresia, che gli spiega tutto ciò che dovrà accadergli sulla via del ritorno in patria e gli vaticina, con una celebre quanto enigmatica profezia, la sua fine in un paese straniero che ignora che cosa sia il sale e non sa riconoscere un remo. E ancora, vede accalcarsi intorno alla fossa le spose e figlie di principi e condottieri, e si intrattiene con ciascuna di loro. Fino a questo momento dunque le anime dei defunti conoscono una sorta di breve ritorno tra i vivi, affacciandosi per un momento alla fossa del sacrificio e riacquistando, grazie al sangue delle vittime, memoria e consapevolezza, nonché, come nel caso di Tiresia, le proprie capacità di un tempo: «allora fuori dall’Erebo si adunarono le anime dei morti» specifica Omero (XI, 36-37). Ma altri incontri che avvengono poco dopo, con Aiace, Minosse, Orione, Eracle e altri, sembrano svolgersi invece direttamente nell’aldilà, come se Ulisse fosse penetrato a sua volta nel mondo infernale: Ulisse vede Aiace che se ne va sdegnato verso l’Erebo fra le altre anime dei defunti, Minosse «nella casa dalle ampie porte di Ade», Orione che incalza le fiere «nel prato di asfodelo», Tantalo immerso nelle acque di uno stagno, Sisifo che sospinge un masso pesantissimo, Eracle che entra nella casa di Ade… Senza dirci come, il poeta ci ha trasportati al di là del confine che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, complice, forse, quell’oblio che tutto avvolge nell’aldilà.
Un ruolo non secondario ha l’oblio anche nel viaggio oltremondano di Orfeo: il mitico cantore tracio ottiene di scendere nel mondo dei morti per riprendersi la sposa Euridice, a condizione che, nel risalire dagli Inferi, la preceda e non si volti indietro a guardarla. Come è noto, il mito racconta che Orfeo non sa resistere e suo malgrado si volta, provocando così il definitivo sprofondamento della sposa nel regno di Ade. Perché Orfeo si è voltato? L’interrogativo intrigava i poeti antichi: Seneca, in una delle sue tragedie, sembra ipotizzare che semplicemente Orfeo fosse smemorato (caratteristica curiosa per un poeta, specie nel mondo antico, dove la poesia era strettamente legata alle arti mnemoniche), là dove spiega che «Orfeo immemore si voltò indietro» (Ercole sull’Eta, 1085), dimenticando la raccomandazione che gli era stata fatta. Del resto anche altrove Orfeo è presentato come abbastanza smemorato: dal suo viaggio nel mondo dell’aldilà ha portato notizie ingannatrici, dicendo per esempio che l’oracolo di Delfi era comune ad Apollo e alla Notte, «ingannato dalla sua memoria» (Plutarco, De sera numinis vindicta, 566 C). A meno che sia stato proprio il mondo dell’aldilà a contaminarlo con l’oblio, carattere inscindibile dal regno di Ade, come sottolineano concordemente le fonti e come sintetizza ancora Plutarco: «Dove sono dunque tutte queste meraviglie? Dov’è il grande Creso, padrone della Lidia? E Serse, che mise il giogo al collo dell’Ellesponto? Tutti sono partiti per l’Ade e le dimore dell’Oblio» (Consolatio ad Apollonium, 15 = 110 D). In alternativa si potrebbe accogliere la spiegazione feroce di Platone, che ci presenta un Orfeo pavido e vigliacco: «Orfeo, il figlio di Eagro, lo rimandarono via dall’Ade a mani vuote, dopo avergli mostrato un fantasma della moglie per la quale era sceso, ma senza dargliela, perché era parso loro fiacco, da citaredo qual era, e privo del coraggio di morire per amore come Alcesti e anzi macchinatore di espedienti per entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo gli imposero una punizione e fecero sì che la sua morte fosse opera di donne» (Platone, Simposio, 179 d).
Anche nell’impresa di Teseo l’oblio ha la sua parte. Teseo era amico di Piritoo, re dei Lapiti, e insieme a lui si spinse nel mondo dell’aldilà per rapire Persefone, allo scopo di darla in sposa allo stesso Piritoo. I due amici avevano fatto un patto: avevano deciso di sposare entrambi una figlia di Zeus, e di aiutarsi a vicenda per riuscire nell’intento. Dopo aver rapito Elena di Troia, figlia appunto del re degli dèi, la sorteggiarono fra loro e la sorte la assegnò a Teseo. Quest’ultimo, in base agli accordi, aiutò allora Piritoo a trovare un’altra figlia di Zeus, e la scelta cadde sulla regina degli Inferi, Persefone. I due amici scesero nel regno dei morti, e il re Ade finse di accoglierli benevolmente offrendo loro un banchetto; il sedile sul quale li fece accomodare, però, aveva portentose virtù e procurava l’oblio, cosicché i due eroi vi rimasero seduti e avvolti, per sovrappiù, dalle spire di serpenti. Piritoo rimase lì per sempre, mentre Teseo fu salvato dall’intervento di Eracle (Apollodoro, Epitome, I, 24), aiutato anche dalla stessa Persefone (Diodoro Siculo, IV, 26); si diceva che il salvataggio di Piritoo fosse fallito perché, quando Eracle provò a sollevarlo dal suo sedile, la terra si mise a tremare spaventosamente (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 12). In quell’occasione Eracle portò via dagli Inferi anche Cerbero, il terribile cane infernale, con tutte le sue catene. Ma Eracle era un semidio, e le sue origini poterono facilitargli l’ingresso e l’uscita dal mondo dei morti.
Undicesima delle dodici fatiche canoniche di Eracle, la cattura del cane infernale Cerbero comporta per il fortissimo eroe una prova così severa che persino lui avrà bisogno di una guida: anzi, di due, perché Ermes e Atena insieme si schiereranno al suo fianco, pronti a intervenire (e interverranno, infatti, in diverse circostanze della spedizione). Coerentemente con il suo ruolo di semidio, Eracle è l’unico, tra quanti scendono agli Inferi, a poter conferire direttamente con Ade, il re di quel regno spaventoso; e con lui personalmente patteggia le condizioni per poter portare via Cerbero, accettando di usare le mani nude per domarlo. Impresa che gli riesce, anche se poi, tornato sulla terra con la mostruosa creatura come bottino, incuterà una tale paura a Euristeo, il re che gli aveva imposto le dodici fatiche, da indurlo a nascondersi dentro una giara; e d’altronde che Cerbero fosse una presenza troppo ingombrante per la terra è confermato dal fatto che successivamente Eracle, non sapendo che cosa fare di lui, lo riporterà nel regno dell’oltretomba. Durante la sua spedizione Eracle ebbe a sua volta, come tutti gli altri visitatori del mondo infernale, diversi incontri con eroi e personaggi che vi risiedevano: salvò Teseo, che vi si era recato con Piritoo per catturare Persefone, liberò Ascalafo che giaceva sotto un pesantissimo masso, si intrattenne con Meleagro che lo commosse fino alle lacrime raccontandogli la propria infelicissima storia (v. CALIDONE); ma soprattutto, a differenza di tutti gli altri, si intrattenne con gli dèi del luogo, parlando con Ade e con Persefone come a nessun altro era stato consentito. Un altro privilegio contrassegnò la sua condizione speciale: discese agli Inferi più volte, se dobbiamo credere alla versione del mito secondo la quale si affrettò a salvare Alcesti riportandola tra i vivi dopo che si era sacrificata per salvare il proprio sposo Admeto. E ancora, altra cosa preclusa ai mortali, a Eracle, che negli Inferi è sceso da vivo, sarà consentito evitare la morte, conoscendo invece una sorta di apoteosi sull’Eta.
Anche Dioniso, che come divinità aveva più facile transito tra il mondo degli dèi, quello degli uomini e quello dei defunti, accede agli Inferi: il suo scopo è quello di recuperare la madre Semele, folgorata alla vista dello splendore straordinario di Zeus (Pausania, IX, 12, 3-4). Dioniso si cala nel mondo dei morti attraverso lo stagno Alcionio per trarne la donna, che viene trasformata in dea e trasferita nell’Olimpo con il nome di Tione. Dioniso è inoltre protagonista di un secondo viaggio, in chiave comica, nel regno infernale. Nelle Rane, Aristofane immagina che il dio, desideroso di rivedere Euripide, il grande poeta tragico ormai morto, scenda nell’aldilà con il servo Santia, travestendosi da Eracle, e, dopo svariate avventure che mettono in caricatura le credenze tradizionali sul mondo dei morti, incontri Euripide ed Eschilo, che si contendono la palma del poeta tragico più grande. Il giudizio viene rimesso a Dioniso stesso, che contro ogni aspettativa assegna la palma a Eschilo, riportandolo con sé sulla terra.
A una dimensione seria, tragica e fatale riporta invece la spedizione infernale di Enea, che nell’Eneide virgiliana ripete l’avventura di Ulisse nell’aldilà (libro VI). Accompagnato dalla Sibilla Cumana che gli fa da guida, Enea incontra sulle rive dell’Acheronte una fiumana immensa di anime, «come numerose nelle foreste in autunno dal primo freddo spiccate cadono le foglie, o verso terra dal profondo gorgo del cielo come numerosi si addensano gli uccelli» (ibid., VI, 309-312): sono i morti che si accalcano per farsi traghettare da Caronte sull’altra riva del fiume melmoso. Tra i defunti che attendono ancora sepoltura, e che perciò non possono essere trasportati dalla navicella del nocchiero infernale, si distingue Palinuro, il compagno di Enea precipitato in mare al largo del promontorio in sua memoria chiamato poi Capo Palinuro. Tra gli altri esseri mitologici incontrati da Enea spiccano Cerbero, il mostruoso cane guardiano al quale la Sibilla getta una focaccia di miele e droghe per farlo addormentare, e Minosse, il giudice infernale; e poi le eroine morte per amore, Fedra, Procride, Erifile, Evadne, Pasifae, Laodamia, ciascuna protagonista di miti specifici, e naturalmente Didone, l’infelix Dido, tutte raccolte in un luogo detto Campi del Pianto, innovazione virgiliana della geografia dell’oltretomba: «lì quanti l’aspro amore col suo crudele contagio divorò, segreti sentieri nascondono e una selva di mirto intorno li cela» (ibid., VI, 442-444). Qui il paradigma dell’oblio, altrove strettamente legato, come si è visto, al mondo dell’aldilà e al tema della morte, non funziona: Didone non ha dimenticato Enea, lo riconosce e non lo perdona, gli occhi fissi al suolo, muta, e si allontana per la foresta alla ricerca di Sicheo, il primo marito, che «colma il suo amore». Enea incontra poi diversi eroi che si sono distinti nella guerra di Troia, e ancora la memoria agisce contro l’oblio, perché i guerrieri greci hanno un brivido di spavento nel riconoscerlo, ricordando il suo valore in guerra. La memoria, poi – una singolare memoria del futuro – è importante soprattutto nell’incontro di Enea con il padre Anchise, che vaticina i destini futuri dell’eroe, le vicissitudini che lo porteranno a fondare una nuova patria in Italia e le glorie che attendono la sua discendenza: come per Ulisse, anche per Enea il regno dei morti non è soltanto il ricettacolo di chi non è più, ma il luogo dove si trova chi non è ancora; e la memoria, oltre che verso il passato, può essere rivolta al futuro, trasformandosi in preveggenza.
Il viaggio nell’aldilà, per i morti non meno che per i vivi, per gli uomini comuni come per gli eroi dal destino privilegiato, è irto di difficoltà: per questo alcune divinità sono specializzate nell’accompagnare i defunti nel loro estremo cammino, come Ermes, detto per questa sua funzione Psicopompo, ossia «accompagnatore delle anime»; e per questo, a partire da Ulisse, tutti coloro che si accingono al viaggio ultraterreno avranno bisogno di una guida, o almeno di qualche consiglio. Anche Dante, scegliendo Virgilio come sua guida, se ne ricorderà.
Per altri dettagli sui diversi luoghi dell’oltretomba classico v. anche ACHERONTE; ACHERUSIA o ACHERUSIADE, PALUDE; ACHERUSIO o ACHERUSIADE, CAPO; ALCIONIO, STAGNO; AMELETE; AMENTHES; AMPSANTO o ANSANTO; AVERNO; BEATI, ISOLE DEI; CAMPI ELISI; COCITO; DITE, CITTÀ DI, EMPI, ISOLA DEGLI; ENNA; EREBO; ERMIONE; FLEGETONTE; LETE; LEUKE; OCEANO; ORCO; PIRIFLEGETONTE; PORTE DEL SOLE; PRATO DI ASFODELI; RUPE BIANCA; SIBILLA, ANTRO DELLA; STIGE; TARTARO; TENARO; TOSÀSINO.
ADRAMITTO, in gr. Adramttion o Atram
ttion o ancora Adram
tteion, Adram
tion. Città della Frigia non lontana da Troia. Secondo la leggenda fu fondata da un eroe di nome Granico, padre di una giovinetta di nome Tebe che andò sposa a Eracle durante la spedizione dell’eroe in Frigia (scolio all’Iliade, VI, 396); in onore di lei Eracle avrebbe fondato la città di TEBE IPOPLACIA (v.).
ADRANO, in gr. Adranòn e Adranòs, poi Adernò dai tempi della dominazione normanna. Località della Sicilia, in provincia di Catania, fondata intorno al 400 a.C. da Dionigi I di Siracusa. Il toponimo derivava dalla presenza nelle vicinanze di un santuario dedicato a una divinità locale, il dio Adrano, probabilmente una divinità fluviale; nel suo tempio si allevava un grande numero di cani (J. Bérard, La Magna Grecia, p. 358).
ADRIA Località del Veneto, a est di Rovigo, ricordata nel mito in relazione con il corso del fiume Eridano, che viene identificato da alcune fonti con il Po (Euripide, Ippolito, 736). Anticamente si trovava sul mare al quale dava il nome, chiamato ancora oggi Adriatico. La denominazione antica (Hadria, Atria) era messa in rapporto con il termine atrium (che si faceva risalire al latino ater, «nero», «scuro», riferito all’ombra dei porticati) e si diceva che gli Etruschi, ispirandosi agli edifici di quella città, fondata secondo alcune fonti assai prima della fioritura della loro civiltà, ne avessero tratto l’uso dell’atrio o portico introducendolo nelle loro costruzioni, e lo avessero così chiamato per ricordarne l’origine. Il toponimo (come pure il nome del mare Adriatico) era poi messo da alcune fonti in relazione con un eroe eponimo di nome Adrio, figlio di Messapo (Etym. Magnum, ad vocem), del quale era figlio anche un certo Ionio che diede il nome all’omonimo mare (ma per una diversa spiegazione dell’origine di quest’ultima denominazione v. anche ADRIATICO e IONIO). Durante la seconda guerra punica si narrava di un prodigio che era avvenuto nel cielo di Adria e che non aveva mancato di suscitare una certa inquietudine: «era apparso un altare nel cielo e intorno ad esso fantasmi di uomini vestiti di bianco» (Livio, XXIV, 10, 10).
ADRIATICO Per molto tempo, almeno fino al V secolo a.C., l’odierno mare Adriatico era correntemente chiamato, nelle fonti greche, Mar Ionio o Golfo Ionio, mentre «adriatico» (adriatikòs) era un aggettivo riferito alla città di Adria; solo a partire dal IV secolo a.C. compare la nuova denominazione, che contraddistingue solitamente la porzione settentrionale di quel mare, appunto riferita alla città di Adria, mentre quella meridionale continua a essere chiamata Ionio.
Nella mitologia il mar Adriatico, interessato dalle peregrinazioni di Io, figlia di Inaco (Eschilo, Prometeo, 836-841), viene presentato in quel contesto come luogo estremamente remoto, periferico, che sembra quasi segnare i confini del mondo, non diversamente dal Caucaso o dalle regioni abitate dagli Etiopi; esso è chiamato anche «golfo di Rea»: «in futuro quel seno marino, sappilo per certo, sarà chiamato Ionio, come ricordo per tutti i mortali del tuo passaggio» scrive Eschilo (per una diversa etimologia del nome dello Ionio v. anche ADRIA). Il mito raccontava che Zeus si era invaghito di Io, sacerdotessa di Era, suscitando la collera della dea sua moglie; e nell’intento di salvare la ragazza dalle ire della consorte trasformò la giovane amante in una vacca candida. Era però non si lasciò abbindolare e pretese, implacabile, che la giovenca le venisse consegnata, ponendola poi sotto la custodia di Argo, guardiano dai cento occhi. In questa contesa senza esclusione di colpi tra le divinità maggiori dell’Olimpo la mossa successiva toccò a Zeus: il signore degli dèi fece liberare la vacca Io mediante l’intervento di Ermes, che uccise Argo. Contrattacco di Era: la dea mandò un tafano a tormentare la povera Io, che si diede a fuggire per ogni dove, attraversando le località di Dodona in Epiro, il Caucaso (dove incontrò Prometeo), poi ancora diverse regioni che nel loro toponimo recavano tracce della sua presenza (il mare detto Ionio, il Bosforo, il cui nome letteralmente indica il «passaggio della vacca», e poi l’Egitto, dove Io partorì Epafo, figlio di Zeus). La storia di Io prosegue con i suoi vagabondaggi alla ricerca del figlio che le era stato sottratto; il seguito della storia non ha però attinenza con il mare Ionio o Adriatico. L’aspetto misterioso e talvolta ostile che l’Adriatico assume in relazione con il mito greco di Io permane anche nella letteratura latina: «La costa del minaccioso Adriatico» scrive Catullo (Carm., IV, 6).
Nel racconto di Ovidio, il mare viene attraversato da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 501; per i particolari del mito v. ENNA). Per i rapporti tra l’Adriatico e il mito di Diomede v. DAUNIA e SPINA. Le acque dell’Adriatico furono percorse anche da Enea, durante i suoi vagabondaggi alla ricerca di una nuova patria dopo la caduta di Troia (v. per esempio la sua sosta a BUTRINTO e il suo sbarco in Apulia); videro inoltre il passaggio degli Argonauti e quello di Eracle, di ritorno dalle imprese nell’estremo Occidente alla cattura dei buoi di Gerione. Per non parlare di Ulisse, che (a prescindere dalle complesse questioni relative alla collocazione di alcune delle mete dei suoi viaggi, come l’isola di Alcinoo) nell’Adriatico meridionale, secondo alcuni, addirittura abitava, ammesso che l’Itaca dei poemi omerici corrispondesse all’attuale e che cercare corrispondenze tra la geografia fantastica di certi miti e quella reale abbia un senso. Per altri particolari v. anche IONIO.
AFETE, in gr. Aphètai. Nella mitologia classica è il nome di una spiaggia della penisola della Magnesia (nella Grecia centrorientale, in Tessaglia), dove sostarono gli Argonauti, compagni di Giasone, durante il loro viaggio verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro. Come scrive Apollonio Rodio nelle Argonautiche, «qui, verso sera, sbarcarono per il vento contrario […]. Il mare, gonfio, infuriava. Restarono fermi due giorni su quella spiaggia; al terzo misero in mare la nave, levando in alto la sua grandissima vela. Quella spiaggia si chiama ancor oggi Afete, e cioè “partenza” di Argo» (I, 585-591). L’etimologia è ricordata allo stesso modo anche da altri autori classici (Erodoto, VII, 193, Strabone 463), ma talvolta con qualche piccola sfumatura differente. Erodoto per esempio scrive: «Vi è un luogo dove si narra che Eracle, mandato ad attingere acqua, fu abbandonato da Giasone e dagli altri compagni della nave Argo, quando navigavano alla volta di Eea alla conquista del vello; da lì dovevano prendere il largo dopo essersi riforniti d’acqua: per questo la località ha assunto il nome di Afete». Anche Esiodo (fr. 263 MW) dice che il significato del toponimo è «partenza», e conferma che l’allusione è all’abbandono di Eracle, il quale proprio su quella spiaggia lasciò la nave Argo. Ad Afete, infatti, la nave Argo, che aveva il dono della parola, aveva dichiarato che l’eroe era troppo pesante e che non sarebbe stata in grado di portarlo (Apollodoro, Biblioteca, I, 9, 19).
AFIDNA, in gr. Àphidna. Piccolo centro dell’Attica settentrionale dove, secondo il mito, l’eroe attico Teseo tenne segregata la bellissima Elena, che aveva rapito con l’aiuto di Piritoo (Strabone, IX, 1, 17). Qui Elena venne custodita dalla madre di Teseo, Etra, mentre Teseo era impegnato in un altro arduo cimento, il rapimento di Persefone dall’Ade. Teseo, infatti, con l’amico Piritoo, re dei Lapiti, aveva stretto un patto: i due avrebbero preso come spose delle creature divine, e si sarebbero aiutati a vicenda nell’intento. Dopo il rapimento, per sorteggio Elena – figlia di Zeus – era toccata a Teseo, e quest’ultimo si era quindi impegnato a dare aiuto a Piritoo per catturare come sposa Persefone: un’impresa che non giunse a compimento, e a seguito della quale Piritoo restò per sempre negli Inferi, mentre Teseo venne fortunosamente salvato da Eracle (v. anche ADE, § Viaggi mitici nell’aldilà). Elena poi fu presto liberata dai suoi fratelli, i Dioscuri, che riuscirono a scoprirne la prigione segreta grazie alle indicazioni di un eroe chiamato Academo, colui che avrebbe dato il suo nome alla celebre Accademia platonica di Atene (cfr. Luciano, Il sogno o il gallo, 45 [22], 17). Il nome di Afidna era fatto risalire a un eroe eponimo di nome Afidno, che aveva offerto ospitalità a Etra proprio nel momento in cui essa dovette custodire Elena (Plutarco, Teseo, 31 e 33). Quando i Dioscuri intervennero per liberare la sorella, Afidno colpì Castore, che secondo la tradizione era mortale, a differenza del gemello Polluce; tuttavia più tardi Afidno adottò i Dioscuri e ne fece oggetto di venerazione in culti misterici (ibid., 33, 2). Ad Afidna Ovidio collocava anche l’episodio del ratto delle Leucippidi (Febe e Ilaira) da parte dei due Dioscuri: Ida e Linceo, ai quali le due fanciulle erano state promesse in spose, si scontrarono con i Dioscuri proprio ad Afid-na per recuperare le ragazze; Linceo cadde, trafitto dall’asta di Polluce, che vendicò in tal modo Castore, il quale a sua volta, secondo questa versione del mito, era stato passato da parte a parte dalla spada di Linceo. Polluce, immortale, chiese e ottenne da Zeus che Castore potesse dividere con lui la sorte dell’immortalità, e i due, infatti, si alternano nel cielo dando origine alla costellazione dei Gemelli (Ovidio, Fasti, V, 695-720). Quanto ad Afidna, la città fu saccheggiata dagli stessi Dioscuri (Strabo-ne, IX, 1, 17).
