C
CABESO, in gr. Kabesòs. Luogo non identificabile della Troade, in Asia Minore, ricordato nell’Iliade. Non lontano da Troia, è la patria di Otrioneo, alleato dei Troiani e pretendente alla mano della profetessa Cassandra. È ucciso da Idomeneo, re di Creta: «era venuto da poco al rumore di guerra, e tra le figlie di Priamo la più bella chiedeva, Cassandra, senza doni, ma prometteva gran cosa: cacciare gli Achei loro malgrado da Troia» (XIII, 363-67).
CADICE Città della Spagna chiamata anticamente Gàdeira dai Greci e Gades dai Latini. Secondo alcune fonti era stata fondata dai Fenici, «da una flotta dei Tirii, che deteneva la signoria del mare», ed era sorta «nell’estremo lembo della Spagna, ai più remoti confini del nostro mondo, in un’isola circondata dall’Oceano, divisa dalla terraferma da un piccolissimo tratto di mare» (Velleio Patercolo, I, 2). Nei pressi della città sarebbe approdato l’eroe ateniese Menesteo, che partecipò alla guerra di Troia e che dopo la caduta della città avrebbe qui fondato una colonia col proprio nome, istituendovi anche un oracolo (il «porto di Menesteo» con il santuario oracolare dell’eroe è citato da Strabone, III, 140 = 1, 9). In generale, circa la fondazione si narrava di reiterati tentativi compiuti prima di trovare il sito adatto (ibid., III, 5, 5).
La città ospitava un santuario dedicato alla dea Astarte, venerata con funzioni oracolari e identificata da alcune fonti con Afrodite-Venere; fino all’età romana vi è inoltre attestato un antichissimo culto del dio fenicio Melqart. Per la sua posizione occidentale, in direzione del sole al tramonto, Cadice era considerata dai poeti latini la casa del Sole, più precisamente «il luogo dove il Sole pone il suo letto» (Stazio, Silvae, III, 1, 183: solisque cubilia Gades). Era inoltre identificata con la favolosa terra di Erizia, legata al mito di Eracle e della cattura dei buoi di Gerione (Strabone, III, 169, 172 = 5, 3-4, 7): essa infatti occupava tre isolette, una delle quali aveva nome Erytheia o Erizia (oggi San Sebastian) e ospitava secondo un filone della leggenda il regno di Gerione, mostro tricefalo, dal quale Eracle fece ritorno con la mandria che gli aveva sottratto; qui il mito collocava anche la tomba del mostro, benché una tradizione meno diffusa ne identificasse le ossa a Tebe (Luciano di Samosata, A un incolto che compra molti libri, 58 [31], 14) e un’altra ancor meno attendibile le collocasse in Lidia (Pausania, I, 35, 7). Ercole, «giunto a Gades, vi pose delle colonne, pensando che lì si trovasse il termine dell’orbe terrestre» (Isidoro, Etimologie, XIII, xv, 2): sono le famose COLONNE D’ERCOLE (v.), che si potevano osservare presso il tempio dedicato all’eroe. Il culto di Eracle vi era assai radicato, e Annibale, durante la sua spedizione in Spagna, gli offrì un sacrificio (Livio, XXI, 21, 9). La città era quindi spesso chiamata «Città di Ercole, sulla riva di Erizia» (Silio Italico, Guerra Punica, XVI, 194). Nei pressi di Cadice la tradizione collocava anche il Giardino delle Esperidi con i suoi frutti d’oro e le Isole dei Beati, una specie di paradiso riservato agli eroi antichi (Strabone, III, 2, 13; v. BEATI, ISOLE DEI). Non mancavano neppure ipotesi secondo le quali Gadeira s’identificasse con Tartesso, altra città dai contorni mitici (ibid., III, 2, 14 e Plinio, Nat. Hist., III, 7).
Nella zona si trovavano pietre «disposte a tre o a quattro in più punti, le quali, in osservanza a un costume locale, vengono rivoltate dai visitatori e di nuovo sistemate al loro posto dopo libagioni. Non è lecito sacrificare né tanto meno metter piede di notte nel luogo, poiché proprio allora lo occupano, secondo le credenze locali, gli dèi: chi lo vuole visitare deve pernottare in un villaggio vicino e recarvisi di giorno» (Strabone, III, 1, 4). Secondo alcune fonti, poi, nella regione «si segnala la presenza di enormi mostri marini», probabilmente balene (Pseudo-Scimno, 161-162). Annibale, il celebre condottiero cartaginese, avrebbe ammirato proprio a Cadice lo spettacolo, inusuale nel Mediterraneo, delle maree: «Il mare, di cui tutta la massa si solleva, si getta all’improvviso sulla terra, inghiotte le rive circostanti, e il manto liquido inonda le pianure» (Silio Italico, Guerra Punica, III, 46-48).
Il toponimo, nella sua forma fenicia originaria, voleva dire «fortificazione», «bastione» o simili.
CAFEREO o CAFAREO, CAPO, in gr. Kapherèus. Promontorio – oggi Capo d’Oro – dell’Eubea meridionale, che nell’antichità era tristemente famoso come luogo di frequenti naufragi a causa delle scogliere (le Rocce Caferidi), anche sommerse, che rendevano la navigazione estremamente difficoltosa. La mitologia raccontava che sul promontorio il re dell’Eubea, Nauplio, avesse acceso dei fuochi di segnalazione per vendicare, con quei fuorvianti indicatori di sicurezza, la morte di suo figlio Palamede: durante la guerra troiana quest’ultimo era stato ucciso dai suoi stessi compagni perché ingiustamente accusato di furto. Un ruolo non irrilevante nell’accusa era stato quello di Ulisse, che non gli aveva perdonato di avere smascherato la falsa pazzia con la quale anni prima il sovrano di Itaca aveva cercato di mettersi al sicuro dalla guerra di Troia (v. ITACA per i particolari di questo episodio). Il padre di Palamede, Nauplio, allora, aveva acceso una serie di fuochi sulle coste dell’isola, che trassero in inganno i naviganti e li portarono a sfracellarsi sugli scogli Caferidi (Euripide, Elena, 1129). Per questo Virgilio, nell’Eneide, può parlare del promontorio euboico come del «vendicatore Cafereo» (XI, 260); e Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che l’eroe greco Diomede, di ritorno dalla spedizione contro Troia, proprio qui fu vittima di un naufragio («Il disastro finale di capo Cafareo», XIV, 472; «il tragico Cafareo», XIV, 481). Da quell’episodio mitico era derivato al promontorio il soprannome di «xilofago» o «mangialegna» (Apollodoro, Epitome, VI, 8-11), ossia divoratore di navi. Ancora Ovidio, rievocando il mito di Nauplio, ricorda che «il navigante argivo fugge le rupi di Cafereo» (Tristia, I, 1, 83). Tra le vittime dell’insidioso promontorio si annoveravano infatti anche alcuni eroi argivi che, naufragati su quelle coste inospitali e tormentati dal freddo e dalla fame, implorarono gli dèi di proteggerli. Poco dopo, spingendosi nell’entroterra, si imbatterono in una grotta che conteneva una statua di Dioniso, ai cui piedi si erano radunate alcune capre selvatiche in cerca di riparo dalla tempesta. Gli Argivi poterono così catturarle, nutrirsi della loro carne e coprirsi con le loro pelli, e quando, terminata la bufera e riparate le navi, poterono riprendere il mare e tornare in patria, portarono con sé la statua del dio, che venne onorata da quel momento ad Argo (Pausania, II, 23, 1).
Nel dialogo Zeus tragedo di Luciano di Samosata (44 [21], 15) si immagina che l’armatore Mnesiteo celebri al Pireo, il porto di Atene, un sacrificio «di ringraziamento per la salvezza della sua nave, che poco mancò andasse perduta presso il Cafereo»: un sacrificio che lascia piuttosto perplesso Zeus, il quale, alla fine del rito, salito dal Pireo verso Atene per fare la sua passeggiata pomeridiana, ripensa «alla taccagneria di Mnesiteo, che, invitando sedici dèi, aveva sacrificato un solo gallo, già vecchio e catarroso anche lui, e quattro grani d’incenso ben ammuffiti, così da spegnersi subito sul carbone, e nemmeno in condizione di sprigionare tanto fumo da potersi odorare con la punta del naso».
V. anche EUBEA.
CAFIE v. CAPHYAI.
