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BABILONIA Antica città della Mesopotamia, a un’ottantina di chilometri a sud di Baghdad, capitale dell’Iraq, nei pressi dell’odierna Hillel. Dal nome sumerico originario, Ka-dingir, tradotto dagli Accadi letteralmente nella propria lingua Bab-ilu, «porta del dio», o Bab-ilani, «porta degli dèi», deriva la trascrizione greca Babylòn, passata poi nelle lingue occidentali. L’origine del toponimo è da mettere in relazione con la grande torre, o ziqqurat, chiamata E-temen-an-ki, «casa del fondamento del cielo e della terra», enorme tempio usato dagli dèi come porta e via di comunicazione per scendere in mezzo agli uomini. Alla base della concezione dell’edificio c’era dunque l’idea della discesa degli dèi sulla terra e non quella della salita degli uomini al cielo, che è invece l’interpretazione offerta dalla Bibbia là dove la grande ziqqurat di Babilonia è identificata con la torre di Babele e l’etimologia del toponimo risulta modificata.
I giardini pensili e Semiramide. Città splendida e ricchissima, Babilonia era celebre soprattutto per i suoi giardini pensili, considerati una delle meraviglie del mondo: di essi si diceva che erano «incantevoli per l’ombra e l’altezza di molti alberi», i quali, grazie alle possenti sostruzioni in grado di sostenere il peso della terra e dell’acqua di irrigazione, erano così robusti e così produttivi da sembrare non inferiori a quelli «nutriti dal loro terreno naturale». Si diceva che una così mirabile realizzazione fosse stata opera di Nino, re di Babilonia, marito di Semiramide, che li fece allestire per amore della sua sposa: essa, «rimpiangendo in quei luoghi di pianura i boschi e le selve, indusse il marito ad imitare, con una costruzione siffatta, la bellezza della natura»: dove l’originalità dell’insieme era data non solo dalle piante e dalla folta vegetazione, ma dal fatto che essa si trovasse a crescere sulla sommità di mura massicce, così che, «a guardar di lontano, sembra una foresta che sovrasti le sue montagne» (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, V, 1, 31-35). Una tradizione attribuiva la fondazione stessa della città a Semiramide, «che aveva un temperamento ambizioso e aspirava a superare in gloria il suo predecessore» (Nino, il fondatore di Ninive). Molte tradizioni erano fiorite sulla storia di Semiramide (per un altro mito che la riguarda v. anche ASCALONA). Si diceva che fosse di origine siriaca e che fosse serva e concubina di uno schiavo nato nel palazzo del re Nino. «Questo principe potente, quando un giorno la scorse, si innamorò di lei; ella acquisì su di lui un tale potere e un tale ascendente che arrivò a chiedergli di lasciarle dirigere gli affari del regno, seduta in trono e cinta dal diadema, per la durata di una giornata. Nino acconsentì: comandò a tutti i sudditi di servirla e di obbedirla come facevano con lui stesso. I primi ordini che essa diede furono improntati alla moderazione, per mettere alla prova la docilità del corpo di guardia; poi, vedendo che esso non opponeva alcuna resistenza, ordinò ai soldati di impadronirsi di Nino, poi di incatenarlo, e infine di ucciderlo; fatto ciò, essa regnò a lungo e splendidamente sull’Asia» (Plutarco, Erotikos, 753 D-E).
Come fondatrice di Babilonia (tale era ritenuta anche da Igino, Favole, 275 e altre fonti: v. MURO DELLA MEDIA), quando ebbe scelto architetti e artigiani della più varia provenienza, «essa raccolse, per l’esecuzione dei lavori, due milioni di uomini venuti da tutto quanto il regno», deviò il corso del fiume Eufrate in modo che passasse all’interno della città e edificò straordinari bastioni di mattoni tenuti insieme dal bitume; sul fiume fece poi erigere un ponte gigantesco che passava per una delle realizzazioni più ardite dell’architettura della città, mentre parallelamente faceva scavare un passaggio sotterraneo capace di unire i palazzi situati sulle due rive del fiume, in modo da potersi spostare dall’uno all’altro senza dover attraversare l’Eufrate (Ctesia di Cnido, F1b, § 7). Le versioni relative alla fondazione della città erano molteplici: una tradizione egizia sosteneva che Babilonia fosse stata fondata da Belo, ritenuto figlio di Poseidone e di Libia ma anche doppio del dio Baal (cfr. Ovidio, Metamorfosi, IV, 213), e altrove si ipotizzava che Semiramide fosse stata soltanto la creatrice della possente muraglia difensiva (Ammiano Marcellino, XXIII, 6, 23). Secondo Isidoro di Siviglia «il gigante Nembrot […] fondò Babilonia, in Mesopotamia, città in seguito ampliata dalla regina Semiramide che la munì di una muraglia di bitume e mattoni cotti. Il nome Babilonia significa “confusione”: in questa città, infatti, si confusero e si mescolarono le lingue dei costruttori della celebre torre» (Etimologie, XV, i, 4); ancora, si diceva che da Babilonia fosse partito Danao per andare a fondare, in Grecia, la città di Argo (Diodoro Siculo, I, 28, 1-2). Il ruolo di Semiramide come fondatrice (o ri-fondatrice) di Babilonia è ricordato da Properzio (III, 11, 21-25): «Semiramide fondò Babilonia, la città dei Persiani, innalzando una possente opera dalle mura di terracotta, così che due carri potevano essere lanciati in senso contrario lungo le mura, senza sfiorarsi i lati toccandosi con l’asse; deviò pure l’Eufrate per il centro, dove aveva costruito la rocca». Altre notizie sulla fondazione della città, sui giardini pensili e sulla storia di Semiramide si leggono in Diodoro, rispettivamente II, 7-9 (fondazione), 10-13 (giardini pensili), 4-5 (storia di Semiramide). Secondo una tradizione Babilonia e Ninive formavano una città doppia sull’Eufrate; curiosamente, le fonti confondono regolarmente l’Eufrate con il Tigri, che è il fiume sulle cui rive sorgeva effettivamente la città.
Dario di Persia e la conquista di Babilonia. Tra i sovrani che regnarono a Babilonia spicca una misteriosa regina Nitocri, non altrimenti nota, che succedette alla più celebre Semiramide e che fu protagonista di un racconto leggendario ricordato da Erodoto (I, 185 ss.). Promotrice di numerosi interventi architettonici e ingegneristici per la difesa e l’abbellimento di Babilonia, Nitocri si fece anche costruire una tomba che dominava in alto sull’architrave la porta principale di accesso alla città, e vi fece incidere un’iscrizione che diceva: «Se uno dei re di Babilonia che verranno dopo di me si troverà ad aver bisogno di denaro, apra la mia tomba e prenda tutte le ricchezze che vuole; ma, a meno che non ne abbia davvero bisogno, non l’apra per nessun altro motivo: non sarebbe bene per lui». Si narra che la tomba rimase chiusa fino a quando Dario, re dei Persiani, non ritenne di approfittare di tali tesori pur non avendone reale necessità. «Aprì allora la tomba, ma di ricchezze non trovò nulla: trovò invece il cadavere e un’iscrizione che diceva: “Se tu non fossi insaziabile di denaro e ignobilmente avido, non apriresti le tombe dei morti”». Babilonia venne conquistata dai Persiani di Dario con uno stratagemma: la città era cinta d’assedio dall’esercito del Gran Re, ma sembrava non facilmente prendibile: addirittura, «i Babilonesi non si preoccupavano affatto dell’assedio. Salendo sui bastioni delle mura, ballavano e sbeffeggiavano Dario e i suoi soldati», giungendo a vaticinare che essi avrebbero conquistato Babilonia solo quando le mule avessero partorito: e che una mula fosse fertile era considerata cosa assolutamente improbabile (ibid., III, 151). Ma un giorno il prodigio si avverò, e un personaggio persiano dai nobili natali, Zopiro, ricordò il vaticinio e decise che valeva la pena di cercare in tutti i modi di conquistare la città e di assumersene il merito. Così escogitò un trucco: d’accordo con Dario, si automutilò tagliandosi il naso e le orecchie, si rasò orribilmente i capelli e si fece frustare, e così ridotto si presentò alle porte di Babilonia, chiedendo di passare dalla parte degli assediati e giustificando il suo tradimento con il trattamento che aveva subito e che, a suo dire, gli era stato inflitto dal sovrano perché aveva osato suggerire di abbandonare l’assedio. I Babilonesi, conoscendo la nobiltà del personaggio, caddero nel tranello, lo fecero diventare loro consigliere e gli affidarono poteri militari; seguirono scrupolosamente i suoi consigli e in tal modo si rovinarono da sé. Zopiro infatti aveva suggerito a Dario di schierare, a distanza di alcuni giorni l’uno dall’altro, tre diversi contingenti di militari persiani, di numero via via crescente, davanti alle porte della città; questi soldati, volutamente poco armati, ebbero l’ordine di lasciarsi battere, e questo alimentò nei Babilonesi la fiducia nella propria forza e nelle capacità di Zopiro, al quale vennero consegnate anche le chiavi delle porte. A quel punto il persiano poté facilmente far entrare il grosso dell’esercito in Babilonia, decretandone la fine (ibid., III, 151-159).
Usanze babilonesi. La «più bella usanza» in vigore a Babilonia, sempre secondo Erodoto (non ci è giunto il parere delle interessate), era quella relativa alle ragazze da marito: una volta all’anno, in ogni villaggio, esse venivano radunate tutte insieme e messe in mostra e poi in vendita da un banditore davanti a un pubblico di uomini in cerca di una sposa. «I Babilonesi ricchi […] compravano le più belle; invece i popolani in età da matrimonio, i quali non sapevano che farsene di un bell’aspetto, si prendevano il denaro e le ragazze più brutte». Queste ultime, comprese quelle afflitte da qualche menomazione, venivano offerte e date in moglie a chi «fosse disposto a sposarle a fronte del compenso più basso […]. Il denaro proveniva dalla vendita delle ragazze di bell’aspetto e così erano le belle che trovavano marito alle brutte e alle storpie» (ibid., I, 196). Un’altra usanza in vigore nella città, «che merita il secondo posto per saggezza» dopo quella relativa al matrimonio testé descritta, riguarda la medicina: gli abitanti di Babilonia «portano i malati sulla piazza, perché non hanno medici. I passanti, accostandosi all’infermo, gli danno consigli sulla sua malattia […] e suggeriscono e raccomandano quelle cure grazie alle quali essi stessi sono guariti da un’affezione dello stesso genere o hanno visto guarirne un altro. Non è consentito passare oltre in silenzio, senza domandare al malato di che male soffra» (ibid., I, 197). L’«usanza più vergognosa» dei Babilonesi consisteva invece nella prostituzione sacra, alla quale ogni donna doveva dedicarsi almeno una volta nella vita nel santuario di Afrodite (ibid., I, 199). La prostituzione sacra di Babilonia era legata al culto della dea locale Mylissa o Mylitta, corrispondente appunto ad Afrodite (ibid., I, 131).
Un ruolo particolare nella società di Babilonia spettava ai Caldei, nome con il quale erano indicati gli scienziati che si occupavano del culto degli dèi e della divinazione (Diodoro Siculo, II, 29).
Babilonia e Alessandro Magno. Nella regione della Babilonia, durante la sua spedizione in Asia, Alessandro Magno rimase colpito in modo particolare, a Adiabene, da una «voragine da cui esce continuamente, come da una sorgente, fuoco», e dalla «corrente di nafta che, non lontano da quella voragine, data la sua abbondanza, si allarga a palude». I Persiani avevano mostrato ad Alessandro il modo in cui i rivoli di nafta sparsi lungo una strada prendessero fuoco creando un sentiero di fiamme. Colpito da quella scena, Alessandro volle sperimentare gli effetti della nafta su un giovane di nome Stefano, che ne venne cosparso prima che gli venisse dato fuoco. Con immenso stupore tutti gli astanti si accorsero che il corpo del giovane non era sufficiente a fermare la fiammata, ma al contrario prendeva fuoco anch’esso; solo a fatica le fiamme vennero domate, e comprensibilmente il ragazzo, benché salvo, «anche in seguito fu in condizioni molto brutte». Il suo sacrificio sembrò confermare l’opinione di alcuni che, «correlando il mito alla realtà, dicono che questo è il farmaco che Medea usò per ungere la corona e il manto di cui si parla nell’omonima tragedia» (Plutarco, Alessandro, 35, 1-10; il riferimento è a Euripide, Medea, 1156-1221). I rapporti tra Alessandro Magno e Babilonia sono particolarmente stretti e, al di là dei fatti storici, numerosi aneddoti che hanno per protagonista il condottiero macedone sono collocati nei dintorni della celebre città mesopotamica.
Una vicenda che viene ricordata da Arriano (Anabasi di Alessandro, VII, 22, 2-5) e con qualche variante da Diodoro Siculo (XVII, 106, 5-7) era considerata particolarmente significativa del destino di Alessandro. Il Macedone stava conducendo una nave della sua flotta attraverso i laghi e le paludi, lasciandosi alle spalle Babilonia, quando un colpo di vento improvviso fece precipitare in acqua il diadema regale, che rimase impigliato a una canna che cresceva su una delle tombe degli antichi re assiri, là collocate. Un marinaio non esitò a gettarsi in acqua per recuperarlo, e dopo averlo districato dalla canna, per evitare che si bagnasse mentre nuotava, se lo pose sul capo. Alessandro fece ricompensare il marinaio con un talento, ma al tempo stesso gli fece mozzare la testa, poiché gli indovini prescrivevano di non lasciar sopravvivere la testa che avesse cinto il diadema regale. Un episodio che, con qualche variante, ripresenta gli stessi temi ebbe luogo in un’altra occasione, mentre Alessandro, per farsi massaggiare, si era spogliato deponendo il diadema e il manto regale su una sedia. All’improvviso, per motivi imprecisati, uno schiavo entrò abusivamente nella stanza dove il sovrano si sottoponeva al trattamento rilassante, e senza dire una parola salì sulla sedia (che era in realtà un trono), prese l’abito regale e la corona, li indossò e si sedette con fare solenne. Alessandro, sorpreso, lo interrogò per chiedergli le ragioni del suo gesto, e l’uomo non fu in grado di spiegarlo. L’episodio turbò profondamente il Macedone, che vi lesse un presagio oscuro sul proprio destino e sul proprio futuro (Diodoro Siculo, XVII, 116, 2-4).
Anche la morte di Alessandro, che avvenne a Babilonia, fu occasione di racconti che sconfinavano nella leggenda se non nell’agiografia: si narrava che i Caldei, sapienti astronomi e astrologi, avessero predetto al condottiero che in quella città lo attendeva la morte, e lo avessero esortato a tenersene lontano (ibid., XVII, 102, 2); si diceva che dopo il suo trapasso, avvenuto per cause forse legate a una malattia (la malaria? ma c’era anche chi pensava a un avvelenamento, giacché il sovrano era stato colto da un improvviso malore dopo aver bevuto copiosamente), il cadavere fosse rimasto nella bara per ben sei giorni, mentre il pensiero di tutti era concentrato sui delicati scenari politici che si aprivano e andavano definiti al più presto; cosicché si temeva che, a causa della calura di quelle regioni, il processo di decomposizione fosse già particolarmente avanzato. Ma «quando finalmente gli amici ebbero il tempo di dedicare le loro cure alla salma, quelli che entrarono videro che nessun principio di decomposizione, neppure il più piccolo lividore l’aveva guastata». Cosicché, si diceva, gli Egiziani e i Caldei che dovevano imbalsamarla esitarono a toccarla, come se il sovrano fosse ancora vivo; e prima di accingersi all’opera pregarono per ottenere che a semplici esseri umani, quali essi erano, fosse consentito toccare un dio, quale evidentemente Alessandro doveva essere considerato (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, X, 10, 9-13; si è perfino ipotizzato che questo racconto adombri un caso di morte apparente). La preparazione della salma fu oggetto della massima cura: un involucro d’oro sbalzato, concepito apposta per contenerla, fu riempito di erbe aromatiche ed essenze profumate, tanto per conservare il corpo, quanto per emanare intorno un buon odore; al di sopra, venne collocato un coperchio d’oro sagomato; e il tutto fu avvolto da un magnifico manto di porpora intessuto di fili d’oro, accanto al quale fu deposta l’armatura del sovrano. Anche il carro destinato a trasportare la bara fu allestito con somma magnificenza: aveva la forma di un tempietto o di un baldacchino, circondato da un peristilio di colonne ioniche d’oro, coperto da una volta a botte, incastonato di pietre preziose, lucente d’oro e di raffinatissimi decori, inghirlandato di fiori e ornato di campane che annunciavano con il loro suono il passaggio del corteo anche da grande distanza. Sculture aggettavano alle estremità della complessa costruzione, quattro dipinti rappresentavano emblematicamente immagini di Alessandro e delle sue gesta, e uno stendardo d’oro e di porpora sventolava sulla sommità. L’allestimento di questo straordinario carro, che avrebbe portato la salma verosimilmente ad Alessandria d’Egitto (ma il luogo della sepoltura del sovrano è discusso: v. anche ALESSANDRIA), richiese quasi due anni di lavoro (Diodoro Siculo, XVIII, 26-28); nulla ci dice che non si tratti di dati storici, ma certo tutto, intorno ad Alessandro vivo e morto, sconfina nella leggenda se non direttamente nel mito.