AFRICA, in gr. Àphrika, in lat. Africa o Terra Africa. Del continente africano gli antichi conobbero in modo approfondito soprattutto le regioni costiere affacciate sul Mediterraneo, con le quali intrattennero fin da età molto remota scambi e rapporti commerciali e culturali di vario genere; la fondazione di colonie greche in Cirenaica, i contatti con l’Egitto e con gli insediamenti mediterranei dei Fenici, le spedizioni esplorative fino alle Colonne d’Ercole a opera di Coleo, fino alle foci del Senegal a opera di Eutimene, fino al golfo di Guinea a opera di Annone, e poi i viaggi lungo il Nilo fino alla ricerca delle sue misteriose sorgenti e nel deserto fino ad alcune delle sue oasi (celebre quella di Ammone a Siwah, raggiunta da Alessandro Magno) contribuirono a dare di quel paese immenso e misterioso un quadro, se non completo, per lo meno sufficientemente chiaro, i cui connotati andarono via via precisandosi con la conquista romana. Le conoscenze degli antichi, comunque, tendono a diventare sempre più vaghe a mano a mano che ci si allontana dalle coste e si penetra nell’entroterra; cosicché nelle descrizioni delle regioni più remote e meno frequentate i racconti si tingono di sfumature leggendarie e paesaggi, popolazioni e consuetudini trascolorano nella dimensione dell’immaginario. Hic sunt leones scrivevano i Romani a proposito delle aree inesplorate della provincia d’Africa, senza essere in grado di fornire su di esse ulteriori precisazioni; e quella dicitura tanto vaga quanto suggestiva (e un po’ inquietante) si accompagnava alla constatazione che a chiunque si accostasse a quelle terre erano riservate imprevedibili sorprese: perché l’Africa non cessa di apportare cose nuove a chi sappia osservarla. Semper aliquid novi Africam adferre sosteneva Plinio citando un proverbio greco (Plinio, Nat. Hist., VIII, 42). E se Virgilio poteva definire l’Africa «terra ricca di trionfi» (Eneide, IV, 37-38), ancor più spesso essa ci appare ricca di leggende e di consuetudini meravigliose e straordinarie. Una ricognizione di tali leggende deve partire dal presupposto che i Greci, ancora secondo Plinio, chiamavano l’Africa Libia, e Libico il mare antistante (Nat. Hist., V, 1): diversi autori ce ne offrono conferma (per esempio Pindaro, Pitica IX, 8; Strabone, XVII, 824; Erodoto, II, 16). «Africa» e «Libia» sono dunque, nella geografia dell’immaginario e del mito, da intendersi come intercambiabili; così come a una parte dell’Africa si riferisce la denominazione di «Etiopia».
L’africa del mito e le sue popolazioni leggendarie. Le conoscenze spesso approssimative del territorio africano facilitavano la collocazione sul suo sfondo di alcuni episodi e luoghi celebri del mito. In Africa si trovava secondo alcune ipotesi il Giardino delle Esperidi; in Africa aveva sede il personaggio di Atlante che sorreggeva sulle proprie spalle il peso della volta celeste; in Africa viveva il popolo leggendario e perfetto degli Etiopi cari a Zeus; per le contrade africane era passato Eracle durante la sua spedizione agli estremi confini occidentali del mondo alla ricerca dei pomi delle Esperidi ma anche dell’isola di Gerione, al quale catturò le mandrie; sulla costa africana, oltre che su quella della Spagna, le Colonne dette d’Ercole erano rimaste come segnacolo delle sue imprese, a sigillare il confine tra il mondo percorribile dall’uomo e quello sconosciuto, enigmatico e misterioso che si estendeva oltre l’Oceano.
Ma in Africa non erano ambientati solo miti celebri: tutto, in quell’immenso paese, era enigmatico e straordinario, a partire dalle popolazioni che vi abitavano. Molte di esse avevano nomi specifici e un luogo che da loro prendeva la sua denominazione, e a esse sono qui dedicate apposite voci. Tra quelle indicate più genericamente nelle fonti, ma presentate, sia pure senza un nome e una precisa collocazione, come le più misteriose, si ricordavano alcune tribù capaci di compiere incantesimi «col suono delle parole. Se si mettono a lodare con una certa enfasi la bellezza degli alberi, la floridezza delle messi, la simpatia dei bambini, la qualità dei cavalli, l’opulenza del bestiame ben nutrito e ben tenuto, subito tutto questo muore senza che se ne scorga un’altra cagione», scrive Aulo Gellio (Notti Attiche, IX, 4, 7). Del resto l’Africa era abitata da un gran numero di popolazioni bizzarre, da «esseri che a malapena sono ancora uomini, semmai piuttosto delle creature semibestiali, come Egipani, Blemmi, Gamfasanti e Satiri, senza dimore e senza sedi fisse, che vagano alla ventura e occupano questi territori, più che abitarli» (Pomponio Mela, Corografia, I, 4, 23). Oltre le regioni più ostili e deserte si trovavano «popoli muti e per i quali i segni sostituiscono la parola; gli uni hanno una lingua ma non producono alcun suono; gli altri non hanno affatto la lingua; altri ancora hanno le labbra che aderiscono l’una all’altra, ma sotto le narici hanno un condotto che, si dice, permette loro di bere con l’aiuto di una cannuccia e, quando hanno voglia di mangiare, di aspirare a uno a uno i grani di cereali che crescono un po’ dovunque». E ci sono persino alcuni popoli «per i quali il fuoco era talmente sconosciuto e che gioivano talmente nel vederlo, che il loro più grande piacere consisteva nello spegnere le fiamme e nel nascondersi in seno le braci fino a quando sentivano dolore» (ibid., III, 9, 91-92). Le popolazioni che abitavano l’Africa erano spesso ritenute non solo strane, straordinarie, misteriose, ma anche molto rozze e primitive: «Popoli rozzi e barbari, il cui cibo era costituito da carne di fiere e da erbe e radici, come per gli animali» sintetizza Sallustio nella Guerra Giugurtina (18, 1). Per non parlare delle consuetudini anomale, selvagge, di alcune di esse, come le Amazzoni che risiedevano in Libia (per i particolari v. AMAZZONIA). La flora, la fauna, i paesaggi. Oltre che le popolazioni leggendarie, prodigi e caratteristiche straordinarie riguardavano anche la natura, la flora, la fauna e i paesaggi africani. Uno dei prodigi di questa terra è per esempio la sorgente di Zama, la cui acqua rende la voce armoniosa (Isidoro, Etimologie, XIII, xiii, 2). Non meno stupefacente è il lago Apuscidamo, dove tutto rimane a galla e nulla sprofonda, al contrario di quanto avviene in un lago dell’India, chiamato Sidon, dove invece nulla resta a galla (ibid., XIII, xiii, 7). Presso il tempio di Ammone, poi, una sorgente è nota perché «rende dura la terra con i lacci dei propri umori e solidifica anche la cenere caduta su di una zolla erbosa» (ibid., XIII, xiii, 8). Una non meglio precisata località di Aspis, in Africa, è ricordata da Dione Cassio come teatro di un evento che venne interpretato come un prodigio, avvenuto negli anni delle guerre civili che insanguinavano Roma, nel 38 a.C.: alcuni delfini lottarono gli uni contro gli altri e perirono (XLVIII, 52, 1). Circolava poi l’opinione che nelle montagne della Mauritania gli elefanti, nelle notti di luna nuova, scendessero in branchi in riva al fiume Amilo e qui si purificassero aspergendosi solennemente d’acqua; dopo aver così salutato il Sole e la Luna, che essi venerano, fanno ritorno alle loro foreste (Plinio, Nat. Hist., VIII, 2).
Belve, cacce e il mito di Androclo. In età romana imperiale l’Africa forniva un gran numero di belve e animali selvaggi destinati a essere immolati nei cruenti giochi del circo. I celebri mosaici con scene di caccia della villa romana di Piazza Armerina, presso Enna, illustrano proprio la cattura degli animali nelle province d’Africa e d’Asia e le diverse fasi del loro imbarco sulle navi che li porteranno nella capitale. Su questo scenario, che è storico e non mitico, si colloca un racconto leggendario famoso che alle cacce e ai combattimenti del circo è strettamente legato. È la singolare e celebre avventura di Androclo, uno schiavo che era stato costretto a fuggire dalla casa del suo padrone, governatore della provincia d’Africa, per evitarne le continue percosse; rifugiatosi in una spelonca in mezzo al deserto africano, era stato ben presto raggiunto, con suo immenso terrore, da un enorme leone, che tuttavia non lo aveva aggredito, ma al contrario gli aveva mostrato la zampa ferita da medicare. Androclo era riuscito, superato lo spavento iniziale, a prestare soccorso alla fiera, che serbò memoria dell’aiuto ricevuto: molto tempo dopo, durante un imponente spettacolo di caccia allestito nel Circo Massimo di Roma, proprio quel leone, possente e terribile, fu destinato a scontrarsi con lo schiavo Androclo. Il leone, tuttavia, riconobbe il suo antico salvatore, e nel Circo la folla stupefatta assistette allo spettacolo mai visto del cacciatore e della fiera che si riconoscevano e si scambiavano effusioni (Aulo Gellio, Notti Attiche, V, 14).
Per altre notizie su località e popolazioni africane v. anche LIBIA; EGITTO; ETIOPIA; NUMIDIA; le voci dedicate ai fiumi NILO; NIGER; CINIFO; BAGRADA; a paesi e regioni mitiche come ANTIPODI; ATLANTI, PAESE DEGLI; BLEMMIA; ESPERIDI, ISOLE E GIARDINO DELLE; GANFASANTI, PAESE DEI; GARAMANTI, PAESE DEI; IMENTOPODI, PAESE DEGLI; PIGMEI, PAESE DEI; SCHIAPODI, PAESE DEGLI; TROGLODITI, PAESE DEI; a città come ALESSANDRIA; BARCE; BERENICE; BISERTA; BUSIRIDE, BUTO; CANOPO; CARTAGINE; CHEM-MI; CIRENE; CISTENE; FARO; ICOSIO; MENDES; MENFI; MEROE; PORTO MENELAO; a isole come CIRAUI e LIXUS; a CAPO BON; PUNT; SIRTE; SIWAH; TRITONIDE, PALUDE.
AFRODISIA o AFRODISIADE, in gr. Aphrodisiàs, -àdos. Il toponimo, legato al nome della dea Afrodite, ricorre con una certa frequenza nella geografia del mondo antico a indicare diverse città. La più famosa è l’Afrodisiade dell’odierna Turchia, notevole per i suoi imponenti resti archeologici. Dal punto di vista della mitologia si ricordava tuttavia un’altra città di questo nome (Aphrodisìa, -as), tra Kotyrta e Boiai, nella Laconia sudorientale, di difficile identificazione, che si vantava di essere stata fondata da Enea, il quale le aveva dato il nome della propria madre, la dea Afrodite.
AGATIRNO, in gr. Agàthyrnos. Località sulla costa settentrionale della Sicilia, non lontana da Tindari. La tradizione metteva in relazione il toponimo, come succedeva assai spesso, con il nome di un eroe eponimo e fondatore, Agatirno, figlio di Eolo (il capostipite della popolazione greca degli Eoli), a sua volta figlio di Elleno e nipote di Deucalione (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 8).
AGATIRSI, PAESE DEGLI Regione confinante con il territorio della Tracia, dove abitava una popolazione le cui consuetudini ci sono ricordate brevemente da Erodoto (IV, 104). Secondo lo storico greco gli Agatirsi (in gr. Agàthyrsoi) «sono gli uomini più amanti del lusso e portano più di chiunque altro ornamenti d’oro»: probabilmente anche per il fatto che nel loro territorio si trovavano le miniere d’oro della Transilvania. In particolare è curioso il modo in cui essi risolvevano il problema dei contrasti, dei dissidi e delle inimicizie interne: «Praticano la comunanza delle donne, al fine di essere tutti fratelli tra loro e quindi, essendo tutti parenti, di non nutrire né invidia né odio reciproco». Resta da stabilire se davvero la parentela così stretta avesse la facoltà di cancellare i contrasti che spesso si riscontrano anche nelle migliori famiglie; Erodoto ci informa comunque che usanze analoghe erano praticate anche da altri popoli, come i Massageti (ibid., I, 216) e i Nasamoni (ibid., IV, 172). Altrove ci viene detto che gli Agatirsi si tingevano i capelli di blu e si coprivano il corpo di tatuaggi (cfr. per es. Plinio, IV, 80; Virgilio, Eneide, IV, 146); e apprendiamo che nel loro paese si trovava il diamante (letteralmente, adamas vale «infrangibile»: cfr. Ammiano Marcellino, XXII, 8, 31). Come per tutte le popolazioni scarsamente conosciute, anche per gli Agatirsi si intrecciano nelle fonti notizie storiche e notizie leggendarie, tra le quali è talvolta difficile discernere. Il nome della popolazione era collegato da Erodoto (IV, 10, 1-2) a un figlio di Eracle, Agatirso, fratello di Gelono e di Scita, tutti eponimi di popolazioni stanziate nelle regioni del Ponto.
AGDO, in lat. Agdus, in gr. anche Àgdistis. Nome di una scogliera della Frigia, selvaggia e deserta, collegata nella mitologia alla nascita di Agdistis: qui si venerava la dea Cibele in forma di pietra. Si narrava che Zeus, innamorato della dea, avesse tentato vanamente di unirsi a lei, e avesse alfine deposto il proprio seme su una roccia di quella scogliera, dalla quale nacque Agdistis (per il mito relativo v. PESSINUNTE).
AGILLA v. CERE.
AGIRA Anticamente chiamata Agirio (Agyrion, Agurium in latino, probabilmente dal greco àrgyros, «argenteo»), è una città della Sicilia a 25 km circa a nord-est di Enna, la quale, oltre ad aver dato i natali allo storico Diodoro Siculo, aveva un posto importante nella mitologia poiché era stata la prima città a tributare a Eracle onori divini quando l’eroe vi fece tappa durante le sue peregrinazioni attraverso l’Italia meridionale e la Sicilia al ritorno dalla cattura dei buoi di Gerione. In segno di gratitudine per i cittadini che continuavano a rendergli annualmente quegli onori, Eracle scavò presso la città un piccolo lago a cui diede il proprio nome. Nei dintorni si trovava un sentiero sul quale Eracle aveva condotto le mandrie di Gerione e che recava ancora le impronte degli animali; e non lontano l’eroe aveva eretto un recinto sacro a Iolao, suo compagno, oltre che suo nipote. I bambini di Agira celebravano solenni sacrifici anche in onore di Iolao e in questo sacro recinto gli offrivano i propri capelli: se non lo facevano, rischiavano di rimanere muti. A perenne ricordo di Eracle, inoltre, una porta della città era chiamata Porta Eraclea (Diodoro, IV, 24). Ad Agira era praticato anche il culto dello stesso Gerione, venerato con caratteristiche simili a quelle che lo caratterizzavano ad ABANO (v.).
AGNO, in gr. Agnoùs. Villaggio dell’Attica dal quale proveniva Leo, un araldo ricordato in connessione con il mito di Teseo. Si diceva che durante le lotte per la successione al trono di Atene, che videro contrapposti Teseo da una parte e i suoi cugini Pallantidi dall’altra, Leo, araldo di questi ultimi, li tradì rivelando il loro piano a Teseo e permettendogli di sfuggire all’imboscata che gli avevano teso. Questa tradizione era tenuta presente da Euripide nell’Ippolito (vv. 34 ss.).
AGRIGENTO, in gr. Akràgas. Una delle più importanti città greche della Sicilia, notissima per la sua splendida Valle dei Templi. Fu fondata da coloni provenienti da un’altra colonia greca d’occidente, Gela, e tra i suoi primi abitanti alcune fonti ritenevano ci fosse un nucleo di Cretesi. Ciò spiegherebbe la leggenda secondo la quale le ossa di Minosse sarebbero state portate a Creta dalla Sicilia (Diodoro, IV, 79, 4). Minosse, re di Creta, si era spinto in Sicilia all’inseguimento di Dedalo, il mitico architetto e scultore che aveva intrecciato le proprie sorti a quelle del sovrano cretese: aveva dapprima assecondato gli amori della regina cretese Pasifae, sposa di Minosse, per il bellissimo toro che il re avrebbe dovuto offrire in sacrificio al dio Poseidone, e per lei aveva costruito una meravigliosa vacca celandosi nella quale la regina aveva potuto accoppiarsi con l’animale; da quell’unione contro natura era nato il mostruoso Minotauro, parte uomo e parte toro, per celare il quale Minosse aveva ordinato a Dedalo di costruire il labirinto. Teseo, l’eroe attico, era tuttavia riuscito a penetrarvi e a uccidere l’orrenda creatura: temendo l’ira di Minosse, Dedalo era allora fuggito in volo da Creta, trovando ospitalità in Sicilia. Secondo la tradizione, infatti, nel territorio agrigentino si trovava Camico, antica città capitale del regno del leggendario Cocalo, presso il quale Dedalo si sarebbe rifugiato fuggendo da Creta e dove lo stesso Minosse lo inseguì, venendo poi proditoriamente ucciso dalle figlie del re (Erodoto, VII, 170; Diodoro, IV, 78, 2); Camico, secondo il racconto di Diodoro, era saldissima e imprendibile, poiché l’accesso a essa era così tortuoso e stretto che poteva essere agevolmente difeso da pochissime persone. Le mura di Agrigento erano famose: durante la sua navigazione alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la caduta di Troia, Enea oltrepassa, tra altre città della Sicilia, anche Agrigento, della quale Virgilio menziona appunto le mura: «Ardua di là Agrigento ostenta enormi di lontano le sue muraglie, un tempo nutrice di magnanimi cavalli» (Eneide, III, 703-704). Anche i cavalli agrigentini erano famosi nell’antichità: partecipavano alle grandi competizioni equestri durante i Giochi panellenici e venivano circondati in patria da un’autentica venerazione, al punto che si rendevano loro onori anche dopo che erano morti (Plinio, Nat. Hist., VIII, 155).
Numerosi altri personaggi, collocati spesso sul confine tra leggenda e storia, erano legati alla città. Tristemente noto ed entrato nel mito era il tiranno Falaride: egli aveva fatto realizzare un grande toro bronzeo, internamente cavo, dove venivano inseriti i malfattori che poi venivano arsi vivi accendendo la fiamma sotto quella specie di calderone (Ovidio, Tristia, III, 11, 41-54). Il «bronzo del toro siciliano» è ricordato tra gli altri da Persio nelle sue Satire (III, 39), mentre Cicerone, con un’immagine che nella sua sinteticità coglie efficacemente il carattere di Falaride, lo definisce «cieco nell’anima» (De finibus, IV, 23, 64). Il toro si trovava secondo una tradizione sulla collina chiamata Ècnomos, che voleva dire «mostruosa»: mai nome era stato più pertinente (Diodoro Siculo, XIX, 108, 1). L’artefice che realizzò la statua si chiamava Perillo, e Falaride lo fece bruciare per primo dentro la sua stessa opera: «lo sventurato artefice bagnò col proprio sangue la costruzione» (Ovidio, Ars amatoria, I, 652); in tal modo Falaride, «e fu allora l’unica volta, diede prova di giustizia» (Plutarco, Parall., 315 C). A più riprese la storia di Agrigento si intreccia al mito: nel racconto di Ovidio, per esempio, la città viene attraversata da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 475; per i particolari del mito v. ENNA). Di Agrigento era poi Idis, un pastore al quale si attribuiva l’invenzione dello strumento musicale a fiato chiamato siringa, più comunemente ritenuto creazione del dio Pan (Isidoro, Etimologie, III, xxi, 6). E ancora, nei pressi di Agrigento era avvenuta secondo una tradizione la morte di Pitagora: il grande filosofo, durante gli scontri che vedevano contrapposti Agrigentini e Siracusani, si pose a capo dei primi; quando gli Agrigentini furono volti in fuga, nel tornare in città, per evitare di calpestare un campo di fave Pitagora vi girò intorno e cadde in un’imboscata dei Siracusani (Diogene Laerzio, VIII, 40). Un po’ diversa la versione dell’Antologia Palatina (VII, 122): «Ah, perché Pitagora ebbe tanto rispetto per le fave, al punto di morire insieme con i discepoli? C’era un campo di fave; per evitar di pestarle morì in un trivio per mano di Agrigentini».
I fondatori della colonia, venerati come eroi, erano Aristonoo e Pistilo; essi non avevano tuttavia dato il proprio nome alla città, che era chiamata allo stesso modo del fiume locale, Akràgas (Tucidide, VI, 4, 4), verosimilmente dal greco tò àkron, «sommità», «cima di monte».
AGUZZE, ISOLE Isole della Grecia ricordate tra quelle che Telemaco, il figlio di Ulisse, oltrepassò durante la sua navigazione alla ricerca di notizie sulla sorte del padre, che dopo la fine della guerra di Troia ancora non aveva fatto ritorno a Itaca (Odissea, XV, 299). Sono da identificare, secondo Strabone (VIII, 3, 26), con le Echinadi meridionali (v. ECHINADI).
ALALCOMENE, in gr. Alalkomenài (plur.). Piccolo villaggio della Beozia che deriva il nome da Alalcomeneo, un indigeno dal quale, secondo una tradizione locale, venne allevata Atena (Pausania, IX, 33, 5). La località, insieme al vicino colle Temmicio, veniva considerata secondo una versione del mito la patria di Ulisse: Anticlea, sua madre, lo avrebbe messo al mondo in quel villaggio, dopo averlo concepito, secondo altre fonti, da Sisifo. La tradizione è fatta propria da Licofrone nell’Alessandra (v. 786); in memoria del suo luogo natale, Ulisse avrebbe poi dato il nome di Alalcomene anche a un villaggio di Itaca.