CAICO, in gr. Kàikos. Fiume della Misia, in Asia Minore, nato, secondo la mitologia, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-343). La sorgente del Caico è raggiunta dal pastore Aristeo nella sua visita nel mondo subacqueo descritta da Virgilio nelle Georgiche (IV, 370), per la quale v. TEMPE; la sua foce segnava i confini del regno di Teutrante di Misia, uno dei protagonisti del mito di Telefo (per il quale v. TEGEA). Nelle Metamorfosi di Ovidio il Caico è menzionato tra i fiumi le cui rive e addirittura le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Lo stesso Ovidio ricorda che il Caico «fluì purpureo per la strage del suo popolo» compiuta da Achille (XII, 111-112: per le vicende di Achille nella regione v. MISIA); e con riferimento al mutare del suo corso, aggiunge che esso, «pentitosi, sembra, della sua fonte e delle sponde che aveva, oggi segue diverso percorso» (ibid., XV, 277-278). Sulle sue rive si sarebbero svolte anche alcune delle imprese guerresche di Mirina, intrepida regina delle Amazzoni.
CAISTRO, in gr. Kastrios o Ka
stros. Fiume dell’Asia Minore, in Lidia, che sfocia presso Efeso, e che Omero cita in una similitudine dell’Iliade a proposito dello strepito prodotto dai soldati che si preparano al combattimento: «Come quando fitte schiere di uccelli, oche, gru o cigni dai lunghi colli, sui prati d’Asia presso le rive del Caistro, volano qua e là in festa con un gran battito d’ali, poi stridendo si posano – la prateria è tutta un brusio – così dalle tende e dalle navi a frotte si riversavano gli uomini nella pianura dello Scamandro» (II, 459-465). I canti e i voli degli uccelli presso il corso d’acqua sono ricordati anche nelle Metamorfosi di Ovidio, dove il Caistro è menzionato tra i fiumi le cui rive e le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Nella valle del fiume si trovava una palude, la palus Asia, sulle cui acque incrociavano i cigni e sulle cui rive cresceva il mirto (Catullo, LXI).
CALABRIA Con questo nome in latino si indicava anticamente solo il territorio della penisola salentina, corrispondente alle province attuali di Lecce e Brindisi e a parte di quella di Taranto, nell’odierna Puglia. La regione che a partire dal Medioevo, e poi fino ai nostri giorni, venne chiamata Calabria era invece per i Greci e i Latini denominata Bruzzio (, Bruttium). I Greci davano alla Calabria latina, ossia alla penisola salentina, il nome di Messapia, rifacendosi al nome del condottiero Messapo, e prima ancora l’avevano chiamata Peucezia, dal nome di un altro eroe, Peucezio, fratello di Enotro, che risiedeva nel territorio del Salento (Plinio, Nat. Hist., III, 99; Isidoro, Etimologie, XV, i, 58). Il carattere selvaggio della regione era quasi un topos letterario: «Visitiamo luoghi selvaggi, andiamo in Calabria e sulle balze della Lucania» scrive Seneca (De tranquillitate animi, II). Sulla scia di questa tradizione di terra aspra e selvaggia si collocavano notizie spesso fantasiose e straordinarie, come quella secondo la quale in Calabria si trovavano serpenti di proporzioni gigantesche (Solino, II, 33).
Per altre notizie mitologiche sulla regione corrispondente alla Calabria latina v. MESSAPIA, PEUCEZIA e più in generale ITALIA; per il Bruzzio, corrispondente alla Calabria attuale, v. alle singole località: ACHERONTE; CAULONIA; CRATI; CROTONE; ENOTRIA; ITA-CESIE, ISOLE; LACINIO, CAPO; LOCRI; NETO; PANDOSIA; REGGIO CALABRIA; SAGRA; SCILLA e CARIDDI; SIBARI; SILA; SPARTIVENTO, CAPO; SQUILLACE; TEMESE; TERINA; TURI.
CALATIA Città della Campania, situata lungo la via Appia e corrispondente all’attuale località detta Le Gallazze, tra Caserta e Maddaloni. Non sembra avere rapporti diretti con la mitologia, ma vi avvenne un giorno un fatto prodigioso: vi nacque un asino con tre piedi (Livio, XLII, 20, 5).
CALAURIA v. POROS.
CALCEDONE o CALCEDONIA, in gr. Chalkedòn o Kalchedòn. Località situata sul Bosforo Tracio, presso l’odierna Scutari, dove si trovava un tempio in onore di Zeus dalle origini mitiche: la sua fondazione era fatta risalire a Giasone, il condottiero degli Argonauti che guidò la spedizione alla ricerca del vello d’oro nella Colchide (Pomponio Mela, Corografia, I, 19, 101); lo stesso eroe, secondo altre fonti, vi aveva costruito un altare dedicato ai dodici dèi (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 531-532).
CALCIDE, in g. Chalkìs. Il nome, piuttosto diffuso nell’antica Grecia, indicava diverse città. La più famosa era la Calcide dell’isola di EUBEA (v.), una delle principali città dell’Ellade, che anche nella mitologia ha un ruolo rilevante. La sua fondazione mitica era attribuita secondo alcune fonti a Coto (Kothos), fratello di Ione e figlio di Xanto (Strabone, X, 1, 8). Coto aveva saputo da un oracolo che sarebbe riuscito a conquistare la regione se ne avesse comperato il territorio. Sbarcato dunque con un gruppetto di seguaci sulla spiaggia dell’isola, si imbatté in alcuni bambini che giocavano sulla riva. Egli si unì ai loro giochi, e cercando di essere gentile nei loro confronti mostrò loro numerosi giocattoli che non avevano mai visto. Quando si accorse che i piccoli li desideravano, spiegò che li avrebbe donati loro soltanto se essi, in cambio, gli avessero dato la loro terra. I bambini allora presero dalla spiaggia delle manciate di sabbia e gliele consegnarono, allontanandosi soddisfatti con i loro giocattoli nuovi. Quando però gli Eolici di Calcide scoprirono quello che era successo, furiosi con i piccoli, li uccisero. I bambini sono seppelliti nella località nota come «Tomba dei bambini» (Plutarco, Quaest. graec., 296, D-E).
La mitologia ricorda Calcide anche in relazione con la battaglia delle Amazzoni contro gli Ateniesi. In seguito alla spedizione delle Amazzoni contro Atene, infatti, che vide contrapporsi in uno scontro violento, nel cuore stesso della città, le intrepide donne guerriere e gli Ateniesi capeggiati da Teseo, «le Amazzoni rimaste ferite furono di nascosto mandate da Antiope [la loro regina] a Calcide per essere curate»; alcune di esse «furono là sepolte, nel luogo che oggi viene chiamato Amazzoneo» (Plutarco, Teseo, 27, 6). Una tradizione ricordava poi che a Calcide avvenne una celebre tenzone poetica tra Omero ed Esiodo, che fu vinta da quest’ultimo; il vincitore dedicò allora sul monte Elicona un tripode alle Muse, con un’iscrizione commemorativa (Antologia Palatina, VII, 53; cfr. anche ELICONA). Non lontano da Calcide si trovava una fonte la cui Ninfa eponima si chiamava Aretusa ed era stata la madre dell’eroe Abante, che aveva generato da Poseidone.
La città era chiamata anche Combe, dal nome di un’eroina figlia del dio fluviale Asopo e di Merope (Diodoro Siculo, IV, 72); Combe era ritenuta la madre dei Coribanti dell’isola di Eubea (Nonno di Panopoli, Dionisiache, XIII, 135 ss.; i Coribanti erano solitamente ritenuti sacerdoti della dea Cibele) e aveva uno sposo di nome Soco. Per sfuggire a quest’ultimo, che non era evidentemente il marito ideale, Combe compì svariate peregrinazioni, finché poté tornare in patria quando l’incomodo coniuge venne ucciso da Cecrope, re di Atene; alla fine della sua tormentata storia la troviamo trasformata in uccello (Ovidio, Metamorfosi, VII, 383).
CALCIDICA, in gr. Chalkidikè. Penisola greca della parte settentrionale dell’Egeo, a est del golfo di Salonicco, terminante con tre lunghi promontori, Athos (anticamente Acte), Sitonia e Cassandra (anticamente Pallene). Era talvolta chiamata anche Chersoneso. Per i miti relativi v. ATHOS; CANASTRO; CHERSONESO; OLINTO; OLOFISSO; PALLENE; POTIDEA; TORONE.
CALCODONIO, in gr. Chalkodònios. Monte greco di difficile identificazione. Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, ricorda che alle sue pendici risiedeva «Admeto, signore di Fere ricca di greggi» (I, 49; Admeto era lo sposo di Alcesti), ma non aggiunge altro né sulle sue caratteristiche né sulla sua collocazione. Igino precisa soltanto che si trovava in Tessaglia (Favole, 14).
CALES v. CALVI.