Altri miti e personaggi leggendari di Babilonia. Tra i miti ambientati a Babilonia Ovidio, nelle Metamorfosi, accenna a quello di Derceto (IV, 45), eroina che «come credono i Palestinesi, mutato aspetto, con gli arti coperti di squame» finì «in uno stagno» (ma v. anche ASCALONA). Un altro mito di metamorfosi ambientato a Babilonia era raccontato da Antonino Liberale (XX) e aveva per protagonista Clinide, un uomo ricco e pio, prediletto da Apollo e Artemide, che egli aveva spesso accompagnato al santuario di Apollo presso gli Iperborei. Vedendo che presso quel mitico popolo Apollo riceveva in sacrificio degli asini, Clinide pensò di fare altrettanto al suo ritorno in patria e organizzò una grande ecatombe di asini; ma il dio gli manifestò tutta la propria collera, dichiarando che solo presso gli Iperborei il sacrificio di questi animali gli era gradito: Clinide avrebbe dovuto tornare a offrirgli i sacrifici consueti. L’uomo aveva quattro figli, che si divisero circa l’opportunità di obbedire al dio: due gli suggerirono di continuare comunque con il sacrificio degli asini, mentre altri due gli consigliarono di attenersi al precetto divino. Clinide, alla fine, si lasciò convincere dai figli che volevano a tutti costi celebrare il rito con quegli animali, ma mal gliene incolse: mentre venivano trascinati al sacrificio, gli asini furono resi furiosi da Apollo e cominciarono a divorare i celebranti ed a addentare vigorosamente lo stesso Clinide e i suoi figli. Finché questi, implorando disperatamente Apollo, vennero trasformati in uccelli.
Nativa di Babilonia era la quinta Sibilla, ossia una delle profetesse (alcune fonti ne ricordano dieci) che, con il nome appunto di Sibille, vaticinavano il futuro: quella nativa di Babilonia era chiamata Erofila o Sibilla Eritrea e aveva profetizzato ai Greci, che si apprestavano ad attaccare Troia, che la città sarebbe caduta e che «Omero avrebbe scritto menzogne; fu detta Eritrea perché i suoi carmi furono trovati nell’isola avente tale nome», nella Ionia (Isidoro, Etimologie, VIII, viii, 4).
Un po’ in disparte rispetto agli altri personaggi della mitologia classica figura anche Gilgamesh, il grandissimo eroe sumerico. Si narrava che fosse nato a Babilonia e che fosse discendente del re locale Sevecoro; a quest’ultimo un oracolo aveva predetto che sarebbe stato spodestato da un figlio di sua figlia, e per scongiurare il pericolo egli aveva chiuso la ragazza in una torre, impedendole i contatti con l’esterno (il mito ricorda quello di Danae e Perseo). Nonostante tali precauzioni, la figlia di Sevecoro mise al mondo un bambino, ma i guardiani della torre, temendo la collera del re, lo gettarono giù dalla finestra. Un’aquila, tuttavia, si precipitò ad acciuffare il neonato poco prima che si sfracellasse al suolo, e lo trasportò in uno splendido giardino, il cui custode lo allevò e lo chiamò Gilgamesh, facendo di lui il futuro re di Babilonia (Eliano, Nat. An., XII, 21).
Secondario, ma curioso, è anche il racconto relativo al personaggio di Parsonda, o Parsonde, ricordato tra le altre fonti da Diodoro Siculo (II, 33). Tutta la vicenda di Parsonde nasce dal suo desiderio di diventare satrapo di Babilonia: egli era un Persiano, gran cacciatore e valoroso guerriero, favorito del re dei Medi Arteo, e desiderava soppiantare in quella carica il locale re Nanaro, debole ed effeminato. Quando Nanaro lo venne a sapere, tuttavia, riuscì a catturarlo dopo averlo fatto ubriacare, lo condusse nel suo harem e lo prese come consorte, facendogli condurre vita da donna per ben sette anni. A quella vita infamante pose fine il re dei Medi, che, scoperto casualmente che il proprio ex favorito era ancora vivo, con le minacce se lo fece restituire da Nanaro. Alla richiesta di Parsonde di avere vendetta per l’esistenza obbrobriosa alla quale era stato costretto, tuttavia, Arteo rifiutò di accondiscendere, e ne nacque un’annosa guerra tra il re e Parsonde, che insanguinò la regione fino ai tempi di Ciro.
Si narrava poi di una seconda Babilonia, sorta in Egitto ai tempi del faraone Sesostri. Il faraone, al termine delle sue vittoriose campagne militare in Asia, aveva voluto far erigere meravigliosi edifici templari in tutte le città dell’Egitto, utilizzando come manodopera non i cittadini del suo paese, bensì i prigionieri di guerra. Tra questi, i prigionieri catturati a Babilonia si ribellarono alla dura imposizione dei lavori forzati, si rivoltarono contro il faraone, occuparono una posizione saldamente difendibile sulla riva del fiume, saccheggiarono le terre vicine e infine, ottenuta un’amnistia, fondarono in quel luogo una città che battezzarono Babilonia in ricordo della loro patria (Diodoro Siculo, I, 56, 3). Un villaggio che portava il nome di Babilonia (nome che resterà a lungo in uso per indicare il Vecchio Cairo) è citato anche da Strabone (XVII, 1, 30): da qui deriva la menzione delle piramidi che si legge in taluni testi di viaggiatori medievali in relazione con Babilonia.
Secondo alcune fonti, di Babilonia era originario Omero (v. CHIO per i particolari).
BADI, in gr. Bads. Leggendaria fontana dell’Elide, alla quale si sarebbe abbeverato Eracle durante la sua lotta contro Augias e i nipoti di lui, i Molionidi. Il nome significherebbe, nel dialetto dell’Elide, «gradevole».
BAGISTAN v. BSUT
N.
BAGNI DI TRAIANO o BAGNI DI FERRATA Località nei pressi di Civitavecchia, a un’ottantina di chilometri da Roma, nota anticamente come Thermae Taurinae. Per spiegare il toponimo si era formata la leggenda secondo la quale le acque termali scaturirono dal suolo quando un toro assetato, per bere, percosse le zolle del terreno con gli zoccoli. Ma non si poteva neppure escludere che non si trattasse di un toro qualsiasi, bensì di una divinità che aveva assunto questa forma (cfr. Rutilio Namaziano, De reditu, I, 255-270).
BAGRADA Nome di un fiume dell’Africa settentrionale, oggi Medjerda, in Tunisia, lungo le cui rive, durante le guerre puniche, avvenne un fatto singolare: un serpente gigantesco, lungo centoventi piedi, fu affrontato dal generale romano Attilio Regolo con le stesse tattiche che si usavano per assalire una fortezza, mediante l’uso di catapulte; le sue spoglie vennero poi conservate come reliquie in un tempio di Roma (Plinio, Nat. Hist., VIII, 37). L’animale impediva ai soldati romani di accedere al corso d’acqua per dissetarsi: ne aveva divorati diversi, altri ne aveva stritolati nelle sue spire e con il suo sangue aveva avvelenato il fiume, impestando la regione e costringendo i soldati a spostare l’accampamento (Valerio Massimo, I, 8, ext. 19). Lo scontro con il mostro era notissimo nella letteratura antica, e viene descritto con toni epici da diversi autori, tra i quali primeggia Silio Italico (Guerra Punica, VI, 140 ss.).
BAIA, in lat. Baiae. Località nei Campi Flegrei, presso Pozzuoli, nel comune di Bacoli, che secondo una tradizione leggendaria doveva il suo nome a un compagno di Ulisse di nome Baio, pilota della flotta dell’eroe greco (Licofrone, Alessandra, 694; Silio Italico, VIII, 539). Nella zona sorgevano molte bellissime ville romane, che però talvolta, per eventi sismici o frane, crollavano parzialmente precipitando in mare: a questo fenomeno allude Virgilio paragonandolo alla caduta dei combattenti durante lo scontro tra Troiani e Latini, avvenuto quando Enea era sbarcato in Italia alla ricerca di una nuova patria: «Tale sulla spiaggia […] di Baia talvolta un pilastro di pietre cade, con grossi macigni prima costruito e gettato nel mare; così esso rovina inclinandosi e giù nei fondali in frantumi ricade, si confondono i mari e nere si sollevano le arene», con un fragore che giunge fino a Ischia e a Procida (Eneide, IX, 710-711). Nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 713) la località è menzionata – senza che se ne faccia il nome, anche se è certa l’identificazione per l’allusione alle sorgenti termali – tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, si mutò nuovamente in dio e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
A Baia come «perpetuo labirinto di Ulisse», ossia come simbolo del peregrinare dell’eroe per i mari, allude Frontone nel suo epistolario (I, 4, 3). Baia è definita «regina delle terme» da Marziale (Epigrammi, VI, 42), che allude alle sue notissime fonti sulfuree di acqua calda. Alle «sacre acque di Baia» fa invece riferimento Tibullo (III, 5, 3); mentre quelle stesse acque, come teatro di un amore travagliato e di dispiaceri di cuore, diventano oggetto del lamento di Properzio che invoca la sua Cinzia: «Tu abbandona la corrotta Baia al più presto: a molti apporteranno la rottura dell’amore codesti lidi, che furono già ostili alle caste fanciulle. Oh, periscano le acque di Baia, vergogna di Amore!» (I, 11, 27-30).
BALCIA Isola di sconfinata grandezza situata in un punto non identificabile dell’Oceano settentrionale e chiamata anche BASILEA o BASILIA (v.). È ricordata da Plinio per la sua immensa estensione, in un contesto che fa pensare alle vaghe nozioni che si avevano (o si credeva di avere) a proposito di un’isola dell’ambra posta alle estreme propaggini settentrionali del mondo (Plinio, Nat. Hist., IV, 95; cfr. anche, per un’altra isola dell’ambra, BAUNONIA e inoltre AMBRA, ISOLE DELL’).
BALEARI, ISOLE, in gr. Baliarèis, -èon o Baliarìdes nèsoi. Arcipelago di isole del Mediterraneo poste di fronte alle coste della Spagna. Sono menzionate in un contesto mitologico da Diodoro Siculo nel V libro della sua Biblioteca storica, dove si ricorda che da quando Eracle mosse guerra al loro re Gerione per impadronirsi delle sue ricchezze gli abitanti avevano bandito dalle proprie terre l’uso del denaro, utilizzando tutto quello di cui disponevano per comprarsi donne e vino. Notizia interessante, anche perché conferma che nelle Baleari una tradizione poneva la terra del mitico personaggio di Gerione, le cui mandrie Eracle dovette rapire nel corso di una delle sue fatiche. I nomi delle isole – Afrosiade e Gimnaside, «l’una maggiore e l’altra minore, donde il fatto che siano comunemente chiamate Maiorca e Minorca» – sono ricordati da Isidoro di Siviglia, che spiega anche il perché del nome «Baleari» che le indica insieme: «In quest’isola fu inventata la fionda per lanciare le pietre, donde il nome di Baleari: in greco, infatti, lanciare si dice ballein» (Etimologie, XIV, vi, 44). Altre fonti mettevano in relazione il nome delle Baleari con un eroe di nome Balio, compagno di viaggio di Eracle durante la spedizione verso Gerione, che restò nelle isole ad aspettarlo (Livio, LX). Anticamente erano chiamate anche isole Gimnesie (cfr. per esempio Strabone, II, 5, 19; Licofrone, Alessandra, 633) e si narrava che un tempo fossero infestate dalle lepri scavatrici, piccoli roditori che, danneggiando le radici degli alberi, infliggevano grandi danni alle colture. Gli abitanti delle Gimnesie escogitarono un singolare modo di cacciarle: «si allevano i furetti provenienti dalla Libia, che vengono immessi nelle gallerie» scavate dalle lepri «dopo aver loro tappato le fauci; questi stanano con le unghie le bestie che riescono a catturare, oppure le spingono a fuggire all’aperto, e i cacciatori, appostati, le intrappolano» (Strabone, III, 2, 6).
Gli abitanti delle Baleari, secondo Silio Italico, erano di origine orientale: il loro antenato era Tlepolemo, figlio di Eracle, noto come fondatore di Lindo sull’isola di Rodi (Guerra Punica, III, 364-365). La colonizzazione mitica dell’arcipelago era messa in relazione con il ritorno in patria degli eroi beoti dopo la guerra di Troia; essi conducevano nelle isole una vita particolarmente dura e selvaggia e le madri li istruivano fin dall’infanzia nel lancio delle pietre, concedendo loro del pane solo come premio per il tiro al bersaglio nel quale dovevano cimentarsi (Licofrone, Alessandra, 639-641). Da qui la leggendaria abilità dei frombolieri delle Baleari ricordati dalle fonti storiche.
Per alcune caratteristiche di queste isole v. anche TANATOS.
BARCE, in gr. Bàrke, in lat. Barce, -es. Città del Nord Africa, situata non lontano da Cirene, nell’odierna Libia. La mitologia la ricorda perché durante un celebre dialogo fra la regina Didone, sovrana di Cartagine, e sua sorella Anna, quest’ultima menziona «l’estesa barbarie di Barce» evocando le difficoltà in mezzo alle quali la regina deve dibattersi per sopravvivere, con la sua città appena fondata, in un paese straniero e ostile (Virgilio, Eneide, IV, 42-43).
BASILEA o BASILIA Nome con il quale, nel V libro della Biblioteca storica di Diodoro Siculo, è chiamata l’isola dell’ambra, situata in un punto non meglio precisato a nord della Gallia e in faccia alla Scizia. L’ambra sarebbe prodotta dalle lacrime delle sorelle di Fetonte, mutate in pioppi e disperatamente piangenti per la morte del fratello, precipitato per non essere stato capace di guidare il carro del Sole suo padre, che aveva voluto condurre. È forse un altro nome per l’isola di BALCIA (v.).
BASILICATA v. LUCANIA.
BASILIDE, in gr. Basilìs. Città dell’Arcadia che secondo il mito era stata eretta da Cipselo, re arcade figlio di Epito (questo Cipselo è una figura diversa dal più noto omonimo tiranno di Corinto). Lo stesso Cipselo vi aveva costruito un tempio dedicato a Demetra Eleusina e vi faceva celebrare solennemente grandi feste annuali, in occasione delle quali si disputava anche un concorso di bellezza fra le donne. La prima a vincere la competizione, guarda caso, fu la moglie di Cipselo, che si chiamava Erodice (Pausania, IV, 3, 6 e 8; VII, 5, 6 e 13; VIII, 29, 5; Ateneo, XIII, 609 e).
BASSANO, LAGO DI Oggi disseccato, era un tempo un lago, noto anticamente col nome di Vadimone (in latino Vadimonis lacus), presso Cotilia (a sua volta presso Rieti), fra le attuali località di Bomarzo e di Orte. Vi si trovava «un bosco oscuro che mai, giorno e notte che sia, si vede allo stesso posto» (Plinio, Nat. Hist., II, 209). Questo singolare fenomeno era lo stesso che veniva ricordato a proposito di un episodio legato alla storia dei Pelasgi, popolo sul quale esistevano molte leggende. Si diceva che essi, scacciati dalle loro terre, si fossero accinti a cercare altre sedi dove stabilirsi, e per essere indirizzati nel loro cammino si fossero rivolti al celeberrimo oracolo di Zeus a Dodona; questo li invitò ad andare «alla ricerca della terra Saturnia dei Siculi e degli Aborigeni, Cotilia, dove galleggia un’isola». Come sempre, l’oracolo non era stato molto chiaro nel suo responso, e questa ambiguità comportò per i Pelasgi lunghe peregrinazioni; ma quando essi sbarcarono nel Lazio, e si imbatterono nel lago che si estendeva nei pressi di Cotilia, vi trovarono un’isola, «un’immensa zolla formata da fanghiglia rappresa o da terreno paludoso che si era prosciugato, fitta di boscaglia e di alberi cresciuti in disordine, ed errava tra i flutti che la sballottavano perennemente». Alla vista di quel prodigio i Pelasgi capirono che la terra indicata loro dall’oracolo doveva essere quella, vi si stabilirono e dedicarono un altare a Saturno, istituendo in suo onore una festa che chiamarono Saturnale e che era ritenuta all’origine dei Saturnali celebrati nella Roma di età storica (Macrobio, Saturnali, I, 7, 28-31).
Con qualche variante le vicende relative al lago e alla sua isola galleggiante si leggono anche in Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale Cotilia era uno dei centri abitati dagli Aborigeni, le popolazioni locali che risiedevano nella regione prima dell’arrivo dei Greci capeggiati da Enotrio che si installarono poi nell’area; il lago aveva in sé qualcosa di divino, era profondissimo ed era stato scrupolosamente circondato da una palizzata in modo che nessuno potesse avvicinarvisi; solo in occasione della celebrazione di particolari cerimonie religiose era consentito arrivare fino all’isola fluttuante sulla sua superficie, che il vento faceva dolcemente ondeggiare da una riva all’altra, cosicché non si trovava mai ferma nello stesso punto (I, 15).
BATARNI, PAESE DEI Regione non precisamente identificabile, collocata verosimilmente a sud della Vistola, dalla quale proveniva una popolazione che la mitologia presenta schierata a fianco del re Eeta della Colchide contro Giasone e gli Argonauti, quando questi si spingono in quelle contrade alla ricerca del vello d’oro; il loro comandante si chiama Teutagono (Valerio Flacco, Argonautiche, VI, 96).