ALBA LONGA Mitica città del Lazio, di non facile identificazione ma realmente esistita agli albori della civiltà dell’Italia antica. Fu fondata secondo la tradizione da Ascanio, figlio di Enea, nel XII secolo a.C., come ricordano diverse fonti (Virgilio, Eneide, III, 390 ss.; V, 597: «Ascanio, quando Alba Longa cinse di mura…»; Tibullo, II, 5, 50: «Alba Longa fondata dal duce Ascanio»; Varrone, De lingua Latina, V, 32, 144: «Trenta anni dopo [la fondazione di Lavinio] si fonda un’altra città, Alba»; similmente Dionigi di Alicarnasso, I, 66). Il giovane figlio di Enea trasferì la sua capitale da Lavinio, dove si era insediato il padre, alla nuova città, dove «per trecento anni interi starà il regno sotto la razza di Ettore, finché una regale sacerdotessa ingravidata da Marte, Ilia [cioè Rea Silvia], partorirà due gemelli», ossia Romolo e Remo (Eneide, I, 271-274). Molte fonti ritengono in effetti Alba Longa la più antica città del Lazio, antecedente alla stessa Roma, il cui fondatore, Romolo, sarebbe stato appunto originario proprio di Alba. Secondo il mito la fondazione della città era stata prefigurata in sogno a Enea da un’apparizione del dio Tiberino, personificazione del fiume Tevere: in un momento di grande scoramento, l’eroe, stanco delle lunghe peregrinazioni per mare compiute dopo la caduta di Troia e ancor più afflitto all’idea di una nuova guerra che lo attendeva contro i popoli latini ostili,si assopì sulle rive del Tevere ed ebbe la visione del dio che gli predisse come tutti i suoi patimenti fossero destinati ad andarea buon fine: «Ascanio fonderà la città dal nome illustre di Alba». A conferma della veridicità di queste parole il dio fluviale aggiunse che gli sarebbe apparsa «sulla riva immensa sotto alcuni lecci una scrofa sdraiata dopo aver partorito trenta creature, bianca, sul suolo distesa, e bianchi intorno alle poppe i suoi nati» (ibid., VIII, 43-48). Il particolare della scrofa è ripreso da molte fonti antiche, tra le quali Properzio (IV, 1, 35: «Alba, nata sotto gli auspici di una bianca scrofa, si innalzava potente»). Varrone (loc. cit.) aggiunge l’inedito particolare che la scrofa era fuggita dalla nave di Enea; e precisa altrove (De re rustica, II, 4, 18),cosa davvero singolare, che non solo della scrofa stessa e dei porcellini restava un vivo ricordo ancora ai suoi tempi, «giacché la loro riproduzione in bronzo è ancora esposta al pubblico», ma addirittura che «il corpo della madre, conservato in salamoia, è fatto vedere dai sacerdoti». Dove esattamente, purtroppo, non è dato sapere. Altre fonti aggiungono alla storia ulteriori particolari: narrano che Enea era molto scoraggiato perché a Lavinio, dove si era insediato al suo arrivo in Italia, il terreno era arido e poco produttivo; ma dopo che la scrofa vi partorì i trenta maialini l’eroe ebbe in sogno la visione dei Penati, che lo esortarono a resistere preannunciandogli che dopo un numero di anni pari al numero dei porcellini i Troiani si sarebbero trasferiti in luoghi più fertili e «vi avrebbero fondato la città destinata ad acquistare il nome più illustre di tutta l’Italia» (Catone, Origini, I, 16 b). La fondazione di Alba era stata accompagnata da altri prodigiosi eventi. Si narrava che un bellissimo tempio vi fosse stato eretto per ospitare i già menzionati Penati, le statue degli antenati che Enea aveva portato in Italia con sé da Troia; ma quando esse, che si erano conservate fino a quel momento a Lavinio, vennero trasferite nella nuova sede, durante la notte, benché le porte del tempio fossero state sprangate, si spostarono in modo inspiegabile, e la mattina dopo furono ritrovate sui loro antichi piedistalli a Lavinio. Il fenomeno si ripeté più volte, senza che si potesse individuare alcuna traccia di effrazione delle porte, delle pareti o del tetto del santuario: era evidente che l’evento aveva un significato divino e che le statue non ne volevano sapere di trasferirsi. Poiché però la popolazione aveva abbandonato Lavinio, si giunse a un compromesso che doveva salvare la volontà di tutti, uomini e dèi: le statue furono lasciate dov’erano, e seicento persone addette al loro culto furono trasferite da Alba a Lavinio perché se ne prendessero cura (Dionigi di Alicarnasso, I, 67). Quanto all’area dove sorse la città, essa era stata teatro, ancor prima della sua fondazione, di un evento famoso nella mitologia: Virgilio vi ambienta infatti la spedizione notturna di Eurialo e Niso, i due intrepidi giovani troiani che persero la vita durante una sortita notturna contro il campo nemico dei Latini (Eneide, IX, 176 ss.).
I sovrani che si susseguirono sul trono di Alba Longa sono menzionati da Livio: Ascanio, Silvio, Enea Silvio, Latino Silvio, Alba, Ati (I, 3, 8). «La nostra stirpe dominerà in Alba Longa» dice Anchise a Enea, durante il viaggio di quest’ultimo nell’oltretomba (Virgilio, Eneide, VI, 766). Tra i mitici sovrani di Alba Longa si ricordava anche Tarchezio (v. TARQUINIA). Le vicende dinastiche della città si intrecciano con i personaggi e la storia dell’origine di Roma, per la quale v. ROMA; qui ricordiamo soltanto che dopo che Romolo e Remo vennero felicemente riconosciuti come discendenti dei re di Alba, alla morte di Amulio «non vollero rimanere ad Alba senza esserne al governo, e neppure vollero assumere il potere essendo vivo il loro nonno, Numitore. Restituiti a lui il regno di Alba e alla madre gli onori che le spettavano, decisero di abitare per proprio conto, fondando una città in quei luoghi dove erano stati originariamente allevati», cioè Roma (Plutarco, Romolo, 9, 1). E se ad Alba Romolo, con Remo, era venuto alla luce, nella stessa città si manifestò dopo la morte, che vera morte, secondo una tradizione, non fu. Proprio nei pressi di Alba Longa, infatti, dopo la sua misteriosa sparizione dal mondo, che alcuni ritennero assassinio e altri apoteosi, Romolo apparve nel cuore della notte a Giulio Proculo, abitante della città: «splendeva la luna, né c’era bisogno di torce, quando d’un tratto tremarono le siepi alla sua sinistra: egli arretrò d’un tratto e gli si rizzarono i capelli. Bello, più grande di dimensione umana […] Romolo gli apparve in mezzo alla via», annunciando il nuovo culto del dio Quirino, che poi era lui stesso, e raccomandando ai Romani di praticare l’arte guerresca (Ovidio, Fasti, II, 499-509).
I rapporti tra Alba Longa e Roma non furono sempre pacifici: i contrasti sorti tra le due città soprattutto al tempo in cui a Roma regnava Tullo Ostilio diedero origine a svariati racconti leggendari, tra i quali è ampiamente ricordata dalle fonti la storia degli Orazi e dei Curiazi, il cui combattimento decise le sorti della contesa fra i due centri (Dionigi di Alicarnasso, III, 5-22.; sull’episodio si sofferma anche Livio nelle Storie, I, 26). Gli Orazi erano tre fratelli appartenenti a una delle più antiche e nobili stirpi di Roma; essi affrontarono tre fratelli dell’altrettanto nobile famiglia dei Curiazi di Alba Longa, affidando all’esito di quello scontro le sorti della contrapposizione tra le rispettive patrie. Due degli Orazi caddero, e l’unico sopravvissuto decise di debellare con l’astuzia i tre Curiazi, feriti ma ancora in grado di combattere: fingendo di fuggire, riuscì a battersi separatamente con ciascuno dei tre avversari, avendo la meglio. La sorella dell’Orazio vincitore, però, innamorata di uno dei Curiazi, manifestò tutto il suo dolore per l’esito del combattimento, e il fratello, in un impeto d’ira, la uccise, andando incontro per questo a una severa condanna da parte di Roma. Le fonti storiche narrano che proprio all’epoca di Tullo Ostilio, dopo un lungo predominio sul Lazio, Alba, con il suo ultimo sovrano Mezio Fufezio, fu distrutta (forse nel secolo VII a.C.), e da allora non venne mai più ricostruita: «Così la città di Alba, che era stata fondata da Ascanio, il figlio che Enea, figlio di Anchise, aveva avuto da Creusa, figlia di Priamo, dopo aver resistito per centottantasette anni dalla sua fondazione, periodo durante il quale era enormemente cresciuta per numero di abitanti, ricchezza e prosperità, e dopo aver colonizzato le trenta città dei Latini e aver mantenuto per tutto quel tempo la guida della nazione, fu distrutta dall’ultima colonia che aveva fondato, ed è rimasta disabitata fino a oggi» (Dionigi di Alicarnasso, III, 31, 4). I suoi abitanti se ne andarono parte a Roma (dove la tradizione diceva che fossero stati trasferiti sul Celio), parte a Boville, dove rimasero i gelosi custodi delle antiche tradizioni della loro città d’origine (cfr. Livio, I, 29; Dionigi di Alicarnasso, III, 31, 3-6). Benché distrutta, Alba Longa continuò a rimanere un centro dal fortissimo valore simbolico, come si deduce da una considerazione di Giovenale: «Alba, sebbene in rovina, conserva il fuoco venuto da Troia» (Satire, IV, 60-61). Tutta l’area della città, del resto, sembrava intrattenere con il divino rapporti particolari: nei pressi di Alba si trovava per esempio un bosco che Lucilio (Satire, XXVI, 22 = 644 M) definisce «sacro», probabilmente non in quanto realmente consacrato a una divinità, ma perché oggetto di venerazione, anche a causa dei suoi numerosi alberi colpiti dai fulmini, cosa che faceva pensare alla presenza di un dio.
L’origine del nome di Alba Longa viene spiegata da Isidoro di Siviglia nelle Etimologie (XV, i, 53) con esplicito riferimento ai prodigi ai quali si è già fatto cenno e che ne accompagnarono la fondazione: «Alba, ossia bianca, per il colore di una scrofa; Longa, ossia lunga, in quanto città fortificata che si estende in lunghezza seguendo la forma del colle sul quale si erge. Questa città diede in principio nome ai re Albani». La forma allungata era determinata dall’area compresa tra il Monte Albano e l’omonimo lago, mentre la scrofa era naturalmente quella apparsa a Enea nel sogno già ricordato. Secondo altre fonti (Diodoro) il toponimo Alba derivava invece dal nome antico, appunto Alba, con il quale si indicava il Tevere (che in svariate altre fonti è chiamato in effetti Albula). Nessuna delle fonti antiche citate menziona come possibile origine del significato del toponimo quello che molti studiosi ritengono invece come più verosimile, ossia una voce prelatina *alpa, *alba, «pietra», «monte», «altura», che spiega anche il nome delle Alpi ma che, per Alba Longa, non appare generatrice di racconti del mito. Le vestigia rimaste sul terreno e ascrivibili alla città sono così esigue che non è unanimemente accettata l’identificazione della città antica con un sito preciso (per lo più indicato in Castel Gandolfo).
ALBANIA Nell’antichità la regione con questo nome, posta nella penisola balcanica al confine tra le popolazioni illiriche e quelle dell’Epiro, abitata dagli Albani, fu colonizzata dai Greci nella sua fascia costiera, dove vennero fondate le colonie di Apollonia (presso Valona) ed Epidamno (Durazzo). La regione è spesso menzionata nei racconti del mito in relazione con le imprese di Giasone e degli Argonauti: nelle Argonautiche di Valerio Flacco, Medea, figlia del re Eeta della Colchide, prima di fuggire con Giasone che era venuto a catturare il vello d’oro, era stata promessa in sposa al re d’Albania (VIII, 153 e passim). Le sue coste erano state toccate anche da Enea durante le sue peregrinazioni alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la distruzione di Troia. Per i miti ambientati nelle città principali della regione v. APOLLONIA; BUTRINTO; DURAZZO; EPIDAMNO; ORICO e in generale ILLIRIA.
ALBANO, LAGO Lago laziale situato nei Colli Albani e chiamato anche Lago di Castel Gandolfo, menzionato nelle fonti latine come Albanus lacus. È noto nella leggenda per un misterioso episodio avvenuto durante le guerre che contrapposero i Romani e la città etrusca di Veio, durante le quali si distinse l’eroe romano Furio Camillo. «Mentre la guerra infuriava, si verificò il disastro del lago Albano, che, non meno di altri incredibili prodigi, per la mancanza di una causa attendibile e di una spiegazione fondata sopra una legge fisica, suscitò un grande spavento.» Dopo un’estate lunga e secca, che aveva lasciato la maggior parte dei laghi e dei fiumi poveri d’acqua se non addirittura asciutti, «l’acqua del lago Albano, chiuso in se stesso, circondato da fertili montagne, senza nessuna spiegazione all’infuori di quella di un prodigio divino, alzando il suo livello a vista d’occhio, si gonfiò e straripò, bagnando le falde dei monti e salendo sino a toccare in modo uniforme le cime più alte, senza movimenti ondosi e sconvolgimenti prodotti dal sollevarsi delle acque». Quando poi «la grande massa d’acqua ebbe travolto una piccola striscia di terra che a guisa di diga la tratteneva […] e un enorme torrente si rovesciò giù attraverso i campi arati e i terreni coltivati correndo fino al mare, non solo furono presi dal terrore gli stessi Romani, ma a tutti gli abitanti d’Italia parve quello il segno di un grave evento imminente» (Plutarco, Camillo, 3). Un indovino etrusco vaticinò che i Romani non avrebbero potuto conquistare Veio se prima non avessero incanalato e deviato l’acqua del lago Albano, impedendo che giungesse fino al mare: «Così era stato tramandato dai libri fatali e dall’arte divinatoria etrusca, che quando l’acqua del lago Albano avesse superato il livello consueto, allora i Romani avrebbero ottenuto la vittoria sui Veienti, se l’avessero fatta defluire secondo il prescritto rituale; prima che ciò avvenisse gli dèi non avrebbero abbandonato le mura di Veio. Si spiegava poi quale fosse il rito richiesto per far uscire l’acqua» (Livio, V, 15, 11-12). Cosa che i Romani riuscirono a fare solo dopo molte incertezze e tentennamenti, indotti infine a procedere dal vaticinio ottenuto dall’oracolo di Delfi, che confermava sostanzialmente le parole dell’indovino etrusco. Così diceva infatti l’oracolo: «O Romano, non lasciare che l’acqua albana rimanga nel lago, non lasciare che giunga al mare con propria corrente. Fattala uscire ne irrigherai i campi e la disperderai dividendola in ruscelli» (ibid., V, 16, 9). I Romani seguirono il responso del dio, conquistando poi Veio in un contesto ricco di altri prodigi (v. VEIO; cfr. anche Valerio Massimo, I, 6, 3). Anche in altre circostanze eventi riconducibili al volere divino si erano manifestati nel lago di Albano: per esempio, si diceva che un anno, durante le guerre puniche, le sue acque si fossero riempite di sangue (Livio, XXVII, 11, 3).
ALBANO, MONTE Con il nome di Albanus mons era anticamente indicato un massiccio vulcanico dei dintorni di Roma, a sud-est della città, che supera di poco i novecento metri di altezza. Il monte, «che oggi si chiama Albano (allora né aveva un nome, né onore e gloria)», è ricordato da Virgilio nell’Eneide (XII, 134-135) come altura sulla sommità della quale Giunone si ferma a osservare gli eserciti schierati dei Troiani e dei Latini durante gli scontri che contrappongono i due popoli all’arrivo di Enea in Italia. Secondo Catone (Origini, I, 17) il Monte Albano trasse il suo nome dalla città di Alba Longa, il principale centro mitologico dell’area. Vi si venerava Diana Nemorense e vi aveva sede il tempio di Giove Laziale. Oggi è indicato come Monte Cavo.
ALBULA v. ANIENE e TEVERE.
ALBUNEA Nell’Eneide ha questo nome una fonte del Lazio, immersa nel fitto delle foreste abitate dai Latini e frequentata dagli Italici per ottenere responsi perché le erano attribuite virtù oracolari; dalle sue acque si levavano esalazioni mefitiche. Si trovava forse presso il fiume Aniene, nei dintorni di Tivoli, e la Ninfa della fonte secondo Varrone e Isidoro era una delle Sibille (la Tiburtina). Alle sue acque si rivolge, per un responso, il re Latino, quando una serie di prodigi mai visti si manifesta all’arrivo di Enea e dei suoi compagni alle foci del Tevere (Virgilio, Eneide, VII, 81 ss.). Il verdetto giunge al re dal dio Fauno, antico sovrano dei Latini e suo padre nonché predecessore. Egli lo ammonisce a non concedere la mano di sua figlia, Lavinia, a un Latino (Turno): «da un paese straniero ci verranno i generi» (ibid., VII, 98). L’allusione, naturalmente, è a Enea, che sposerà infatti Lavinia e darà inizio alla stirpe dei futuri abitanti di Roma.
ALBURNO Monte della Lucania. Per i particolari v. SELE.
ALCATOE, in gr. Alkathòe. Nome della rocca di Megara, in Grecia. Nella poesia veniva spesso usato per indicare Megara in generale (v. MEGARA e MEGARIDE).
ALCIONIO, STAGNO, in gr. Alkyonìa lìmne. Piccolo stagno dell’Argolide attraverso il quale, secondo il mito, il dio Dioniso passò per trarre dagli Inferi Semele, sua madre. Si raccontava, infatti, che Dioniso fosse nato dagli amori di Semele, figlia di Cadmo e Armonia, e di Zeus; quando la giovane stava per partorire il figlioletto frutto di quell’unione, tuttavia, la gelosissima Era, per punire lei e il proprio sposo traditore, l’aveva indotta con l’inganno a chiedere a Zeus di manifestarsi davanti a lei in tutto il suo splendore: Zeus la esaudì, ma i suoi occhi di mortale non ressero alla vista di tale grandioso spettacolo e l’infelice Semele ne fu folgorata, morendo all’istante. Varie leggende raccontavano come Dioniso, non ancora nato, fosse stato cucito dentro la coscia di Zeus perché la gravidanza giungesse a compimento; e come, una volta adulto e accolto fra gli dèi, egli fosse sceso agli Inferi per riprendere la madre e condurla nell’Olimpo, dove assunse il nome di Tione e divenne a sua volta una divinità. Il percorso seguito da Dioniso per scendere agli Inferi passava appunto per il piccolo stagno Alcionio dell’Argolide, che ben si prestava a fungere da accesso al mondo sotterraneo perché godeva la fama di essere straordinariamente profondo, tanto che nessuno era mai riuscito a toccarne il fondo, neppure ricorrendo ai più estrosi espedienti. «Nemmeno Nerone, che fece fare delle funi lunghe parecchi stadi e le legò l’una all’altra e vi appese piombo e ogni altro mezzo utile alla prova, nemmeno così riuscì a trovare un termine alla sua profondità.» L’acqua dello stagno, poi, in apparenza calma e immota, «trascina giù per sua natura chiunque osi nuotarvi e risucchiandolo lo porta nel profondo» (Pausania, II, 37, 5-6).
ALE ARAFENIDI Località situata presso l’odierna Loutsa, sulla costa dell’Attica in prossimità dell’Eubea. È ricordata nella mitologia con il nome di Ale (Halài) e come luogo dove Atena impone a Oreste di edificare un tempio nel quale dovrà essere collocato «l’idolo eponimo della terra dei Tauri» (Euripide, Ifigenia in Tauride, 1454) e dove la dea stessa verrà venerata con il nome di Atena Tauropolos, ossia «domatrice di tori». Con la fondazione di tale tempio dovrà chiudersi la lunga e dolorosa vicenda di Oreste, episodio di una delle saghe più sanguinose e complesse della mitologia classica: è la storia di Agamennone, condottiero greco della spedizione contro Troia, che di ritorno dalla guerra troiana viene ucciso a tradimento da sua moglie Clitemnestra e dall’amante di lei Egisto, ma viene vendicato dal figlio, appunto Oreste, che uccide a sua volta sua madre e viene allora perseguitato dalle Erinni, fino a quando, dopo molte vicissitudini, la visita del matricida all’Areopago di Atene permette alla vicenda di comporsi e alla giustizia di affermarsi. La sorella di Oreste, Ifigenia, che il padre Agamennone stava per sacrificare ad Artemide pur di avere dalla dea i venti favorevoli alla spedizione contro Troia, era stata salvata dalla dea stessa e portata nella regione dei Tauri dove era diventata sua sacerdotessa. La località è ricordata anche, in relazione con il culto di Artemide, nell’Inno ad Artemide di Callimaco (v. 173).
Il mito di Oreste non era il solo a essere ambientato nella località. Ale ospitava infatti anche il sepolcro di Timone di Atene, personaggio vissuto all’epoca delle guerre del Peloponneso e più volte ricordato dagli scrittori antichi, da Aristofane a Platone il comico, che lo rappresentano come un vecchio misantropo dal carattere insopportabile. Il suo comportamento astioso contro tutto e contro tutti era passato in proverbio. Si raccontava, come ricorda Plutarco nella Vita di Antonio, che amasse particolarmente Alcibiade «perché sapeva che avrebbe causato molti mali agli Ateniesi»; che a un commensale che manifestava soddisfazione per il loro simposio considerando quanto fosse bello, avesse risposto: «sarebbe bello, se tu non ci fossi»; e che avesse informato i concittadini della sua intenzione di abbattere un fico cresciuto in un suo appezzamento di terra, dove alcuni erano andati a impiccarsi: «dal momento che sto per costruire una casa in quel luogo, ho voluto preavvertirvi pubblicamente, affinché, se qualcuno di voi volesse impiccarsi, lo faccia prima che il fico venga tagliato». Di tale poco amabile personaggio Ale conservava la sepoltura, in riva al mare; «la riva dinanzi alla tomba franò, e le onde circondarono il sepolcro, rendendolo inaccessibile e isolato», come si conveniva all’ultima dimora di un uomo che aveva sempre rifuggito la compagnia dei suoi simili. Lui stesso, a quanto si diceva, aveva composto il proprio epitaffio: «Qui riposo, dopo aver spezzato il filo di una vita infelice. Non saprete il mio nome; possiate, miserabili, incontrare una morte miserabile». L’epitaffio più noto era però quello attribuito da alcuni a Callimaco, da altri (Antologia Palatina, VII, 320, 3-4) a Egesippo: «Io, Timone, misantropo, abito qui. Vattene, maledicimi quanto vuoi, ma vattene» (Plutarco, Antonio, 70).
ALENTE, in gr. Àleis, -entos. Avevano questo nome diversi fiumi del mondo antico, tra i quali uno che scorreva in Lucania e un altro a Cos. Teocrito, nei Carmi bucolici ( V, 123), ne menziona un altro ancora, non identificato, nella zona di Sibari, sulle cui rive crescevano i ciclamini: «vai a sradicare il ciclamino all’Alente» dice il pastore Lacone al compagno Comata. Il ciclamino serviva, secondo una credenza diffusa che ci è testimoniata da Plinio (Nat. Hist., XXV, 115), per proteggere dai malefici e dai filtri magici.
ALESIA Città della Celtica, corrispondente all’odierna località francese di Alise-Sainte-Reine (dipartimento della Côte-d’Or), che secondo la tradizione era stata fondata da Eracle, il quale, penetrato nella regione, aveva civilizzato le barbare popolazioni che la abitavano (Diodoro Siculo, IV, 10). Era, secondo Diodoro, la principale città delle Gallie e la «madre delle città». Vi aveva sede un culto delle acque termali che era messo in relazione con una divinità celtica, Moritasgus, spesso associato dai Romani ad Apollo, al quale era affiancata una divinità femminile di nome Damona: il tempio era dotato di condutture d’acqua e di vasche per la loro raccolta. Storico, ma circondato da una fama leggendaria, fu l’assedio di Alesia da parte di Cesare nel 52 a.C., al quale Vercingetorige oppose una strenua ma vana resistenza (Cesare, De bello Gallico, VII, 69 ss.).
ALESIO, in gr. Alèsios. Località dell’Elide, in Grecia, che fu teatro di un epico scontro tra i Pilii e gli Epei; nell’esercito di Pilo si distinse l’eroe Nestore, allora giovane e inesperto ma già intrepido e valoroso, e destinato ad acquisire grande fama durante la guerra di Troia. Nei pressi di Alesio Nestore sconfisse in quella battaglia l’ultimo avversario prima che Atena ponesse fine allo scontro (Iliade, XI, 757).
ALESSANDRIA, in gr. Alexàndreia. Celebre città dell’Egitto fondata da Alessandro Magno sulla riva del Mediterraneo. È la più importante e famosa delle nuove fondazioni fatte erigere dal condottiero macedone nei territori che via via egli conquistò, chiamate spesso Alessandria con l’aggiunta di una specificazione atta a distinguerle l’una dall’altra (v. per esempio BUCEFALIA per Alessandria Bucefala sull’Idaspe). La fama di Alessandria d’Egitto però superò quella di tutte le altre Alessandrie, e più di tutte le altre unisce nella tradizione delle sue origini elementi storici e leggendari.