CALIBI, PAESE DEI Regione di collocazione difficilmente precisabile, forse nella Scizia; vi abitava una popolazione semimitica (in greco, i Chàlybes) dedita alla lavorazione del ferro e specializzata anche nell’estrazione dell’oro e nello sfruttamento di miniere d’argento. L’attività mineraria impegnava interamente i Calibi e li teneva lontani dai lavori agricoli, cosa che contribuiva a delinearne un profilo selvaggio, lontano dalle consuetudini dei popoli civilizzati. Citati da Erodoto tra le popolazioni «al di qua dell’Alis» che il re Creso di Lidia assoggettò (I, 28), i Calibi sono menzionati anche da Eschilo come coloro «che lavorano il ferro, da cui devi guardarti: sono infatti selvaggi e inaccessibili per gli stranieri» (Prometeo incatenato, 715-716). Il «ferro dei Calibi» è poi ricordato in una sentenza proverbiale da Euripide (Alcesti, 980); e Callimaco, nella Chioma di Berenice (Aitia, IV, fr. 110 Pf.), ribadisce che i Calibi «per primi scoprirono il ferro, mala pianta che spunta dalla terra, e insegnarono l’opera dei martelli». Gli fa eco Catullo nel carme LXVI, che ricorda «i Calibi e quanti sotto terra per primi ricercarono la vena e la tempra forgiarono del ferro» (vv. 48-50); mentre agli «inesausti Calibi» allude Virgilio nell’Eneide (X, 174). Gli Argonauti, durante la loro spedizione verso la regione della Colchide alla ricerca del vello d’oro, oltrepassano il territorio dei Calibi, «gli uomini più travagliati, che lavorano un suolo durissimo ed aspro, e ne estraggono il ferro» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 374-376); le loro case «risuonano senza posa del rumore del metallo battuto» (Valerio Flacco, Argonautiche, IV, 612). I Calibi «non si curano di arare con i buoi, non coltivano i dolci frutti negli orti, non portano al pascolo le bestie sui prati bagnati dalla rugiada, ma aprono il duro terreno che produce ferro e vendono il ferro e ne traggono mezzi di vita. Non sorge per loro un’alba senza fatica, e sopportano il duro lavoro in mezzo al fumo e alla fuliggine» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 1002-1008). Si diceva che nelle miniere d’oro dei Calibi i topi rosicchiassero il prezioso metallo, e che una delle attività estrattive di quel popolo consistesse nel catturare i roditori e squartarli per recuperare i frammenti auriferi che avevano inghiottito (Plinio, Nat. Hist., VIII, 222).
Il loro nome era fatto derivare dall’eroe eponimo Calibo, «immigrato dalla Scizia» (Eschilo, Sette contro Tebe, 728). Nel paese dei Calibi morì e venne sepolto, non lontano dal mare, l’eroe Polifemo, uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1475-1477; per i particolari v. MISIA). Una discussione a proposito della localizzazione e delle caratteristiche del popolo dei Calibi e dell’esistenza delle loro ricche miniere d’argento si legge in Strabone (XII, 3, 20 ss.).
CALIDNE, in gr. Kalýdnai. Isole dell’Egeo, nell’arcipelago delle Sporadi, ricordate nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 676). Si trovavano di fronte alla costa di Troia e avevano nome, singolarmente, Calidna e Lero. Nel V libro della sua Biblioteca storica, Diodoro Siculo ricorda che vi regnò Tessalo, figlio di Eracle, e che durante il viaggio di ritorno dalla guerra di Troia quattro navi della flotta di Agamennone furono colte da una tempesta nelle loro acque e scaraventate sulle loro spiagge; gli occupanti delle navi sbarcarono a Calidna e vi si stabilirono, mescolandosi con gli abitanti originari. Calidne era anche l’antico nome dell’isola di Tenedo, dalla quale provenivano secondo una tradizione i due mostruosi serpenti marini che uccisero Laocoonte e i suoi figlioletti (v. TENEDO per i particolari). Altrove le isole sono chiamate «isole di Porceo mangia-bambini» (Licofrone, Alessandra, 347), dove i bambini sono appunto i figli di Laocoonte e Porceo è uno dei due serpenti (l’altro si chiamava Caribea) che divorano i due innocenti. L’epiteto di Calidneo con il quale era venerato Apollo si riferiva tanto alle isole quanto, probabilmente, ai serpenti che il dio, a partire dalla sua avventura delfica con il serpente Pitone (v. DELFI), è deputato a sterminare.
CALIDONE, in gr. Kalydòn. Città greca dell’Etolia, situata a una decina di chilometri a est della moderna Missolonghi, luogo noto per la morte di Lord Byron che vi avvenne il 19 aprile 1824. Nella mitologia è celebre per il cinghiale calidonio che appunto da essa prese il nome. Il mito raccontava che il re Oineo o Eneo, sovrano della città, aveva commesso una grave dimenticanza, durante un sacrificio, quando offrì le primizie della sua vigna a tutti gli dèi, trascurando di sacrificare ad Artemide: «non ci pensò, e fu tremendo errore» (Iliade, IX, 535-537). In preda alla collera, Artemide infatti scatenò contro la vigna di Oineo un enorme cinghiale che provocò ingenti danni alla regione, devastando completamente le terre del re: «La dea figlia di Leto, che scaglia da lontano i suoi dardi, mandò un enorme cinghiale nelle pianure di Oineo» si legge in un frammento di una tragedia perduta di Sofocle, Meleagro. La belva, che sterminò anche molti dei cacciatori radunatisi per catturarla, venne alfine uccisa da Meleagro, figlio di Oineo, che fu fiancheggiato nell’impresa dall’eroina Atalanta di Tegea. Secondo una tradizione tarda Meleagro donò la pelle della belva uccisa ad Atalanta, riconoscendole l’onore di aver sferrato il colpo finale, ma in realtà perché ne era innamorato: nel racconto di Ovidio (Metamorfosi, VIII, 425 ss.), «Meleagro, ponendovi sopra un piede, calpesta quella testa micidiale e proclama: “Prenditi il trofeo che mi compete, Atalanta, così che con te sia spartita la mia gloria”. E le dona le spoglie: la pelle irta di rigide setole e il muso su cui spiccano due zanne enormi»; i fratelli della madre di Meleagro però rivendicarono le spoglie della preda, e ne nacque una rissa: Meleagro li uccise e suscitò in tal modo la disperazione e l’ira della propria madre Altea. Quest’ultima, secondo la leggenda, aveva saputo da un presagio che il figlio sarebbe morto nel momento esatto in cui si fosse spento, finendo di bruciare, un tizzone di legno del camino. La donna lo aveva rapidamente sottratto alle fiamme e messo al sicuro per assicurare al figlio una lunga vita, ma in quel momento di collera lo recuperò e lo rimise nel fuoco. E come era stato predetto, quando esso finì di ardere, anche la vita di Meleagro si spense (Apollodoro, Biblioteca, I, 8, 2; Ovidio, Metamorfosi, VIII, 445-525; Antonino Liberale, Metamorfosi, II, 5). Da quel momento le donne di Calidone cominciarono a piangere la sua morte e la dea Artemide le trasformò in galline faraone, chiamate meleagridi, trasferendole nell’isola di Lero.
Nella versione del mito raccontata da Fenice, eroe greco amico di Achille, nell’Iliade, la caccia al cinghiale calidonio è inserita nel contesto delle lotte tra Cureti ed Etoli, con i primi che volevano conquistare Calidone e i secondi che la difendevano. I Cureti arrivarono ad appiccare fuoco alla città e ad assalire perfino il talamo nel quale Meleagro giaceva con la sposa, la bellissima Cleopatra; finché l’eroe «si levò, si vestì delle armi splendenti e così […] allontanò dagli Etoli il giorno fatale» (Iliade, IX, 595-599). Meleagro, con il suo precettore Laocoonte, partecipò anche alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 191).
Tra i personaggi mitologici originari di Calidone si ricordava inoltre Tideo, che da Deipile (figlia di Adrasto di Argo) ebbe come figlio il celebre eroe Diomede: Teocrito, nei Carmi bucolici, chiama Tideo «l’uomo di Calidone» (XVII, 54). Il padre di Tideo, nonché nonno di Diomede, era quel re Oineo da cui era partita la storia del cinghiale; e a Calidone era nato anche lo stesso Diomede, che perciò nell’Eneide ricorda con rimpianto «la bella Calidone» (XI, 270), alla quale non potrà tornare per una vendetta di Venere, che egli nella guerra di Troia aveva cercato di ferire: la dea lo punì per tanto ardire facendogli trovare, al suo ritorno, la moglie Egialea risposata con un figlio di Stenelo. Diomede lascerà allora la patria stabilendosi nell’Italia meridionale.