BATIEA, in gr. Batìeia. Nell’Iliade ha questo nome una collina posta nelle vicinanze di Troia, «isolata nella pianura, accessibile da ogni lato», che per gli dèi non ha nome ma corrisponde alla tomba della «veloce Mirina» (II, 811-815; cfr. Platone, Cratilo, 392 b e Strabone, XII, 573), l’Amazzone che prima della guerra di Troia aveva combattuto contro il re troiano Priamo. Nei pressi della collina Batiea è schierato l’esercito troiano. Secondo alcune fonti l’eroina eponima, Batiea, era figlia del re troiano Teucro e della ninfa Idea e aveva sposato Dardano (Apollodoro, Biblioteca, III, 139). Licofrone identificava invece Batiea e Mirina.
BATO, in gr. Bàthos. Località dell’Arcadia, presso le rive dell’Alfeo, dove secondo una tradizione, nei pressi di una sorgente chiamata Olimpia, sarebbe avvenuta la lotta tra dèi e Giganti (Pausania, VIII, 29, 1).
BATTRIANA, in gr. Baktrianè. Regione dell’impero persiano, situata in Asia nella valle dell’Oxus, nel territorio dell’attuale Afghanistan (provincia di Balkh). Secondo Isidoro di Siviglia (Etimologie, IX, ii, 43) «i Battriani furono in origine Sciti; esiliati in seguito a discordie intestine, si stabilirono in Oriente presso il fiume Battro, dal cui nome derivarono il proprio. Re di questo popolo fu Zoroastro, inventore dell’arte magica». La capitale della regione, Battra, è menzionata da Ovidio nelle Metamorfosi come patria di Alcioneo, un eroe che partecipa alla rissa scatenatasi alle nozze di Perseo e Andromeda (V, 135; per i particolari su questo mito v. ETIOPIA). Ai «monti inaccessibili della Battriana» allude Nonno di Panopoli nelle sue Dionisiache (XXV, 374). La città era stata teatro delle prime gesta di Semiramide, la mitica regina di Babilonia: durante l’assedio di Battra a opera del re Nino di Babilonia, Semiramide, che era allora sposa di Onne, consigliere del re, fu chiamata all’accampamento per tenere compagnia al marito e durante il suo soggiorno diede all’esercito assalitore tanti e tali buoni consigli da suscitare in Nino il desiderio di averla come propria sposa (per un’altra versione della storia di Semiramide v. BABILONIA). Nell’antichità erano rinomati i cammelli provenienti da questa regione. Secondo un aneddoto riferito da Luciano di Samosata, il signore d’Egitto Tolemeo figlio di Lago portò un giorno nel suo paese un cammello battriano e lo mostrò agli Egiziani radunati nel teatro, ma questi ne rimasero spaventati e lo ritennero una belva feroce (Dialoghi, 2 [71], 4).
BATULO, in lat. Batulum. Città d’incerta collocazione dell’Italia centrale, sulla quale regna Ebalo, figlio di Telone, re dei Teleboi e sovrano di Capri. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 739).
BAUNONIA Isola situata al largo della Scizia, nell’Oceano settentrionale, di difficile identificazione, ricordata da Timeo e da Plinio. Distante dalla costa una giornata di navigazione, ha una curiosa caratteristica: «sulle sue spiagge, a primavera, le onde getterebbero ambra» (Plinio, Nat. Hist., IV, 94). Per un’altra isola dalle caratteristiche in parte simili v. BALCIA; v. anche AMBRA, ISOLE DELL’.
BEATI, ISOLE DEI o ISOLE FORTUNATE, in gr. Makàron nèsos o nèsoi. Nella geografia mitica dell’aldilà sono così chiamate le isole collocate in un imprecisato punto dell’Occidente destinate ad accogliere dopo la morte le anime dei beati. «Le Isole Fortunate, rese celebri nei carmi di Omero» (Sallustio, Storie, I, 191), sono in realtà citate per la prima volta con questo nome non in Omero bensì in Esiodo, nelle Opere e i giorni, nella descrizione delle diverse razze che popolarono la terra, quando viene presentata la quarta razza, degli eroi. Di questi, dice Esiodo, alcuni morirono in guerra, a Tebe o a Troia; altri invece, per volere di Zeus, risiedono ai confini della terra e «abitano, con l’animo sgombro di affanni, nelle Isole dei Beati presso l’Oceano dai vortici profondi»; a loro, «gli eroi venerandi, tre volte nell’anno la terra ferace di doni porta abbondante e piacevole frutto» (Opere e giorni, 170-73). Omero, nel libro IV dell’Odissea, aveva attribuito caratteristiche molto simili alla pianura dell’Elisio, «ai confini del mondo, là dove dimora il fulvo Radamanto e confortevole è l’esistenza per gli uomini: non c’è nevicata né gelo invernale né pioggia, ma senza posa l’Oceano invia, a rinfrescare gli umani, brezze di Zefiro che spira sonoro» (IV, 563-68). Dopo Omero la pianura dell’Elisio, o i Campi Elisi, sembrerebbero a lungo dimenticati nella poesia (la prima menzione, dopo quella omerica, si ha solo con Apollonio Rodio nel III secolo a.C.); le Isole dei Beati invece, indicate con questo nome, sono citate con maggior frequenza, e sempre situate geograficamente in modo alquanto vago.
La collocazione geografica. L’enigma della loro posizione in un generico remoto Occidente è collegato alle spedizioni per mare al di là delle Colonne d’Ercole, dove gli antichi avrebbero potuto imbattersi in varie isole (come le Canarie o Madera) caratterizzate da un clima ben diverso da quello mediterraneo, quasi invariato per tutto il corso dell’anno, simile all’«eterna primavera» delle Isole dei Beati del mito. La scoperta di un luogo sostanzialmente privo di alternanza di stagioni, lontano quindi dalla ciclicità del tempo naturale – che con la sua sequenza di inverni e primavere evoca il concetto della morte e della successiva rinascita –, poté forse tradursi poeticamente nel topos del luogo senza tempo, dove quindi anche la morte è ignota.
Pindaro, nell’Olimpica II, colloca le Isole là dove soffiano le brezze dell’Oceano e dove «fiori d’oro risplendono sulla terra da alberi splendidi […]. Di essi si intrecciano corone o ghirlande secondo i retti decreti di Radamanto». Gli uomini buoni «sempre avendo il sole che risplende ugualmente sia di notte che di giorno conducono una vita senza affanno: non debbono rivoltare la terra con la forza delle loro mani né i flutti del mare per guadagnarsi misero sostentamento» (vv. 61-76): componenti della beatitudine sono dunque la divina facilità con la quale la terra produce i suoi frutti e soprattutto il «sole che risplende ugualmente» giorno e notte, a sottolineare la distanza dal tempo degli uomini, ma insieme anche la condizione privilegiata dei beati rispetto ai defunti in generale (qui non cala mai la notte, mentre al contrario la concezione omerica del mondo dei morti escludeva la presenza del sole). Nella descrizione di Pindaro, l’accenno a una misteriosa «torre di Crono» che si troverebbe nei pressi delle Isole potrebbe far pensare al Pico de Teide, la cima vulcanica di Tenerife, nelle Canarie. E a Madera o a una delle Canarie sembrerebbe ricondurre anche una enigmatica isola citata da Diodoro Siculo nella Biblioteca storica (V, 19-20), della quale egli non dice il nome, ma che presenta le stesse caratteristiche climatiche e di vegetazione, oltre che la medesima collocazione geografica nel vasto Oceano, al di là delle Colonne d’Ercole. E se molto spesso alle Isole dei Beati gli scrittori fanno cenno senza precisarne l’ubicazione, ma semplicemente indicandole come luogo di eterno godimento (come nel caso di Platone, che nel Simposio, 179 e, scrive che gli dèi «onorarono Achille e lo inviarono nelle Isole dei Beati»), qualche volta il nome viene citato, ma il luogo non corrisponde: come nel caso di Erodoto, il quale aveva ricordato che una zona desertica e sabbiosa dell’Egitto, a sette giorni di cammino da Tebe, veniva chiamata in greco «Isole dei Beati» (III, 26, 1), anche se il nesso con il luogo mitico era in questo caso molto labile.
Descrizioni delle Isole reali e immaginarie. L’identificazione delle Isole dei Beati con un luogo reale, qualunque esso sia, non impedisce a Orazio, negli Epodi, di riprendere l’antica immagine dei campi e delle isole fortunate, «dove ogni anno il suolo, senza essere arato, produce la messe, e la vite, anche non potata, fiorisce di continuo; dove germoglia il ramo dell’olivo, che non inganna mai il coltivatore, e il fico adorna bruno la propria pianta; il miele stilla dai cavi lecci e la polla leggera scatta strepitando dalle creste dei monti. Là vengono spontaneamente a farsi mungere le caprette […]. Questi lidi riservò Giove alle genti pie» (XVI, 41-63). Più sensibile agli aspetti morali e intellettuali è la descrizione che delle Isole dà Cicerone: «Gli antichi filosofi rappresentano la vita futura dei sapienti nelle Isole dei Beati: li immaginano liberi da ogni preoccupazione, senza nessuna delle esigenze necessarie al tenore di vita o al suo apparato, destinati a fare nient’altro che passare tutto il tempo a indagare e imparare in merito alla conoscenza della natura» (De finibus, V, 19, 53). Qualche volta, peraltro, del regno dei Beati si avverte la necessità di definire le coordinate alla luce della tradizione mitica più pura: per esempio, ne è detto sovrano Radamanto, al cui fianco, secondo una tradizione, si trova Alcmena, la madre di Eracle, che Zeus gli assegnò come sposa dopo la sua morte (Antonino Liberale, Metamorfosi, XXXIII).
Chiamate ormai sempre più spesso Isole Fortunate, le isole ricompaiono nella Corografia di Pomponio Mela in una descrizione che si allontana dalla tradizione solo per una singolare notazione a proposito di due fontane che si troverebbero su una di esse: «chi beve da una delle due si scioglie in riso fino a morirne; coloro che sono colpiti da questo male possono però salvarsi bevendo dall’altra» (III, 10, 102; v. anche RISO, FONTE DEL). Le isole sono però ormai quelle di un arcipelago reale, riconoscibile anche dalla precisa collocazione geografica suggerita da Pomponio Mela. Molto precisa è anche la descrizione di Plinio nella Naturalis Historia (VI, 202), che le situa al largo della costa africana della Mauretania, ne ricorda il numero e i nomi, citando anche la sua fonte, Giuba II di Mauretania (si chiamano Pluvialia, Invalli, Planasia, Ombrio, Giunonia, Capraria, Ninguaria, Canaria) e ne descrive minuziosamente le caratteristiche. Spunti leggendari, che saranno ripresi anche successivamente nella letteratura, si possono tuttavia ancora cogliere, per esempio, nella descrizione di Ombrio (qui le canne che crescono intorno a un lago d’alta quota, dalle quali si trae un’acqua potabile se le canne sono chiare, amara se scure, possono rappresentare il pendant scientifico delle due fonti citate da Pomponio Mela). Probabilmente diverse dalle Isole dei Beati o Fortunate sono altre isole menzionate da Plinio come Isole degli Dei, «che alcuni hanno battezzato Isole Beate», e che sono sei (ibid., IV, 119).
Riletture ironiche del mito. Nuovamente come luogo mitico sono presentate le Isole dei Beati da Giuseppe Flavio nella Guerra giudaica (II, 8, 11), a proposito delle credenze degli Esseni: «Essi ritengono che alle anime buone sia riservato di vivere al di là dell’Oceano in un luogo che non è molestato né dalla pioggia né dalla neve né dalla calura, ma ricreato da un soave Zefiro che spira sempre dall’Oceano […]. Con la stessa visione i Greci ai loro uomini valorosi che chiamano eroi e semidei hanno riservato le Isole dei Beati»: se si eccettua il riferimento agli Esseni, la descrizione è quella tradizionale del luogo mitico. A sua volta Plutarco, nella Vita di Sertorio (8), si ricollega alla tradizione descrivendo due isole che suscitano in Sertorio il desiderio di andare a viverci: il clima mite e la generosità della natura confermano l’ipotesi, «anche presso i barbari, che quella sia la sede dei beati e che quelli siano i Campi Elisi celebrati da Omero». Le isole, nel racconto plutarcheo, sono diventate due, cosa che complica un poco il problema dell’identificazione (forse le Azzorre, o Madeira e Porto Santo?) nonostante la precisa collocazione a diecimila stadi dalla costa africana.
L’Isola dei Beati (questa volta al singolare) ritorna nella sua dimensione mitica, ammantata però del velo dell’ironia, nella Storia vera (27 [14], 5-6) di Luciano di Samosata. Il protagonista del racconto e i suoi compagni, dopo molte peripezie in altri luoghi favolosi, vi approdano attratti irresistibilmente dalla soavità e dai profumi della brezza che vi spira. Il paesaggio appare subito idealizzato: «Osservavamo numerosi porti, ampi e riparati, che la circondavano tutta, limpidi fiumi che sfociavano quietamente nel mare, e ancora prati e boschi e uccelli canori»; a far da sfondo, una musica soave, simile a quella che allieta i banchetti. Costretti a sottoporsi al giudizio del re locale, Radamanto (che per l’appunto nel mito è giudice del mondo dei morti), i naviganti si vedono accusare di eccesso di curiosità per aver raggiunto ancora vivi il paese destinato ad accogliere gli eroi defunti, ma il verdetto è benevolo: solo dopo la morte infatti saranno sottoposti a giudizio, mentre nel frattempo avranno il permesso di trattenersi per sette mesi fra gli eroi. Scortati in città, ammirano gli edifici d’oro e di pietre preziose, la pavimentazione d’avorio, i bagni di vetro, il fiume di profumo che scorre intorno alle mura di smeraldo. Gli abitanti, quasi trasparenti e impalpabili – «pur essendo incorporei, tuttavia esistono» – portano abiti di sottilissima tela di ragno. Nessuno conosce la vecchiezza, né si alternano le stagioni, ma si protraggono l’eterna primavera e una sola ora del giorno, «come il crepuscolo sul far dell’alba, quando il sole non s’è ancora alzato» (una negazione del tempo che, se corrisponde al cliché tradizionale del mondo dei morti, contrasta tuttavia con la scadenza rigorosamente definita del soggiorno del protagonista in quel luogo di delizie, sette mesi e non un momento di più); la natura rigogliosa produce da sola i suoi frutti, dalle spighe spunta il pane già impastato e cotto, dalle fonti zampillano latte, vino, miele ed essenze profumate; in un bellissimo prato, chiamato Elisio, si banchetta e si beve. Persino i recipienti per le libagioni sono prodotti dalla natura, spuntando dalle fronde di alberi di vetro che circondano la pianura; uccelli canori sorvolano i banchettanti e li ricoprono di una pioggia di petali di fiori; le nuvole irrorano i giacigli fioriti con un delizioso profumo e si alternano cori di giovinetti e fanciulle. Non mancano neppure due sorgenti, una del riso, l’altra del piacere, alle quali tutti i banchettanti attingono al principio della festa. I convitati al simposio sono tutti i grandi eroi del mito, ma anche filosofi e personaggi storici del tempo e dell’età classica: tra questi spicca Socrate, che sembra incapace di godersi il banchetto, ma trova modo di discutere e confutare tutto e tutti e mette in crisi il povero Radamanto. A Socrate è addirittura dedicato un grande e bellissimo parco, chiamato Necraccademia, in onore della sua partecipazione al combattimento tra le armate dei Beati e quelle provenienti dalla vicina isola degli Empi. Il nome significa «accademia dei morti» e l’intero passo contiene un’allusione ironica e scherzosa al passato del filosofo, che, in vita, aveva realmente partecipato a una battaglia, quella svoltasi nel 424 a.C. al santuario di Apollo Delio presso Tanagra, in Beozia, dove si era distinto per il suo valore, anche se l’esercito ateniese aveva subito una grave sconfitta da parte di quello beotico. Se Socrate ha ampio spazio, non c’è invece Platone, perché si trova nella Repubblica ideale da lui progettata; non ci sono neppure gli Accademici, perché stanno discutendo se un’isola del genere possa esistere oppure no. C’è invece Omero, che non si sottrae a un interrogatorio su taluni aspetti della sua vita che già ai tempi di Luciano erano oggetto di discussione. Non mancano neppure i giochi, chiamati Tanatusie, propriamente «giochi dei morti»; né una battaglia contro gli empi, che espiano le loro colpe incatenati nella vicina Isola degli Empi e che, spezzate le loro catene, muovono guerra ai Beati. Su quel combattimento, di cui sono naturalmente vincitori i Beati, Omero compone un poema che si apre con i versi «Dimmi ora, o Musa, degli eroi defunti la pugna» e che per il resto è perduto, per responsabilità dello stesso narratore, al quale Omero aveva affidato i libri che lo contenevano, andati smarriti nel corso di quel viaggio incredibile. Molti degli episodi mitici più famosi hanno nel mondo dei Beati una replica: il ratto di Elena qui avviene a opera del bel giovinetto Cinira, ma dura assai meno dei dieci anni della guerra di Troia; l’amore di Ulisse e Calipso è velatamente accennato quando Ulisse consegna in segreto al narratore una lettera d’amore da consegnare alla Ninfa. Prima partire definitivamente Luciano stesso innalza una stele accanto al porto, incidendovi un epigramma di due versi composto da Omero: «Caro ai beati, tutte queste cose Luciano vide e ritornò ai suoi lidi».