La fondazione della città stava particolarmente a cuore al grande condottiero. Si raccontava che la scelta del sito fosse avvenuta in seguito a un suo sogno, nel quale gli era apparso un vecchio dai capelli bianchi che gli aveva recitato i versi di Omero relativi all’isola di Faro, presso il delta del Nilo (per i particolari v. FARO). Dopo quella visione il Macedone si recò a visitare la costa egizia di fronte a Faro, «che a quel tempo era ancora un’isola, un poco al di sopra della bocca di Canopo, e ora invece è unita al continente con un molo», e la trovò splendidamente adatta ai suoi disegni, cosa che gli fece constatare quanto abile Omero fosse non solo come poeta ma anche come urbanista; diede perciò ordine di erigere proprio lì la città che da lui doveva prendere nome, approfittando dell’eccellente posizione naturale del sito («è infatti una striscia di terra che come un ampio istmo opportunamente tiene separati una grande laguna e il mare»). «Siccome non c’era terra bianca per segnare i contorni, i geometri si servirono di farina, e sulla pianura nera delinearono un’area circolare» a limitare i confini della città. Mentre Alessandro rimirava compiaciuto la sua colonia che prendeva lentamente forma, all’improvviso «giunse dal fiume e dalla palude un numero infinito d’uccelli, d’ogni tipo e dimensione, che si riunirono qui come una nuvola e non lasciarono neanche un briciolo di quella farina»: Alessandro interpretò questo fatto sorprendente come un presagio infausto e ne rimase sgomento. Ma gli indovini lo rassicurarono: «stava costruendo una città che sarebbe stata ricchissima e avrebbe dato nutrimento a uomini di ogni genere». Tranquillizzato, Alessandro lasciò che i lavori proseguissero secondo il progetto originario (Plutarco, Alessandro, 26, 5-10; cfr. anche Arriano, Anabasi di Alessandro, III, 2, 1-2; Ammiano Marcellino, XXII, 16, 7). La pianta della città assunse la forma di una clamide, il tipico manto greco, nella sua foggia macedone, che si indossava affibbiato sulla spalla (Diodoro Siculo, XII, 52, 3).
In quella stessa città, al condottiero particolarmente cara, secondo la tradizione il corpo di Alessandro sarebbe poi stato traslato dopo la morte che lo colse a Babilonia: «il corpo di Alessandro fu portato da Tolomeo, cui era toccato l’Egitto, a Menfi, e di lì, dopo pochi anni, ad Alessandria» ricorda Curzio Rufo (Storie di Alessandro Magno, X, 10, 20); qui venne costruito un magnifico santuario destinato a ospitarlo, e in suo onore si stabilirono sacrifici solenni e si allestirono magnifici e sontuosi giochi funebri (Diodoro Siculo, XVIII, 28); ma come è noto, benché molte fonti ci raccontino che personaggi illustri, da Cicerone ad Augusto, resero omaggio alla sua tomba, il rinvenimento sicuro e indiscusso della sua sepoltura è un evento che non ha ancora allietato gli archeologi.
Se tra i fatti storici ammantati di leggenda quello della sepoltura di Alessandro è probabilmente il più famoso, non meno misteriosa e più volte ripetuta dagli antichi era anche la storia relativa all’introduzione ad Alessandria del culto del dio Serapide. Si narrava che al re Tolomeo apparve in sogno una notte un giovane di grande bellezza e di statura superiore a quella umana, che gli ordinò di recarsi nel Ponto a prelevare la sua immagine, la quale avrebbe portato alla città una grande fortuna. Detto questo, il giovane del sogno fu rapito in cielo da un grande fuoco. Spaventato da quella visione e desideroso di assecondare la richiesta del misterioso personaggio, Tolomeo fece chiamare, dalla città di Eleusi, l’ateniese Timoteo, un discendente della famiglia sacerdotale degli Eumolpidi addetti al culto di Demetra, che a Eleusi appunto aveva la sua principale sede di culto, e gli diede l’incarico di indagare sul significato del sogno e sulle statue di divinità che si trovavano nel Ponto. Timoteo scoprì che nella città di Sinope, sulla riva meridionale del Mar Nero, esisteva un tempio dedicato a Giove Dite, veneratissimo dagli abitanti del posto, nel quale si trovava anche una statua dedicata a una dea locale che veniva identificata con Proserpina. «Tolomeo era facile a spaventarsi, come sono naturalmente i re; ma non appena si sentì rassicurato, avendo più inclinazione ai godimenti che alle pratiche religiose, a poco a poco si disinteressò da queste ultime e volse l’animo ad altri pensieri»; finché ebbe una nuova visione, assai più minacciosa della precedente, nella quale il personaggio misterioso gli vaticinava orribili disastri se non si fosse dato seguito alle sue richieste. Spaventato, Tolomeo mandò questa volta a interpellare l’oracolo di Apollo a Delfi, e il dio ordinò di portare ad Alessandria la statua del proprio padre, Giove Dite, lasciando quella della sorella. Un’ambasceria di Tolomeo si recò allora a Sinope, con molti ricchi doni e con la richiesta di consegnare in cambio la statua di Giove; ma ci volle molto tempo, e ci furono molti tentennamenti da parte del re di Sinope, prima che un’ulteriore visione lo inducesse a consegnare la statua; anzi, si diceva che «il dio stesso fosse andato a imbarcarsi sulle navi ancorate al litorale; e che, mirabile a dirsi, dopo aver percorso un così lungo tratto di mare in soli tre giorni, esse fossero approdate ad Alessandria». Nel quartiere alessandrino di Racoti venne edificato un tempio, in un sito che precedentemente ospitava un tempietto dedicato a Serapide e Iside (cosa che fa pensare che il culto di Serapide fosse preesistente ai fatti miracolosi narrati). Altre versioni del racconto modificavano il luogo d’origine del culto, individuandolo in Seleucia di Siria, o in Menfi d’Egitto, e ipotizzavano un’identificazione della divinità con Esculapio, dio guaritore per eccellenza, o con Osiride, «nume antichissimo di quei popoli», o con Giove e con il padre Dite (Tacito, Storie, IV, 83-84).
Il tempio di Serapide e la tomba di Alessandro dovettero essere edifici estremamente ammirati nella città, ma non erano i soli: ve ne erano numerosi altri che, pur se non altrettanto famosi, suscitavano incredulità e meraviglia. Uno dei prodigi più mirabolanti, per esempio, si poteva osservare all’interno di un tempio, dove un architetto aveva fatto rivestire il soffitto di magneti, «riuscendo a far sì che una statua di ferro collocata al suo interno sembrasse sospesa nell’aria» (Isidoro, Etimologie, XVI, xxi, 4). Di una celebrità strepitosa, che la poneva ai confini del mito, godeva poi la Biblioteca di Alessandria, una delle più ricche del mondo antico: settecentomila volumi, raccolti grazie alle attente cure dei Tolomei, furono tutti bruciati sotto la dittatura di Cesare, all’epoca della guerra di Alessandria, durante il saccheggio della città. Così Ammiano Marcellino (XXII, 16, 13), che parla in modo un po’ sibillino di «due inestimabili biblioteche», forse quella più nota del Museo e quella annessa al Serapeo. L’incendio della Biblioteca di Alessandria, pur non essendo accertato storicamente, viene per l’appunto collocato all’epoca di Cesare (48-47 a.C.), quando il condottiero decise di dar fuoco alla propria flotta pur di non consegnarla al nemico, e costituisce uno dei grandi topoi della storia antica che periodicamente gli studiosi mettono in discussione e indagano con nuovi contributi. La ricostruzione a noi contemporanea della Biblioteca di Alessandria sembra reincarnare l’utopia dei Tolomei di un luogo dove tutto lo scibile possa essere raccolto, quasi fusione fra quell’antica biblioteca realmente esistita e il mito borgesiano della Biblioteca universale.
ALFEO, in gr. Alpheiòs. Fiume della Grecia che scorreva nei pressi di Olimpia dopo aver attraversato il Peloponneso: «Il chiaro Alfeo dalle fresche acque, reso celebre dallo stadio di Olimpia» scrive Seneca (Tieste, 130-131). Le sue acque scorrevano abbondanti: «Alfeo dai vortici distesi» lo chiama Bacchilide (Epinicio III SM.). Come tutti i fiumi del mondo antico era personificato e si riteneva che fosse nato dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-338).
Il corso dell’Alfeo era stato testimone di diversi episodi del mito. Sulle sue rive, secondo una tradizione, sarebbe nato Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza, generato da Zeus e da Semele, che la leggenda voleva originaria della regione presso il fiume (Inno omerico a Dioniso, I, 3). Alle sue acque, inoltre, Ermes, dio dotato di particolare destrezza nel compiere furti, fece abbeverare le vacche che aveva sottratto alla mandria degli dèi (Inno omerico a Ermes, IV, 101-102), e nei pressi delle sue rive accese un grande fuoco e celebrò un sacrificio immolando due di quelle stesse vacche, gettando poi i propri sandali nel fiume (ibid., 239). Presso il corso dell’Alfeo si trovava secondo la tradizione la tomba di Pelope: l’eroe eponimo del Peloponneso, innamoratosi della figlia del re di Pisa Enomao, la bella vergine Ippodamia, ne aveva ottenuto la mano sfidando in una corsa dei carri lo stesso Enomao e ottenendo la vittoria grazie al carro e ai cavalli che gli aveva donato Poseidone. Dopo la sua morte Pelope era stato seppellito non lontano dall’altare di Zeus a Olimpia, e nel suo «venerato sepolcro» riceveva copiose offerte («magnifiche offerte cruente») nell’anniversario della sua scomparsa (Pindaro, Olimpica I, 90-93).
Il mito più noto che riguardava l’Alfeo era però quello del suo amore per la ninfa Aretusa: il fiume innamorato bagnava l’Elide scorrendo nei pressi di Olimpia e di Pisa e poi si gettava in mare per raggiungere, dopo un lungo percorso sottomarino, la fonte Aretusa, che si trovava a Siracusa e nella quale la bella Ninfa si era celata. Come si legge in un frammento del poeta Mosco, «l’Alfeo, quando lasciata Pisa si apre la strada nel mare, procede verso Aretusa con la sua acqua nutrice di oleastro, portando come doni nuziali belle foglie e fiori e una polvere santa [perché proviene dal sacro terreno di gara di Olimpia], e penetra a fondo dentro le onde, e sotto la superficie conduce la sua corsa, senza mescolare la sua con quelle acque, e il mare non sa nulla del fiume che l’attraversa». Le acque del fiume sono particolarmente seducenti anche nella descrizione di Ovidio, che la mette in bocca alla Ninfa stessa: «M’imbatto in un fiume che scorreva senza vortici e mormorii, così limpido che dall’alto avresti potuto in fondo al suo letto contare i sassolini […] Pallidi salici e pioppi nutriti dall’umidità stendevano sulle rive in declivio il naturale espandersi dell’ombra» (Metamorfosi, V, 587-591; cfr. la sintesi del mito in Pausania, V, 7, e il suo commento tranchant: «questo racconto sull’Alfeo è privo di buon senso»,che non gli impedisce però di riconoscere che le acque dell’Alfeo e della sorgente Aretusa si mescolino, cosa che avviene per numerosi altri fiumi del mondo). Il «biondo Alfeo, ospite straniero delle terre di Sicilia»è ricordato anche da Stazio (Tebaide, IV,239-240); e il mito del suo amore per Aretusa è evocato più tardi da Nonno di Panopoli nelle sue Dionisiache (VI, 340 ss.), dove il fiume è definito «infelice amante» e dove, aseguito del diluvio universale che ha estinto ogni fuoco sulla faccia della terra, solo ilfuoco d’amore del dio fluviale per la bella Ninfa continua imperterrito e inestinguibile ad ardere (cfr. anche ibid., XIII, 323-327). Per altri particolari su questo popolarissimo mito v. anche ARETUSA e SIRACUSA.
Alfeo, del resto, aveva un carattere focoso, e non si invaghì soltanto di Aretusa: si innamorò anche della dea Artemide, e poiché non riusciva ad avere l’amata con le buone, decise di farla propria con la forza. La dea, però, che si trovava in una grotta con alcune Ninfe del suo seguito, si rese conto del progetto aggressivo del dio fluviale e si coprì il volto con uno strato di fango; lo stesso fecero le Ninfe, cosicché il dio, scornato, non riuscì a distinguere la dea e dovette andarsene con le pive nel sacco. Sul posto, a ricordare l’evento, sorse un santuario dedicato ad Artemide Alphaia, ossia «dell’Alfeo» (Pausania, VI, 22, 9-10). Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Alfeo è menzionato, oltre che come amante della ninfa Aretusa, tra i fiumi le cui rive eaddirittura le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Le acque del fiume Alfeo non ispirarono infatti ai poeti soltanto storie d’amore: un mito famoso raccontava che esse vennero utilizzate da Eracle, insieme a quelle di un altro fiume, il Peneo, per ripulire le stalle di Augias, re di Elide, nel corso di una delle più impegnative tra le dodici canoniche fatiche nelle quali si cimentò. L’eroe dovette rimuovere dalle stalle una quantità enorme di letame in un giorno soltanto, e lo fece deviando il corso dei due fiumi, fatica a sua volta certamente non piccola.
ALGIDO, MONTE, in lat. Algidus Mons. Con questo nome era indicato anticamente l’attuale Maschio di Lariano, altura dei Colli Albani a quasi 900 metri di quota, sulla quale era radicato il culto della dea Diana (Orazio, Odi, I, 21, 5).
ALIACMONE, in gr. Aliàkmon, -onos. Fiume della Grecia che scorre in Macedonia e sfocia nel golfo di Salonicco; era nato, secondo la mitologia, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-341). Lo stesso nome aveva anche un altro fiume, nell’Argolide, nel quale si era gettato, in un accesso di follia, un abitante di Tirinto di nome Aliacmone: il corso d’acqua, originariamente denominato Carmanore, era stato ribattezzato in sua memoria, prima di assumere la denominazione definitiva di Inaco (Pseudo-Plutarco, De fl., 18, 1; v. anche INACO).
ALIARTO, in gr. Halìartos. Città greca della Beozia, in riva al lago Copaide, nota nella mitologia perché nei pressi si trovava la fonte Cissusa, dove le nutrici lavarono il dio del vino, Dioniso, appena nato: «qui infatti l’acqua ha il colore brillante del vino ed è limpida e dolcissima da bere» (Plutarco, Lisandro, 28, 7). Nelle vicinanze crescevano delle piante, gli storaci cretesi, che gli abitanti indicavano come prova del fatto che il re cretese Radamanto, fratello di Minosse e che essi chiamavano Aleo, era vissuto lì e lì era morto: ne mostravano proprio nei pressi la sepoltura (per la figura di Radamanto v. CRETA e BEOZIA). Non lontano c’era anche la tomba di Alcmena, madre di Eracle e moglie di Anfitrione, che dopo la morte di quest’ultimo si era risposata con lo stesso Radamanto di Creta (ibid., 28, 8-9). Si diceva che Agesilao, re di Sparta, avesse voluto far trasportare nella propria città i resti della madre di Eracle; ma che, quando la tomba venne aperta per procedere alla traslazione, non vi si trovarono, in luogo della salma, che «una pietra, un braccialetto di bronzo di taglia media e due anfore d’argilla contenenti della terra che, con il passare del tempo, si era pietrificata e formava una massa compatta; davanti al monumento sepolcrale, tuttavia, c’era una tavoletta di bronzo che recava una lunga iscrizione in caratteri strani e certamente molto antichi» che nessuno seppe decifrare, ma che apparvero assai simili a caratteri egizi (Id., De deo Socratis, 577 E-F; cfr. Id., Romolo, 28,7; per la tomba di Alcmena v. anche MEGARA e TEBE). La tradizione raccontava che alla morte di Alcmena era stato il dio Ermes in persona a sottrarne il corpo e a sostituirlo con una pietra. Anche Tiresia, il leggendario indovino, aveva trovato la morte ad Aliarto, mentre si recava da Tebe a Delfi insieme alla figlia Manto, dopo la conquista di Tebe a opera degli Epigoni: Manto faceva parte del bottino di guerra dei vincitori, che avevano promesso di offrirla a Delfi al santuario di Apollo, dove tuttavia suo padre Tiresia, che l’accompagnava, non arrivò mai.
Nei pressi di Aliarto scorreva un torrente chiamato Oplita, menzionato in un oracolo reso a Lisandro, famoso generale spartano, dove se ne vaticinava in quel luogo la morte: «Da un Oplita mormorante guardati, ti dico, e da un serpente astuto, figlio della terra, che viene alle tue spalle» (Id., Lisandro, 29, 7). L’ambiguità della profezia risiedeva nel duplice senso di Oplita, che era il nome di un corso d’acqua ma anche il termine con cui si indicavano i soldati della fanteria pesante. La localizzazione del torrente nei pressi di Aliarto non era però così certa, e altre indicazioni lo danno nei pressi di Coronea, identificandolo con quello che successivamente, ai tempi di Plutarco, si chiamava Isomanto (ibid., 29, 8). Nella località di Aliarto si venerava altresì il mitico re Cecrope, sovrano di Atene, che una tradizione ricordava anche come fondatore di alcune città della Beozia (Strabone, IX, 2, 18).
Il toponimo era fatto derivare dal nome dell’eroe fondatore della città, Aliarto, fratello di Corono e nipote di Sisifo.
ALIBANTO, in gr. Albas, -antos. Località difficilmente identificabile menzionata nell’Odissea. Viene citata da Ulisse quando, al suo ritorno a Itaca dopo le sue lunghe peregrinazioni seguite alla caduta di Troia, egli si accinge a ordire la propria vendetta contro i pretendenti Proci che gli stanno insidiando la sposa e dilapidando il patrimonio; l’eroe vuole tener nascosta la propria reale identità per avere più facilmente la meglio sui suoi avversari, e sceglie perciò di presentarsi al proprio stesso padre sotto mentite spoglie, sia pure con il cuore stretto e «punto sul naso dall’acuta voglia di piangere». Anziché rivelare il proprio nome preferisce quindi fingersi un certo Eperito, originario di Alibanto, dove dice di avere un palazzo bellissimo e di aver visto, ormai cinque anni prima, Ulisse, che proprio ad Alibanto era stato suo ospite (XXIV, 304 ss.). Gli scoliasti hanno voluto vedere in Alibanto il nome antico di METAPONTO (v.); ma la difficoltà di identificazione del luogo ben si adatta al desiderio di Ulisse di tenere celata la propria identità, e potrebbe far pensare a una località d’invenzione.
ALIBE, in gr. A l`y be. Città ricordata nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, dove sono elencate le località da cui provengono gli eroi greci e troiani che si fronteggiano nella guerra di Troia. Alibe è città schierata dalla parte dei Troiani e di essa si dice che si trova in un luogo lontano, «là dove nasce l’argento» (II, 857). La localizzazione di Alibe, discussa da Strabone (XII, 3, 20-27), è incerta; solitamente viene collocata in Bitinia (regione nella quale si identifica l’Ascania citata da alcune fonti in relazione con Alibe), in prossimità di Nicea (Nonno di Panopoli, Dionisiache, XVII, 32-33) o di Nicomedia e del fiume Geudos (Plinio, Nat. Hist., V, 143). Nei pressi di Alibe, secondo il racconto di Nonno si trovava la dimora di Brongo, un eroe locale: una caverna sperduta in una vallata priva di case, ai piedi di una parete rocciosa (Dionisiache, XVII, 40-41), circolare e preceduta da un portico costituito da due pilastri rocciosi (ibid., XVII, 64-66). Nel racconto di Nonno, il frugale e mite Brongo offre ospitalità a Dioniso che si trova di passaggio in quei luoghi, e per ringraziarlo della sua accoglienza il dio gli insegna a coltivare la vite e a produrre il vino. Nella stessa città Dioniso ricevette ospitalità anche da un re locale, del quale la mitologia non ha tramandato il nome (ibid., XIX, 127).
ALICARNASSO, in gr. Alikarnassòs. Celebre città dell’Asia Minore, capitale della Caria, corrispondente alla località attuale di Bodrum in Turchia. Nell’antichità era nota per il Mausoleo, considerato una delle sette meraviglie del mondo, fatto erigere come sepolcro monumentale in onore di Mausolo, sovrano della regione, e così chiamato in suo onore. Tra i più illustri cittadini di Alicarnasso, oltre a Mausolo, si ricordavano Erodoto e Dionigi detto appunto di Alicarnasso per distinguerlo dai suoi numerosi omonimi di altra provenienza. La città non ha un ruolo importante nella mitologia, ma vi sono ambientati alcuni fatti curiosi. Nel suo entroterra viveva una popolazione di non meglio identificati Pedasei, forse così chiamati perché abitanti della città di Pedaso, i quali avevano una particolare venerazione per la dea Atena: «ogni volta che a loro, o ai loro vicini, sta per accadere qualcosa di spiacevole, alla sacerdotessa di Atena cresce una lunga barba: questo fatto si è verificato tre volte» (Erodoto, I, 175; cfr. anche VIII, 104). Ad Alicarnasso era ambientato un famoso aneddoto che aveva per protagonista Alessandro Magno: quando il condottiero, durante la sua spedizione in Asia, stava cingendo d’assedio la città, «e nell’ora meridiana si riposava un poco, una rondine prese a volare intorno alla sua testa pigolando intensamente», incurante dei gesti che con la mano Alessandro, semiaddormentato, compiva per scacciarla; finché, con la sua insistenza, posandosi addirittura sulla sua testa, lo svegliò del tutto, e il condottiero chiese a un indovino di interpretare quel segno. La risposta fu che «un amico attentava alla sua vita, ma che l’insidia sarebbe stata scoperta: la rondine è un uccello domestico amico dell’uomo, e garrulo più di ogni altro volatile» (Arriano, Anabasi di Alessandro, I, 25, 6-7).
ALLIA Piccolo fiume dell’Italia centrale, affluente del Tevere. La mitologia ricorda gli abitanti delle sue rive tra quanti si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 710). Virgilio definisce l’Allia «dall’infausto nome» riferendosi alla celebre battaglia combattutavi il 18 luglio del 390 a.C., quando Brenno, a capo dei Galli, inflisse ai Romani una memorabile sconfitta. Da quell’evento il 18 luglio venne considerato giorno nefasto nel calendario romano.
ALMONE, in lat. Almo, -onis. Piccolo fiume che confluisce nel Tevere a sud di Roma. Nelle Metamorfosi di Ovidio le Ninfe del fiume si innamorano del bellissimo giovane Pico, che però le ignora, preferendo loro un’unica splendida Ninfa dalla voce soavissima, che per questa sua prerogativa viene chiamata Canente (da cano, «io canto»; XIV, 329; per i particolari del mito di Pico v. LAURENTO). Tra le Ninfe figlie del dio fluviale Almone Ovidio ricordava Lara, protagonista di un altro mito in cui il tema della voce ha un ruolo significativo: Lara si chiamava originariamente Lala, e nel suo nome era sintetizzato il difetto di pronuncia che la caratterizzava («il suo antico nome, derivante da un difetto di pronuncia, era la prima sillaba ripetuta due volte», Ovidio, Fasti, II, 599-601: il nome era da mettere in relazione col greco , «cianciare», «blaterare», «parlare a sproposito», ma suggeriva anche l’idea di una persona balbuziente). Questa Ninfa, che parlava sempre e troppo, e vanamente veniva invitata dal dio Almone a frenare la lingua, per la sua parlantina inarrestabile si mise nei guai: un giorno, infatti, Giove si innamorò della ninfa Giuturna, che tuttavia faceva di tutto per sfuggirgli. Giove raccomandò alle Ninfe dei fiumi di respingerla dalle loro acque, per impedirle di nascondersi e permettergli di raggiungerla, ma Lara, venutolo a sapere, informò Giuturna, e, quel che è peggio, fece la spia presso Giunone, rivelandole la passioncella del marito. Giove, com’era facilmente prevedibile, scoprì che era stata Lara a smascherarlo e la punì severamente, strappandole la lingua e facendola accompagnare da Mercurio nelle profondità dell’Ade, dove sarebbe diventata la Ninfa delle acque infernali, «luogo adatto ai silenziosi» (ibid., II, 609); ma il messaggero che ve la stava conducendo si innamorò di lei e approfittando del suo mutismo la violentò: da quell’unione nacquero i gemelli Lari, divenuti divinità «che proteggono i crocicchi e in perpetuo vigilano sulla nostra Città», ovvero Roma (ibid., II, 615-616). Le acque dell’Almone venivano usate per il lavacro rituale degli strumenti del culto della Grande Madre (ibid., IV, 337 ss.; Silio Italico, Guerra Punica, VIII, 363).