A Calidone era oggetto di particolare venerazione una statua di Artemide, che veniva onorata con l’appellativo di Lafria: si diceva che tale epiteto le provenisse dal nome di un certo Lafrio che l’aveva fatta scolpire, ma si ipotizzava anche che derivasse dal greco elaphroteron, «meno pesante», con allusione all’alleggerirsi della collera della dea nei confronti di Oineo (Pausania, VII, 18, 9-10). Non meno venerato era nella città il dio Dioniso, del quale era sacerdote un certo Coreso, protagonista di una patetica storia d’amore. Egli si era innamorato perdutamente di una bellissima giovinetta di nome Calliroe, che tuttavia non voleva saperne di lui. Deluso e amareggiato, Coreso rivolse le sue preghiere al dio Dioniso, il quale in risposta suscitò negli abitanti di Calidone i sintomi della follia: «il dio dette ascolto alle preghiere del suo sacerdote e subito i Calidonii cominciarono a uscire di senno, come se fossero ubriachi, e la morte li coglieva mentre erano in preda alla follia». L’oracolo di Dodona, interpellato sull’inquietante fenomeno, rispose che si trattava dell’ira di Dioniso, che non si sarebbe placata se Coreso non gli avesse sacrificato Calliroe stessa o qualcuno che fosse stato disposto a rinunciare alla propria vita al posto suo. Vanamente si cercò qualcuno disposto a prendere il posto di Calliroe: la fanciulla dovette salire all’altare come vittima. Ma quando Coreso, che presiedeva al sacrificio, la vide, anziché uccidere lei preferì togliersi la vita: «dimostrò così con i fatti di essere, fra gli uomini che conosciamo, quello animato dall’amore più sincero». Quanto a Calliroe, davanti a una simile prova d’amore si pentì amaramente e vinta dalla pietà e dalla vergogna si tagliò la gola presso la sorgente di Calidone, non lontano dal porto; «dal suo nome i posteri chiamano la sorgente Calliroe» (ibid., VII, 21, 1-5).
A Calidone era ambientata la commedia di Plauto Poenulus, «il Cartaginesino», nonché il mito di Deianira, per il quale v. PLEURONE.
Il toponimo Calidone era messo in relazione con un eroe dallo stesso nome, che avrebbe fondato la città e che era figlio di Etolo, l’eponimo della regione dell’Etolia (Apollodoro, Biblioteca, I, 7, 7).
CALIMNE, in gr. Kalmnai o Kal
mne. Oggi Calino, è un’isola dell’Egeo, nel gruppo delle Sporadi. Nelle Metamorfosi di Ovidio Calimne «ricca di miele» è ricordata tra le località che Dedalo e Icaro sorvolano nella loro fuga da Creta, volando con le ali che Dedalo stesso aveva costruito con piume e cera (VIII, 222; cfr. anche Ovidio, Ars amatoria, II, 81, dove si parla di «Calimne ombrosa di boschi»).
CALLICOLONE, in gr. Kallikolòne. Località nei pressi di Troia, a 40 stadi a est della città, presso Karatepe, a est dell’odierna sariçali. Una tradizione voleva che qui Ares avesse chiamato alle armi i Troiani (Iliade, XX, 51; Strabone, XIII, 1, 35). Vi si sarebbe svolto anche il giudizio di Paride, per il quale v. IDA.
CALLICORO, in gr. Kallìchoron. Mitico fiume della Bitinia, non lontano da Eraclea del Ponto; la sua foce si trova in un punto imprecisato del Mar Nero. Nel mito è legato alla figura di Dioniso, il quale, di ritorno dall’India, sulle sue rive celebrò le sue feste e «istituì le danze davanti alla grotta dove passò notti sacre, senza sorriso, e da quel tempo i vicini chiamano il fiume Callicoro, cioè “dalle splendide danze”, e alla grotta hanno dato il nome di Aulio, “rifugio”» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 907-10). Appena ritornato dalla spedizione asiatica, «Bacco purificò nelle acque di questo fiume il suo tirso che stillava sangue orientale», ricorda Valerio Flacco (Argonautiche, V, 75-76).
Diversa è la «sacra fonte di Callicoro» (Euripide, Le supplici, 392), una fontana di Eleusi che si trovava presso il tempio di Demetra. Qui, secondo la tradizione, si era fermata Demetra, affranta e sfinita per la ricerca della figlia Persefone, che era stata rapita da Aidoneo, re del mondo dei morti (Callimaco, fr. 611 Pf.): per tre volte la dea si era seduta presso la fonte, «assetata, per terra, senza bere, senza mangiare e senza fare il bagno» (Id., Inni, VI, 15-16; per altri particolari v. ELEUSI). Qui, «per la prima volta, le donne di Eleusi danzarono e cantarono in onore della dea» (Pausania, I, 38, 6). Il nome Callicoro, letteralmente «bel coro», derivava dai choroi, come erano chiamati i corteggi e le danze, specialmente quelli in onore di Dioniso.
CALPE, in gr. Kàlpe. Il nome indica nella geografia antica diverse località. Nella Tracia asiatica si trovava un porto di Calpe descritto nell’Anabasi di Senofonte (VI, 4), situato a metà strada fra Eraclea e Bisanzio e corrispondente all’odierna Kerpen sul Mar Nero. Il luogo, un accogliente porto naturale, appare caratterizzato da un promontorio «che si protende nel mare e termina con una rupe a picco»; ai piedi della rupe si apre un’insenatura e nei pressi sgorga una sorgente d’acqua dolce; vicino al mare crescono rigogliosi fittissimi alberi che si presterebbero egregiamente per la costruzione di navi. Nelle vicinanze si eleva una montagna che offre riparo, e la regione, fertilissima, produce generosamente miglio, sesamo, fichi, orzo, grano, legumi, viti e ogni altro frutto, con l’esclusione dell’olivo. Data la natura estremamente favorevole del luogo Senofonte vorrebbe fondarvi una colonia, ma il suo progetto è destinato a restare sulla carta: sul posto, a parte qualche villaggio e il riparo naturale costituito dal porto, non sorse alcun centro urbano. Notevole era comunque l’approdo che la rada offriva, con la sua fresca e purissima sorgente, i fitti boschi estesi sulla riva del mare e le numerose bestie selvatiche (Arriano, Periplo, 4-5).
Nell’antichità il toponimo Calpe era anche uno dei nomi con cui si indicava l’odierna Gibilterra. Era detta anche Carteia, o Calpe Carteia. «Famosa e antica» la definisce Strabone (III, 1, 7), secondo il quale si riteneva che fosse stata fondata da Eracle e che avesse originariamente nome Eraclea. Come scrive Isidoro, «il monte Calpe si trova all’estremo limite dell’Oceano che separa l’Europa dall’Africa: dicono che costituisca la parte finale del monte Atlante» (XIV, viii, 17). Secondo una tradizione postomerica, a Calpe e alle Colonne d’Ercole sarebbe stato spinto Ulisse da una tempesta (cfr. Properzio, III, 12, 25). Di Calpe era originario un eroe di nome Forcide, le cui gesta sono rievocate da Silio Italico nella Guerra Punica (X, 173 ss.): egli era discendente di Medusa e il suo nome sottolinea la sua ascendenza mitologica (Forcidi erano chiamate le figlie del dio marino Forco, tra le quali le Gorgoni e la stessa Medusa).
All’epoca delle guerre civili che insanguinarono Roma alla fine dell’età repubblicana, tra i molti presagi sinistri che funestarono quei giorni «il mare sommerse con onde gigantesche l’occidentale Calpe e la sommità dell’Atlante» (Lucano, Guerra civile, I, 554-555).
Il toponimo Calpe era fatto derivare, secondo un’etimologia popolare, dal termine greco che indicava la brocca: il luogo si prestava assai bene a questa etimologia, perché proprio dall’apertura delle Colonne d’Ercole l’acqua dell’Oceano, come da una brocca, si riversava nel Mediterraneo. L’altra Colonna, sulla sponda africana, era chiamata Abila e solo all’epoca araba le due sponde insieme vennero chiamate Gibilterra (v. anche COLONNE D’ERCOLE).
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (II, 659) un luogo chiamato Calpe, caratterizzato dalle profonde correnti di un fiume e da una vasta pianura, viene oltrepassato dagli Argonauti sulla nave Argo mentre si dirigono verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro.
CALVI Città della Campania, anticamente Cales, nel territorio degli Aurunci, oggi Calvi Risorta. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 728). La città fu teatro di un oscuro prodigio: durante la seconda guerra punica ci fu una pioggia d’argilla che mise in allarme gli indovini (Livio, XXIV, 10, 7). Secondo Plinio vi si poteva attingere un’acqua prodigiosa che, acidula di sapore, aveva la caratteristica di rendere «ebbri quanto il vino» (Nat. Hist., II, 230).