Tra sopravvivenze del mito e geografia reale. Contrariamente a Luciano, che conferisce alle Isole dei Beati la dimensione favolistica e leggendaria che era loro propria fin dalle origini, Solino, tra la fine del II e l’inizio del III secolo, nei suoi Collectanea rerum memorabilium (LVI, 13-19) le presenta inequivocabilmente come luoghi della geografia reale, identificandole senza esitazioni con le Canarie e attenuandone i caratteri più idealizzati: «Non c’è da meravigliarsi che ci si aspettino grandi cose dal loro nome, ma la loro realtà concreta è senz’altro inferiore alla fama». Addirittura, Solino rischia di cadere nell’eccesso opposto, mettendo in luce gli aspetti meno piacevoli di quei luoghi. Se gli scrittori prima di lui avevano insistito sul soave Zefiro che spira dall’Oceano, per esempio, egli precisa: «Dicono anche che vengano espulse sulle loro spiagge delle bestie dalle onde del mare; e quindi quando quei mostri sono corrotti dalla putrefazione i luoghi sono colà contaminati da un orribile fetore e per questo dicono che la qualità delle isole non coincida proprio completamente con la loro denominazione».
Al tramonto dell’età antica, Isidoro di Siviglia offre una sintesi delle opinioni che ai suoi tempi circolavano sulle Isole Fortunate: «Il nome indica che queste terre producono ogni bene, quasi a dire felici e beate per la ricchezza di frutti: la loro natura, infatti, fa sì che generino alberi da frutto riuniti in boschi preziosi, che i gioghi dei colli si vestano spontaneamente di viti e che, invece dell’erba, nascano dappertutto messi ed ortaggi. Da qui l’errore dei gentili e i carmi dei poeti pagani, secondo i quali queste isole, per la fecondità del suolo, erano il Paradiso. Le Fortunate si trovano nell’Oceano, a sinistra della Mauritania, vicine all’Occidente, separate l’una dall’altra da bracci di mare» (Etimologie, XIV, vi, 8).
V. anche ADE e CAMPI ELISI.
BEBEIDE, in gr. Boibiàs lìmne. Palude «dalle belle onde» (Euripide, Alcesti, 589-590) che si trovava a Fere, in Tessaglia, presso la reggia di Admeto, protagonista della tragica storia d’amore con Alcesti, che per lui, suo sposo, non esitò a sacrificare la propria vita, offrendosi di morire in sostituzione del re. La defunta Alcesti sarà ricondotta tra i vivi per intervento di Eracle. Nelle acque del lago si bagna la dea Artemide, quando vaga in quelle contrade alla ricerca del fratello Apollo, che è stato condannato a fare da pastore alle greggi di Admeto: alla ricerca di un po’ di frescura, la dea si immerge benché l’acqua sia tutt’altro che limpida e le rovini i capelli (Valerio Flacco, Argonautiche, I, 439). Sulle rive del lago, secondo il suggestivo racconto di Ovidio, Medea si spinge, nottetempo, alla ricerca di erbe per le sue pozioni magiche (Metamorfosi, VII, 228); e presso le sue «sacre acque» Brimo (da identificare con Ecate, dea infernale) «si dice soggiacesse col suo fianco virgineo a Mercurio» (Properzio, II, 2, 11-12). Nelle acque della palude Bebeide andava a lavarsi i piedi la ninfa Coronide, secondo i versi di Esiodo (fr. 59, 4 Merkelbach-West; cfr. Strabone, IX, 5, 22); per la storia dei suoi amori con Ischi e della gelosia di Apollo v. DIDIMI, COLLI.
BEBRICI, REGNO DEI Regione (in gr. Bebrykìa) collocata dalla mitologia in Bitinia, sulla costa dell’odierna Turchia affacciata sul Mar Nero. Vi abitava un gigante, «Amico, il feroce signore dei Bebrici, al quale diede la vita Melia, una Ninfa bitinia, unitasi al dio Poseidone» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 1 ss.). Nella sua arrogante crudeltà Amico aveva imposto ai suoi ospiti e visitatori una legge implacabile: dovevano tutti sfidarlo nel pugilato, in duelli che lo vedevano sempre vincitore («e così uccise molti vicini»). «Questa terra, o viaggiatori, non vi è ospitale […]. Su queste rive abitano la morte e dei terribili combattimenti. Presto Amico, il cui capo vertiginoso tocca le nubi, verrà a ordinarvi di maneggiare i terribili guanti» è il non accogliente benvenuto riservato agli Argonauti che vi sono appena sbarcati in una tappa del loro viaggio verso la Colchide alla conquista del vello d’oro (Valerio Flacco, Argonautiche, IV, 145-149). Ancora più raccapricciante è lo scenario che si presenta agli occhi di Giasone e dei suoi quando, lungo il litorale, vedono «una grotta immensa coperta di alberi, e un’alta cresta rocciosa, dimora sinistra e fremente sotto l’impeto del mare»; ai piedi della roccia si scorgono «diversi oggetti terrificanti: là delle braccia mozzate che sono state strappate agli uomini precipitati, che riposano senza vita ancora dotati del loro guanto [da pugilato]; là dei resti decomposti e putrefatti; disposte in una lugubre sfilata, in mezzo ai pini, delle teste che i colpi dell’avversario avevano reso irriconoscibili, impedendo di porvi un nome; e in mezzo le armi di Amico, che la paura rendeva sacre, appoggiate sugli altari del suo potente padre [Poseidone]» (ibid., IV, 177-186). Quando Giasone e i suoi vennero sfidati dal sanguinario Amico, lo affrontò Polluce, uno dei due gemelli divini figli di Zeus, i Dioscuri: dopo un lungo combattimento, ebbe la meglio su di lui, «lo colpì forte sopra l’orecchio e gli spezzò l’osso dentro. Cadde per il dolore in ginocchio […] mentre in un attimo solo la vita lasciava quel corpo» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 96-98; cfr. Igino, Favole, 17). Trionfante, in piedi sul corpo esanime del mostruoso gigante, Polluce apostrofa il morto: «Tu porterai il mio nome tra le ombre, ed esse ne saranno sorprese. A questo titolo anche la tua tomba, che ricorderà tutto questo, ti farà conoscere» (Valerio Flacco, Argonautiche, IV, 313-314). La tomba di Amico era «coperta da un alloro che chiamano pazzo, perché se un ramoscello staccato da questa pianta viene portato a bordo di una nave scoppiano risse nell’equipaggio fino a che non lo si butta via» (Plinio, Nat. Hist., XVI, 239).
La regione dei Bebrici era particolarmente fertile, «propizia all’allevamento di rudi tori» (Valerio Flacco, Argonautiche, V, 100) e molto ricca di ferro: per questo, dopo la morte del loro sovrano, i Bebrici furono oggetto di assalti ripetuti da parte di un popolo vicino, quello dei Mariandini, attirati dalla ricchezza del loro sottosuolo (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 140-141). Del territorio dei Bebrici fanno parte il corso del fiume Reba, lo scoglio di Colone e il Capo Nero, tutti scenario del passaggio degli Argonauti diretti alla favolosa Colchide alla ricerca del vello d’oro. Le stesse località erano state teatro della spedizione di Eracle in Oriente, alla conquista del cinto d’Ippolita, impresa che costituì una delle sue dodici fatiche canoniche; di passaggio in queste regioni, Eracle le aveva assoggettate e le aveva messe a disposizione del re Dascilo, padre dell’eroe Lico, insieme con altre regioni circostanti, sottraendole al crudele dominio dei Bebrici (ibid., II, 777-791). Lico avrebbe poi dato all’intera regione il nome di Eraclea (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 9), in onore dell’eroe.
BEE Nome antico della città di NEAPOLIS (v.) in Laconia.
BEFIRO, in gr. Bephras. Nome di un fiume della Macedonia. Alla morte di Achille le Ninfe che si aggirano nelle sue «acque deliziose» piangono sulle spoglie dell’eroe, racchiuse entro un’urna d’oro fabbricata da Dioniso con il prezioso metallo ricavato dal fiume Pattolo, che la tradizione considerava aurifero (Licofrone, Alessandra, 272-274).
BEIRUT La mitologia raccontava che la capitale del Libano era così chiamata dal nome di una Ninfa di nome Beroe, legata al culto delle acque; il toponimo era messo in relazione con il termine fenicio beroth, «i pozzi», che sottolineava la ricchezza d’acqua della zona. Altra figura divina collegata alla città era Amimone, una delle figlie di Danao, che venne rapita da Poseidone mentre si recava a cercare acqua nella campagna circostante la città: il suo mito era rappresentato sul frontone del locale tempio di Poseidone e riprodotto sulle monete del posto. Il nome ellenistico (seleucide) della città fu Laodicea di Fenicia fino a quando Augusto la trasformò in colonia, recuperando l’antico nome indigeno, nella forma latina Berytus.
I miti relativi all’origine della città sono raccontati da Nonno di Panopoli nel canto XLI delle Dionisiache, dove essa ha nome Beroe e si racconta che, oltre a essere il primo luogo della terra a venire seminato, fu costruita da Crono. Prima di qualunque altra località, fu proprio Beroe ad accogliere Afrodite, appena nata dalla spuma del mare a Cipro: «Quando dicono che la dea, uscendo dal mare, pose piede sulla loro isola, i Ciprioti mentono!», esclama Nonno con veemenza (XLI, 117-118). Ad accogliere per prima la dea fu proprio Beroe. Nelle vicinanze del suo porto, poi, Afrodite generò Eros, il dio dell’amore. Questa tradizione fa sì che la città possa essere definita «radice della vita», «nutrice delle città, gloria dei re», «antica come l’universo», «soggiorno della Gioia», «casa degli Amori, delizioso regno di Bacco», e ancora «offerta delle Nereidi, dimora di Zeus, palazzo di Ares, luogo di danza delle Grazie, stella della terra libanese, antica come l’Oceano», quel dio Oceano che generò Beroe (qui identificata con Amimone) unendosi a Teti.
Un’altra leggenda diceva che Beroe fosse nata dagli amori di Afrodite e di Adone e che fosse stata la stessa Afrodite a desiderare di fondare una città che prendesse il nome della sua splendida figlia, così come città famose quali Micene e Tebe avevano preso il loro nome da eroine chiamate allo stesso modo (ibid., XLI, 155 ss.). Recatasi a visitare la dea Armonia, Afrodite apprende da lei, che possiede le tavole degli oracoli più antichi del mondo, che la città di «Beroe è la prima apparsa, contemporanea dell’universo che ha la sua stessa età, e ha il nome della ninfa nata più tardi» (ibid., XLI, 361-367).
Nel XLII canto delle Dionisiache si narra dell’amore che incendia il cuore di due divinità, Poseidone e Dioniso, per la bellissima Beroe: la contesa, sullo sfondo della città, verrà risolta con una competizione fra i due, un duello del quale gli altri dèi saranno spettatori. Se Poseidone otterrà la meglio, la città verrà trascinata sui fondali marini, se invece avrà la vittoria Dioniso, egli allontanerà Beroe dalla riva, colmerà di terra gli abissi del mare e vi farà crescere la vite. Non è escluso che con queste immagini di sconvolgimenti tellurici Nonno volesse alludere a eventi sismici che realmente si verificarono in Libano; in ogni caso, il mito si conclude con la vittoria di Poseidone, che convola a nozze con l’eroina (canto XLIII).
BELLICOSA Una delle due principali città del continente di MEROPIDE (v.). V. anche MACHIMUS ED EUSEBES.
BENACO, in lat. Benacus. Nome antico del Lago di Garda. «Tu, che ti sollevi con ondate e fragore di mare, Benaco» lo apostrofa Virgilio nelle Georgiche (II, 160). Nella mitologia il Benaco è «padre», secondo Virgilio, del fiume Mincio (Eneide, X, 206).
BENEVENTO Antichissima città della Campania, secondo una tradizione leggendaria fondata da Diomede, l’eroe greco che, dopo la guerra di Troia, si era spinto in Italia e aveva dato origine a numerose città. Secondo una tradizione attestata da Procopio a Benevento erano conservate le zanne del cinghiale calidonio, che dopo diverse vicissitudini (per le quali v. TEGEA) vi facevano bella mostra come «spettacolo degno di essere visto» (Bell. Got., I, 15, 8). È nota la tradizione secondo la quale la città si chiamava in origine Maluentum o Maleventum, forse interpretabile come «città di montagna», da una base mal-, «monte»; poiché però in latino il nome evocava sinistri presagi, i Romani ne mutarono il nome in Beneventum nel 275 a.C., quando vi sconfissero Pirro (cfr. Dizionario di Toponomastica, p. 72).
BENGASI Città della Libia. V. BERENICE.
BEOZIA, in gr. Boiotìa. Una delle principali regioni della Grecia, patria di famosi eroi e teatro di numerosissimi racconti della mitologia. Il celebre Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.) comincia proprio dalla descrizione degli eserciti e dei condottieri provenienti dalla Beozia, forse perché la spedizione greca contro Troia salpò da Aulide, porto beotico; e tale Catalogo è chiamato anche Boioteia. Sono citate nell’ordine le località beotiche di Iria, Aulide, Scheno, Scolo, Eteone, Tespi, Graia, Micalesso, Arma, Ilesio, Eritre, Eleone, Ile, Peteone, Ocalea, Medeone, Cope, Eutresi, Tisbe (chiamata «città delle mille colombe», ibid., II, 502), Coronea, Aliarto, Platea, Glisante, Ipotebe, Onchesto, Arne, Midea, Nisa, Antedone, Orcomeno, Aspledone, che impegnarono nell’impresa uomini e mezzi. Molte vicende celebri del mito erano ambientate nella più importante città della Beozia, TEBE (v.).
Le origini e l’arrivo di Cadmo. Come per tutte le regioni della Grecia, anche per la Beozia le notizie relative alla storia più antica sono leggendarie: parlano della presenza del popolo degli Ecteni, dei quali fu re Ogige (Pausania, IX, 5, 1), che perirono a seguito di una pestilenza e furono seguiti dagli Ianti e dagli Aoni. Da questi primi popoli e dai loro re derivarono i nomi più antichi con cui la regione era indicata: dapprincipio, ai tempi del mitico Cecrope, sovrano di Atene, la Beozia era infatti chiamata Ogigia (Strabone, IX, 2, 18), nome che rimase, specie in poesia, anche per indicare Tebe; successivamente si diffuse il nome di Aonia, spesso usato dai poeti (per esempio Callimaco, Inni, IV, 75; Ovidio, Metamorfosi, I, 313; Gellio, XIV, 6, 4). La pianura di Aonia doveva il suo nome all’eroe Aone, figlio di Poseidone; in essa si trovava l’Elicona, il monte sacro alle Muse, con la sorgente Aganippe (cfr. Virgilio, Bucoliche, X, 12, che parla dell’«aonia Aganippe»; v. anche Ovidio, Metamorfosi, V, 312, e Giovenale, Satire, VII, 6-7) e la fonte IPPOCRENE (v.).
Il popolamento successivo della regione e l’origine del suo nome storico erano messi in relazione con il mito di Cadmo, principe fenicio, figlio di Agenore e fratello di Europa, giunto nella zona dopo l’infruttuosa ricerca della sorella, rapita da Zeus. Europa, infatti, era stata oggetto dell’amore del re degli dèi, che per apparirle senza spaventarla aveva assunto la forma di un toro; conquistata la sua fiducia, se l’era presa in groppa e con lei era fuggito sulle onde del mare, raggiungendo ben presto, dalla Fenicia (Tiro o SIDONE, v.), l’isola di Creta. Il padre Agenore, allora, aveva incaricato Cadmo di andare a cercarla, ma Cadmo aveva fallito nell’impresa e non osava tornare in patria temendo la collera paterna. Fermatosi a Delfi per chiedere aiuto all’oracolo, aveva avuto un responso, per una volta, abbastanza esplicito: doveva seguire una giovenca che gli sarebbe apparsa in una terra deserta, e fermarsi dove essa si sarebbe fermata: lì doveva fondare la sua patria e chiamarla Beozia dal nome greco dei bovini (v. DELFI; il mito era raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi, II, 837-875 e III, 1-27, e sintetizzato da Igino, Favole, 178 e da Isidoro di Siviglia, Etimologie, XIV, iv, 11).
Secondo la tradizione, in Beozia per la prima volta i Greci avevano imparato l’uso dell’alfabeto: ve lo avevano introdotto quegli stessi Fenici giunti nella regione sotto la guida di Cadmo. A conferma di tale tradizione, si indicavano dei tripodi conservati nel santuario di Apollo Ismenio a Tebe, dove nelle iscrizioni che li ornavano si riconoscevano dei caratteri definiti appunto cadmei, cioè riferibili all’antica forma di alfabeto fenicio importato da Cadmo che i Greci avevano adattato alla propria lingua (Erodoto, V, 59). Il ricordo dell’importante ruolo di Cadmo nelle vicende della regione era conservato nel nome antico di Tebe, chiamata in origine Cadmea, e in quello dell’intera Beozia, nota anticamente come Cadmeide (Tucidide, I, 12, 3); e il mito ricordava diversi episodi che avevano per protagonisti discendenti di Cadmo e che si svolgevano in Beozia (v. per esempio GARGAFIA per il mito di Atteone).