ALMOPIA, in gr. Almopìa. Città della Macedonia dove Enea sostò durante le sue peregrinazioni dopo la caduta di Troia (Licofrone, Alessandra, 1238). Era così chiamata da Almopo, eroe eponimo figlio di Poseidone.
ALO, in gr. Hàlos. Località dell’Acaia ricordata nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 682). Le sue navi e le sue truppe inviate alla guerra di Troia erano comandate direttamente da Achille. Nella località si trovava un santuario dedicato a Zeus Lafistio: l’epiteto significa probabilmente «il divoratore», «colui che inghiotte». In relazione con questo santuario e a seguito di un vaticinio gli Achei imponevano alcune prove ai discendenti di Atamante figlio di Eolo. La storia, piuttosto articolata, era collegata al mito del vello d’oro. Atamante era re di Orcomeno, in Beozia, e dalla sua sposa Nefele aveva avuto due figli, Frisso ed Elle. Si era però segretamente innamorato di una donna di nome Ino, e anche da questa aveva avuto due figli, Learco e Melicerte. Furibonda per il tradimento, Nefele, con la complicità di Era, fece abbattere sulla regione una terribile carestia e una implacabile siccità. L’oracolo di Delfi, interpellato per capire come si potesse scongiurare la sciagura, ordinò che i figli di Nefele venissero sacrificati. Nefele tuttavia pose in salvo i due giovani sulla groppa di un ariete dal vello d’oro che doveva portarli al sicuro nella Colchide. Solo Frisso giunse a destinazione: Elle precipitò in mare dal dorso dell’animale, e le acque in cui cadde presero in suo onore il nome di Ellesponto, «mare di Elle». Frisso invece venne benevolmente accolto nella Colchide dal re Eeta, ne sposò la figlia e sacrificò il montone, donandone il prezioso vello allo stesso Eeta (sarà questo vello a costituire l’oggetto della spedizione degli Argonauti capeggiati da Giasone). Atamante, invece, impazzì, uccidendo uno dei due figli avuti da Ino e costringendo l’altro a gettarsi in mare con la madre. Ad Alo gli Achei imponevano ai discendenti della stirpe di Atamante, e in particolare ai più anziani, di non entrare per nessun motivo nel pritaneo: se entravano, dovevano essere sacrificati (Erodoto, VII, 197; cfr. Apollodoro, I, 9, 2). Alo era stata fondata dallo stesso Atamante (Strabone, IX, 5, 8).
ALONZIO Città della Sicilia di dubbia identificazione. Secondo la tradizione, venne fondata da Patrone di Tirio, eroe dell’Acarnania che aveva seguito Enea nelle sue peregrinazioni attraverso il Mediterraneo dopo la caduta di Troia (Dionigi di Alicarnasso, I, 46-53).
ALOPE, in gr. Alòpe. Località della Grecia situata presso la costa settentrionale del golfo Maliaco, il golfo, detto anche di Lamia, che si insinua per una ventina di chilometri nel territorio della Malide di fronte alla punta nordoccidentale dell’isola di Eubea. Alope è ricordata nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 682) tra le città che presero parte alla guerra di Troia; le sue truppe erano sotto il diretto comando di Achille. Dalla città, dove erano nati nei pressi del fiume Anfrisso, provenivano gli eroi Erito, Echione ed Etalide, che furono tra i partecipanti alla spedizione degli Argonauti alla conquista del vello d’oro nella favolosa Colchide (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 51-56).
Lo stesso nome indicava anche una sorgente che scaturiva ai piedi dei monti che separano Eleusi dalla piana di Megara; la fonte era il risultato finale della metamorfosi di Alope, figlia del re di Eleusi Cercione, protagonista di una complessa storia di amori e di esposizioni di infanti. Alope, infatti, per la sua bellezza aveva attirato Poseidone, dio delle acque, che se ne era innamorato e l’aveva fatta sua; da quell’amore era nato un bambino, a sua volta di straordinaria bellezza, che però la madre, temendo le ire del proprio padre Cercione, affidò a una serva perché lo esponesse. Abbandonato in una selva, il bambino, come sempre succede nelle storie di questo tipo, fu salvato, dapprima da una giumenta, che lo allattò, poi da due pastori, che lo trovarono e rimasero colpiti tanto dalla sua bellezza quanto dall’eleganza dell’abito nel quale era avvolto. Sopravvenuta una contesa tra i due per decidere a chi il bambino dovesse essere affidato, essi decisero di rimettersi al verdetto del re, e si presentarono a lui, portando tra l’altro anche lo splendido abitino del piccolo. Cercione, ignaro fino a quel momento di trovarsi di fronte al figlio di sua figlia, riconobbe la veste come proveniente dalla sua casa, volle andare fino in fondo alla faccenda e scoprì quindi la verità. Per il bambino si preparava una nuova esposizione nella selva, mentre la madre fu condannata a essere murata viva; ma di nuovo il piccolo fu allattato da una giumenta, di nuovo i pastori lo trovarono e lo salvarono, e questa volta lo allevarono senza litigare tra loro, comprendendo che era sopravvissuto a tante vicissitudini per volontà divina, e gli imposero il nome di Ippotoo. Più tardi Teseo, l’eroe attico, uccise Cercione; Ippotoo allora, che aveva saputo la storia delle proprie origini, gli chiese il regno sul suo paese e Teseo glielo concesse, «sapendo che egli era figlio di Nettuno da cui lui pure aveva origine»: insomma, i due erano parenti stretti. Alope, invece, venne trasformata nella sorgente che da lei prese il nome (Igino, Favole, 187).
ALPI Nella mitologia e nella letteratura antica le Alpi condividono con tutte le altre montagne l’appartenenza a una dimensione remota e inaccessibile, dove possono risiedere gli dèi (gli dèi greci, infatti, scelgono come propria dimora le montagne, che siano l’Olimpo o il Parnaso, l’Ida o l’Elicona, o infiniti altri, in Grecia e in Asia Minore), ma dove per gli uomini l’ambiente è proibitivo e i rari abitanti, se pur riescono a sopravvivere, assumono i connotati di popoli selvaggi e lontani dal mondo. «Le Alpi, fatica più dura della guerra» esclama Annibale accingendosi all’impresa di attraversarle per scendere in Italia (Silio Italico, Guerra Punica, III, 92); e dovendole descrivere con una parola sola, spesso i poeti non trovano di meglio che condensare nell’immagine della loro immensità la loro principale caratteristica: «l’enorme catena montuosa delle Alpi» scrive per esempio Lucano nella Guerra civile (II, 630). Le montagne fanno parte dell’aspetto più difficile e ostile della natura: sono il locus horridus per eccellenza, che suscita spavento e fa provare quel brivido che coglie l’uomo quando si rende conto della propria piccolezza davanti al divino. Al cospetto di tanta maestosa imponenza la mitologia si sofferma sul panorama delle Alpi sotto alcune particolari angolature: indicando le imprese compiute da eroi e condottieri per attraversarle, elencando le divinità che su di esse erano venerate, sottolineando gli aspetti incredibili, mirabili e prodigiosi della flora, della fauna e delle rare popolazioni che vi abitano, nonché gli eventi ai confini del soprannaturale che vi furono registrati in particolari circostanze.
Il passaggio attraverso le Alpi. Valicare le Alpi fu sempre considerata un’impresa di grande impegno, e la mitologia attribuiva il primo passaggio al più grande e forte degli eroi, Eracle. Attraverso le Graie, infatti, secondo la tradizione, Eracle sarebbe passato nei suoi numerosi spostamenti che seguirono la cattura dei buoi di Gerione; per questo motivo esse avevano il nome di Graie, che significava propriamente «greche» e si riferiva proprio alla tradizione del passaggio di Eracle (Plinio, Nat. Hist., III, 123). Anche le Alpi Lepontine traevano il loro nome dal mito di Eracle: i Leponzi, si diceva, discendevano dai compagni dell’eroe, che lo accompagnarono nella cattura dei buoi di Gerione e poi nel ritorno in Grecia con le mandrie; i Leponzi si sarebbero congelati durante la traversata delle Alpi, ma riuscirono ad avere alcuni discendenti, che diedero origine al popolo di questo nome (ibid., III, 134). Diodoro Siculo racconta (IV, 10) che il passaggio di Eracle per quelle aspre montagne fu accompagnato dall’apertura di comode strade, opera dell’eroe, e segnò la fine delle ruberie delle selvagge popolazioni indigene. Al culto di Eracle e al suo passaggio delle Alpi allude un passo del Satyricon di Petronio: «Dove sulle aeree Alpi sconfitte dal Greco divino le rupi si abbassano e permettono che si possa varcare, v’è un luogo sacro alle are di Ercole» (CXXII, 144-146). La storia mitica dei primi passaggi attraverso le Alpi traeva forza anche dalle interpretazioni che gli scrittori proponevano per i relativi toponimi. Il valico del Monginevro, che nel IV secolo Ammiano descrive con precisione fornendo numerosi dettagli sulla strada che lo percorre, culminava nel punto che era chiamato anticamente Mons Matronae, dove si veneravano le dee di questo nome, di origine celtica; ma Ammiano fornisce una spiegazione diversa: esso «deve il suo nome alla caduta che vi fece una donna nobile», una matrona, appunto, che per noi rimane peraltro assolutamente sconosciuta (XV, 10, 6). Accanto a questa via di comunicazione, anche Ammiano ricorda l’altra, non meno importante, che passava per le Alpi Graie e il Piccolo San Bernardo, ed era stata aperta da Ercole in persona, secondo Ammiano, quando egli aveva compiuto la sua spedizione verso la Gallia e la Spagna allo scopo di debellare i due tiranni locali, rispettivamente Gerione in Spagna e Taurisco in Gallia. In quell’occasione Ercole fondò anche la città di Monaco (ibid., XV, 10, 9).
In età storica, la «feroce Cartagine», nella persona di Annibale, troverà un varco attraverso «le Alpi aperte» per penetrare in Italia e portare a Roma «grande rovina»: è la predizione di Giove nel X libro dell’Eneide (11-13). Dal passaggio dei Punici (in latino Poeni) attraverso le Alpi sarebbero derivati il nome di Pennine, con il quale è tuttora indicata un’altra parte della catena alpina, nonché quello dell’intera catena dell’Appennino. Secondo Plinio Ercole e Annibale sarebbero passati, rispettivamente, attraverso il Piccolo e il Gran San Bernardo, valichi anticamente indicati col nome di porta Graia e porta Pennina e che non recano però traccia, nei toponimi attuali, di questa tradizione mitica (Plinio, Nat. Hist., III, 123). Polibio, che non precisa il punto in cui Annibale compì lo storico attraversamento, non manca però di ricordare che «la cima delle Alpi, e i luoghi vicini ai valichi, sono del tutto spogli e privi di alberi, perché d’estate e d’inverno vi rimane ininterrottamente la neve; invece su entrambi i versanti il terreno, da mezza costa in giù, è ricco di selve e di alberi e nel complesso abitabile» (ibid., III, 55). E Isidoro spinge la propria interpretazione a ricostruire il modo in cui Annibale varcò le Alpi che dal suo popolo presero il nome: «Dopo le battaglie sostenute in Ispania, Annibale si aprì un varco nelle Alpi servendosi di aceto, donde le parole di Giovenale [X, 153]: “Ruppe il monte con aceto”. Per questo i luoghi che quello aperse sono chiamati Alpi Appennine, ossia puniche» (Etimologie, XIV, viii, 13; un accenno in tal senso si legge anche in Ammiano Marcellino, XV, 10, 9-11). Il singolare procedimento adottato dal condottiero punico era spiegato più dettagliatamente da Livio, il quale racconta che Annibale riuscì a frantumare la roccia dando fuoco ai massi e versandovi sopra dell’aceto (XXI, 37). Proprio Livio offre, riportando le esortazioni all’esercito e le considerazioni di Annibale, una sintesi di alcune opinioni ricorrenti su quella catena di montagne che incuteva certamente una profonda soggezione e faceva apparire il suo attraversamento «un’impresa da far rabbrividire, a quel che se ne diceva, chi non ne aveva assolutamente esperienza» (ibid., XXI, 29, 7). In fondo, diceva Annibale ai suoi per incoraggiarli, «che cos’altro sono le Alpi, se non alte montagne? Le immaginassero pure più alte dei Pirenei; ma certamente nessuna terra arriva a toccare il cielo né è insuperabile per il genere umano. E poi le Alpi erano abitate, vi si esercitava l’agricoltura, davano vita e nutrimento a esseri viventi». E alcune delle popolazioni che abitavano l’Italia «vi erano giunte da altrove, avevano attraversato senza pericoli proprio queste Alpi, come emigranti, in schiere spesso enormi, con mogli e figli» (ibid., XXI, 30). Nonostante le parole rassicuranti del loro condottiero, tuttavia, quando vi arrivarono vicino i Cartaginesi furono profondamente turbati dalla vista di quella catena imponente. «Allora, benché i Cartaginesi se ne fossero già formata un’idea in base alla fama, che di solito ingrandisce oltre il vero ciò che non si conosce, tuttavia l’altezza delle montagne viste da vicino e le nevi che quasi si confondevano con il cielo, le rozze abitazioni poste sulle rocce, il bestiame minuto e da soma aggranchito dal freddo, gli uomini rozzi che lunghi avevano i capelli e le barbe, gli esseri animati e inanimati tutti irrigiditi dal gelo e ogni altro fenomeno più orribile a vedersi che a dirsi rinnovarono il terrore» (ibid., XXI, 32, 7). Non meno spaventoso il paesaggio doveva apparire agli animali da soma, se «soprattutto i cavalli creavano pericoli all’esercito, perché non solo si impennavano atterriti dalle grida confuse, amplificate anche dai boschi e dalle valli echeggianti», ma se erano spaventati gettavano a terra il loro carico di uomini e di bagagli; e per lo scompiglio che ne derivava, «essendo le gole da entrambi i lati a picco e scoscese», molti animali e anche alcuni uomini precipitarono nei burroni: «soprattutto, simili a edifici che crollassero, le bestie da soma coi loro carichi rotolavano giù» (ibid., XXI, 33). Per nove giorni Annibale dovette risalire sulle pendici francesi delle Alpi, affrontando gli agguati e gli assalti dei montanari, prima di raggiungere il valico, la cui identificazione è discussa (il Moncenisio e il Monginevro sono solitamente indicati come possibili passaggi dell’esercito punico, ma altre fonti fanno pensare come si è accennato al Grande o al Piccolo San Bernardo). E per incitare i soldati, una volta superata la barriera alpina, a continuare nella marcia verso Roma, Annibale non esiterà a ricordare che indietro non si può tornare, proprio perché bisognerebbe riattraversare quelle giogaie tanto pericolose; cosicché è giocoforza «vincere o morire», secondo un’espressione diventata proverbiale (ibid., XXI, 43, 5: Hic vincendum aut moriendum). Quell’impressionante avventura ispirò anche alcuni versi drammatici di Silio Italico, che rievoca nella sua Guerra Punica la calata di Annibale in Italia: benché arrivare fino ai piedi di quei monti non fosse stata certo una passeggiata, «ogni ricordo delle prove passate svanì quando gli occhi spaventati dei soldati videro le Alpi da vicino: là tutto è coperto da uno strato di ghiaccio […] Fino al cielo la montagna erge una parete ripida e fredda, e nonostante l’ardore di Febo che la colpisce fin dal suo sorgere, essa non può sciogliere ai raggi del sole la sua neve indurita. Di quanto la voragine del Tartaro si apre, dalla superficie della terra, fino al fondo del regno dei Mani […], di altrettanto si leva questa montagna» (III, 477 ss.) fino a un cielo ingombro di nubi che scatenano uragani, grandine, neve: e neppure sommando e ammonticchiando l’una sull’altra tutte le montagne maggiori della Grecia si riuscirebbe a raggiungere un’altezza paragonabile. Nonostante le parole d’incoraggiamento di Annibale, i soldati devono duramente lottare, non senza scoramento, contro l’avversità dell’ambiente, contro il ghiaccio che resiste al ferro, contro i crepacci che si aprono improvvisi e li inghiottono, contro le valanghe che rotolano dalle cime; e quanto più salgono, tanto più resta loro da salire, perché sempre nuove vette sembrano spuntare a sbarrar loro il passaggio. Come se le avversità naturali non bastassero, all’esercito di Annibale si contrappongono anche creature che, pur storicamente reali (gli abitanti delle Alpi, abituati a convivere con quegli ambienti estremi), sono descritte da Silio Italico come esseri mostruosi e fantasmatici, che sbucano all’improvviso dalle grotte e dietro le rupi, con teste orribili, capelli lunghi e unti, passo sicuro sui nevai che conoscono perfettamente. Il paesaggio così si arrossa del molto sangue versato, e un nuovo pericolo si aggiunge ai molti altri, quello di lasciare nella neve un membro sezionato dal ghiaccio o di perderlo, dopo la frattura, a causa dell’irrigidimento dovuto al freddo (ibid., III, 552-553). La vicenda storica si colora così di contorni epici, e non manca neppure la partecipazione trepida degli dèi, con un riflesso delle vicende anche nell’Olimpo, tra l’inquietudine di Venere, che parteggia per i Romani e teme la calata di Annibale, e le rassicurazioni di Giove. Se, poi, la difficoltà dell’ascesa appare quasi insormontabile, una volta raggiunta la vetta è necessario far fronte a nuove insidie ancor più pericolose, perché le discese ripidissime costituiscono, non meno delle rocce che si ergono come barriere, un ostacolo difficile da superare, a maggior ragione per un esercito che a causa del gelo non riesce né a riscaldarsi né a trovare nel sonno un po’ di riposo. La soluzione che alla fine viene adottata, non sappiamo se storicamente fondata o solo frutto della fantasia poetica di Silio Italico e altri autori, e ripresa dalla tradizione dell’apertura di un passaggio col fuoco e con l’aceto, consiste nel recidere un gran numero di tronchi, accendere con essi un gigantesco fuoco e calcinare in tal modo una roccia, che si spacca aprendo un varco «per le truppe sfinite in direzione dei regni dell’antico Latino» (ibid., III, 644). L’impresa del passaggio delle Alpi appariva talmente epica che si poteva dire a buon diritto ai Punici: «le Alpi si sono abbassate davanti a voi» (ibid., IX, 187).
Dodici anni dopo il fratello di Annibale, Asdrubale, trovò nel suo passaggio delle Alpi difficoltà assai minori, grazie alla miglior disposizione d’animo degli abitanti, anche se il clima e le difficoltà del passaggio erano rimasti immutati: i montanari infatti, non abituati a frequentare i loro simili, erano guardinghi e aggressivi verso i forestieri, e avevano creduto che Annibale fosse venuto a far razzie dei loro poveri beni; ma ora «la fama della guerra punica, da cui l’Italia era devastata già da undici anni, li aveva istruiti a sufficienza che le Alpi erano soltanto una via […] Queste ragioni avevano aperto le Alpi ad Asdrubale» (Livio, XXVII, 6-10).
Paesaggi alpini tra mirabilia e prodigi. Le Alpi rappresentano dunque, agli occhi dei poeti di Roma, un luogo remoto, ostile, di difficile accesso. E se, genericamente, alle «alte Alpi» accenna Catullo (XI), talvolta i toni sono più accorati e drammatici: «Tu lontano dalla patria – come vorrei non credere a tanto! – sulle Alpi, ahimé, le nevi e il rigido gelo del Reno senza di me, sola, contempli» scrive Virgilio, ricordando nelle Bucoliche (X, 46-48) le pene d’amore del poeta elegiaco Cornelio Gallo, la cui amata, celata sotto il nome poetico di Licoride, si è allontanata da Roma lasciando nelle ambasce d’amore il suo spasimante. Il paesaggio alpino suscitava un senso di sbigottimento anche in uno scrittore del IV secolo, il già citato Ammiano Marcellino, quando ormai i passaggi al di qua e al di là della catena erano noti e frequentati: «Nelle Alpi Cozie, che hanno inizio dalla fortezza di Segusio [Susa], si eleva un’altissima giogaia che non è possibile attraversare senza pericolo. Infatti, a quanti provengono dalle Gallie presenta un dolce pendio, ma dal lato opposto offre uno spettacolo terribile specie in primavera, a causa delle rocce a picco, quando, allo sciogliersi dei geli e delle nevi per il soffio di venti più tiepidi, gli uomini che scendono con passo incerto, fra gole a precipizio da entrambe le parti e spaccature nascoste per l’accumularsi del ghiaccio, precipitano insieme agli animali da soma e ai carri […] D’inverno, invece, la terra, incrostata di ghiaccio e resa, per così dire, liscia, è sdrucciolevole e costringe a correre a capofitto, e gli ampi crepacci in zone rese pianeggianti dal ghiaccio talvolta inghiottiscono a tradimento i viandanti» (XV, 10).
In questa cornice le Alpi, con i loro ambienti estremi e la loro remota e inaccessibile lontananza, sono il luogo più indicato per ospitare mirabilia di ogni tipo: come «lepri bianche, topi del peso di undici libbre, maiali a zoccoli non fessi, cani coperti di peli e buoi senza corna» (Catone, Origini, II, 43). Alla grande abbondanza di animali inusitati che popola quelle montagne fa riferimento Ovidio nell’Ars amatoria (III, 150), mentre un vago accenno alla diffusione del gozzo tra i montanari alpini si legge in Giovenale: «Chi guarda con stupore, sulle Alpi, un tumido gozzo?» (Satire, XIII, 162). Nelle Metamorfosi di Ovidio le Alpi sono sufficientemente lontane e inaccessibili perché vi si possa manifestare un evento straordinario: esse sono menzionate infatti tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Nulla sappiamo di preciso a proposito di un progetto grandioso quanto improbabile formulato dall’imperatore Caligola, che aveva in mente «di fondare una città tra le vette delle Alpi» (Svetonio, Vite dei Cesari, IV, 21), non si sa esattamente dove: il disegno non andò a compimento e nessuna altra fonte ne parla.