CAMARINA, in gr. Kamàrina. Città greca della costa meridionale della Sicilia, chiamata anche Camerina. Fu fondata originariamente da coloni siracusani capeggiati da Dascone e Menecolo; in seguito a vicende belliche passò a Ippocrate, tiranno di Gela, che la rifondò; una terza fondazione, ancora a opera degli abitanti di Gela, avvenne successivamente a una sconfitta per mano di Gelone tiranno di Siracusa intorno al 484 a.C. (Tucidide, VI, 5, 3). La città sorgeva su un poggio circondato dal tratto finale del corso di due fiumi, l’Ippari e l’Oano, come ricorda Pindaro (Olimpica V, 11-12); dell’Ippari il poeta aggiunge che esso «irriga la contrada e rapido cementa una selva alta di solidi tetti» (ibid., 12-13), con allusione, probabilmente, alle mura della città, costruite con mattoni fatti di limo tratto dal corso del fiume.
Nel linguaggio comune era entrata nell’uso l’espressione proverbiale «lasciare inalterata Camarina» (Luciano, Il falso critico o il giorno nefasto, 60 [51], 32), che voleva dire «lasciare le cose come stanno»: il riferimento era a un oracolo di Delfi, interpellato a seguito di una pestilenza, che aveva sconsigliato gli abitanti della città dal prosciugare la laguna che si trovava nei pressi dell’abitato e che, con le sue acque insidiose, benché malsane, la rendeva meglio difendibile da eventuali attacchi nemici. I Camarinesi preferirono ignorare il verdetto delfico e bonificarono la palude; l’aria ne guadagnò, ma non molto tempo dopo la città venne espugnata. Un ricordo dell’espressione proverbiale relativa a Camarina si legge anche in Virgilio, che racconta come Enea, durante la sua navigazione alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la caduta di Troia, costeggi la regione dove si trova la palude e sorge la città: «dal destino impedita d’esser rimossa appare Camerina lontano» (Eneide, III, 700-701; alla leggenda allude anche Silio Italico, Guerra Punica, XIV, 198, quasi con le stesse parole di Virgilio). Nel racconto di Ovidio, poi, la città viene attraversata da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 477; per i particolari del mito v. ENNA).
La Ninfa eponima, Camarina, dava il nome anche al vicino lago.
CAMERIA Antica città del Lazio settentrionale che secondo la tradizione fu conquistata dai Romani ai tempi di Romolo. Si narrava che in quel periodo fosse scoppiata a Roma una terribile epidemia, «che portava agli uomini la morte improvvisa senza alcuna malattia apparente e si propagava portando la sterilità alla terra e l’infecondità del bestiame. Piovve sangue nella città, sicché alle inevitabili sofferenze si aggiunse il terrore religioso. Simili sciagure accaddero anche agli abitanti di Laurento». Approfittando della debolezza in cui versava Roma, Cameria cercò di muovere all’attacco della città, ma Romolo fu rapido a recuperare le forze: lo scontro vide la vittoria di Roma e Romolo stesso portò nella sua capitale, tra i cimeli del bottino di guerra, anche una quadriga di bronzo sottratta a Cameria, che collocò nel tempio di Vulcano, sovrapponendovi una statua nella quale fece riprodurre se stesso incoronato dalla Vittoria (Plutarco, Teseo, 24).
CAMICO, in gr. Kamikòs. Città della Sicilia, nei pressi di Agrigento (Erodoto, VII, 170), capitale dei possedimenti del leggendario re Cocalo. Benché fosse ancora conosciuta ai tempi dei Romani, l’identificazione della località è estremamente controversa; alcuni studiosi moderni ritengono che sia da collocare in corrispondenza di qualche centro reale della Sicilia, forse Sant’Angelo Muxaro o Inico. Lo stesso nome aveva anche un fiume che scorreva nei pressi.
La storia di Camico è legata a quella di Minosse e di Dedalo, grandi figure del mito cretese (per i particolari v. CRETA). Dedalo aveva inventato per Minosse il Labirinto, la misteriosa e inestricabile prigione sotterranea nella quale venne rinchiuso il terribile Minotauro; quando Teseo riuscì a uscirne indenne dopo aver ucciso il mostro, però, l’architetto fu costretto a fuggire dall’isola e dall’ira di Minosse, e non potendo partire per nave perché tutti i porti erano presidiati, si costruì un paio di ali e fuggì per via aerea (durante il volo gli morì il figlioletto Icaro, le cui ali si disfecero perché si era avvicinato troppo al sole). Pur funestata da un lutto così terribile, la fuga di Dedalo non s’interruppe e lo portò verso occidente, nell’Italia meridionale. Dapprima lo troviamo a Cuma, dove la mitologia ricordava più di una traccia del suo passaggio; trasferitosi in Sicilia, presso il re Cocalo, mentre Minosse continuava a inseguirlo, si guadagnò la simpatia del re suo ospite, costruendo per lui su una rupe una città inespugnabile, dall’intreccio viario tortuoso e intricato (ancora il tema del labirinto), che prese il nome di Camico e divenne la residenza del re; l’architetto continuò a rimanere a corte, al servizio delle figlie del sovrano, per le quali si specializzò nella fabbricazione di giocattoli da sogno, tra cui bambole snodate in tutto simili a persone reali, dotate di meccanismi che le rendevano capaci addirittura di muoversi. Quando Minosse, nel corso del suo inseguimento, giunse infine a Camico, dovette giocare d’astuzia per individuare e stanare la sua vittima. Consegnò a Cocalo una conchiglia marina dalla forma contorta, promettendo una ricca ricompensa a chi fosse riuscito a far passare dentro i suoi meandri un sottilissimo filo. Era una scommessa impossibile: solo un genio come Dedalo avrebbe potuto risolvere quel rompicapo. Ignaro dell’identità del suo interlocutore, infatti, lo scultore escogitò una soluzione degna della sua fama: praticò a un’estremità della conchiglia un forellino, vi fece colare dentro qualche goccia di miele, legò il filo alla zampetta di una formica e posò delicatamente quest’ultima sulla traccia mielata. L’insetto, attratto da quella dolcissima strada, non ebbe difficoltà a percorrere tutta la spirale della conchiglia tirandosi dietro il filo. Dedalo, scoperto, si vide perduto: eppure, racconta il mito, ancora una volta grazie al suo ingegno si salvò. Secondo una versione del mito, infatti, uccise Minosse praticando un foro nel soffitto della stanza del palazzo del re dove il sovrano cretese stava prendendo un bagno e investendolo, attraverso tale apertura, con un getto di acqua o pece bollente (Apollodoro, Epitome, I, 14-15). Altre fonti attribuivano invece l’uccisione di Minosse al re Cocalo o alle sue figlie.
Chiunque fosse stato l’artefice materiale della morte violenta del loro re, le genti di Creta vollero vendicare il loro sovrano e organizzarono una grande spedizione in Sicilia stringendo d’assedio per cinque anni la città di Camico. Dovettero rinunciare alla conquista per mancanza di viveri, e nel viaggio di ritorno via mare verso la loro isola fecero naufragio a seguito di una violenta tempesta, salvandosi sulle coste della Iapigia. Alcuni di loro si misero allora in marcia a piedi, percorrendo tutta la costa adriatica dall’attuale Puglia, dove erano naufragati, fino alla Macedonia, dove si stabilirono e presero il nome di Bottiei; altri invece rimasero sul posto, fondarono la città di Iria (forse l’attuale Oria, tra Brindisi e Taranto) e furono chiamati Iapigi dal nome del loro condottiero, Iapige, figlio di Dedalo e di una donna cretese (Strabone, VI, 273 = 2, 6; cfr. Erodoto, VII, 170).
CAMPANIA Il nome indicava anticamente un territorio molto più limitato rispetto all’attuale regione Campania, designando esclusivamente l’area di Capua e la campagna circostante; era usato dagli scrittori greci, che con il termine Campani alludevano agli abitanti di Capua, e compare attestato in latino non prima di Cicerone. Nell’area corrispondente alla Campania attuale sorsero numerose colonie greche, tra le quali quella che era considerata la più antica delle fondazioni d’Occidente, CUMA (v.), e poi Dicearchia (l’odierna POZZUOLI, v.), la stessa CAPUA (v.), Partenope (corrispondente a NAPOLI, v.), isole come ISCHIA e CAPRI (v.); queste e le altre fondazioni, come AMICLE (v.), con il loro contorno di saghe e di eroi, arricchirono il paesaggio locale di numerosi racconti mitici e leggendari. Particolarmente fecondo nella formazione di tradizioni locali fu l’aspetto naturale di regioni come i Campi Flegrei (v. FLEGRA; v. anche VESUVIO), che si prestava a stabilire collegamenti con le figure dei Giganti e con il mondo infernale (per quest’ultimo v. anche AVERNO e AMPSANTO); e molte leggende fiorirono intorno ai fiumi della regione (v. SELE e VOLTURNO). Il passaggio di eroi come Ulisse, Diomede (fondatore di città come BENEVENTO, v.) e soprattutto Enea, che nel corso delle loro avventurose peregrinazioni transitarono anche in quei mari, ha lasciato poi tracce non soltanto in numerosi racconti ambientati sulle coste campane, ma anche nella toponomastica: se difficile è individuare la collocazione delle Isole delle Sirene dell’Odissea, che secondo alcuni potrebbero trovarsi al largo della Campania, ma non si sa precisamente dove, più evidente è il rapporto che con il mito intrattiene, per esempio, il Capo PALINURO (v.), così chiamato in ricordo del compagno di Enea tragicamente perito in quel mare. Una tradizione collocava in Campania anche la terra d’origine del popolo dei Feaci (v. IPEREA).