Altri nomi della Beozia. Gli storici dicevano che il popolamento della Beozia, e il suo cambiamento di nome, sarebbero avvenuti sessanta anni dopo la presa di Troia, quando i Beoti vennero cacciati dalla città di Arne, occupata dai Tessali, e si insediarono nella regione che da loro prese il nome (ibid., I, 12, 3). La Beozia era infatti anticamente chiamata anche Arne, dal nome di una Ninfa che, unitasi al dio Poseidone, aveva generato l’eroe eponimo Beoto. Secondo altre fonti Beoto era invece figlio di Itono e Melanippe (Pausania, IX, 1, 1); quest’ultima, se dobbiamo dar retta a Euripide (nella tragedia perduta Melanippe prigioniera), figlia a sua volta di Eolo senior, ebbe dal dio Poseidone due figli, Beoto ed Eolo junior. Il padre di Melanippe (Eolo senior) scacciò di casa i due bambini, che furono però accolti e allevati da alcuni pastori; successivamente i bambini vennero adottati da Teano, sposa del re Metaponto di Icaria. La loro sorte sembrava avviata a più lieti orizzonti, ma Teano ebbe successivamente due figli suoi, e abbandonò allora Beoto ed Eolo. Questi, dopo varie vicissitudini, riuscirono a scoprire la propria vera identità e le proprie origini, uccisero Eolo loro nonno e liberarono la madre Melanippe, che era rimasta prigioniera per tutto quel tempo. La conclusione della complicata vicenda vide l’uccisione di Teano e le nozze tra Melanippe e il re Metaponto di Icaria.
Altri luoghi ed eroi della Beozia. Al territorio della Beozia era collegata la figura di Radamanto, fratello di Minosse e di Sarpedonte, figlio di Zeus e re di Creta. Egli, dopo aver ucciso un fratello, fu costretto a lasciare la sua isola e si trasferì in Beozia, a Ecalea, dove sarebbe andato sposo ad Alcmena (Apollodoro, Biblioteca, II, 70). Dopo la morte sarebbe diventato giudice delle anime dei defunti nell’Elisio. La sua tomba si venerava ad Aliarto. Un’altra sepoltura celebre ricordata in Beozia era quella di Ettore: le sue spoglie erano state trasferite da Ofrino a Tebe in seguito al responso di un oracolo, per arrestare una pestilenza (Pausania, IX, 41, 6; Licofrone, Alessandra, 1189-1193).
Tra gli abitanti leggendari della regione si annoverava Foco, padre di una fanciulla, Calliroe, talmente bella e virtuosa che ben trenta giovanotti appartenenti alle più nobili e altolocate famiglia della Beozia se ne contendevano la mano. Il padre, però, tendeva a posticipare continuamente la scelta dello sposo, per timore che la presenza di un genero potesse avere ripercussioni negative sulla sua stessa vita. Quando, all’ennesima richiesta da parte dei pretendenti, Foco propose di affidare la scelta dello sposo all’oracolo di Delfi, i giovanotti, infuriati, persero il controllo e lo uccisero. Calliroe, per parte sua, si diede alla fuga attraverso la campagna, inseguita dagli aspiranti sposi, e riuscì a trovare rifugio presso alcuni contadini che stavano mietendo il grano e che la nascosero in mezzo ai covoni, riparandola fino a che i suoi inseguitori non se ne furono andati. Questi ultimi sarebbero stati poi denunciati e costretti a fuggire, perché i Tebani li reclamavano per punirli; rifugiatisi dapprima a Orcomeno, i giovani trovarono infine ospitalità a Ippote, città che per essersi rifiutata di consegnarli ai Tebani fu al centro di aspri combattimenti e venne conquistata, mentre i colpevoli furono lapidati. In tal modo l’uccisione di Foco venne vendicata; si diceva che mentre le pietre della lapidazione si abbattevano sui pretendenti «dalla tomba del vecchio spuntasse dello zafferano» (Plutarco, Amat. narrat., IV= 774 E-775 B).
La Beozia era legata anche al mito degli Argonauti. Da Eleone proveniva uno di loro, Euribate figlio di Teleone (Igino, Favole, 14). Nel villaggio di Potnia era invece nato Glauco, figlio di Sisifo e protagonista di un altro racconto mitico: egli allevava cavalle, e per renderle più robuste e sane le teneva lontane dai maschi. Rese furiose dalla brama d’amore, tuttavia, le cavalle lo sbranarono. Il racconto è rievocato da Virgilio: «La passione Venere stessa attribuì alle cavalle quando di Glauco le potniadi quattro cavalle a morsi le membra sbranarono. Le spinge amore oltre il Gargaro [monte della Misia] e oltre gli scrosci dell’Ascanio [fiume della Bitinia]: valicano monti e fiumi attraversano a nuoto» (Georgiche, 265-270). Alla sinistra memoria che si legava alla località di Potnia fa riferimento anche Strabone (IX, 2, 24), mentre Pausania (IX, 8, 2-3) ebbe modo di vedere, con la guida della gente del posto, il pozzo alla cui acqua si attribuiva la facoltà di far impazzire, e che le cavalle di Glauco avevano bevuto prima di sbranarlo.
Nella località di Coronea si ricordava poi un mito locale che aveva al suo centro Iodama, sacerdotessa di Atena Itonia; la donna era sorella di Atena, ma poiché era stata amata da Zeus, dal quale aveva generato Tebe, Atena, divorata dalla gelosia, la uccise (Simonide, FGrH, 8 F 1).
Mentre alcuni dei personaggi e dei miti qui citati appaiono secondari o meno conosciuti, la Beozia faceva da sfondo anche alle vicissitudini di altre figure assai più note, come Adrasto, Anfiarao e gli altri eroi che parteciparono alla saga dei Sette contro Tebe, nella quale primeggiano Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone e figli di Edipo; e ospitava nel suo territorio culti specifici ma assai noti, a loro volta legati a figure del mito e a racconti leggendari, come quelli relativi alle Muse dell’Elicona, alle Cariti di Orcomeno, ai Cabiri di Tebe, a Eros di Tespie, a Trofonio di Lebadea; per non parlare delle feste religiose che vi avevano luogo, tra le quali singolare era quella delle Dedalee (v. PLATEA).
Se, come si è visto, all’inizio della letteratura greca gli eserciti della Beozia sono citati nell’Iliade nella descrizione dei partecipanti alla guerra di Troia, per una sorta di singolare simmetria, alla fine dell’età classica, nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, dove vengono descritte le armate che si schierano sotto il comando di Dioniso per la sua spedizione in Asia, ritroviamo la menzione dell’esercito della Beozia, messo a disposizione del dio per la sua impresa militare (XIII, 53-82).
Curiosità del territorio. Nel territorio della Beozia, il fiume Melas, in greco «Fiume Nero», oggi Mavropotamos, aveva la prerogativa di rendere nere le pecore che bevevano le sue acque (Plinio, Nat. Hist., II, 230). Nella regione si trovavano, inoltre, due sorgenti: l’una della memoria, l’altra dell’oblio (Isidoro, Etimologie, XIII, xiii, 3); per non parlare di «un lago che fa diventare furiosi: chi ne beve l’acqua avvampa per l’ardore del desiderio carnale» (XIII, xiii, 4: forse un ricordo del pozzo alle cui acque si erano dissetate le cavalle di Glauco ricordate sopra).
La Beozia era famosa per alcune specialità gastronomiche, come le anguille del lago COPAIDE (v.) e i «pani bianchi di Sife», città ricordata da Luciano (Lessifane, 34 [46], 6); e la voracità dei Beoti era passata in proverbio (Plutarco, Moralia, II, 2 = 635 A; Ateneo, 410), al pari della loro rozzezza (Plutarco, Moralia, 995), che aveva reso l’aggettivo «beota», già nei testi dei comici, sinonimo di «tanghero».
Per altre notizie v., oltre alla voce TEBE, quelle dedicate a località specifiche come ALALCOMENE; ALIARTO; ANTEDONE; ARNE; ASCRA; ASOPO; ATENE; AULIDE; CEFISO; CHERONEA; CITERONE; COPAIDE; ELICONA; ETEONO; GARGAFIA; GLISANTE; ILE; IPPO-CRENE; IRIA; ISMENO; LEBADEA; LEUTTRA; LIBETRION; LOFIS; MESSAPIO; MICALESSO; NISA; OCALEA; OLMIO; ONCHESTO; ORCO-MENO; OROPO; PERMESSO; PLATEA; POTNIA; PTOO; SCAMANDRO; SCHENEO; TANAGRA; TEGIRA; TELFUSA; TESPIE; TEUMESSO; TIFA; TIFAONIO; TISBE; TRACHIS.
BERECINZIA, in gr. Berèkynta chòron. Regione dell’Asia Minore che, secondo alcune fonti, faceva parte della Frigia: parlando di Mida, per esempio, il mitico re frigio che trasformava in oro tutto ciò che toccava, Ovidio (Metamorfosi, XI, 106) lo chiama «eroe berecinzio»; e contrapponendo le consuetudini dell’Italia antica a quelle della Frigia Virgilio mette in bocca a Remulo, eroe dei Rutuli, poco prima che venga ucciso da Ascanio in battaglia, una feroce invettiva che culmina nelle beffarde considerazioni sui costumi effeminati e corrotti dei Frigi: «Tamburelli e pifferi vi chiamano sul Berecinto della Madre Idea» (Eneide, IX, 619-620). «Berecinzia» è anche uno degli epiteti con i quali è indicata nella poesia appunto la dea Cibele, grande dea madre frigia venerata sul monte Berecinto. In un frammento della tragedia perduta Niobe di Eschilo la Berecinzia è ricordata tra i possedimenti di Tantalo, il padre dell’eroina Niobe. Altri riferimenti alla regione si leggono in autori come Orazio (Carmina, I, 18; III, 19); Strabone (XII, 8, 21); Plinio (Nat. Hist., XVI, 71 e V, 108).
BERENICE, in gr. Berenìke. Con questo nome erano indicate diverse città antiche collocate in svariati punti dell’odierna Africa. Tra le città dei Trogloditi (v. TROGLODITI, PAESE DEI) si ricordava una Berenice al confine tra l’Egitto e l’Etiopia – così chiamata dal nome della regina moglie di Tolomeo III – che sorgeva sul Mar Rosso e corrispondeva all’odierna Umm-el-Ketef; un’altra Berenice, situata invece all’estremità del corno della Sirte, un tempo era chiamata Euesperide o Città delle Esperidi, poiché si riteneva che a poca distanza, presso il fiume Letone, sorgesse un bosco sacro identificato con uno dei siti dove la tradizione collocava il Giardino delle Esperidi (il luogo corrisponde all’odierna Bengasi); una terza Berenice si trovava ancora sul Mar Rosso e derivava il nome da Berenice I, madre di Tolomeo II Filadelfo che l’aveva fondata (oggi corrisponde a Bender-el-Kebir: cfr. Plinio, Nat. Hist., VI, 103). Un’altra città omonima era Berenice Pancriso, così chiamata per la sua ricchezza d’oro (ibid., VI, 170), soprannome che la distingueva da una Berenice Epi Dire, posta su un’altura. La Berenice più affascinante dal punto di vista del mito era naturalmente la seconda, la città delle Esperidi (v. ESPERIDI, ISOLE e GIARDINO DELLE).
BERGA Città della Tracia. V. STRIMONE.
BEROE Città del Libano. V. BEIRUT.
BEROIA, in gr. Beròe, Berròia. Città della Macedonia, oggi Veria, in Grecia. La mitologia ne spiegava il nome mettendolo in relazione con una Ninfa eponima di nome Beroe, protettrice delle acque: Beroia era celebre, infatti, per le sue fresche cascate e il suo aspetto verdeggiante. Poco sappiamo delle storie mitiche della città, che sembra però avere un toponimo comune a quello di Beirut. Beroia era anche il nome antico della città siriana di Aleppo.
BIANCO, MONTE, in gr. Leukòn òros. Nell’antica Creta aveva questo nome una montagna sulla quale si reca la dea Artemide quando, ancora bambina, deve scegliere le Ninfe che faranno parte del suo corteggio: «E la fanciulla andò sul monte Bianco, nell’isola di Creta, su cui crescono chiome di boschi […]. E numerose Ninfe per sé scelse, tutte di nove anni, tutte ancora bambine» (Callimaco, Inni, III, 40-43). Ignorato dalla mitologia classica è invece il più noto Monte Bianco della catena alpina, che gli antichi non distinguevano nei loro racconti da quel che si diceva in generale delle ALPI (v.).
BIBLO, in gr. Bblos. Antica città fenicia, a una quarantina di chilometri a nord di Beirut, corrispondente all’odierna Jebail; la mitologia la poneva al centro di un delicato racconto eziologico che cercava di spiegarne l’origine del nome. Eroina eponima era infatti secondo Stefano di Bisanzio Biblide, figlia di Mileto e di Eidotea (a sua volta figlia di Eurito), o anche di Cianea (figlia a sua volta di Menandro; tutti questi nomi sono più o meno direttamente legati a località dell’Asia Minore). Le sue pene d’amore per il suo fratello gemello Cauno, al quale era legata da un rapporto incestuoso, la portarono alla morte, anche se con modalità diverse a seconda delle diverse versioni del mito: Antonino Liberale, nelle Metamorfosi (30), racconta che si gettò per la disperazione da una rupe e che le Ninfe, impietosite dalla sua sorte, la trasformarono in una di loro, facendola diventare un’Amadriade; Ovidio, nelle sue Metamorfosi (IX, 450-665), spiega invece che per l’incessante pianto si mutò in sorgente.
A Biblo si svolge anche una tappa importante del mito di Osiride, così come ci viene raccontato da Plutarco (Iside e Osiride, 357 A ss.): Osiride era stato chiuso in un meraviglioso sarcofago da Tifone, che desiderava sbarazzarsi di lui, ed era stato gettato nelle acque del Nilo (v. CHEMMI per i dettagli del racconto); da qui, giunto alla foce del fiume e al mare aperto, le correnti lo avevano trasportato fino a Biblo, dove era approdato su una spiaggia coperta di erica. In breve tempo, l’erica ebbe una crescita prodigiosa: sviluppandosi con incredibile rigoglio, avvolse completamente il sarcofago e lo incastonò, ormai non più visibile, nel tronco. Il re del luogo, stupito per le dimensioni dell’arbusto, aveva fatto tagliare il tronco che rinserrava al suo interno il suo prezioso segreto, e ne aveva ricavato un grande pilastro scolpito per sostenere il tetto del suo palazzo. In quel palazzo, un giorno, giunse Iside, che, alla ricerca disperata di Osiride, si era fermata a Biblo; qui le domestiche del re, che l’avevano vista presso la fontana, affascinate dal suo garbo e dal profumo che emanava, parlarono di lei alla regina, che volle a tutti i costi averla presso di sé, sia per il profumo (che aveva impregnato anche le sue ancelle), sia per le belle acconciature che la misteriosa straniera aveva intrecciato in testa alle ragazze. Iside divenne così la nutrice del piccolo principe ereditario, al quale segretamente conferì l’immortalità mettendo a bruciare nel camino le parti del suo corpo che erano mortali. Quando la regina (che il mito dice si chiamasse Astarte) se ne avvide, però, fu colta dal terrore: Iside allora si rivelò come divinità, pretese per sé la colonna che reggeva il tetto del palazzo (giacché sapeva che al suo interno si trovava il sarcofago di Osiride), e con le sue stesse mani, senza nessuna difficoltà, la sradicò dal suolo. Il racconto presenta numerosissime analogie con il mito di Demetra raccontato nell’Inno omerico a Demetra, che tuttavia con Biblo non ha nulla a che fare.
A Biblo era legata anche una versione del racconto di Io, figlia di Inaco, che fu amata da Zeus e generò da lui Epafo. Era, sposa di Zeus, era gelosissima di Io e odiava lei e suo figlio, e fece di tutto per perseguitarli; così il piccolo Epafo, perché si salvasse dalle ire della regina degli dèi, fu nascosto così bene che neppure Io riuscì a ritrovarlo. Il bambino era stato infatti accolto dalla regina di Biblo, che lo tenne con sé fino a quando la madre lo ritrovò e se lo riprese, portandolo con sé in Egitto. Per il mito di Io e di Epafo v. BOSFORO ed EGITTO.
Per i rapporti tra Biblo e il mito di Adone v. FENICIA e CIPRO; per la storia di Cinira, sovrano di Cipro che si diceva originario di Biblo, v. CIPRO.
BILLAIOS Uno dei maggiori fiumi della Bitinia, nell’odierna Turchia; corrisponde ai rami del Gerede Çay e Soanli Suyu attuali e ha conservato il nome antico Phil
ias – solo nel suo tratto terminale verso la foce sul Mar Nero. Il fiume era personificato, come quasi tutti i principali corsi d’acqua del mondo antico, in un corrispondente dio fluviale, che appare unito alla ninfa Sardo in alcune monete della città di Tio.
BISALTIA, in gr. Bisaltìa. Regione della Tracia lungo il fiume Strimone. Il mito ne collegava il nome a un eroe di nome Bisalto, figlio del Sole e della Terra. Benché raramente presente nei racconti della mitologia, questa terra si distingueva per alcune caratteristiche prodigiose: per esempio, «stando a Teopompo, in Bisaltia le lepri hanno due fegati» (Aulo Gellio, Notti Attiche, XVI, 15).