L’ambiente alpino si prestava per il suo isolamento anche al manifestarsi di eventi soprannaturali. Virgilio menziona i prodigi che si susseguirono alla morte di Cesare, tra i quali anche uno che interessa proprio la regione alpina: «insoliti sussulti scossero le Alpi» (Georgiche, I, 475). E a un non meglio precisato episodio di afta epizootica che colpisce il bestiame fa riferimento a proposito delle «Alpi aeree» che appaiono desolatamente deserte a causa del morbo (ibid., III, 474). Già in precedenza, durante le guerre civili che insanguinarono Roma alla fine dell’età repubblicana, tra i molti presagi sinistri che segnarono quei giorni funesti «la terra si abbassò sul suo asse e le Alpi scossero via dai gioghi frementi le nevi eterne» (Lucano, Guerra civile, I, 552-554). Nessun significato particolare venne invece attribuito, al di là dello stupore che la notizia suscitò, alla segnalazione di Ignazio Calvino, prefetto delle Alpi, il quale dichiarò di aver visto nelle montagne l’ibis, uccello tipico di un luogo dal clima ben diverso, l’Egitto (Plinio, Nat. Hist., X, 134).
Il toponimo. A proposito del toponimo «Alpi» (in greco Àlpeis, in latino Alpes), Strabone osserva che «le Alpi si chiamavano anticamente Albia o Alpinonia» (IV, 6, 1). Prima e dopo di lui le spiegazioni furono diverse: Erodoto parlava di un fiume Alpis che scorre nella regione degli Umbri (IV, 49), Festo si riallacciava ad albus, «bianco», termine riferito al colore della neve, Servio pensava a un nome celtico che indicasse genericamente «montagne elevate». Nelle fonti antiche manca invece una riflessione sulla possibile derivazione dal termine prelatino *alpa, *alba, «pietra», «monte», «altura». Per il nome delle Alpi Graie e Pennine v. sopra; v. anche MONVISO. Per il mito del passaggio della nave Argo di Giasone attraverso le Alpi v. ISTRO.
AMANZIA, in gr. Amantìa. Città dell’Epiro ricordata dalla mitologia in relazione con Elefenore, re del popolo degli Abanti. Elefenore si era dapprima stabilito nell’isola di Otrono, presso Corcira, ma, scacciato da quel luogo dalla presenza di terribili serpenti, si spostò sulla costa epirota fondandovi la città di Amanzia (Licofrone, Alessandra, 1043).
AMASENO, in lat. Amasenus. Fiume dell’Italia centrale che scorreva nel territorio dei Volsci. Virgilio nell’Eneide (VII, 685) lo chiama «padre Amaseno», secondo la consuetudine che personificava i fiumi in divinità. Per l’episodio della piccola Camilla scaraventata sull’altra riva del fiume dal padre Metabo v. PRIVERNO.
AMASTRIS Città dell’Asia Minore, oggi Amasra, sulla costa meridionale del Mar Nero, nell’antica Paflagonia. Secondo la tradizione vi regnava Fineo, figlio di Fenice re di Tiro (Pseudo-Scimno, F 29), che fu sovrano dell’intera regione della Paflagonia e che secondo il mito fu padre di Paflagone, eroe eponimo di quelle popolazioni. Altre fonti ritenevano che sovrano della Paflagonia fosse un figlio di Agenore, re di Tiro o di Sidone. «Amastris del Ponto» è menzionata da Catullo (IV, 13). Plinio il Vecchio diceva che anticamente si chiamasse Sesamo e che avesse assunto il nome di Amastris da quello di una principessa persiana storicamente esistita, nipote di Dario III Codomano, alla quale alcuni ne attribuivano la fondazione. Con il nome più antico di Sesamo era ricordata nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, dove sono elencate le località da cui provengono gli eroi greci e troiani che si fronteggiano nella guerra di Troia. Sesamo è città schierata dalla parte dei Troiani. È inoltre menzionata tra le località oltrepassate dagli Argonauti durante la loro navigazione verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 941).
AMARANTI, MONTI, in gr. Amàrantoi. Catena di montagne da collocare forse in Armenia, dalle quali nasce il fiume Fasi. Sono ricordati da Apollonio Rodio nella descrizione della geografia mitica entro la quale si colloca l’avventura degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro (Argonautiche, II, 399).
AMATUNTE, in gr. Amathoùs, -oùntos, oggi Limisso. Città di Cipro sede del culto di Venere, come anche altre località dell’isola (Catullo, XXXVI e LXVIII, 51: «la dea di Amatunte»; Virgilio, Eneide, X, 51). Durante un consiglio degli dèi che si svolge nell’Olimpo a seguito della guerra che contrappone Enea e i suoi, sbarcati sulle coste d’Italia, e le popolazioni locali, nel passo virgiliano Venere implora Giove di concedere la salvezza, se non per Enea suo figlio, per lo meno per il piccolo Ascanio, figlio di Enea: che almeno lui scampi a quel bagno di sangue e gli sia consentito protrarre al sicuro la sua esistenza in una delle località care al culto di Venere, come appunto Amatunte. «Deposte ingloriosamente le armi, trascorra là la sua vita» implora la dea. Ad Amatunte, definita «città ricca di metalli», Ovidio ambienta nelle Metamorfosi (X, 220 ss.) il mito delle Propetidi e dei Cerasti. Le prime, donne dissolute che giunsero al punto di negare che Afrodite fosse una dea, vennero punite dalla divinità che le trasformò dapprima in prostitute (le prime nel mondo a esercitare questo mestiere), e poi in pietre. I secondi, che come suggerisce l’etimologia del loro nome erano deturpati da due corna sulla fronte (in greco keras significa «corno»), si erano macchiati di un gravissimo reato uccidendo sull’altare di Giove Ospitale uno straniero: Afrodite li trasformò in buoi. Ovidio ricorda Amatunte (di nuovo menzionando la sua ricchezza di metalli) a proposito di un altro mito famoso, quello dell’amore di Venere e Adone: la dea dell’amore, invaghitasi del bellissimo giovinetto, non esita a lasciare la città di Amatunte a lei cara pur di raggiungerlo nelle terre dell’Arabia (ibid., X, 531).
AMAZZONIA o PAESE DELLE AMAZZONI «Nel caso di tutti gli altri popoli, il mito e la storia hanno ambiti propri, nettamente distinti: si chiama mito tutto ciò che è antichità, favola o prodigio, mentre la storia si riferisce alla verità, che il fatto sia antico o recente, e non accoglie, salvo rare eccezioni, alcunché di prodigioso. Ma quando si tratta delle Amazzoni, si narrano per il tempo presente gli stessi racconti fantastici e incredibili dei tempi antichi.» Con queste parole Strabone (XI, 5, 3) manifesta il suo scetticismo davanti alle leggende che ancora ai suoi tempi circolavano sulle Amazzoni, a proposito delle quali il confine tra realtà e mito appariva quanto mai evanescente. Se infatti la loro collocazione geografica era saldamente agganciata al mondo reale, le loro consuetudini e la loro storia apparivano decisamente leggendarie.
Una società di donne guerriere. Nella mitologia classica il paese delle Amazzoni, donne ritenute di origine caucasica e secondo alcune fonti native della Colchide, la stessa terra della maga Medea (Eschilo, Prometeo incatenato, 415), si collocava in Asia Minore, sulle rive del fiume Termodonte, dove si diceva che esse avessero fondato la città di Temiscira. Il loro arrivo e la loro occupazione del luogo avvennero a seguito della loro guerra contro i Greci, che le sconfissero e le fecero prigioniere, caricandole su tre navi. Mentre si trovavano in alto mare, tuttavia, esse si ribellarono ai loro vincitori e li trucidarono tutti, trovandosi così libere e sole su navi che peraltro non sapevano governare. Furono le onde a sospingerle nel territorio degli Sciti. Là, come scrive Erodoto, che tramanda questa leggenda, esse cominciarono subito a fare razzie, catturando mandrie di cavalli e suscitando la più totale stupefazione tra gli Sciti, che tuttavia riuscirono a venire a patti con loro e a farne le proprie spose, seguendole in una regione collocata al di là del Tanai (Erodoto, IV, 110-14). In questa versione del mito le Amazzoni avevano dunque al loro fianco compagni di sesso maschile. La tradizione più diffusa narrava però di una società esclusivamente al femminile: nel loro regno esse, sotto il governo di una regina, venivano addestrate fin da piccole all’uso delle armi, alla caccia e alle attività militari e in generale virili. «Sole fra tutte le genti circostanti indossavano armature di ferro, per prime al mondo montarono su cavalli con cui, grazie all’inesperienza del nemico, lo raggiungevano di sorpresa […]. Erano considerate piuttosto uomini per il loro coraggio che donne per il loro sesso» (Lisia, Orazioni, II, 4). Il loro fierissimo temperamento guerriero era efficacemente sintetizzato nell’immagine delle «Amazzoni, vergini carnivore» evocata dal mitico re Pelasgo nelle Supplici (v. 287) di Eschilo. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio la loro indole bellicosa veniva spiegata con la loro discendenza: esse erano figlie di Ares, il dio delle armi, e della ninfa Armonia, «che si unì al dio nel profondo del bosco di Acmone, e gli partorì le fanciulle che amano sopra ogni cosa la guerra» (II, 990-92). Esse non vivevano concentrate in un’unica città, ma disperse per il territorio e divise in tribù: «da una parte quelle che avevano Ippolita come loro regina, da un’altra parte le Licastie, e da un’altra ancora le arciere Cadesie», stando ancora ad Apollonio Rodio (ibid., II, 997-1000). Tra le loro regine si ricordava anche Melanippe, menzionata da Esiodo con l’appellativo di Aretiade, cioè «figlia di Ares» (Catalogo delle donne, III-IV, 71). Alcune delle consuetudini che si attribuivano alle Amazzoni erano ricordate dalle fonti con un misto di ammirazione, stupore e raccapriccio. Durante l’infanzia veniva loro tagliato il seno destro, allo scopo di rendere più agevoli le manovre con l’arco e qualsiasi altra operazione guerresca (Strabone, XI, 5, 1); da qui la tradizione faceva derivare l’etimologia del loro nome, che si riteneva significasse «senza mammella» (cfr. Isidoro, Etimologie, IX, ii, 64). Poiché la società delle Amazzoni non prevedeva la presenza di uomini, esse si recavano periodicamente in un paese vicino, quello dei GARGARENI O GARGAREI (v.), dove restavano solo per il tempo necessario alle loro fuggevoli unioni; i cui frutti, se erano maschi, venivano lasciati ai Gargarei, mentre se erano femmine conducevano la stessa esistenza delle madri nel paese delle Amazzoni (Strabone, loc. cit.). Le loro virtù guerriere – che contrastano con la posizione usuale della donna nella società antica – ne fa le temibili (ma sempre sconfitte) avversarie dei più grandi eroi greci, da Teseo a Eracle (per l’Amazzonomachia di quest’ultimo v. TEMISCIRA), e le vede in prima fila nella guerra di Troia a fianco dei Troiani e contro i Greci; ma soprattutto ne fa le portatrici di costumi in contrasto con quelli greci. Quest’ultimo aspetto rese possibile, già nell’età classica, presentare le varie amazzonomachie come scontro tra due mondi, quello dei Greci e quello dei barbari orientali, lettura spesso enfatizzata a scopi politici e propagandistici (si pensi alle sculture delle metope del lato occidentale del Partenone, sull’Acropoli di Atene, che nella vittoria sulle Amazzoni raffiguravano simbolicamente la vittoria degli Ateniesi sui Persiani). Riferimenti alle Amazzoni guerriere si leggono anche in relazione con fatti storici di epoche più tarde: per esempio durante le campagne di Pompeo in Oriente si raccontava che l’esercito romano avesse combattuto anche contro le Amazzoni, inframmezzate nelle truppe barbare: «quando, dopo la battaglia, i Romani spogliarono i cadaveri dei barbari, trovarono scudi leggeri e coturni delle Amazzoni, ma non fu visto nessun corpo femminile» (Plutarco, Silla, 35, 5).
Le Amazzoni della Libia. Accanto alle più celebri Amazzoni che vivevano in Asia Minore alcune fonti, come Diodoro Siculo, ricordavano poi le Amazzoni che risiedevano in Libia, all’estremità occidentale del paese e delle sue regioni abitabili, nell’isola chiamata Esperia (III, 22); le loro abitudini non differivano da quelle descritte a proposito delle più note Amazzoni asiatiche. Esse avevano conquistato tutte le città dell’isola di Esperia, tranne una, Mena, che era rimasta abitata dagli Etiopi Ittiofagi. La più famosa tra le loro regine era Mirrina, che combatté contro gli Atlanti e contro le Gorgoni, altra misteriosa popolazione femminile africana con cui più tardi sarebbe venuto in contatto anche Perseo, l’uccisore di Medusa. Le imprese di Mirrina e delle sue Amazzoni si estesero, secondo Diodoro, anche alle regioni dell’Asia Minore e alle isole del Mediterraneo orientale, dove tra l’altro l’intrepida guerriera conquistò Lesbo, fondò Mitilene e conquistò Samo, sbarcando poi a Samotracia. E se oggi le Amazzoni non esistono più, ciò si deve al fatto che «parte di esse fu distrutta da Ercole, parte da Achille o Alessandro, sino allo sterminio completo» (Isidoro, Etimologie, IX, ii, 64). Una strage di Amazzoni era stata compiuta anche da Bellerofonte, l’eroe, discendente di Sisifo, noto per aver ucciso la Chimera in sella al cavallo alato Pegaso. A quell’impresa Bellerofonte era stato indotto per volere di Preto, re di Tirinto: un giorno, infatti, Bellerofonte era stato ospite di Preto nella città peloponnesiaca, e la moglie del padrone di casa, Stenebea, si era innamorata di lui. Amore non ricambiato: per vendicarsi la permalosa Stenebea aveva imbastito una calunnia terribile ai danni dell’eroe, accusandolo presso il proprio sposo Preto di averle mancato di rispetto e di aver tentato di abusare di lei. Non potendolo punire apertamente in virtù dei vincoli e dei doveri dell’ospitalità, Preto lo manda allora presso un’altra corte reale, quella di Iobate, con una lettera nella quale invita il collega a uccidere il giovanotto. Iobate, a sua volta, non vuole macchiarsi le mani di un delitto così raccapricciante come l’uccisione di un ospite; ed escogita allora una serie di imprese ai limiti dell’impossibile, che impone a Bellerofonte nella certezza che l’eroe morirà: ipocritamente affida al destino il compito di sbarazzarsi di lui. Tra queste imprese figura anche l’uccisione delle Amazzoni, il cui temperamento bellicoso ne faceva avversarie temibili e virtualmente imbattibili. Ma anche contro le Amazzoni, come era avvenuto con la Chimera, Bellerofonte ha la meglio; e alla fine Iobate, anziché uccidere l’invincibile eroe, gli lascerà il proprio regno (Apollodoro, Biblioteca, II, 3, 2; cfr. anche Plutarco, Virtutes mulierum, 247 F-248 D).
Le Amazzoni e l’amore, tra Alessandro e Achille. Si raccontava che Alessandro Magno avesse voluto incontrare le Amazzoni per avere un figlio dalla loro regina; o anche che fosse stata la fama di Alessandro ad attirare la regina delle Amazzoni, che venne apposta a visitarlo mentre si trovava ai confini dell’Ircania, nella pianura di Temiscira, presso il fiume Termodonte, nei luoghi cioè dove il mito poneva il loro dominio. La regina, che secondo alcune fonti si chiamava Talestri e regnava su tutti i territori compresi tra la catena del Caucaso e il fiume Fasi, arrivò presso l’accampamento di Alessandro accompagnata da trecento Amazzoni; e «non esitò a dichiarare di essere venuta per generare dei figli insieme al re, essendo degna di divenire madre degli eredi del suo impero; se fosse stata una figlia l’avrebbe tenuta con sé, un maschio l’avrebbe consegnato al padre». L’insolita richiesta lasciò un po’ interdetto il Macedone (di solito erano i condottieri a decidere questo genere di cose, indipendentemente dalla volontà della donna di turno, regina o prigioniera che fosse), ed essendo «il desiderio amoroso di lei più forte di quello del re» egli dovette sostare in quel luogo per un certo tempo; «tredici giorni furono dedicati a soddisfare la passione della regina» (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, VI, 5, 24-32; cfr. anche Strabone, XI, 5, 4), benché non tutte le fonti concordino su questo particolare e alcune, anzi, piuttosto scettiche, respingano decisamente tutta la storia come una leggenda da collegare alla tradizione eroica, in particolare a quella, sviluppatasi in epoca postomerica, degli amori di Achille con la regina delle Amazzoni Pentesilea.
Quest’ultima tradizione non era priva di risvolti macabri. Si raccontava infatti che Pentesilea combattesse a fianco dei Troiani contro i Greci, e si fosse innamorata di Achille, il quale, dapprima insensibile al suo fascino, se ne invaghì proprio mentre, in duello con lei, la trafiggeva mortalmente, unendosi con lei quando la povera regina non era ormai più in grado di manifestare la propria volontà (secondo la leggenda era già morta). Altre fonti raccontavano alcuni dettagli che spiegavano come mai Pentesilea si fosse trovata a combattere contro i Greci durante la guerra di Troia: la regina, si diceva, aveva assassinato un parente, e per purificarsi aveva dovuto lasciare la propria patria, venendo così a trovarsi a Troia (Diodoro Siculo, II, 46, 5). Pentesilea fu l’ultima rappresentante della gloriosa stirpe di donne guerriere che avevano così singolarmente contraddistinto il suo popolo: dopo di lei le sue discendenti cominciarono a indebolirsi e a perdere le caratteristiche virili che avevano reso famose le loro antenate.
Il ritrovamento di tombe di donne guerriere nella regione del Mar Nero e del Mar Caspio sembra peraltro portare conforto all’ipotesi che al di là dei racconti leggendari di cui erano protagoniste le Amazzoni del mito adombrassero consuetudini di una popolazione realmente esistita. Diodoro Siculo (II, 45-46) offre una sintesi di ciò che si conosceva ai suoi tempi su di loro, sottolinenando il fatto che esse si ritenevano discendenti di Ares e non rifuggendo da particolari piuttosto sinistri circa alcune delle loro usanze, cui in parte si è già fatto cenno: racconta per esempio che «tra i neonati, i maschi venivano mutilati delle braccia e delle gambe, e quindi resi inadatti alle attività militari, mentre alle ragazze veniva bruciato il seno destro affinché questa sporgenza fisica non le ostacolasse nei combattimenti». Alla figlia della prima regina delle Amazzoni si doveva l’introduzione presso quel popolo del culto di Ares e di Artemide, venerata con l’epiteto di Tauropolos (ibid., II, 46, 1). Una breve sintesi delle caratteristiche e delle usanze del popolo amazzonico si legge anche in Ammiano Marcellino (XXII, 8, 18-19). V. per altri particolari SAUROMATI, PAESE DEI.
AMBRA, ISOLE DELL’ Nella mitologia classica erano genericamente indicate con questo nome delle isole sulle quali sostò Dedalo, il leggendario architetto e scultore greco, durante la sua fuga da Creta. Il costruttore del labirinto era stato costretto a lasciare precipitosamente l’isola dopo che era stata chiarita la sua responsabilità negli amori tra Pasifae e il toro cretese, che avevano generato il Minotauro, e dopo che quest’ultimo era stato ucciso da Teseo, il quale aveva dimostrato che il labirinto non era l’inviolabile prigione che il suo creatore aveva preteso che fosse. Dedalo si allontanò allora da Creta utilizzando le famose ali di piume e cera che risultarono fatali al figlioletto Icaro, partito in volo con lui ma precipitato in mare per essersi troppo avvicinato al sole, che sciolse la cera delle sue ali. Nella sua avventurosa fuga, l’architetto sostò appunto, oltre che in molti altri luoghi del Mediterraneo, anche nelle non meglio identificate isole dell’Ambra, dove eresse due colonne commemorative: una intitolata a se stesso, l’altra a Icaro. Con l’espandersi delle conoscenze geografiche verso le regioni settentrionali d’Europa, svariate isole dell’ambra, più o meno leggendarie e più o meno note, compaiono nelle fonti letterarie antiche, dove assumono svariati nomi (v. BALCIA; BASILEA; BAUNONIA; ELETTRIDE; GLESARIA; v. anche ERIDANO).
AMBRACIA, in gr. Amprakìa e Ambrakìa, oggi Arta. Località della Grecia, colonia corinzia dell’Epiro meridionale, dove secondo la tradizione Enea fece tappa durante le sue peregrinazioni per il Mediterraneo che seguirono la caduta di Troia. Vi regnava Ambrace, figlio di Dessameno e nipote di Eracle. A testimonianza del passaggio di Enea si ricordava la presenza di un tempio da lui stesso fatto erigere in onore della sua madre divina, Afrodite, venerata con l’epiteto di Eneiade, e di un heroon con uno xoanon, ossia un’immagine di culto che raffigurava l’eroe (Dionigi di Alicarnasso, I, 50, 4). Si diceva che la città fosse stata fondata da Gorgo, figlio illegittimo di Cipselo, semimitico tiranno di Corinto (Strabone, VII, 7, 6); una tradizione identificava inoltre il territorio di Ambracia (e in generale l’Epiro) con il regno del mitico Gerione, proprietario delle mandrie che Eracle dovette rubare nel corso di una delle sue fatiche. Il golfo di Ambracia, tra Epiro e Acarnania, viene oltrepassato dagli Argonauti di ritorno dalla loro spedizione nella Colchide alla conquista del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1228). Un mito al quale accenna Ovidio nelle Metamorfosi voleva che tre divinità – Venere, Ercole e Apollo – si contendessero il predominio religioso sulla città. Per dirimere la controversia i tre dèi si rivolsero a Cragaleo, figlio di Driope, che la assegnò a Ercole; allora Apollo, furibondo, tramutò l’incauto arbitro in una roccia (XIII, 713-715). Il mito era ampiamente ricordato nelle Metamorfosi (IV) di Antonino Liberale, che presentava Cragaleo come un vecchio saggio, figlio di Driope, che abitava presso le Termopili o Bagni di Eracle, e sottolineava come nonostante l’ira di Apollo gli abitanti di Ambracia continuassero a venerare Eracle e a celebrare sacrifici in onore dello stesso Cragaleo. In un altro passo di Antonino Liberale (ibid.) si legge la storia di Faleco, crudele tiranno di Ambracia, dal quale i suoi sudditi implorarono Artemide di liberarli. La dea condusse il tiranno a caccia, ed egli catturò senza alcuna difficoltà un cucciolo di leone; ma la leonessa madre del piccolo, con altrettanta facilità, lo sbranò. Da allora gli abitanti di Ambracia moltiplicarono i loro atti di venerazione per la dea, tributandole un culto come Artemide Guida. Al di fuori del mito, la città divenne famosissima in età imperiale romana perché all’imbocco del golfo di Ambracia sorgeva il promontorio di Azio, teatro del celebre scontro di Ottaviano con Antonio e Cleopatra del 31 a.C., in memoria del quale il vincitore, divenuto Augusto, fece restaurare il tempio di Apollo, venerandolo con l’epiteto di Apollo Aziaco.
AMELETE, in greco Amèles, -etos. Uno dei fiumi dell’aldilà. Nella Repubblica, raccontando il mito di Er (per il quale v. ADE), Platone ricorda che le sue acque portano l’oblio; le anime dei defunti, prima di reincarnarsi e tornare sulla terra con nuove sembianze, vi si dissetano per dimenticare ciò che hanno visto nell’oltretomba. Delle sue acque «nessun vaso può essere riempito: ogni anima doveva bere là una certa quantità di quell’acqua e chi dal senno non era trattenuto ne beveva più della dovuta misura. E via via che ognuno beveva, cadeva in un totale oblio» (Repubblica, 621 a). Solo a Er fu impedito di bere quell’acqua, cosicché, mantenendo integra la memoria di ciò che aveva visto nel mondo dei morti, potesse raccontarlo al suo ritorno tra i vivi. Il nome del fiume Amelete, che si può tradurre a un dipresso come «senza preoccupazioni», «senza pensieri», sembra un’invenzione platonica perché non risulta attestato in nessuna descrizione del mondo dell’aldilà anteriore alla Repubblica; e richiama, negandolo, il termine melete («esercizio, pratica della memoria»), che era anche il nome di una delle Muse, quando esse erano soltanto tre (Pausania, IX, 29, 2-3; cfr. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, pp. 67 ss.).