Come per ogni altra area, infine, ai miti veri e propri si affiancavano nella letteratura i resoconti di eventi prodigiosi o di fenomeni per i quali era implicito il riferimento al mondo soprannaturale; anche se per tali fenomeni la collocazione precisa sfuma nell’indefinito. Non è sfortunatamente precisato, infatti, in quale punto della Campania si trovino «delle acque» che pure sarebbe utilissimo individuare, «capaci di vincere la sterilità femminile o la follia maschile» (Isidoro, Etimologie, XIII, xiii, 4). Né si sa in qual punto esattamente della regione fosse avvenuto il prodigio di una giovenca che si era messa a parlare (Livio, XLI, 13, 2; cfr. XLI, 21, 13, dove si dice che, come «risultava in modo fededegno», a parlare era stato un bue).
CAMPI ELISI, in gr. Elsion pedìon, in lat. Elysium. Con questo nome è indicato nella letteratura classica un luogo di perfetta felicità dove risiedono i beati dopo la morte. La sua precisa collocazione varia a seconda delle epoche e degli autori e anche l’indicazione di chi vi può soggiornare sembra cambiare da un autore all’altro. Neppure la denominazione del luogo è univoca: caratteristiche analoghe, infatti, si riferiscono ai Campi Elisi (o Elisio, o Pianura Elisia), alle Isole Fortunate, alle Isole dei Beati, senza che in molti casi si riesca a chiarire se si tratti di luoghi diversi o di denominazioni differenti di quello che, oltre a essere un luogo dell’immaginario mondo dell’aldilà, appare spesso come una condizione non ancorata a una collocazione topografica specifica. Molto discussa è anche l’etimologia del nome «Elisio», solitamente collegata al greco enel
sios, «colpito dal fulmine», e quindi «consacrato».
In Omero i Campi Elisi non fanno propriamente parte del mondo dell’oltretomba, ma si trovano in un punto imprecisato all’estremo Occidente del mondo, lontano dalla geografia conosciuta, nell’Oceano che circonda la terra. L’Elisio, dove regna Radamanto, è un luogo felice e perfetto, dal clima ideale, che gli dèi riservano agli eroi, i quali, senza passare attraverso l’esperienza della morte, vi conducono un’esistenza di assoluta beatitudine. È questo, per esempio, il destino riservato a Menelao, in quanto sposo di Elena, figlia di Zeus: «gli eterni – hai Elena in moglie e per loro sei genero di Zeus – ti manderanno alla piana Elisia, ai confini del mondo, là dove dimora il fulvo Radamanto e confortevole è l’esistenza per gli uomini: non c’è nevicata né gelo invernale né pioggia, ma senza posa l’Oceano invia, a rinfrescare gli umani, brezze di Zefiro che spira sonoro» (Odissea, IV, 561-569). Dopo Omero l’Elisio sembra scomparire con questo nome dalla letteratura greca almeno fino ad Apollonio Rodio (dove si legge in Argonautiche, IV, 811); la descrizione di un luogo felice simile ai Campi Elisi, però, ritorna con poche variazioni in Esiodo, e si riferisce al luogo designato come Isole dei Beati, dove vive la quarta e più giusta fra le stirpi che popolano la Terra, «la stirpe divina degli uomini eroi, che vengono chiamati semidei, la stirpe che ha preceduto la nostra sulla terra infinita» (Opere e giorni, 158 ss.). Nonostante il nome diverso, le caratteristiche del luogo sono le stesse: gli eroi «abitano, con l’animo sgombro di affanni, nelle Isole dei Beati presso l’Oceano dai vortici profondi; essi, gli eroi venerandi, ai quali tre volte nell’anno la terra ferace di doni porta abbondante e piacevole frutto» (ibid., 167 ss.). La descrizione di Esiodo farà scuola e da essa non si discostano sostanzialmente altri poeti, come Pindaro (Olimpica II, 72 ss.).
Nelle epoche successive l’Elisio torna con nomi diversi e in luoghi diversi: ora, riecheggiando la tradizione omerica, nel remoto Occidente, ora in altre aree lontane e sconosciute della terra, che proprio per la loro collocazione periferica e misteriosa si prestano a ospitare un mondo inconoscibile all’uomo: nell’irraggiungibile Settentrione, in luoghi ignoti dell’Africa, in sfuggenti e indefinite isole atlantiche o mediterranee. Progressivamente anche la funzione dell’Elisio si trasforma: non più paradiso degli eroi che non conoscono la morte, bensì luogo che attende i morti quando il loro comportamento terreno è stato corrispondente a precisi dettami di natura etica; tanto che nel mondo latino i Campi Elisi, ormai diventati la sede dei beati dopo la morte, appaiono parte integrante della concezione del mondo dell’aldilà. In Virgilio, per esempio, sono menzionate le «dolci adunanze dei pii nell’Elisio» (Eneide, V, 734-35), la «vastità dell’Elisio» e i suoi «lieti campi» (ibid., VI, 744-45).
In alcuni poeti più tardi le diverse tradizioni dei Campi Elisi come terra dei beati e luogo dell’età dell’oro appaiono fuse: descrivendo il regno riservato alla dea Proserpina, rapita da Ade e destinata a diventare regina del mondo dei morti, per esempio, Claudiano si sofferma sui dettagli di un luogo – appunto i Campi Elisi – dove vive la razza dell’età dell’oro, caratterizzato dalla dolcezza delle praterie, dai fiori vivaci, dall’ombra dei boschi, persino da un raro albero d’oro, il cui splendore sembra poter compensare Proserpina della perdita della luce del Sole che brilla su questa terra (Il ratto di Proserpina, II, 284-291). L’idea della luce, per il suo contrasto con l’oscura caligine dell’Ade omerica, sembra inscindibile dalla raffigurazione del mondo dei beati. E talora si fa strada anche l’idea che tra gli aspetti della beatitudine eterna ci sia la possibilità di entrare in contatto con gli dèi: i Campi Elisi «comunicano con la sommità del cielo grazie a una via attraverso la quale possono scendere e salire i beati Immortali»: questa precisazione topografica si deve a Quinto Smirneo (XIV, 224-226). Una suggestiva immagine del regno dei beati si legge in Silio Italico, là dove, ripetendo le esperienze che erano state di Ulisse e di Enea, anche il giovane Scipione scende nel mondo dei morti per interrogarli sui destini futuri che attendono Roma, gravemente in pericolo per la calata di Annibale in Italia: qui i Campi Elisi sono presentati quasi in un angolo appartato, «là dove la notte allenta la sua stretta», e dove «brillano di un vivo bagliore le porte che, attraverso un sentiero che si perde nell’ombra, conducono ai Campi Elisi: la folla dei giusti vi ha il suo soggiorno, separato dal regno di Stige come dalla volta del cielo» (Guerra Punica, XIII, 550-553).
Il nome dell’Elisio appare infine associato all’idea che anche gli animali abbiano il loro paradiso. Lo ricorda Ovidio, descrivendo negli Amores l’Elisio degli uccelli: «Sotto il colle Elisio un bosco frondeggia di neri lecci e la terra umida è sempre verde d’erba. Si racconta […] che quello sia il luogo per gli uccelli pii e da esso siano tenuti lontani gli uccelli di malaugurio» (II, 6, 49-52).
Per altri particolari v. ADE; BEATI, ISOLE DEI; LEUKE.
CAMPI FLEGREI v. CUMA e FLEGRA.
CANARIE v. BEATI, ISOLE DEI e CRONO, TORRE DI.
CANASTRO Nome dell’estrema punta della penisola di Pallene (in gr. Kanastràie àkre), uno dei tre promontori della penisola Calcidica; era nota anche con il nome di Flegrea (oggi corrisponde al capo Paliuri). È ricordata tra le località che vengono oltrepassate dalla nave Argo durante la sua navigazione verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 600).