BISANZIO, in gr. Byzàntion. L’odierna Istanbul, chiamata dai Greci Bisanzio e dai Romani Costantinopoli (Constantinopolis) in onore dell’imperatore Costantino che la ricostruì e la ribattezzò, era stata fondata secondo la tradizione da un eroe eponimo, Bisante o Bizante (Byzas), «un errante, discendente della divina razza di Io, della stirpe di Zeus»; con questa fondazione «egli portò la luce a tutti i popoli circostanti», secondo l’encomio della città scritto da Nonno di Panopoli (Dionisiache, III, 364-370). Bizante, secondo la tradizione, era figlio di Poseidone e si era spinto nel territorio di Bisanzio a capo di una spedizione di Megares; era re della regione quando vi sbarcarono gli Argonauti durante la loro spedizione alla ricerca del vello d’oro nella Colchide (Diodoro Siculo, IV, 49). Si narrava che mentre Bizante combatteva contro Emo, tiranno della Tracia che aveva mosso guerra alla città, a Bisanzio giunse il re di Scizia, Odrise, che la strinse d’assedio. La situazione rischiava di precipitare, ma Fidaleia, la moglie di Bizante, facendosi aiutare dalle altre donne della città, salvò la patria gettando nell’accampamento nemico un gran numero di serpenti, che li costrinsero alla fuga. Altre fonti, come Giovanni Lydos, attribuivano invece la fondazione della città a un personaggio leggendario di nome Zeuxippo.
BISERTA Città dell’odierna Tunisia, anticamente Hippona o Hippo Diarrytus. La tradizione vi ambientava un aneddoto che aveva per protagonista un delfino. Si narrava infatti che alla spiaggia della città solesse avvicinarsi uno di questi animali, che divenne ben presto una vera attrazione: era oggetto di ammirazione, visite, persino di carezze, e amava giocare con gli esseri umani vicino alla battigia. Un giorno però Flaviano, proconsole romano d’Africa, pensò bene di far cospargere l’animale di unguenti profumati, pensando di accrescerne le attrattive; quei cosmetici per lui inusuali stordirono però il povero delfino, che rimase intontito e galleggiò per mesi, come morto, fluttuando sul dorso in balia delle onde. Quando finalmente si riprese le visite dei suoi ammiratori ricominciarono, ma alla fine gli abitanti della città lo uccisero per motivi di ordine pubblico, per via delle violenze che l’afflusso di curiosi aveva finito col provocare a Biserta (Plinio, Nat. Hist., IX, 26).
BSUT
N Villaggio situato nei pressi di Kirmashah, nell’odierno Iran, sulla strada che collegava Babilonia a Ecbatana, noto per un rilievo rupestre e un’iscrizione celebrativa di Dario I, re dei Persiani, databili al 516 a.C. La località è menzionata per la prima volta in Diodoro Siculo (II, 13, 1) con il nome di Monte Bagistan, del quale si dice che era consacrato a Zeus e che Semiramide, la mitica regina degli Assiri, vi aveva fatto erigere un recinto sacro al dio che si può considerare un vero e proprio orto botanico. Il toponimo Bagistan significava in persiano «soggiorno degli dèi». Il luogo era collegato anche con il dio Mitra e vi si venerava una dea il cui nome, Shimalija, è stato messo in relazione con quello della stessa Semiramide, che secondo un passo di Ctesia di Cnido si era fatta scolpire una statua su una rupe, accompagnata da un’iscrizione commemorativa del suo passaggio (Ctesia, Persica, Flb, § 13).
BITINIA, in gr. Bithynìa. Regione dell’Asia Minore antica, nell’odierna Turchia, affacciata sulla costa meridionale del Mar Nero, chiamata in alcune fonti Ascania dal nome del fiume Ascanio che vi scorreva. Diverse divinità e figure di eroi, secondo la mitologia, vi erano vissuti. «Racconta un mito della Bitinia […] che Priapo, divinità guerriera, uno dei Titani, io penso, o dei Dattili Idei, che aveva il compito di addestrare nei movimenti con le armi, ad Ares, che gli era stato affidato da Era fanciullo ancora, ma duro e maschio fuor di misura, non insegnò a combattere armato prima di averlo reso un perfetto danzatore. E per questo suo merito ebbe da Era il compenso di ricevere da Ares la decima parte dei suoi introiti di guerra» (Luciano di Samosata, Sulla danza, 33 [45], 21). La regione è ricordata anche in relazione con il mito di Eracle. Durante la sua spedizione alla conquista del cinto d’Ippolita, regina delle Amazzoni, Eracle venne accolto amichevolmente proprio in Bitinia dal re del locale popolo dei Mariandini, Dascilo figlio di Tantalo e padre di Lico (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 775-791; Apollodoro, II, 100).
Varie regioni della Bitinia erano ricordate per aneddoti curiosi o leggende specifiche. Alle «trine di Tinia», isola di fronte alla costa nordoccidentale della Bitinia, accenna Catullo (XXV, 7). Ai piedi del monte Argante, anch’esso in Bitinia, scaturiva la fonte Pege, «umida dimora gradita alle Ninfe bitiniche; al di sopra di essa pendevano dagli alberi abbandonati pomi rugiadosi non dovuti ad alcuna coltivazione, e intorno sul prato irrigato dall’acqua spuntavano candidi gigli mescolati a purpurei papaveri» (Properzio, I, 20, 33-38; per il mito di Ila legato a questa fonte v. ASCANIO). Il fiume Alcas che scorreva nella regione aveva la caratteristica di bruciare come una fiamma gli spergiuri (Plinio, Nat. Hist., XXXI, 18).
Una delle principali città che vi sorgeva, Nicomedia – che fu capitale della Bitinia romana e occupò il sito dell’antica Olbia –, splendida per i suoi monumenti, fu distrutta da un catastrofico terremoto che viene descritto con toni drammatici da Ammiano Marcellino (XVII, 7). Un’altra città importante era Otrea, che derivava il suo nome da Otreo, un re dei Frigi che risulta tra gli alleati di Priamo nel corso della guerra troiana (Strabone, XII, 4, 6; Iliade, III, 186). La città portuale di Acone era nota per la molteplicità delle piante velenose che vi crescevano, e per questo le erbe velenose, in generale, prendevano nome da quella città e venivano dette aconito (Isidoro, XVII, ix, 25).
Per la presenza, lungo le coste della Bitinia, dell’accesso al mondo dell’oltretomba v. ACHERUSIA, PALUDE e ACHERUSIO, CAPO. Per altre notizie v. anche ARGANTE; ASCANIA; ASCANIO; ASTACIDE; BEBRICI, REGNO DEI; BILLAIOS; CALLICORO; CRISOPOLI; IPIO; LICO; MARIANDINI, TERRA DEI; NICEA; PITO-POLI; PRIETO; PRUSA; SANGARIO.
BLACÌA Pianura immaginaria descritta da Luciano di Samosata nella sua Storia vera (27 [14], 32-34); fa parte dell’Isola dei Sogni (per la quale v. SOGNI, ISOLA DEI) e il suo nome (Blakèia) significa propriamente «rilassatezza», «mollezza», «indolenza».
BLEMMIA Immaginario paese africano abitato da una popolazione che ha la caratteristica di essere priva di testa e di avere il volto collocato in mezzo al petto. Così i Blemmi (Blèmmyes) sono descritti nell’Inventorum Naturae (attribuito a Plinio il Vecchio ma più verosimilmente di un anonimo autore del I secolo d.C.), dallo stesso Plinio nella Naturalis Historia (V, 46) e da Pomponio Mela (Corografia, I, 8, 48). Così ne parla Isidoro di Siviglia nelle Etimologie: «Alcuni credono che in Libia nascano i Blemmi, tronchi privi di capo, con la bocca e gli occhi sul petto. Altre creature verrebbero alla luce senza cervici e con gli occhi sugli omeri» (XI, iii, 17). Nonostante la loro apparenza flemmatica, i Blemmi sono in realtà dei cannibali. Con minore propensione al meraviglioso Strabone (XVII, 1, 2 e XVII, 1, 53) li presenta come una popolazione nomade della Nubia Inferiore, che occupa la riva destra del Nilo. La prima menzione letteraria dei Blemmi di cui si abbia notizia si legge in un idillio di Teocrito (VII, 114), dove si accenna alla «roccia dei Blemmi» identificata, verosimilmente, con la sorgente del Nilo. In parte rifacendosi a queste antiche tradizioni, in parte rivisitandole in modo originale, Nonno di Panopoli attribuisce la stirpe dei Blemmi a un capostipite di nome Blemys, un capo indiano sconfitto da Dioniso durante la sua spedizione in Asia; Blemys, sottomettendosi al dio, viene da questi inviato in Egitto, dove risalirà lungo il Nilo dal delta fino all’Etiopia e alla sua capitale Meroe, città «dell’estate eterna», dove è destinato a regnare (Dionisiache, XVII, 385-397). Nella descrizione di Nonno, tuttavia, nulla delle fantastiche caratteristiche dei Blemmi si può riscontrare: semmai l’elemento che li rende insoliti agli occhi dei Romani è la natura dei loro capelli crespi («Blemys dalla testa riccioluta», ibid., XVII, 385). Benché una popolazione che portava questo nome sia storicamente accertata, è ovvio che le caratteristiche singolari del loro corpo non si spiegano che con la fantasia (o il fraintendimento di un dato) di qualche fonte.
BOION Città greca della regione della Doride, ricordata nella mitologia perché ritenuta una fondazione dell’eroe eponimo della regione, Doro (Diodoro Siculo, IV, 67, 1; Plinio, Nat. Hist., IV, 28; Strabone, IX, 4, 10; X, 4, 6).
BOLA Città dell’Italia centrale, in Lazio, nella valle del Sacco, fondata, secondo la tradizione, dalla stirpe di Enea. Quando, nell’Eneide, Enea visita l’aldilà e incontra il fantasma del proprio padre Anchise, recentemente scomparso, questi gli vaticina che la sua stirpe dominerà sulla città di Alba Longa e i suoi successori fonderanno numerose città, tra le quali Pomezia e, appunto, Bola (Virgilio, Eneide, VI, 775); già in età imperiale romana se ne era persa ogni traccia.
BOLINE, in gr. Bolìna. Antica città dell’Acaia, presso il fiume Bolineo (forse il Drepaneiko o il Plataneiko dei tempi attuali), non lontano dal capo Drepano. Il toponimo era messo in relazione con il mito di una fanciulla di nome Boline, che per sfuggire al corteggiamento di Apollo si gettò in mare e fu salvata dal dio stesso, che la rese immortale (Pausania, VII, 23, 4).
BOLOGNA Anticamente chiamata Felsina (Plinio, Nat. Hist., III, 115) dagli Etruschi, poi Bononia dai Galli e in età romana, la città era stata fondata dal mitico Bianore (Servio, ad Aen., X, 198), un eroe ritenuto figlio del dio fluviale Tiber, il Tevere, e di Manto, che a sua volta era figlia dell’indovino Tiresia (o di Eracle) e aveva lasciato Tebe, dove viveva, dopo la morte del padre (per altri particolari relativi a Bianore e alla sua storia v. MANTOVA e PERUGIA). Un’altra tradizione raccontava che il fondatore della città fosse stato Aucno o Ocno, originario di Perugia; egli aveva lasciato la sua città per non essere di ostacolo al fratello Auleste che ne era stato il fondatore, e dopo aver oltrepassato l’Appennino era andato a fondare Felsina. Le due figure di Bianore e di Aucno sono talvolta identificate. Sembra che il nome originale di Bologna possa essere messo in rapporto con la forma Velzna, che parrebbe corrispondere alla denominazione di una divinità etrusca. Più che con la mitologia, la città sembra però presentare più di un legame con l’aneddotica e la leggenda. Si diceva per esempio che un suo abitante, di nome T. Fullonio, fosse vissuto 150 anni; la sua affermazione, resa al censimento dell’imperatore Claudio, era considerata veritiera (Plinio, Nat. Hist., VII, 159). Si narrava poi che nei pressi della città, su un’isoletta fluviale, fosse avvenuto un evento prodigioso nel 43 a.C., alla vigilia della formazione del triumvirato: un’aquila si era posata sulla tenda di Augusto e aveva distrutto due corvi che la assalivano. La diceria popolare vedeva in quel prodigio un segnale dei futuri contrasti tra i triumviri e del trionfo che avrebbe accompagnato Augusto (Svetonio, II, 96, 1).
BOLSENA Antica e ricchissima città dell’Etruria, oggi nel Lazio, in provincia di Viterbo; un tempo chiamata Volsinii, fu soggiogata dai Romani e rifondata con il nome di Volsinii Novi. Secondo Plinio essa «fu interamente cremata da un fulmine» (Nat. Hist., II, 139). La tradizione etrusca sosteneva che mediante appositi riti propiziatori fosse possibile condizionare e addirittura ottenere i fulmini; e si narrava che «un fulmine fu ottenuto quando un mostro, chiamato Volta, si stava avvicinando alla città di Bolsena dopo aver devastato le campagne; a propiziare l’evento fu il re della città, Porsenna» (ibid., II, 140). Nelle sue Elegie (IV, 2) Properzio ricorda che dalla città di Volsinii era stato introdotto a Roma il culto di Vertumno, dio dei mutamenti e delle trasformazioni, soprattutto quelli del mondo vegetale (dal verbo vertere, «volgere», che è all’origine del suo nome); il mito ricordava i suoi amori per Pomona, che il dio cercò di conquistare trasformandosi in mille modi diversi prima di assumere con successo le sembianze di un bellissimo giovane (Ovidio, Metamorfosi, XIV, 623 ss.).
Il lago di Bolsena, che anticamente veniva chiamato anche Lago di Tarquinia perché faceva parte del territorio posto sotto il dominio dell’omonima città etrusca, aveva una curiosa caratteristica: «due isolette si portano in giro dei boschi, formando, sotto la spinta dei venti, ora un insieme triangolare, ora uno tondeggiante, ma quadrato, però, mai» (Nat. Hist., II, 209).
BON, CAPO Il promontorio dell’Africa settentrionale, nell’odierna Tunisia, secondo alcune ipotesi è da identificare nella descrizione virgiliana – peraltro più verosimilmente solo letteraria, e non riferita a una località precisa – della baia in cui Enea e i suoi compagni, dopo una terribile tempesta scatenata da Giunone con la complicità del re dei venti, Eolo, trovano approdo e rifugio. Gli eroi, in fuga da Troia, hanno appena affrontato i marosi suscitati dalla volontà di Giunone, fieramente avversa ai Troiani perché sa che il fato ha predisposto per mano loro e dei loro discendenti la fine della città di Cartagine, a lei particolarmente cara: la tempesta sarebbe stata ancor più catastrofica se in difesa di Enea non fosse intervenuto Nettuno, dio del mare, a placare le acque e permettere alle navi martoriate di trovare rifugio sulle coste della Libia: «C’è in un golfo profondo uno spazio: l’isola un porto produce coi fianchi protesi e su questi tutte dall’alto si spezzano, in sinuosi riflussi scindendosi, le onde. Di qua e di là vaste rupi, e uguali minacciano il cielo due scogli; sotto le pareti per vasta distesa acque tranquille e silenzio». Non mancano un bosco ombroso e una caverna dimora di Ninfe, con acque dolci. Qui Enea porta in salvo, senza che occorra neppure gettare l’ancora, tanto le acque sono tranquille e senza correnti, le sette navi rimaste della sua flotta (Virgilio, Eneide, I, 157-170).
BORMISCO, in gr. Bormìskos. Città della Migdonia, altro nome della Frigia (Tucidide, IV, 103, 1), dove, secondo uno dei molti aneddoti che fiorirono intorno a Euripide – non di rado fortemente denigratori e legati alle sue posizioni spesso in aperto contrasto con la tradizione –, il grande poeta tragico morì dilaniato dai cani (Stefano di Bisanzio, s.v.).
BOSFORO, in gr. Bòsporos. Esistono due bracci di mare che hanno questo nome: uno di essi, il più celebre, il Bosforo Tracio, dove sorgeva la città di Bisanzio, o Costantinopoli, oggi Istanbul, è il canale che mette in comunicazione il Mar di Marmara con il Mar Nero, separando le rive orientali della penisola balcanica, in corrispondenza dell’antica Tracia, dalle coste occidentali dell’Anatolia; l’altro, il Bosforo Cimmerio, era posto tra il Mar Nero e il Mar d’Azov (anticamente chiamato palude Meotica o Meotide), la penisola di Crimea e la Scizia. Il nome era collegato al mito secondo il quale in questi luoghi transitò Io figlia di Inaco, la giovane donna amata da Zeus e trasformata in vacca per la gelosia di Era, di cui era sacerdotessa. La giovane era votata alla verginità, ma Zeus se ne invaghì e la violentò. Scoperto da Era, il re degli dèi sfiorò allora la giovane donna e la trasformò in una candida giovenca, giurando alla gelosissima consorte che mai e poi mai si era unito a quell’animale. Era, tuttavia, dubbiosa, volle che Zeus le consegnasse la vacca, e pose a sua guardia il celebre Argo Panopte, creatura possente e inquietante dal corpo interamente coperto di occhi, al quale quindi nulla poteva sfuggire. Argo legò la giovenca a un olivo nel sacro bosco di Micene, montandole la guardia; ma Zeus incaricò Ermes di rapirla in gran segreto. Scoperto, Ermes uccise Argo con una pietra (fu perciò detto Argeifonte, uccisore di Argo) e liberò la ragazza-vacca. Ma Era, travolta dalla gelosia, non cessò di perseguitare la sua vittima, mandando contro di lei un tafano che la inseguiva e la pungeva senza darle tregua. Nel tentativo di sfuggire all’insetto che la perseguitava, Io si recò dapprima sulle rive del mare che da lei, secondo alcune fonti, avrebbe preso il nome di Ionio; indi attraversò, dopo varie altre peregrinazioni, lo stretto della Tracia che da lei prese il nome di Bosforo, o «passaggio della vacca»: «Ecco perché gli antichi hanno diffuso il nome di Bosforo, tratto dall’errare della dea» (Valerio Flacco, Argonautiche, IV, 419-420). Le sue peregrinazioni si sarebbero concluse, dopo numerose altre traversie, in Egitto, dove essa avrebbe dato alla luce, sulle rive del Nilo, il figlio Epafo (Apollodoro, Biblioteca, II, 1, 3). L’origine del nome viene spiegata da Prometeo nel Prometeo incatenato di Eschilo: «rimarrà per sempre ai mortali una grande fama del tuo passaggio, e da te lo stretto sarà chiamato Bosforo» dice il Titano rivolgendosi alla stessa Io (vv. 732-734).