AMENTHES Con questo nome, secondo Plutarco, gli antichi Egizi chiamavano l’Ade, il mondo dei morti. Era un nome parlante: «la regione infera, dove secondo la loro religione le anime ritornano dopo la morte, viene chiamata Amenthes, che vuol dire “colui che prende e che dà”» (Iside e Osiride, 29). Si trovava verosimilmente agli estremi confini occidentali del mondo: la parola egiziana sulla quale è costruita l’etimologia del nome si collega infatti alla radice che indica l’Occidente, e così veniva detta la terra dei morti.
AMERIOLA Città del Latium Vetus i cui rapporti con il mito sono evidenziati dalla tradizione che la voleva fondata dal re etrusco Tarquinio Prisco (Tacito, Annali, IV, 5, 3; Livio, I, 38, 3-5).
AMICLE, in gr. Amklai, in lat. Amyclae, -arum. Città greca della Laconia, non lontana da Sparta, sul fiume Eurota; le sue vicende erano così strettamente legate a quella di Sparta che molto spesso, soprattutto nella poesia, il nome di Amicle viene usato per indicare Sparta stessa (cfr. per esempio Stazio, Achilleide, I, 21). Secondo la mitologia era la patria di Tindaro, di Leda, dei Dioscuri (chiamati talvolta in latino Amyclaei fratres) e di Elena di Troia: Silio Italico, per esempio, la definisce «la città di Leda» (Guerra Punica, II, 434). Vi era nato anche Canopo, timoniere di Menelao che dopo la caduta di Troia condusse la sua nave, con il re ed Elena a bordo, verso l’Egitto (v. CANOPO per i particolari).
Era sede di un radicato culto ad Apollo, venerato con l’epiteto di Iacinzio in onore di Iacinto o Giacinto, un bellissimo giovinetto del quale Apollo si era innamorato e che aveva accidentalmente ucciso in una gara di lancio del disco. In onore di Apollo Iacinzio si celebravano ogni anno ad Amicle, nel mese di ecatombeone (che cadeva tra luglio e agosto), solenni feste religiose chiamate Iacinzie (Ateneo, 139 d-f; cfr. Pausania, III, 10, 1 e IV, 19, 4; cfr. anche Senofonte, Elleniche, IV, 5, 11). Ad Amicle si venerava anche la tomba del bell’eroe, collocata nel celebre monumento noto come trono di Amicle, nella base della colossale statua di Apollo, che aveva la forma di un altare (Pausania, III, 19, 3) decorato con un eccezionale repertorio di scene a sfondo mitologico. L’episodio della morte di Giacinto, nel racconto che Luciano di Samosata mette in bocca allo stesso Apollo, ha come colpevole il vento zefiro: «[Giacinto] imparava a lanciare il disco e io lo lanciavo con lui; Zefiro, il maledetto fra tutti i venti, era innamorato da tempo anche lui, ma, disdegnato, non sopportava il disprezzo. Io lanciai il disco in alto, al mio solito, e quello, soffiando dal Taigeto, lo portò a colpire al capo il fanciullo, così che dalla ferita uscì molto sangue e la morte fu istantanea […] Al fanciullo innalzai il tumulo in Amicle, dove lo colpì il disco, e dal suo sangue feci spuntare […] un fiore delicatissimo, il più bello di tutti, che con le sue lettere piange ancora il morto» (Dialoghi degli dèi, 8 [7], 14 [16], 2). La nascita del fiore di giacinto dal sangue del giovinetto è ricordata anche da Ovidio: «Il sangue, che sparso al suolo aveva rigato il prato, ecco che sangue più non è, e un fiore più splendente della porpora di Tiro spunta, prendendo la forma che hanno i gigli» e assumendo il colore purpureo. Lo stesso Apollo «verga sui petali di propria mano il suo lamento: AI AI, così sul fiore è scritto, lettere che esprimono cordoglio» e che sono le prime del nome greco di Giacinto (Metamorfosi, X, 210-216). Accanto al culto di Apollo ad Amicle era particolarmente radicato anche il culto di Afrodite (Euripide, Le Troiane, 985 ss.; Pausania, III, 18, 8 e 19, 4). Una tradizione asseriva che il nome della città derivasse da quello del padre di Giacinto, che si chiamava appunto Amicla ed era re di Sparta (Apollodoro, Biblioteca, III, 10, 3); si raccontava che il fondatore di Amicle fosse il fratello di Giacinto, Cinorta.
Un’altra Amicle (o Amiclea) era una città latina collocata fra Terracina e Gaeta, della quale era sovrano Camerte, figlio di Volcente. Si riteneva che fosse stata fondata in Campania da popolazioni provenienti dalla Laconia, e più precisamente dai compagni di Castore e Polluce. Così, la tradizione secondo la quale la Amicle greca sarebbe stata distrutta dai nemici Dori perché, dopo alcuni falsi allarmi relativi al loro arrivo, venne ordinato ai cittadini di non parlarne più, venne trasferita da Servio alla città mitica della Campania. Un’altra spiegazione leggendaria racconta che Amicle di Campania sarebbe scomparsa a causa dei serpenti che infestavano le paludi vicine e che gli abitanti, da fedeli seguaci di Pitagora, si rifiutarono di uccidere, rimanendone quindi vittime (della «città di Amicle distrutta dai serpenti» parla Plinio, Nat. Hist, III, 59 e VIII, 104, il quale aggiunge che sullo stesso sito sorge ora Terracina, detta Anxur in lingua volsca). La città è ricordata da Virgilio nelle Georgiche (III, 345) e nell’Eneide (X, 564).
AMIDONE, in gr. Amydòn. Città ricordata nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, dove sono elencate le località da cui provengono gli eroi greci e troiani che si fronteggiano nella guerra di Troia. Amidone è città schierata dalla parte dei Troiani e si trova lungo il corso del fiume Assio, che scorre in Macedonia e «che sulla terra riversa le sue acque bellissime» (II, 850).
AMIRO, in gr. Àmyros. Fiume greco immissario del lago di Bebe in Tessaglia. È citato come punto di riferimento della navigazione degli Argonauti durante il viaggio che, sotto la guida di Giasone, li conduce alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 596).
AMITERNO, in lat. Amiternum. Città dell’Italia centrale, nel territorio dei Sabini, non lontana dall’Aquila e corrispondente al sito dell’attuale San Vittorino. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 710). La storia ricorda invece che nella città, nell’anno della calata di Annibale in Italia durante la prima guerra punica, avvennero fatti prodigiosi: «in molti luoghi erano stati visti da lontano esseri d’aspetto umano vestiti di bianco, i quali non s’erano avvicinati a nessuno» e che furono considerati un segno del cielo (Livio, XXI, 62, 5). Presso Amiterno si trovava Testruna, la prima città nella quale si insediarono i Sabini, i quali, per parte loro, derivavano il nome da Sabo, figlio del dio indigeno Sanco (Catone, Origini, II, 58; Dionigi di Alicarnasso, II, 49; Silio Italico, Guerra Punica, VIII, 422-423).
AMNISO, in gr. Amnisòs. Fiume dell’isola di Creta. Nell’Inno ad Artemide di Callimaco la dea bambina, seduta sulle ginocchia del padre Zeus, gli chiede, cercando di toccargli la barba e facendolo sorridere intenerito, di avere, tra le altre cose – un’eterna verginità, archi e frecce per andare a caccia, il dominio dei boschi e dei monti, ecc. – anche «venti Ninfe del fiume Amniso», che abbiano cura dei suoi calzari e dei suoi cani da caccia (Callimaco, Inni, III, 15-17). Le acque dell’Amniso e le sue Ninfe sono costantemente messe in relazione, nella poesia, con Artemide: come nella suggestiva immagine di Apollonio Rodio nelle Argonautiche, dove si ricorda che la dea, «dopo il bagno nelle acque dell’Amniso, avanza per le montagne, in piedi sul carro dorato, portata dalle veloci cerbiatte, verso una ricca ecatombe lontana; le vengono dietro le Ninfe compagne, quali raccolte alla stessa sorgente dell’Amniso, quali venute dai boschi e dalle vette ricche di fonti» (III, 877-883). Presso l’Amniso, nella regione di Cnosso, alcuni ritenevano che fosse nata Ilitia, figlia di Era e protettrice delle donne partorienti: si diceva che avesse aiutato Latona, a Delo, a mettere al mondo Apollo e Artemide (Pausania, I, 18, 5). Altre fonti, tuttavia, ritenevano che Ilitia venisse dal paese degli Iperborei. Nei pressi del fiume cretese, comunque, si venerava una grotta a lei sacra; e alle acque dell’Amniso la dea Era allude come alle «acque delle nascite» (Nonno di Panopoli, Dionisiache, VIII, 115).
AMORE, PALAZZO DI Meraviglioso palazzo descritto nell’Asino d’oro di Apuleio. L’edificio, opera del dio Amore (in greco Eros), che l’ha edificato per i suoi incontri con la bellissima Psiche, prodigiosamente sparisce nel momento in cui lei non sa resistere alla curiosità e infrange il divieto di osservare il volto dell’amante per carpirne l’identità. Il mito è molto noto e costituisce una delle più delicate favole che il mondo antico ci abbia trasmesso: Psiche era una bellissima giovane, figlia di un re e ultima di tre sorelle. La sua bellezza era tale da suscitare la gelosia della più bella delle dee, Afrodite, la quale, odiandola, ordinò a Eros di suscitare in lei un amore irresistibile per un uomo esecrando. Eros, però, nel vederla se ne invaghì a sua volta. La rapì, la condusse in un palazzo segreto edificato apposta per lei e trascorse con lei ogni notte, lasciandola alle prime luci dell’alba e vietandole tassativamente di indagare sulla sua identità: divieto che la giovinetta fu indotta a infrangere dalle insistenze delle sue gelosissime sorelle, che la convinsero che il suo amante fosse un mostro e che per questo non volesse farsi vedere da lei. Una notte, mentre Eros dormiva, Psiche accostò il debole lume di una lucerna al volto del giovane: una goccia di olio bollente, però, cadde sulla pelle del dio, svegliandolo. Fu la fine degli amori clandestini di Psiche: Eros fuggì, il palazzo scomparve, e l’infelicissima ragazza, dopo aver vanamente tentato di uccidersi, andò vagando per il mondo alla ricerca di notizie dell’amato; fu persino fatta prigioniera da Afrodite, la cui collera verso di lei non si era ancora placata. Solo il conforto di Eros aiutò Psiche a superare la durissima prova, fino a che essa poté felicemente congiungersi al dio per l’eternità. Il palazzo di Eros è descritto al principio del libro V del romanzo di Apuleio: situato nel mezzo di un bosco, era «tale che non la mano di un uomo, ma l’arte di un dio aveva potuto costruirlo a quel modo. Bastava solo che ti fossi spinto sulla soglia per essere certo di trovarti di fronte alla splendida, deliziosa dimora di un dio». La descrizione si sofferma sui soffitti di legno di tuia e di avorio sostenuti da colonne d’oro; sulle pareti d’argento cesellato con figurazioni di animali; sui pavimenti di mosaico finissimo. «Il resto del palazzo, in lungo, in largo, in tutta la sua estensione, era d’un pregio inestimabile: le pareti erano d’oro massiccio e mandavano certi barbagli che, senza bisogno del beneplacito del sole, là era sempre giorno.» Anche le suppellettili sono intonate a tanto splendore, al punto che si è indotti a credere che sia stato Giove in persona ad allestire una simile dimora per ricevervi le creature mortali. «Quanto di prezioso c’è al mondo era là. C’era da allibire davanti a quella profusione di ricchezza; ma la cosa più bizzarra era che tutto quel ben di dio stava là, senza custodi, senza catene, senza catenacci…»
AMORGO, in gr. Amorgòs. Isola greca delle Cicladi famosa nell’antichità per la sua produzione di raffinatissimo lino, che si usava per produrre eleganti e sofisticate sottovesti (Aristofane, Lisistrata, 150). Una delle sue città si chiamava Minoa, nome che la collegava ai miti che avevano al loro centro Minosse (v. MINOA).
AMPSANTO o ANSANTO, in lat. Ampsancti vallis. Valle della Campania, in Irpinia, caratterizzata da una cavità dalla quale si sprigionavano esalazioni mortali; vi sorgeva un tempio dedicato a Mefite, divinità italica che ci è solo vagamente nota e che presiedeva agli odori sgradevoli (Plinio, Nat. Hist., II, 208). Per le sue caratteristiche sinistre la valle era considerata uno degli accessi al mondo dell’oltretomba. Virgilio ne offre un’efficace descrizione nell’Eneide: «Col suo denso fogliame scuro l’opprime sui due fianchi una foresta e in mezzo scosceso risuona contro le rocce col suo serpeggiante vortice un torrente. Lì una caverna orrenda, spiraglio del crudele Dite, si mostra e – squarcio d’Acheronte – un’immensa voragine apre le sue pestifere fauci» (VII, 565-570). Il luogo ospitava anche un lago di modeste proporzioni, che si identifica con il piccolo specchio d’acqua oggi noto con il nome di Le Mofette, Mofeta o Mefite, presso Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, in una regione della cui natura vulcanica le esalazioni di anidride carbonica costituiscono tuttora una testimonianza. Il lago infatti altro non è che il cratere di un vulcano nell’ultima fase della sua estinzione, la cui acqua appare sinistramente melmosa e ribollente proprio per gli effetti del violento sprigionarsi di anidride carbonica, che rende impossibile la sopravvivenza dei piccoli animali e scarsa o nulla la vegetazione sulle rive.
ANAFE, in gr. Anàphe. Piccola isola della Grecia, nell’arcipelago delle Sporadi, non lontana dall’isola di Ippuride, a est di Tera, dove approdano gli Argonauti durante la loro navigazione di ritorno dalla Colchide dopo la conquista del vello d’oro. Gli eroi vi fondano un santuario in onore di Apollo e battezzano l’isola con quel nome, che significa «luogo dell’apparizione», perché «Apollo l’aveva mostrata a loro in mezzo all’angoscia» durante le peripezie del travagliatissimo viaggio: il dio era comparso, splendido e luminoso, sulla sommità delle vicine rupi Melanzie e con il suo arco luccicante aveva indicato loro il percorso. Per questo Apollo viene venerato sull’isola con l’appellativo di Eglete, «luminoso»; gli Argonauti gli offrono i sacrifici «che si possono fare su una costa deserta», libando con la semplice acqua, cosa che fa sorridere le ancelle di Medea, che con la loro padrona hanno seguito gli Argonauti e che sono abituate a veder sacrificare dei buoi. Tra gli Argonauti e le ancelle si svolge uno scambio di battute scherzose, e da allora, «in memoria del gioco degli eroi, ancor oggi le donne dell’isola scherzano allo stesso modo con gli uomini, quando si compiono i sacrifici in onore di Apollo Eglete, il protettore di Anafe» (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1714-1730). L’isoletta delle Sporadi è ricordata anche da Ovidio nelle Metamorfosi come uno dei regni dei quali Minosse si vuole assicurare l’appoggio per scendere in guerra contro Atene, dopo che suo figlio Androgeo proprio ad Atene ha trovato la morte (VII, 461-462). Una tradizione diceva che un altro nome dell’isola fosse Membliaro, derivatole dall’eroe omonimo di stirpe fenicia che accompagnò Cadmo alla ricerca di Europa rapita da Zeus; lasciato da Cadmo sull’isola di Tera, Membliaro diede il proprio nome all’isoletta vicina (v. TERA).
ANAGIRUNTE, in gr. Anagyroùs, -oùntos. Località dell’Attica, situata in una zona paludosa. La mitologia raccontava che il suo nome derivava da quello di un eroe eponimo chiamato Anagiro, alle vicende del quale Aristofane aveva dedicato una commedia perduta a lui intitolata; in realtà il nome era legato a quello della pianta dell’anagiro o anagiride, arbusto dalle riconosciute virtù medicinali, che veniva ritenuto una pianta magica ma che emanava un odore nauseabondo. Per questo si riteneva che coloro che provenivano da Anagirunte fossero accompagnati da un insopportabile fetore (cfr. Aristofane, Lisistrata, 67).
ANAGNI Città dell’Italia centrale, oggi in provincia di Frosinone, antica capitale degli Ernici con il nome di Anagnia (Dante, Purg., XX, 85 la chiamerà «Alagna»), ricordata da Virgilio tra quelle che si apprestano a schierare i propri combattenti contro Enea appena l’eroe sbarca sulle rive dell’Italia dopo le lunghe peregrinazioni che lo hanno visto vagare per il Mediterraneo alla caduta di Troia (Virgilio, Eneide, VII, 684: «la ricca Anagni»). La città era sede di un bosco e un culto dedicati alla dea Diana, all’incrocio tra la via Latina e la via Labicana (Livio, XXVII, 4, 12). Frontone, nel suo epistolario, la ricorda come «antica roccaforte», anche se «minuscola», e come «sede di molte antichità, soprattutto di costruzioni sacre e di venerandi riti religiosi. Non c’è angolo dove non ci sia un sacello, una cappella o un tempio» (IV, 4, 1). Agli Ernici che la abitano, una popolazione pelasgica il cui nome deriva dall’eroe eponimo Ernico, allude Macrobio (Saturnali, V, 18, 15-16).
ANAPO, in gr. Ànapos. Fiume siciliano che scorre nei pressi di Siracusa, non lontano dalla quale ha la sua foce. Alla sua «grande corrente» e alle sue acque come sede delle Ninfe allude Teocrito (Carmi bucolici, I, 68). La mitologia ne fa un dio fluviale, amante della ninfa Ciane, a sua volta eponima di un altro fiume affluente dell’Anapo (Ovidio, Metamorfosi, V, 409 ss.; v. anche SIRACUSA). Oltre «la fonte del tranquillo Anapo» passa la dea Cerere quando, disperata per il rapimento di sua figlia Proserpina, si pone alla sua ricerca percorrendo l’intera Sicilia, dove, nei pressi di Enna, secondo una versione del mito il ratto aveva avuto luogo (Id., Fasti, IV, 469).
ANAURO, in gr. Ànauros. Fiume della Grecia che scorre nella Tessaglia e sfocia nel golfo Pagaseo (oggi golfo di Volo), ai piedi del monte Pelio. Nelle sue vicinanze venne seppellito Cicno, un predone ritenuto figlio di Ares, originario della vicina città tessala di Anfanea, che assaliva tutti coloro che si recavano a Delfi portando ricche offerte; dopo aver depredato le vittime spesso le uccideva, poiché aveva la macabra intenzione di erigere al proprio padre, dio della guerra, un tempio di crani umani. Il brigante venne affrontato e sconfitto da Eracle: questi, «sulla costa del Pelio presso il corso dell’Anauro, il divoratore d’ospiti Cicno uccise con le frecce, l’intrattabile abitante di Anfanea» (Euripide, Eracle, 389-394); il suo sepolcro venne scavato presso il fiume. «Ma l’Anauro gonfio per la pioggia invernale fece sparire la tomba ed il tumulo di Cicno: così infatti gli ordinò Apollo, il figlio di Latona, poiché quegli insidiava e spogliava con la forza chiunque si recasse a Pito portando ricche ecatombi» (Pseudo-Esiodo, Scudo, 477-480). L’Anauro è ricordato tra i luoghi che rifiutarono di offrire ospitalità alla dea Latona, o Leto, quando stava per partorire Apollo e Artemide (Callimaco, Inni, IV, 103). Sulle sue rive, come ricorda Apollonio Rodio nelle Argonautiche (I, 5-11), ebbe luogo un episodio legato al mito di Giasone: l’eroe, «mentre guadava d’inverno l’Anauro, trasse in salvo dal fango un sandalo solo, e l’altro lo lasciò in fondo all’acqua»; con un solo piede calzato si presentò quindi a Iolco presso il re Pelia, il quale aveva saputo da un oracolo che la morte sarebbe venuta per lui da un uomo con un solo sandalo. Alla vista di Giasone, perciò, Pelia comprese che quello era l’uomo della predizione, e nel tentativo di allontanare da sé il proprio destino di morte ordinò al giovane eroe di partire per una spedizione estremamente rischiosa, la ricerca del vello d’oro nella lontana Colchide. Così, sulle rive dell’Anauro, ebbe origine una delle più avventurose vicende del mito classico, la spedizione degli Argonauti. Le rive dello stesso fiume erano state testimoni anche di un altro episodio che ebbe per protagonista lo stesso Giasone: lo racconta, nelle Argonautiche, la dea Era, ricordando i motivi che la legavano all’eroe: «Mi era carissimo Giasone, dal giorno che, presso le acque in piena del fiume Anauro, l’ho incontrato, quando volevo provare la giustizia degli uomini; lui tornava dalla sua caccia: le cime dei monti erano piene di neve, e da esse i torrenti rotolavano giù rimbombando. Io m’ero trasformata in una povera vecchia, e il figlio di Esone», ossia appunto Giasone, «ebbe pietà di me, mi prese sulle sue spalle e mi portò al di là dell’acqua impetuosa» (III, 66-73).
ANCHIALO, in gr. Anchìalos. Città della Cilicia che sorgeva presso la foce del fiume Cidno. Si diceva che, con Tarso, fosse stata fondata dal re degli Assiri Sardanapalo, leggendario sovrano di Ninive, in un solo giorno, e che apparisse grande e monumentale fin dalla sua fondazione. Vicino alle mura della città Sardanapalo aveva il suo sepolcro (secondo alcune ipotesi, in realtà tomba di Sennacherib) sormontato dal monumento funebre e da un’iscrizione in caratteri assiri che diceva: «Sardanapalo, figlio di Anancidarasse, costruì Anchialo e Tarso in un sol giorno. E tu, o straniero, mangia e bevi e sii felice: tutto il resto degli eventi umani non è degno di questo» (Arriano, Anabasi di Alessandro, II, 5, 2-4). Altre fonti, tra le quali Stefano di Bisanzio, attribuivano invece la fondazione della città a un’eroina eponima di nome Anchiale, figlia del titano Giapeto che era stato scaraventato in fondo al Tartaro da Zeus. Il toponimo era collegato al termine , e poteva significare «marittimo», «circondato dal mare» e simili.
ANCONA Il capoluogo delle Marche sorse a opera di coloni siracusani nel IV secolo a.C. sotto Dionigi il Vecchio (più precisamente sembra che si trattasse di Siracusani che lasciarono la loro città per sfuggire alla tirannia di Dionigi), ma la fondazione non appare legata a miti particolari. Alla città come sede del culto di Venere accenna Catullo (XXXVI). Il culto di Diomede vi è invece attestato da Tzetzes (Ad Lycophr., 615 ss.) e dallo Pseudo-Scilace (16): tutta la costa adriatica recava infatti tracce del mito di Diomede, che aveva toccato varie località affacciate su quel mare dopo aver lasciato la sua patria alla fine della guerra di Troia (v. DAUNIA per i particolari).