CANNE, in lat. Cannae. Località dell’Apulia, sulla riva destra del fiume Aufido (oggi Ofanto), a circa sei chilometri dal mare, divenuta celebre per lo scontro che nel 216 a.C. contrappose Romani e Punici, segnando la sconfitta dei primi da parte di Annibale (ancora oggi il luogo dello scontro, peraltro di discussa collocazione, si suole tradizionalmente identificare nel punto chiamato «campo di sangue»). Nella rivisitazione poetica che di quegli eventi offre il poeta Silio Italico, la dea Giunone prefigura la sconfitta romana a Canne con queste parole: «Ed io, dall’alto del cielo, potrò contemplare Canne, tomba dell’Esperia, e la pianura iapigia inondata di sangue ausonio; e tu, Aufido [il fiume Ofanto], non saprai dove dirigere il tuo corso tra le tue rive riunite dall’accumulo di scudi, elmi, corpi smembrati di guerrieri, e faticherai non poco ad aprirti un varco fino all’Adriatico» (Guerra Punica, I, 50-54). Al combattimento degli eroi sulla terra si affianca secondo il poeta la partecipazione degli dèi, che si schierano a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti, conferendo allo scontro storico il suo respiro epico, amplificato dall’intervento diretto del fiume VOLTURNO (v.; ibid., IX).
Nei pressi di Canne, secondo una tradizione, si trovava il sepolcro del re Toante, sovrano dell’Etolia: la maggior parte delle fonti ricorda che egli colonizzò l’Illiria e forse la stessa Apulia dopo la caduta di Troia, e fondò Temesa nel Bruzzio; la sua morte e sepoltura in Apulia è ricordata da Silio Italico (ibid., IX, 99).
CANOPO, in gr. Kànobos o Kànopos. Località dell’Egitto, sul delta del Nilo, non lontana da Alessandria, dalla quale dista una trentina di chilometri in direzione nord-est; le sue rovine si trovano nei pressi dell’odierna Abukir. La tradizione ne attribuiva la fondazione a Menelao, durante il viaggio di ritorno dalla guerra di Troia; il nome le sarebbe derivato da quello del pilota di Menelao, che si chiamava appunto Canopo (Plinio, Nat. Hist., V, 128; Tacito, Annali, II, 60, 1; Ammiano Marcellino, XXII, 16, 14; Isidoro, Etimologie, XIV, iii, 28). Canopo aveva avuto un’avventura amorosa proprio in questa regione; respinse Teonoe, figlia di Proteo, re d’Egitto, e successivamente fu morso da un serpente che ingenerò in lui un sonno profondo mentre la nave di cui era pilota, danneggiata, veniva riparata. Canopo morì e venne sepolto sul posto, dandogli il nome. Qui era venerato come Osiride Canopo e la sua immagine cultuale lo rappresentava nella forma di un vaso panciuto con coperchio in forma di testa di Osiride. Una versione della leggenda raccontava che Elena, moglie di Menelao, che si trovava sulla stessa nave del marito, uccise il serpente che aveva dato la morte a Canopo e si impadronì del suo veleno.
La mitologia raccontava che a Canopo fosse giunta Io, la figlia di Inaco, una donna mortale della quale si era innamorato Zeus. Furibonda per la loro unione – anche perché Io era sacerdotessa del suo santuario ad Argo – Era si diede a perseguitare l’infelice, che Zeus, per continuare ad amoreggiare con lei, trasformò in giovenca, assumendo a sua volta le sembianze di un toro; Era allora sottopose la giovane alla sorveglianza di un insonne custode dotato di un numero immenso (e variabile, secondo le fonti) di occhi sempre aperti, figlio della dea della terra Gea e chiamato Argo. Ermes, tuttavia, uccise il mostro; e allora Era perseguitò la donna-giovenca con l’assillo di un tafano che la costrinse a una folle corsa attraverso regioni remote, fino a che essa giunse a Canopo in Egitto e a Menfi, poco a sud del delta, nel Medio Egitto. Zeus, allora, con il solo tocco della sua mano generò qui da Io un figlio, di nome Epafo (Eschilo, Prometeo incatenato, 846), che a sua volta avrebbe generato Libia, eroina eponima del territorio africano, chiamato appunto Libia dagli antichi. Da Libia sarebbe nato Belo e da quest’ultimo furono generati i due fratelli Danao ed Egitto. La genealogia è ricordata da Eschilo nelle Supplici (vv. 291 ss.). Presso la bocca canopica del Nilo un altro mito diceva che fosse nato Eracle: «non lontana di là [ossia da Canopo] è l’imboccatura del fiume dedicata ad Ercole, che gli indigeni dicono nato nel loro paese e citano come il più antico, e dicono che ha dato il suo nome a quanti più tardi lo uguagliarono in valore» (Tacito, Annali, II, 60, 1).
Sulla riva del delta, sul promontorio Zefirio presso Canopo, abitava la dea Venere Arsinoe, che qui aveva un piccolo tempio e veniva venerata con l’epiteto di Zefiritide. In quel tempio, secondo la tradizione alla quale si riferisce Callimaco nel poemetto noto come Chioma di Berenice (Aitia, IV, fr. 110 Pf.), la regina Berenice, sposa di Tolomeo III, quando il re partì in guerra per l’Asia, fece voto di sacrificare la propria splendida chioma se il marito fosse tornato vivo dalla spedizione. La preghiera fu esaudita e Berenice depose i magnifici capelli nel tempietto della dea. Il giorno successivo, però, la regale capigliatura era scomparsa, e poiché il re Tolomeo era furibondo per l’accaduto, il matematico Conone mostrò al sovrano sette stelle prive fino a quel momento di denominazione e non dotate di una forma precisa e spiegò che i capelli della regina erano stati assunti in cielo e avevano dato origine alla costellazione che ancora oggi ha il nome di Chioma di Berenice. Il racconto callimacheo è ripreso nel carme LXVI di Catullo (dove il riferimento a Canopo si legge al v. 58).
Un’immagine pittoresca e idilliaca di Canopo è offerta da Virgilio nelle Georgiche, là dove ricorda la «popolazione fortunata di Canopo», che abita «lungo il Nilo stagnante al dilagare della sua corrente, e si aggira per le sue campagne sopra canotti variopinti» (IV, 287-289). Con le sue allegre taverne e il suo piacevole clima Canopo era diventato, nella letteratura antica, quasi il simbolo della «dolce vita» alessandrina.
CANOSA Città dell’antica DAUNIA (v.), in provincia di Bari, chiamata in origine Canusium, oggi Canosa di Puglia per distinguerla da Canosa Sannita in provincia di Chieti. Secondo il mito, era una tra le città fondate da Diomede, l’eroe greco che, dopo la caduta di Troia, durante il suo viaggio di ritorno era approdato in Apulia, l’odierna Puglia (Strabone, II, 215 e VI, 284). «Città fondata anticamente dall’eroico Diomede» la definisce Orazio, il quale aggiunge che in essa «il pane è duro come la pietra, e parimenti scarseggia l’acqua» (Satire, I, v, 91-92). La suggestione di questa immagine oraziana sembrerebbe supportare l’ipotesi di una origine del toponimo da una base preromana *gand-, «terreno roccioso», «ammasso di pietre» (Dizionario di toponomastica, p. 132).
CAONIA Altro nome (Chaonìa chòra) con cui era anticamente indicato l’Epiro. Derivava da quello dei Caoni, una tribù stanziata da tempi antichissimi nell’Epiro, nella regione intorno a Butroto (v. BUTRINTO). Nel linguaggio poetico «caonio» significa spesso «epirota» (v. per esempio DODONA). L’eroe dal quale il nome derivava era, secondo la tradizione, un certo Caone, troiano, fratello o amico di Eleno, che a sua volta era fratello gemello della profetessa troiana Cassandra e figlio di Priamo; durante una battuta di caccia, secondo questa tradizione, Eleno aveva involontariamente ucciso Caone e quando, dopo la caduta di Troia, si era stabilito in Epiro come prigioniero di Neottolemo o Pirro, figlio di Achille – che gli aveva poi lasciato in eredità una parte della regione –, aveva chiamato quei territori con il nome dell’amico perduto (Isidoro, Etimologie, XIV, iv, 9). Altre versioni facevano di Caone un eroe troiano che si era sacrificato per il bene dei compagni, o durante la navigazione o a seguito di una pestilenza (cfr. Virgilio, Eneide, III, 335). Altri personaggi provenienti dalla regione sono menzionati in relazione con altri episodi mitici: raccontando la storia della rissa che si scatena alle nozze di Perseo con Andromeda (v. ETIOPIA), per esempio, Ovidio precisa che tra i combattenti abbattuti da Perseo figura un Molpeo di Caonia (Metamorfosi, V, 163). La regione era indicata anche con il nome di Molossia, derivato da Molosso, figlio di Neottolemo, il figlio di Achille, e di Andromaca (Isidoro, XIV, iv, 9).
Per altri miti relativi alla Caonia v. EPIRO.