Il passaggio del Bosforo rappresenta uno dei momenti più significativi della spedizione degli Argonauti capeggiati da Giasone verso la mitica Colchide, alla ricerca del vello d’oro: è un transito estremamente difficile, che richiede grande perizia tecnica. «Qui l’onda simile a una montagna scoscesa si leva di fronte ai naviganti, e alta come una nuvola sembra piombare su di loro» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 169-171). Grazie all’abilità del pilota della spedizione, Tifi, gli Argonauti riescono tuttavia a superare il cimento, «illesi, per quanto atterriti».
BOVILLE Piccola cittadina che sorgeva nei pressi di Roma, sulla via Appia, a circa undici miglia dalla capitale, nella località ora detta Frattocchie, della quale restano solo i ruderi. La mitologia ne faceva una fondazione di Silvio, re latino di Alba Longa, e raccontava che dopo la distruzione di quest’ultima ne ereditò il ruolo conservandone soprattutto i culti antichi e i sacerdozi. La leggenda, inoltre, la presentava come la patria di una misteriosa anziana donna di nome Anna, che durante la prima secessione della plebe sul Monte Sacro (494-493 a.C.), con la quale la plebe stessa reclamava il diritto di avere proprie magistrature, si distinse come distributrice provvidenziale di cibo. Infatti, quando ormai le provviste che le persone si erano portate erano finite e il rischio era che tutti morissero di fame, fu vista questa anziana donna, povera ma molto alacre, che con i capelli bianchi avvolti in un turbante produceva, con le sue mani tremanti per l’età, focacce rustiche che ogni mattina distribuiva, ancora fumanti, alla popolazione digiuna. Quando la pace tornò a Roma e la plebe fece ritorno a casa, fu eretta una statua alla benefattrice di Boville, che venne venerata col nome di Anna Perenna (Ovidio, Fasti, III, 663-674). Nelle feste in suo onore, ci informa ancora Ovidio negli stessi Fasti, le ragazze solevano cantare versi licenziosi in ricordo di un curioso episodio del quale la dea era protagonista: trasformatasi, infatti, in divinità, Anna Perenna era stata pregata da Marte di aiutarlo a conquistare il cuore di Minerva, impavida dea vergine. Anna si era presa gioco del dio, assicurandogli il suo aiuto e confermandogli che Minerva aveva ceduto ed era pronta a riceverlo: salvo nascondersi lei stessa, velata per non essere riconosciuta («con il volto coperto, quale sposa novella»), sul talamo approntato dal dio (ibid., III, 677-696). Priva di diretti legami con Boville era invece un’altra tradizione, che identificava Anna Perenna con Anna, sorella di Didone regina di Cartagine, che dopo la morte di quest’ultima fu messa in fuga dalla città dall’invasione dei popoli indigeni guidati da Iarba: approdata, dopo numerose vicissitudini e tappe intermedie, nel Lazio e accolta da Enea, fu costretta a fuggire anche dal palazzo del re troiano per non incorrere nella gelosia della moglie di lui Lavinia, e si ritenne che si fosse trasformata in una Ninfa.
BRASIE Cittadina greca posta al confine tra la Laconia e l’Argolide, sul mare, identificata con l’odierna Plaka, porto di Leonidion. Gli abitanti del luogo narravano una versione locale del mito di Semele, madre del dio Dioniso, che si discostava in alcuni punti da quella tradizionale e che collocava la nascita di Dioniso proprio nella loro città: sostenevano che «Semele generò suo figlio da Zeus e che, scoperta da Cadmo, fu da lui gettata assieme a Dioniso in una cassa. La cassa, portata dalle onde, arrivò, essi dicono, alla loro terra, e Semele, che fu ritrovata non più viva, vi fu sepolta con ogni onore, mentre Dioniso fu da essi allevato» (Pausania, III, 24, 3). In questa versione del racconto, che presentava temi comuni al mito di Danae e Perseo, i Brasiati aggiungevano che Ino, figlia di Cadmo e Armonia, giunse un giorno alla terra di Brasie e si prestò a fare da nutrice a Dioniso: presso Brasie si mostrava una grotta dove si diceva che Ino avesse allevato il dio, e tutta la pianura circostante era chiamata «giardino di Dioniso» (ibid., III, 24, 4). Da questo insieme di leggende, secondo Pausania, derivava il nome della città, che, anticamente chiamata Oreate, aveva assunto la denominazione di Brasie nel ricordo della cassa in cui Dioniso e Semele erano stati «rigettati» (in greco ekbebrasthai) sulla riva. La versione più nota del mito della nascita di Dioniso raccontava anch’essa come il dio fosse frutto degli amori di Zeus e di Semele, figlia di Cadmo, ma che Era, gelosissima, per vendicarsi della rivale le avesse suggerito di chiedere a Zeus di presentarsi ai suoi occhi nel pieno fulgore della propria gloria: quella vista, con il suo contorno di tuoni e di fulmini, era stata fatale per la povera Semele, che morì portando ancora nel grembo il piccolo Dioniso. Quest’ultimo però fu salvato e, con un delicato intervento, cucito nella coscia di Zeus, che portò a compimento la gravidanza in quel modo inusuale e lo affidò, una volta venuto alla luce, alla cura delle Ninfe. Questa tradizione era ambientata in luoghi diversi da Brasie, e in particolare nella non ben identificata NISA (v.). Raramente Brasie è chiamata anche Prasie.
BRAURONE Località della Grecia, anticamente Brauròn, oggi Vraona (Vravrona), sulla costa orientale dell’Attica, presso il demo attico di ALE ARAFENIDI (v.), sede di un celebre santuario dedicato al culto di Artemide, che vi era venerata con l’epiteto di Brauronia. Secondo un mito riferito da Euripide (Ifigenia in Tauride, 1447-1467), a Braurone era conservata la statua lignea di Artemide Taurica, che era stata sottratta dalla Tauride da Oreste, figlio di Agamennone e fratello di Ifigenia, il quale l’aveva poi portata nel santuario brauronio. Al culto di Artemide Brauronia si dedicavano alcune ragazze ateniesi chiamate Orse, in greco Arktoi, che durante appositi riti propiziatori mimavano gesti ursini e rievocavano l’uccisione di un’orsa sacra ad Artemide: l’evento aveva scatenato l’ira della dea, ed era dunque necessario placarla con appositi riti (cfr. Aristofane, Lisistrata, 643). La prima mitica sacerdotessa del luogo fu Ifigenia: «Tu, Ifigenia, sarai sacerdotessa di questa dea presso le terrazze Brauronie. Quando morirai, vi troverai sepoltura» (Euripide, Ifigenia in Tauride, 1462-1464; cfr. anche Pausania, I, 33, 1 e v. ALE ARAFENIDI); nel santuario viene ancora oggi mostrata la cosiddetta «tomba di Ifigenia».
BRIGIE, in gr. Brygèides nèsoi. Isole appartenenti all’arcipelago Liburnico, che prendevano il nome dalla popolazione dei Brigi dell’Illiria e si trovavano di fronte alle coste illiriche. Secondo alcune ipotesi sarebbero da identificare con le isole Apsirtidi della mitologia. Erano sacre alla dea Artemide; su di esse sbarcarono gli Argonauti quando, dopo aver catturato nella Colchide il favoloso vello d’oro, diedero inizio al viaggio di ritorno, cercando di sfuggire all’inseguimento dei Colchi capeggiati dal fratello di Medea, Apsirto (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 330). Proprio su una di queste isole, dove si trovava un tempio dedicato ad Artemide e che era perciò considerata un’isola sacra, avvenne l’uccisione di Apsirto da parte di Giasone: «Apsirto, ingannato dalle più atroci promesse, s’affrettò ad attraversare il mare per nave, e nella notte, nel buio, sbarcò sull’isola sacra; andò solo di fronte alla sorella […] e all’improvviso il figlio di Esone [Giasone] balzò dallo scaltro agguato, con in mano la spada nuda. Medea distolse subito gli occhi, coprendosi con il velo, per non vedere il fratello colpito e ucciso» (ibid., IV, 456-467). Quando i Colchi si accorsero della morte del loro signore, temendo l’ira di Eeta, il re padre di Apsirto, decisero di non far ritorno in patria, ma si insediarono nel mar Adriatico, battezzando Apsirtidi o Absirtidi le isole nelle quali fondarono le loro comunità (ibid., 511-521). Un accenno al mito che sta alla base della denominazione delle isole si legge in Strabone (VII, 5, 5). V. anche APSIRTIDI, LIBURNIE e TOMI.
BRINDISI Città della Puglia, fondata secondo una tradizione da popolazioni forse illiriche in un’insenatura che per la sua forma ricordava la testa di un cervo con le sue corna ramificate: a questo dato naturale la leggenda collegava il significato del toponimo, che veniva fatto derivare dal messapico, o, come scrive Isidoro di Siviglia, «dal greco brunda, che significa “testa di cervo”; la pianta della città è infatti simile alla testa di questo animale, con le corna e la lingua» (Etimologie, XV, i, 49). Secondo una diversa leggenda invece il toponimo, che alla forma Brundisium alterna nelle fonti quella Brentesium, derivava da un eroe di nome Brento, figlio di Eracle e di Balezia. Un’altra tradizione riferiva poi che Brindisi fosse una fondazione dei Cretesi, giunti sul posto al seguito di Iapige (v. CAMICO per i particolari). Una versione ancora diversa diceva che i fondatori fossero dei Cretesi capeggiati da Teseo, l’eroe ateniese (Lucano, Guerra civile, II, 610 ss.): essi si erano uniti ad alcuni discendenti di quegli Ateniesi che periodicamente Atene doveva mandare a Creta come vittime designate per il Minotauro (che appunto si cibava di carni umane, specificamente di provenienza ateniese) e il gruppo così composto, capeggiato da Teseo, partì alla volta di Delfi, con l’intenzione di stabilirvisi fondando una colonia. Non trovando però di che mantenersi in quel luogo, i coloni dovettero ripartire e si stabilirono nella Iapigia, appunto nel territorio brindisino, dove tuttavia restarono per poco tempo, spostandosi poi successivamente in Tracia, nella regione chiamata Bottiea (cfr. Plutarco, Teseo, 16, 3). Ancora diversa era la leggenda secondo la quale la regione di Brindisi era stata colonizzata da Cretesi capeggiati dal re Idomeneo, uno degli eroi che aveva preso parte alla guerra di Troia (cfr. Virgilio, Eneide, III, 400-401 e Diodoro, IV, 76-80 e XVI, 9). E non mancava neppure una tradizione secondo la quale la fondazione di Brindisi doveva attribuirsi a coloni etoli capeggiati dall’eroe Diomede (Isidoro, Etimologie, XIV, iv, 23). Tutte queste leggende si formarono dall’età augustea in poi, e difficilmente ci si può appoggiare su conferme archeologiche per districarsi fra le loro contraddizioni.
BRITANNIA Il nome designava nell’antichità il territorio dell’attuale Gran Bretagna meridionale e centrale confinante a nord con la Caledonia e delimitato dal Vallo di Adriano, e derivava alla regione dal nome della popolazione indigena dei Britanni che l’occupava prima della conquista romana. La lontananza di quelle terre rispetto al Mediterraneo e al cuore dell’Impero favorì naturalmente la diffusione di numerose leggende a proposito delle strane consuetudini di quei popoli, di cui le fonti favoleggiavano con un misto di paura e di sorpresa. Agli odierni abitanti della Gran Bretagna, per esempio, potrà forse sembrare notizia leggendaria il fatto che i loro antenati considerassero cosa «non lecita mangiare carne di lepre, di gallina e di oca», animali che pure gli antichi Britanni allevavano, ma per puro diletto; oppure sentire che la loro isola «è di forma triangolare», con un lato rivolto verso la Gallia: ma queste erano le convinzioni che si nutrivano su quel remoto paese ai tempi di Cesare (De bello gallico, V, 12, 6 – 13, 1; cfr. Strabone, IV, 5, 1). L’aspetto di diversità quasi favolosa e talora inquietante del popolo britannico si manifestava anche nel suo aspetto fisico: «Tutti i Britanni si tingono con guado [una pianta dal succo che tinge di azzurro] per cui prendono il colore turchino e diventano di aspetto più orribile in combattimento; hanno i capelli lunghi e radono ogni parte del corpo tranne il capo e il labbro superiore. In dieci o dodici hanno donne in comune, e soprattutto fratelli con fratelli, padri con figli: i figli nati da loro sono ritenuti figli di chi ha introdotto in casa per la prima volta una donna come sposa» (Cesare, De bello gallico, V, 14, 2-4). Sempre a proposito di donne, si raccontava di un’isola non identificabile, di fronte alle coste della Britannia, «dove Demetra e Core» sarebbero venerate con gli stessi rituali di Samotracia (Strabone, IV, 4, 6): una curiosa trasposizione di miti tipicamente mediterranei in quelle leggendarie contrade. Quanto agli uomini, essi erano decisamente alti, anche se «avevano le gambe storte e in generale dei lineamenti piuttosto rozzi» (ibid., IV, 5, 2). Nell’area sudorientale della Britannia viveva la popolazione dei Dumnonii, che si ritenevano discendenti di un dio locale chiamato Dumnonos. Una tradizione raccontava che «numerose isole sparse intorno alla Gran Bretagna sono deserte e che alcune di esse hanno nomi di demoni e di eroi»; i pochi abitanti che risiedono su tali isole «sono considerati dagli stessi Britanni come personaggi sacri e inviolabili». In una delle isole, poi, si trovava Crono, il dio, padre di Zeus, «addormentato sotto la custodia di Briareo […] e numerosi demoni lo circondavano in funzione di suoi servitori» (Plutarco, De defectu oraculorum, 419 F-420 A): un’eco, forse, della tradizione secondo la quale Crono regnava sulle Isole dei Beati o Fortunate. Per quanto remote, anche le contrade della Britannia ricevettero la visita di Eracle, durante il viaggio di ritorno dell’eroe dalla cattura dei buoi di Gerione nell’isola di Erizia: qui egli incontrò la figlia del re locale, di nome Celtine, la quale gli sottrasse gli animali e glieli nascose, promettendo di restituirglieli se avesse accondisceso a unirsi a lei. Eracle accettò, sia per riavere le mandrie, sia perché pare che l’aspetto di Celtine fosse particolarmente seducente; da quell’unione nacque Celto, eroe eponimo delle popolazioni celtiche (Partenio di Nicea, 30; Etymologicum Magnum, s.v.).
BRUZZIO v. CALABRIA e le voci lì indicate.
BUBASTIS Antica città dell’Egitto, oggi Tell-Basta, nel centro del Delta del Nilo. La tradizione diceva che fosse stata fondata da Iside in persona. Sulla tomba della dea, che si venerava a Nisa nell’Arabia Felice, infatti, si leggeva in un’iscrizione: «Da me fu costruita la città di Bubastis» (Diodoro Siculo, I, 27, 4). A Bubastis gli Egizi veneravano la dea che aveva dato nome alla città, Baste, rappresentata in forma di gatta o come donna dalla testa di felino, ritenuta la protettrice dell’Egitto (nonché divinità dinastica della XXII dinastia, bubastite), e che Erodoto (II, 60) identificava con la greca Artemide; le feste in suo onore, stando alla descrizione dello storico greco, dovevano essere particolarmente pittoresche.
BUCEFALI, ISOLA DEI Immaginaria isola descritta da Luciano di Samosata nella sua Storia vera (27 [14], 44), celebre resoconto del mirabolante viaggio compiuto dallo stesso Luciano e da alcuni suoi compagni, in nave, nelle mitiche terre al di là dell’Oceano e negli abissi del cielo, fino a toccare la Luna e lo Zodiaco. L’Isola dei Bucefali si trova in mezzo al mare al di là di una fittissima selva: «Noi immaginammo che fosse terraferma, ma in realtà era un mare profondissimo, dove erano cresciuti alberi senza radici, i quali tuttavia stavano immobili, dritti come se galleggiassero». Sollevando la loro imbarcazione fuori dall’acqua, i navigatori oltrepassano a piedi la strana foresta e al di là di essa trovano un nuovo oceano, nel quale possono riprendere la navigazione. Ma ben presto devono di nuovo fermarsi, perché una grande e profonda voragine si apre nel mare, attraversata da un ponte d’acqua che la scavalca. Oltrepassato a fatica il ponte, «ci accolsero un mare calmo e un’isola non grande, di facile accesso, abitata: vi dimoravano dei selvaggi, i Bucefali, che avevano le corna come da noi il Minotauro». I Bucefali, come dice il loro nome, sono infatti uomini dalla testa di toro, così aggressivi che tre dei compagni di Luciano vengono subito catturati; le trattative, condotte a gesti, si rivelano quanto mai difficili. I malcapitati visitatori preferiscono perciò andarsene al più presto, dopo aver rimpolpato la cambusa con «formaggi in quantità, pesci secchi, cipolle e quattro cervi, che avevano ciascuno tre piedi, di cui due di dietro, mentre quelli davanti erano uniti insieme».