ANCYRA, ANCIRA v. ANKARA.
ANDANIA Città greca della Messenia nordorientale, tra Megalopoli e Messene, celebre per i culti misterici che vi si celebravano in onore dei Grandi dei, di Apollo Carnio, di Ermes Crioforo e della dea delle sorgenti Hagne. Trattandosi di culti misterici, ossia riservati ai soli iniziati, ben poco trapelava su di essi al di fuori della cerchia degli adepti, e ancor meno è quel che è giunto fino a noi sui riti e le tradizioni locali connessi a tali culti. La città, capitale della Messenia, era stata fondata da Policaone, sposo di Messene (l’eroina eponima della Messenia), che vi istituì i culti di Demetra e Persefone (Pausania, III, 1, 1 e IV, 1, 1).
ANDRO, in gr. Àndros. L’isola più settentrionale dell’arcipelago delle Cicladi. Deve il suo nome al re Andrio, che venne insediato sul trono da Radamanto, fratello di Minosse (Diodoro Siculo, V, 79); Andrio era figlio di Anio, a sua volta figlio di Apollo e personaggio d’alto rango, perché era posto a capo dei sacerdoti del santuario paterno a Delo (Ovidio, Metamorfosi, XIII, 647-650). L’isoletta è ricordata da Ovidio anche come uno dei regni dei quali Minosse si vuole assicurare l’appoggio per scendere in guerra contro Atene dopo che suo figlio Androgeo proprio ad Atene ha trovato la morte (ibid., VII, 469); essa rifiuta però di allearsi con il re cretese. Dopo la conquista di Troia, ad Andro si insediò Fidippo, figlio di Tessalo e nipote di Eracle: già aspirante alla mano di Elena di Troia, Fidippo aveva partecipato alla spedizione troiana a capo di un contingente di navi proveniente da Nisiro, Cos, Carpato e Caso e ricordato nel Catalogo delle navi dell’Iliade, ed era stato tra i combattenti greci penetrati a Troia dentro il cavallo di legno. Fidippo si installò ad Andro con i soldati originari di Cos che aveva ai suoi ordini. Nel tempio di Bacco che sorgeva sull’isola avveniva periodicamente, secondo Plinio, un fatto portentoso: il 5 di gennaio (le none di gennaio, secondo il calendario romano) una sorgente produceva un’acqua dal sapore di vino (Nat. Hist., II, 231). Addirittura, si diceva che durante le feste in onore di Bacco dalla sorgente sgorgasse purissimo vino, che tuttavia tornava purtroppo a essere acqua se trasportato lontano dal tempio (ibid., XXXI, 13).
ANFILOCHIO, in gr. Amphilochoi. Città dell’Iberia. Secondo la tradizione doveva il suo nome ad Anfiloco, eroe greco che prese parte secondo alcune fonti alla guerra di Troia e che si distinse come indovino, trovando la morte, dopo molte peregrinazioni, proprio in quella località (Strabone, III, 4, 3). Anfiloco era un eroe sul quale circolavano diverse leggende. Era figlio di Anfiarao, celebre indovino e guerriero, e come il padre era dotato della capacità di prevedere il futuro; si associò in momenti diversi ad altri due indovini famosi, Calcante e Mopso, e in collaborazione con quest’ultimo si diceva che avesse fondato diverse città, tra le quali Argo Anfilochica e Mallo di Cilicia. Poiché anche un suo nipote aveva lo stesso nome, non è sempre facile distinguere a quale dei due personaggi devono essere ascritte le imprese che vengono loro attribuite, tra le quali la guerra contro Tebe nella spedizione dei cosiddetti Epigoni e l’uccisione della madre. I suoi compagni, dopo la sua morte in Iberia, colonizzarono la regione circostante Anfilochio.
ANFISSA, in gr. Àmphissa. Città greca della Locride Ozolia, ai piedi del monte Eta, che secondo la tradizione più diffusa doveva il nome all’eroe Anfisso, figlio di Apollo e della ninfa Driope. La storia della nascita di Anfisso era piuttosto complessa e costituiva l’oggetto di un racconto di Antonino Liberale (Metamorfosi, XXXII): sua madre Driope era nipote del fiume Spercheo e figlia di Driopo, figlio a sua volta del fiume. La giovane Driope passava il tempo a pascolare le greggi del padre e godeva dell’amicizia e delle simpatie delle Ninfe, che si intrattenevano a giocare con lei. Un giorno, però, di lei si invaghì Apollo, che per attirare la sua attenzione si trasformò in una piccola tartaruga. Deliziata, la giovinetta la raccolse e se la mise in seno, ma a quel punto Apollo si trasformò di nuovo, diventando un temibile serpente. Terrorizzate, le Ninfe, che fino a quel momento avevano tenuto compagnia a Driope, scapparono, e la giovinetta cadde facile preda di Apollo, che si unì a lei. Driope sposò successivamente un giovane di nome Andremone, figlio di Ossilo, e poco tempo dopo diede alla luce il figlio di Apollo, il quale prese il nome di Anfisso; naturalmente il bimbo, in quanto figlio di un dio, sarebbe con il tempo diventato uno splendido giovanetto, fortissimo e valoroso, e avrebbe fondato una città che prese il suo nome, appunto Anfissa (ma Antonino Liberale racconta che la battezzò Eta, ovvero con lo stesso nome della montagna ai cui piedi sorgeva). Secondo la versione fornita da altre fonti, invece, l’eroina eponima della città era Anfissa, nipote di Eolo (Pausania, X, 38, 4). Indipendentemente dall’origine del nome, si tramandava che la fondazione vera e propria della città fosse avvenuta a opera di Andremone, patrigno di Anfisso, che vi edificò un tempio in onore di Apollo e delle ninfe Driadi e vi instaurò un agone di corsa (ancora secondo Antonino Liberale, XXXII). Nei pressi della città, poi, le Ninfe rapirono un giorno Driope e fecero scaturire una sorgente con un pioppo accanto, mentre la donna fu trasformata in una Ninfa. Una metamorfosi toccò anche a due ragazze del posto, che raccontarono di aver assistito alla trasformazione di Driope: furono mutate in abeti. In questi miti gli alberi hanno un ruolo non secondario: è da ricordare che in greco il nome di Driope è da mettere in relazione con quello delle querce.
ANFRISSO, in gr. Àmphrysos. Fiume della Tessaglia che la mitologia ricorda perché lungo le sue rive Apollo «al pascolo portava le cavalle da giogo, arso d’amore per il giovane Admeto» (Callimaco, Inni, II, 48-49). Il mito raccontava che per volere di Zeus il dio Apollo trascorse qualche tempo presso Admeto, re della Tessaglia e sposo di Alcesti, a fare il pastore («indimenticabile pastore dell’Anfrisso» lo chiama Virgilio nelle Georgiche, III, 2; e Lucano ricorda «l’Anfrisso con le sue acque limpide», che «bagna i pascoli di Febo, costretto a fare lo schiavo» di Admeto: Guerra civile, VI, 367-368). Sulle sponde del fiume avvenne anche un altro episodio leggendario, la nascita di Etalide, figlio di Ermes e di Eupolemia, figlia a sua volta dell’eroe Mirmidone. Etalide sarebbe diventato famoso come araldo degli Argonauti, gli eroi greci che si unirono a Giasone nella spedizione alla conquista del vello d’oro sulla nave Argo; dopo la sua morte, grazie all’intervento di Ermes suo padre, ebbe il dono di reincarnarsi nel corpo di Pitagora, il famoso filosofo. La sua storia a fianco degli Argonauti era ricordata da Apollonio Rodio (Argonautiche, I, 644-647 e 51-55). Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Anfriso, o Anfrisso, è ricordato tra i fiumi che si recano a consolare Peneo, il dio fluviale padre di Dafne, per la sorte toccata alla figlia, amata da Apollo ma trasformata in alloro per non cedere al suo amore (I, 580: «il mite Anfriso»; v. PENEO). È inoltre uno dei fiumi lungo le cui rive Medea si spinge, nottetempo, alla ricerca di erbe per le sue pozioni magiche (ibid., VII, 229).
Sempre nelle Metamorfosi (XV, 703) compare inoltre una località chiamata Anfriso («gli scogli di Anfriso»), che però è situata nell’Italia meridionale e non ha nulla a che fare con il fiume tessalo: è menzionata tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio; la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, recuperò il suo aspetto divino e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
ANGURO, in gr. Àngouros. Monte non identificabile con certezza, situato forse in Tracia presso un parimenti ignoto monte Cauliaco, e forse in prossimità del fiume Angro, affluente illirico dell’Istro (citato da Erodoto, IV, 49). Il monte era legato al mito perché oltrepassato in navigazione dagli abitanti della Colchide durante il loro inseguimento degli Argonauti che avevano appena rubato loro il vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 323). La geografia dei viaggi degli Argonauti e dei loro inseguitori è assai complessa e molte delle località citate dalla tradizione sono di difficile identificazione e collocazione.
ANIENE Fiume che nasce nei monti Simbruini, affluente di sinistra del Tevere, chiamato anticamente Anio e talvolta in poesia anche Albula, dal nome di un altro corso d’acqua che in esso confluisce. La mitologia ne fa lo scenario di diversi racconti. La sorgente del fiume è raggiunta dal pastore Aristeo nella sua visita nel mondo subacqueo descritta da Virgilio nelle Georgiche (IV, 369), per la quale v. TEMPE. Altrove (Eneide, VII, 683) ancora Virgilio ne ricorda le gelide acque. Nelle Metamorfosi di Ovidio le Ninfe del fiume si innamorano del bellissimo giovane Pico, che però le ignora, preferendo loro un’unica splendida Ninfa dalla voce soavissima, che per questa sua prerogativa viene chiamata Canente (da cano, «io canto»; XIV, 329; per i particolari del mito di Pico v. LAURENTO). Il dio fluviale Aniene, personificazione divina del corso d’acqua, secondo il racconto di Ovidio negli Amores si innamorò di Ilia, la vestale di origine troiana madre dei gemelli Romolo e Remo, nati dalla violenza del dio Marte. Mentre, disperata per l’ordine dato da suo zio Amulio di uccidere i suoi due figli, la giovane madre vaga per i campi infierendo su se stessa, l’Aniene la vede e se ne innamora; e quando la ragazza, in preda allo scoramento più profondo, si getta nelle sue acque per togliersi la vita, il fiume la accoglie facendone la propria sposa (III, 6, 45-82). Un’altra leggenda raccontava che il fiume doveva il suo nome ad Annio, un re etrusco che aveva una bellissima figlia chiamata Salia. Di lei si innamorò Cateto, che la rapì e la portò con sé a Roma; Annio, disperato, dopo aver vanamente cercato di raggiungere i due giovani, si gettò nel fiume che da allora prese il suo nome (Pseudo-Plutarco, Parall., 40). Secondo la tradizione le acque dell’Aniene, come pure quelle del Tevere, furono attraversate a nuoto dalla Sibilla Tiburtina, che «portò attraverso le correnti, senza farli bagnare, serbandoli nel suo seno», i sacri responsi noti come carmina marciana, l’insieme cioè delle sue profezie (Tibullo, II, 5, 69-70). Nei pressi di Tivoli nell’Aniene confluisce l’Albula, torrente formato da più sorgenti sulfuree, le cui acque godevano fama di curare le ferite (Isidoro, Etimologie, XIII, xiii, 1) e che sono descritte da svariati poeti (per esempio Marziale, Epigrammi, I, 12, 2: «la bianca Albula fuma per le sue acque sulfuree»). All’epoca delle guerre civili che insanguinarono Roma alla fine dell’età repubblicana, tra i molti presagi sinistri che funestarono quei giorni si vide il cadavere di Mario che «sollevava il capo presso le fredde onde dell’Aniene» (Lucano, Guerra civile, I, 582-583): Silla aveva infatti dato ordine di gettare il corpo dell’avversario nel fiume.
ANIGRO, in gr. Ànigros. Fiume dell’Elide, nel Peloponneso. Secondo la tradizione riferita da Ovidio, la sua acqua era un tempo potabile, ma divenne velenosa «da quando i Centauri (se non si deve negare fede ai poeti) in quel fiume lavarono le ferite a loro inferte dall’arco di Ercole, armato di clava» (Metamorfosi, XV, 281-284). La contaminazione provocata dal veleno dell’Idra di Lerna, il mostro nel cui sangue Eracle aveva intinto le sue frecce per renderle mortali, attraverso le ferite prodotte ai Centauri si era così trasmessa alle acque del fiume; secondo altri, invece, l’inquinamento era stato provocato da Melampo figlio di Amitaone e dalle purificazioni compiute nelle sue acque dalle figlie di Preto: Melampo era fratello di Preto, e le figlie di quest’ultimo, cadute in preda alla follia, erano state purificate in quelle acque grazie all’intervento dello zio (Pausania, V, 5, 10). Nelle vicinanze del fiume si apriva una caverna sacra alle Ninfe, dalla quale chi era affetto da malattie della pelle, se compiva a dovere i rituali prescritti, usciva guarito (ibid., V, 5, 11).
ANISI Antica città dell’Egitto di difficile identificazione, forse corrispondente a Herakleopolis Parva, nella regione nordorientale del Delta del Nilo. Ne era originario un faraone dallo stesso nome, cieco, il quale, assalito dagli Etiopi capeggiati dal re Sabaco, fuggì e lasciò il trono al sovrano etiope per una cinquantina d’anni. Per parte sua, egli si rifugiò in mezzo al territorio paludoso del Delta, dove costruì poco per volta un’isola accumulando terra e cenere: gli Egizi infatti andavano regolarmente, di nascosto, a portargli del cibo, e in quell’occasione, su sua richiesta, gli portavano anche della cenere. L’isola rimase nascosta e segreta e per settecento anni nessun faraone riuscì a scoprire dove si trovasse; «si chiamava Elbo e misura in ogni direzione dieci stadi» (Erodoto, II, 140). Ancora oggi l’isola resta non identificata e gli elementi favolistici che ne caratterizzano la descrizione fanno pensare che si tratti di una località di fantasia.
ANKARA, anticamente Ancira: in gr. ànkyra, in lat. Ancyra. La capitale dell’odierna Turchia doveva l’origine del proprio nome a una leggenda che ne spiegava l’etimologia connettendola alla parola «ancora» (Pausania, I, 4, 5): «Ancira, città dei Frigi, fondata in precedenza da Mida figlio di Gordio. Esisteva ancora ai tempi miei nel santuario di Zeus un’ancora trovata da Mida». Nella stessa città esisteva, sempre secondo Pausania, una fonte detta di Mida, alla quale il sovrano stesso aveva mescolato del vino per catturare Sileno: il vecchio satiro, bevendo alla fonte, ne era rimasto ubriacato ed era stato facile per Mida impadronirsi di lui e riconsegnarlo a Dioniso. Il Mida menzionato dalle fonti in relazione con Ancira era fondatore della stirpe regale di Frigia, ed era celeberrimo perché, avendo ottenuto da Dioniso la possibilità di veder esaudito un suo desiderio, aveva chiesto che si trasformasse in oro tutto ciò che toccava: con il risultato che diventarono oro persino acqua e cibo e che il re rischiò di morire di fame e di sete. Egli ottenne infine di liberarsi da quel dono incomodo lavandosi le mani nel fiume Pattolo, che da allora trasporta nelle sue correnti delle pagliuzze d’oro. Nel palazzo di Mida si diceva che si trovassero splendidi giardini con rose straordinarie di sessanta petali, dal profumo incomparabilmente più soave di tutti gli altri fiori (Erodoto, VIII, 138; Senofonte, I, 2, 13; i giardini di Mida erano collocati dalle fonti per lo più in Macedonia).
Ad Ancira risiedeva una delle Sibille, le mitiche profetesse che predicevano il futuro e che, secondo una tradizione, erano in numero di dieci: quella di Ancira era chiamata Sibilla Frigia (Isidoro di Siviglia, Etimologie, VIII, viii, 6). Ai tempi della conquista romana, si diceva che fosse avvenuto nella città un episodio che aveva al centro una donna bellissima e virtuosa, variamente ricordata dalle fonti e indicata con il nome di Chiomara (da Polibio) o semplicemente come moglie del locale principe Orgiagonte (da Livio): essa era stata fatta prigioniera dai Romani, e il centurione preposto alla sua sorveglianza, un uomo «incontinente e rapace come sono i soldati», visto che i sentimenti di lei erano «alieni dal consentire a un adulterio», «fece violenza al suo corpo che la sorte gli aveva dato in potere»; per sovrappiù, quasi ad attenuare il proprio oltraggio, le propose – dietro pagamento – di farla tornare dai suoi. «Non più di due parenti della prigioniera dovevano venire con l’oro la notte seguente a riceverla in consegna.» All’appuntamento, però, la donna ordinò ai congiunti, nella propria lingua, senza che quindi il centurione potesse comprendere, di ucciderlo mentre pesava l’oro del riscatto. Così, recando la testa mozzata dell’ucciso avvolta – particolare sinistramente macabro – nella sua stessa veste, la donna ritornò a casa e si presentò al marito Orgiagonte, e prima di abbracciarlo gettò ai suoi piedi quel sanguinolento reperto. «Mentre il marito non sapeva spiegarsi di chi fosse quella testa, né che cosa significasse quel gesto così poco femminile, gli confessò l’offesa fatta al suo corpo e la vendetta dell’onore violato con la forza; e con la severità e santità di costumi, dimostrata, come si racconta, anche altre volte, conservò sino alla fine la gloria del suo gesto degno di una matrona» (Livio, XXXVIII, 24; cfr. Polibio, XXI, 38, probabile fonte di tutte le versioni successive).
ANOSTUS Nelle Historiae variae Eliano dà questo nome (che significa in greco «senza ritorno») a una regione e a un golfo situati su un’isola senza nome dell’Oceano, poco oltre le Colonne d’Ercole. Il territorio così chiamato, una sorta di voragine piena di vapori e fumi color rosso scuro, è circondato da due fiumi, quello del Piacere a nord e quello del Dolore o dell’Afflizione a sud, sulle cui rive crescono alberi da frutta molto particolari. Chi mangiasse quelli del fiume del Dolore ne avrebbe come conseguenza una vita di lacrime e di stenti. Per chi invece mangia i frutti che spuntano presso il fiume del Piacere è assicurato l’oblio di ogni affanno e la possibilità di ripercorrere a ritroso la propria vita, ringiovanendo progressivamente fino a porre fine all’esistenza nella condizione di un neonato. Una tenue luminosità crepuscolare avvolge costantemente l’isola senza nome.
ANSANTO v. AMPSANTO.
ANTANDRO Città dell’Asia Minore situata a sud di Troia, ai piedi del monte Ida della Troade. Dopo la caduta di Troia a opera dei Greci, in questa località Enea e i suoi compagni allestiscono una flotta e da queste spiagge salpano verso lidi sconosciuti, alla ricerca di una nuova patria (Virgilio, Eneide, III, 6-12; Ovidio, Metamorfosi, XIII, 623 ss.). La zona doveva essere ricca di legname, se poté fornire la materia prima per la costruzione delle navi; e il legno è ricordato anche in relazione a un fatto prodigioso avvenuto in città: «un platano, che addirittura era già stato squadrato tutt’intorno, si riprese da solo tornando a vivere» (Plinio, Nat. Hist., XVI, 133). Il nome della città si prestava a interpretazioni mitiche. «Gli uni ricordano che quando Ascanio, figlio di Enea, regnava in questi luoghi, cadde nelle mani dei Pelasgi e si riscattò in cambio della città; altri pensano che sia stata fondata da coloro che furono scacciati dall’isola di Andro a causa di una violenta rivolta. Questi ultimi intendono quindi Antandro come “al posto di Andro”, i primi invece come “al posto dell’uomo”» (Pomponio Mela, Corografia, I, 18, 92). In entrambi i casi l’etimologia era connessa con l’espressione greca
ANTEA Città della Grecia, in Acaia, nel territorio abitato dai Mirmidoni. Si diceva che fosse stata fondata e denominata in memoria di un eroe di nome Antea, figlio di Eumelo, il quale morì vittima dei draghi del carro di Trittolemo. Si narrava infatti che Trittolemo, eroe eleusino, avesse ricevuto da Demetra un carro trainato da draghi alati, con il quale la dea lo incaricò di percorrere il mondo seminandovi per la prima volta il grano. Antea volle provare a seminare a sua volta e salì sul carro approfittando di un momento in cui Trittolemo dormiva, ma precipitò dall’alto di quel singolare veicolo e morì. Per ricordarlo, suo padre Eumelo e lo stesso Trittolemo fondarono perciò la città di Antea. Nelle sue vicinanze il mito ambienta lo scontro tra Eracle e Cicno, un terribile predone che uccideva tutti coloro che recavano offerte al santuario di Delfi, allo scopo di erigere ad Apollo un tempio di crani umani. Eracle lo sconfisse e le urla del combattimento fecero risuonare tutte le città vicine, tra le quali figura anche Antea (cfr. lo Scudo pseudo-esiodeo, vv. 380 ss., dove la grafia del toponimo, se non si tratta di due località differenti, sembra oscillare fra Ànthe al v. 474 e Àntheia al v. 381). Gli abitanti della città parteciparono alla sepoltura di Cicno.
ANTEDONE, in gr. Anthedòn, -ònos. Aveva questo nome una città della Beozia ricordata nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade tra quelle che partecipano alla spedizione contro Troia (v. BEOZIA). Ovidio menziona una città dallo stesso nome, collocandola però nell’isola di Eubea, dove Medea si sarebbe recata, nella sua lunga spedizione durata nove giorni e nove notti a bordo di un cocchio trascinato da draghi alati, alla ricerca di magiche erbe per le sue pozioni (Metamorfosi, VII, 232). La città deve il suo nome a un eroe eponimo, Antedone, che fu padre di Glauco, un pastore della Beozia il quale, dopo aver mangiato un’erba dalle virtù magiche (ancora erbe, e ancora magia, come nel caso di Medea), ottenne la dote della profezia e dell’immortalità: si trasformò in una divinità marina dalla lunga coda di pesce e gli crebbe una vistosa barba verde. Glauco era padre della Sibilla Cumana (di nome Deifobe) e amò Scilla, bellissima giovinetta che per la gelosia della maga Circe, anch’essa innamorata di lui, fu mutata in un mostro (v. SCILLA E CARIDDI). Il mito di Glauco, variamente ricordato dalle fonti, è sintetizzato da Ausonio nel suo poema Mosella (276-279), dove sono date anche le coordinate geografiche della vicenda: «Glauco di Antedone, dopo aver gustato le piante velenose di Circe, colse le erbe che aveva visto divorare da pesci moribondi e si tuffò, novello abitante, nel mare di Scarpanto». Glauco era molto venerato lungo le coste della Beozia, e alcuni studiosi hanno identificato il punto in cui egli compì il salto negli abissi marini che lo trasformò in creatura acquatica: si tratterebbe di una rupe a circa sei chilometri a est di Antedone, dove il monte Messapio scende a picco sul mare (cfr. le note all’edizione Belles Lettres di Strabone, IX, 2, 14). Di Antedone come patria di Glauco parla anche Licofrone nella sua Alessandra (v. 754), definendola «tracia». Secondo alcune tradizioni, di Antedone era originario Polibo, colui al quale Edipo infante venne affidato quando venne esposto alla nascita, e che ne divenne il padre putativo (a seconda delle fonti, egli viene però detto anche originario di Sicione, o di Platea).