BUCEFALIA Città – il toponimo, letteralmente «dalla testa di toro», presenta alcune varianti, da Bucefalia a Bucefalas a Bucefala a Bucefale – nota anche come Alessandria Bucefala, fondata da Alessandro Magno durante la sua spedizione in Asia sulla riva destra del fiume indiano Idaspe. Fu così chiamata in memoria del cavallo di Alessandro, Bucefalo, che aveva accompagnato il condottiero in tutte le sue principali imprese e che fu da lui pianto come un vero amico (Plutarco, Alessandro, 61, 1-2). Si narrava che un oracolo avesse predetto che chiunque fosse riuscito a soggiogare l’animale, apparentemente indomabile, sarebbe divenuto sovrano della Macedonia, e che solo Alessandro, benché giovanissimo, avesse avuto successo, facendone il proprio cavallo preferito. La fine dell’animale era stata variamente attribuita alle ferite riportate in combattimento, all’estenuazione e alla vecchiaia (quando morì aveva trent’anni, età davvero rispettabile per un equino: Arriano, Anabasi di Alessandro, V, 19, 4-5). Alcuni aneddoti relativi al cavallo sono ricordati da Aulo Gellio nelle Notti Attiche (V, 2), e benché sconfinino nella leggenda non abbiamo motivo di ritenerli non veri: l’animale, «una volta bardato e armato per il combattimento, non permise mai di essere montato da altri che dal re» (cfr. anche Plinio, Nat. Hist., VIII, 154); e quando Alessandro, durante un combattimento, si trovò a mal partito, circondato da nemici e con le frecce che gli piovevano addosso da ogni parte, il destriero, benché trafitto sul collo e sul fianco e quasi dissanguato, «portò via il re dal folto dei nemici con una corsa folle e, come l’ebbe condotto fuori tiro, subito stramazzò; poi, rassicurato dell’ormai raggiunta salvezza del padrone, quasi con il conforto che può avere un essere umano, spirò». Altrove si narra che «una volta, nel territorio degli Uxii, questo cavallo scomparve alla vista di Alessandro; e Alessandro fece un bando per tutto il territorio, minacciando la morte per gli Uxii, se non glielo avessero riconsegnato. E per effetto del bando gli fu subito riconsegnato: così grande era la sollecitudine di Alessandro per l’animale, e così grande nei barbari il terrore di Alessandro» (Arriano, V, 19, 6; per un episodio simile ambientato da altre fonti nel territorio dei Mardi v. IRCANIA). Bucefalo fu certamente un cavallo dal destino privilegiato, ma non fu il solo animale al quale fosse intitolata una città: anche in memoria del suo cane Perita, infatti, Alessandro fondò secondo le fonti una città dallo stesso nome (v. PERITA).
BUDEO, in gr. Boudèion. Località greca della Ftiotide. Nell’Iliade (XVI, 572) è definita «fiorente città» e ne è sovrano l’eroe mirmidone Epigeo fino a quando, per aver ucciso un cugino, egli deve allontanarsene e viene mandato a partecipare alla guerra di Troia accanto ad Achille.
BUDINI, PAESE DEI I Budini (in gr. Boudìnoi) erano un popolo della Scizia presso il quale i Greci avrebbero fondato una colonia, Gelono. Secondo il racconto dello storico Erodoto, che ha tramandato queste notizie, «i Budini, un popolo grande e numeroso, hanno tutti gli occhi azzurri e i capelli rossi. Presso di loro vi è una città di legno chiamata Gelono: il muro di cinta misura trenta stadi per lato, è alto e completamente in legno e anche le case sono di legno e così pure i santuari. In questa città infatti ci sono santuari di divinità greche […]. In effetti i Geloni anticamente erano Greci che, emigrati dagli empori della costa, si stabilirono tra i Budini» (IV, 108). I Budini hanno consuetudini estremamente selvagge: sono nomadi e si cibano di pinoli (o di pidocchi, secondo una diversa, più disgustosa ma non inverosimile lettura del relativo passo erodoteo); «il loro paese è tutto fitto di boschi di ogni tipo; nella foresta più ampia vi è un lago grande e ricco d’acqua, circondato da paludi e canneti. Nel lago si catturano lontre, castori e altri animali dal muso quadrato, le cui pelli vengono cucite insieme per farne dei mantelli, mentre i testicoli sono utilizzati per curare le malattie dell’utero» (ibid., IV, 109, 2).
BUFAGO, in gr. Boùphagos. Fiume della Grecia, affluente di destra dell’Alfeo; nasce a nord di Bufagio. La mitologia raccontava che l’eroe omonimo, corrispondente al fiume, era figlio del titano Giapeto e morì per mano di Artemide nella regione del monte Foloe (Pausania, V, 7, 1; VIII, 26, 8 e 27, 17), dove la dea lo trafisse con le sue frecce.
BUPRASIO, in gr. Boupràsion. Località dell’Elide, in Grecia, ricordata nell’Iliade (XI, 756) come teatro dello scontro tra Nestore, grandissimo eroe di Pilo, e gli Epei. È detta «ricca di grano».
BURA, in gr. Boùra. Città dell’Acaia di difficile identificazione, che secondo la leggenda derivava il suo nome dai buoi (in greco bous) delle locali mandrie, di proprietà di un Centauro, Dessameno, figlio di un altro Centauro, Eceo. Altre versioni raccontavano che il toponimo derivava dal nome di una donna, Bura, figlia di Ione, figlio a sua volta di Xuto, e di Elice. Bura è ricordata da Callimaco nell’Inno a Delo (IV, 102) fra le località che si rifiutarono di offrire ospitalità alla dea Latona, o Leto, che cercava un luogo per partorire i divini gemelli Apollo e Artemide. La città sarebbe stata interessata, come la non lontana Elice, da uno spaventoso terremoto, seguito da un’onda di maremoto, che la rase al suolo e ne inghiottì in fondo al mare anche le rovine (v. ELICE per i particolari). I soli sopravvissuti a quella catastrofe, ossia coloro che erano in quel momento assenti dalla città, la rifondarono poco lontano (Pausania, VII, 25, 8-9). Nei pressi di Bura, in direzione del mare e non lontano da un fiume chiamato anticamente Buraico, si trovava una grotta nella quale aveva sede un oracolo di Eracle, anch’egli venerato con l’epiteto di Buraico, che emetteva i suoi responsi mediante il lancio degli astragali: a ogni figura rappresentata sugli astragali corrispondeva un’interpretazione spiegata su una tavola di riferimento (ibid., VII, 25, 10).
BURCANA Chiamata anche Isola delle Fave, si trovava negli estremi mari settentrionali dell’Europa e corrispondeva forse all’odierna Borkum, posta alla foce dell’Ems sul Mare del Nord; aveva la caratteristica di produrre spontaneamente una gran quantità di fave, cosa che le aveva dato il nome e che appariva abbastanza prodigiosa (Plinio, Nat. Hist., IV, 97); l’isola non è tuttavia legata ad alcun mito noto.
BUSIRIDE, in gr. Boùsiris, -idos. Esistevano nell’antichità diverse città di questo nome Una di esse, presso Alessandria d’Egitto, è la più nota nella mitologia perché patria di un eroe omonimo, Busiride appunto, figlio di Poseidone e di Lisianassa, a sua volta figlia di Epafo e nipote di Zeus. Il nucleo del mito che lo riguardava, intorno al quale erano fiorite poi numerose varianti, raccontava che Busiride sacrificava a Osiride tutti gli stranieri che capitavano nella zona; per essere infine ucciso da Eracle (cfr. Diodoro Siculo, IV, 10; Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11; Igino, Favole, 31 e 56). L’impresa dell’eroe greco contro quello egizio venne immortalata anche nella pittura vascolare. Nell’Ars amatoria Ovidio la riassumeva in questo modo: «Si dice che l’Egitto fosse rimasto privo di piogge che rendono fertili i campi e che per nove anni rimanessero aridi, quando da Busiride si reca l’indovino Trasio e gli rivela che Giove potrà essere placato spargendo il sangue di uno straniero. E Busiride disse a lui: “Sarai tu la prima vittima di Giove: tu, straniero, darai l’acqua all’Egitto”» (I, 645-650). Una versione del mito raccontava che Busiride, faraone egizio, avesse un giorno addirittura osato rapire le Esperidi per allietare i propri festini e che per questo fosse stato sconfitto da Eracle (v. ESPERIDI, ISOLE e GIARDINO DELLE). Un’altra tradizione raccontava che nella città di Busiride Osiride fosse nato e fosse stato poi seppellito, benché molte città dell’Egitto si contendessero l’onore di ospitarne la tomba, tra le quali Taphosiris (dal greco taphos, tomba, e Osiris), che anche etimologicamente agli occhi di Plutarco sembra giustificare il mito (Plutarco, Iside e Osiride, 359 C). Un’etimologia fantasiosa spiegava il nome della città facendolo derivare da una tela di bisso con la quale Iside coprì la cassa in cui aveva raccolto le spoglie dello sposo-fratello Osiride, ucciso da Tifone (Diodoro Siculo, I, 85, 5), mentre più verosimilmente il toponimo si spiega come «casa di Osiride».
BUTO, in gr. Boutò, -oùs. Antica città dell’Egitto situata nella porzione nordoccidentale del Delta, a sud dell’odierno lago Borollos. Vi aveva sede un oracolo di Leto (corrispondente alla dea-cobra egizia Uadit), al centro di numerosissimi aneddoti al confine tra storia e leggenda. Particolarmente venerato, esso era «per gli Egiziani l’oracolo più veritiero» e spesso veniva consultato dai faraoni, come ci ricorda Erodoto (II, 152, 3). Tra questi, il faraone Micerino ricevette da Buto un responso allarmante: gli restavano solo sei anni da vivere e sarebbe morto nel settimo. Inutilmente Micerino mandò un irato messaggio di risposta all’oracolo, facendo notare che lui si era comportato con saggezza e pietà, mentre i suoi predecessori, che pure erano vissuti straordinariamente a lungo, avevano chiuso i templi, oltraggiato gli dèi e fatto soffrire gli uomini. Ma l’oracolo di Buto fece a sua volta notare a Micerino che il destino voleva che l’Egitto fosse tormentato per centocinquanta anni: i suoi predecessori lo avevano capito, lui no, e per questo la sorte si sarebbe accanita su di lui facendolo morire così presto. Micerino allora cominciò a condurre una vita sfrenata di godimenti, che si succedevano giorno e notte: «si fece fabbricare molte lampade e, non appena calava la notte, le accendeva e beveva e si dava al bel tempo, senza smettere né di giorno né di notte». Tutto ciò «perché voleva dimostrare che l’oracolo mentiva, facendo sì che gli anni da sei diventassero dodici, dato che le notti erano trasformate in giorni» (ibid., II, 133).
L’oracolo di Buto ebbe un ruolo rilevante anche nella vicenda del faraone Psammetico I, noto per aver unificato sotto il proprio regno i piccoli staterelli del Delta del Nilo e per aver liberato l’Egitto dalla dominazione degli Assiri. Un aneddoto raccontava che il faraone, durante un banchetto al quale partecipavano anche gli altri undici re delle diverse aree in cui era stato suddiviso l’Egitto, rimase privo della coppa d’oro per le libagioni, per un mero errore di calcolo: ne era stata preparata una in meno rispetto al numero dei convitati. Brindò allora con il proprio elmo di bronzo, ignorando che un oracolo aveva vaticinato che chi avesse brindato in quell’occasione in una coppa bronzea avrebbe avuto il predominio sugli altri diventando l’unico re dell’Egitto. Nonostante la sua buona fede, Psammetico venne mandato in esilio dagli altri undici sovrani; isolato in mezzo alle paludi, meditava su come vendicarsi. Mandò allora un messaggero presso l’oracolo di Leto a Buto, e seppe che la sua vendetta sarebbe venuta dal mare, quando fossero comparsi sulla spiaggia degli uomini di bronzo. Gli Egiziani a quei tempi usavano solo corazze di lino rinforzate con cuoio o con lamine metalliche, ma non armature metalliche; quando perciò un gruppo di Carii e di Ioni sbarcarono con le loro armature bronzee, Psammetico capì che si trattava di coloro che lo avrebbero aiutato a vendicarsi e li accolse con molti onori, riuscendo, come l’oracolo aveva predetto, a rovesciare gli altri re e a impadronirsi del potere (ibid., II, 151-154).
BUTRINTO o BUTROTO Località dell’Epiro, nell’odierna Albania, di fronte a Corcira (Corfù), sulla riva del lago salato omonimo, o di Vivari, anticamente chiamata Bouthrotòn in greco (Buthrotum in latino), dove fece tappa Enea durante le sue peregrinazioni attraverso il Mediterraneo successive alla caduta di Troia («di Butroto ci avviciniamo all’eccelsa città», Virgilio, Eneide, III, 293). Il ricordo del suo passaggio era testimoniato dal toponimo «Troia» che indicava una collina nelle vicinanze (Dionigi di Alicarnasso, I, 51, 1). A Butroto Anchise si fermò con la flotta, mentre Enea si dirigeva verso Dodona per interrogare l’oracolo circa il futuro della sua spedizione.
La tradizione voleva che la città fosse stata fondata da Eleno, eroe troiano, figlio di Priamo, fratello gemello della profetessa Cassandra e indovino a sua volta («Pergamo, una rocca simile a Ilio, eresse su queste cime», spiega Virgilio, Eneide, III, 336). Eleno era prigioniero di Pirro o Neottolemo, figlio dell’eroe Achille, e proprio Pirro, dopo aver avuto Andromaca, vedova del troiano Ettore, come prigioniera di guerra e propria concubina e dopo aver successivamente sposato Ermione, la bellissima figlia dell’ancor più bella Elena, aveva deciso di dare Andromaca in moglie a Eleno: per un curioso, intricato destino Andromaca, vedova di un grande eroe troiano, tornava tra le braccia di un Troiano. Nel frattempo, però, Oreste, il figlio di Agamennone e Clitemnestra, furioso per essere stato privato della splendida Ermione che gli era stata precedentemente promessa in sposa, aveva raggiunto Pirro e lo aveva ucciso, sgozzandolo a Delfi (alla vicenda era dedicata l’Andromaca di Euripide). In tal modo dopo la sua morte una parte dei regni che erano stati di Pirro era passata a Eleno: «il priamide Eleno regna su graie città, avendo per via di nozze ottenuto lo scettro di Pirro discendente di Eaco, con Andromaca, toccata ancora una volta a un marito della sua nazione» (Virgilio, Eneide, III, 295-297; cfr. III, 325 ss.).
Presso la città si svolge un commovente incontro tra Enea e Andromaca, che sta sacrificando su un cenotafio in memoria di Ettore, lo sposo perduto: «in un bosco sacro, presso l’onda di un falso Simoenta [il Simoenta era il fiume di Troia], offriva Andromaca e le ceneri e i mani invocava di Ettore innanzi a un tumulo di verdi zolle, vuoto» (ibid., III, 302-304). Nello straziante dialogo che segue fra Enea e la delirante Andromaca, sopraffatta dal dolore e dal lutto, viene spiegata l’origine della città a opera di Eleno, che «una rocca simile a Ilio eresse su queste cime» (ibid., III, 336): una rassomiglianza che Enea riscontra a ogni passo, mentre si dirige verso il palazzo di Eleno: «Come procedo, una piccola Troia e, modellata sulla grande, una Pergamo e arido col nome dello Xanto un torrente ritrovo; ed è la Scea, la porta di cui abbraccio la soglia» (ibid., III, 349-351). Anche Ovidio, narrando nelle Metamorfosi il viaggio di Enea verso il Lazio, menziona Butroto presentandola come una «copia di Troia» (XIII, 721).
La regione in cui sorgeva Butrinto era chiamata Caonia, da un troiano Caone sul quale erano diffuse leggende non univoche: si diceva (Servio) che fosse un fratello di Eleno, o un suo amico, che lo stesso Eleno avrebbe accidentalmente ucciso durante una partita di caccia, o che si sacrificò per il bene comune in occasione di un viaggio o durante una pestilenza (v. anche CAONIA).
BYRSA Nome con il quale le fonti antiche indicano l’acropoli di Cartagine. Il toponimo derivava dall’antico nome fenicio della località, che significava «abbeveratoio delle pecore»; nel mondo greco e romano però suggeriva un’assonanza con il termine greco e latino byrsa, che significa «pelle di bue», e veniva messo in relazione con la leggenda della fondazione di Cartagine da parte di Didone. Per lo stratagemma usato in quell’occasione dalla regina fenicia, v. CARTAGINE.