CAPENA Località dell’Italia centrale, a una trentina di chilometri a nord di Roma, non lontana dalle rive del Tevere. Nei dintorni si trovava un bosco sacro alla dea Feronia, il Lucus Feroniae (sito presso l’odierno Fiano Romano), nella località di Trebula Matuesca. Il bosco era spesso citato dai poeti: ai «boschi sacri di Capena» allude per esempio Virgilio nell’Eneide (VII, 697). Quanto alla dea, essa era venerata come protettrice delle messi, della terra e della fecondità. Una tradizione raccontava che il santuario di Feronia, originariamente chiamata Foronia, fosse stato edificato da coloni provenienti da Sparta, i quali, per sfuggire alla rigidità delle leggi promulgate nella loro città natale dal severissimo Licurgo, avevano armato delle navi ed erano partiti alla volta di una nuova terra; il luogo del loro approdo era stato battezzato Foronia, dal verbo greco fero, «trasporto», con riferimento al loro essere stati trasportati in quel punto via mare. Da quella località, poi, alcuni Spartani si allontanarono, mescolandosi con le popolazioni sabine (Dionigi di Alicarnasso, II, 49, 4-5).
Quando, nel 217 a.C., Annibale si trovava in Italia, e alcuni eventi prodigiosi furono registrati in diverse località della penisola, a Capena si diceva che di giorno fossero sorte due lune (Livio, XXII, 1, 10); e nei pressi del bosco, più tardi, «quattro statue avevano trasudato molto sangue per un giorno e una notte» (ibid., XXVII, 4, 14). I presagi erano considerati tanto più inquietanti in quanto il santuario di Feronia era estremamente popolare e venerato, soprattutto dai lavoratori agricoli e dagli schiavi liberati, dei quali la dea era protettrice. Il bosco di Feronia e il suo santuario erano «famosi per le ricchezze», sempre secondo Livio (XXVI, 12, 8), che ricorda anche le feste che vi si svolgevano con grande concorso di popolazione (ibid., I, 30, 4); nonostante l’aura sacra che circondava il tempio, però, Annibale non esitò a saccheggiarlo.
CAPHYAI, in italiano Cafie. Città dell’Arcadia nei pressi di Orcomeno, che secondo la tradizione era stata fondata da Enea, il quale vi avrebbe poi trovato la morte (Strabone, XIII, 1, 53; Dionigi di Alicarnasso, I, 49). La città avrebbe desunto il suo nome da un eroe troiano, Capi (Dionigi di Alicarnasso, I, 46-53), compagno di Enea, che avrebbe dato il suo nome anche alla città di CAPUA (ma v. a quest’ultima voce per le possibili confusioni con un altro eroe omonimo). Vi cresceva un platano, ancora visibile in età storica, che secondo la tradizione era stato piantato da Agamennone o da suo fratello Menelao, gli eroi promotori della spedizione greca contro Troia; l’albero era chiamato Menelaide (Plinio, Nat. Hist., XVI, 238; Pausania, VIII, 23, 4).
CAPO BON v. BON, CAPO.
CAPO COLONNA v. LACINIO, CAPO.
CAPPADOCIA Regione dell’odierna Turchia il cui nome per gli antichi Persiani designava l’intera regione interna e settentrionale dell’Asia Minore, e che fece parte del regno di Lidia e successivamente dei possedimenti dei successori di Alessandro Magno, presenta con la mitologia classica legami piuttosto tenui. Vi si trovava la città di Comana, i cui resti sono stati individuati a un’ottantina di chilometri a sud-est di Kayseri e che ospitava un santuario in onore di Enio, una divinità assimilata dai Romani a Bellona. La popolazione della città era costituita in gran parte da sacerdoti e addetti al culto. Si diceva che la venerazione per la dea e soprattutto le modalità dei rituali e delle feste religiose in suo onore fossero state portate sul posto da Oreste, il figlio di Agamennone responsabile dell’uccisione della madre Clitemnestra, e da Ifigenia, sua sorella. Nello stesso luogo Oreste avrebbe sacrificato i propri capelli, che aveva lasciato crescere in segno di lutto; dalla sua chioma (in greco ) sarebbe derivato il nome greco della città (Strabone, XII, 2, 3).
Se i rapporti con il mito classico sono esili, non mancano in Cappadocia, terra lontana che può in quanto tale ospitare meraviglie di ogni tipo, prodigi e fenomeni strani: vi si trovava per esempio una pietra singolare, dura come il marmo, bianca e diafana, con la quale un re costruì un tempio «al cui interno, anche chiudendo le porte d’oro, risplendeva sempre la luce del giorno» (Isidoro, Etimologie, XVI, iv, 23).
V. anche TERMODONTE, fiume che attraversava la Cappadocia, e TIANA.
CAPRAIA L’isola della Toscana, già nota con il nome di Capraria ai Greci e ai Romani, che tuttavia non sembra vi avessero ambientato miti particolari, è ricordata dal poeta latino tardo Rutilio Namaziano nel suo poema De reditu suo a proposito della presenza di certi monaci che vi avevano istituito un cenobio; e poiché i monaci a Rutilio proprio non piacciono, e ne dice tutto il male possibile, anche Capraia, che li ospita, viene coinvolta in tale giudizio negativo ed è descritta con toni fortemente critici: «isola ripugnante, tutta piena di uomini che fuggono la luce», appunto i monaci (I, 439-440). Per l’avversione di Rutilio contro i monaci, che gli suggerisce altri feroci strali, v. anche GORGONA.
CAPRI Isola posta di fronte alla costa della Campania, nella parte meridionale del golfo di Napoli, a pochi chilometri dall’estremità della penisola Sorrentina. Il nome antico, Capreae, di origine greca, era interpretato come «isola dei cinghiali», dal nome greco di questo animale (kàpros). Secondo Virgilio la sua occupazione è da mettere in relazione con l’eroe Telone e con il popolo dei Teleboi (Eneide, VII, 735; cfr. anche Tacito, Annali, IV, 67, 2). I Teleboi, popoli greci che abitavano in origine le isole di fronte all’Acarnania, erano ricordati anticamente come abili pirati e navigatori; uno dei loro sovrani era Telone. Quando regnava su Capri, già avanti negli anni, Telone generò dalla ninfa Sebetide (una divinità fluviale legata al fiume campano Sebeto) un eroe di nome Ebalo; quest’ultimo, non pago dei suoi dominii a Capri, conquistò anche alcune aree della terraferma. La mitologia ricorda poi Capri e i suoi abitanti tra quanti si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria. E ancora, nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 709) l’isola è menzionata tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo la divinità stessa in forma di serpente, che, giunto a Roma, si mutò nuovamente in dio riassumendo le sembianze abituali e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
Forse a qualche punto dell’isola di Capri, o ai famosi Faraglioni (se non è invece un luogo di fantasia), si addice il nome di Apragopoli con il quale Augusto alludeva a «un’isola vicina a Capri» che «quelli del suo seguito avevano come luogo di ritiro»: il nome, dal greco , significa a un dipresso «città del dolce far niente» o «della dolce vita» (Svetonio, Vite dei Cesari, II, 98, 4). Come splendida residenza imperiale Capri divenne celebre non solo sotto Augusto, che vi edificò una villa ai piedi del monte Solaro, ma soprattutto ai tempi di Tiberio, che vi trascorse lunghi periodi e al quale si attribuiva la fondazione di ben dodici sfarzose dimore, la più famosa delle quali era la Villa Jovis, dedicata al re degli dèi. Non di tutte rimangono tracce perfettamente riconoscibili e databili; sicura è invece l’identificazione del Faro di Capri, sulla costa orientale dell’isola: esso, secondo Svetonio (III, 74), pochi giorni prima della morte di Tiberio crollò rovinosamente a seguito di un terremoto, quasi a presagire la fine dell’imperatore. Tiberio, amante della solitudine, prediligeva in effetti quel luogo, perché «il mare all’intorno è importuoso e a malapena può offrire riparo a piccole imbarcazioni», cosa che si addiceva al suo desiderio di isolamento; ma era anche affascinato, naturalmente, dalla bellezza del paesaggio e dalla mitezza del clima (Tacito, Annali, IV, 67, 2).
CAPUA, in gr. Kape. La città campana odierna, sulla riva del Volturno in provincia di Caserta, porta lo stesso nome della città antica che si trovava, però, in diversa posizione, in corrispondenza dell’attuale Santa Maria Capua Vetere. L’antica Capua secondo la leggenda derivava il suo nome da un eroe troiano, Capi, compagno di Enea (Dionigi di Alicarnasso, I, 46-53): questo personaggio era ricordato per aver suggerito ai suoi concittadini di distruggere il famoso cavallo di Troia. Un altro Capi era padre di Anchise e antenato di Romo, eroe capostipite dei Romani; non è chiaro nelle fonti antiche a quale dei due Capi la città di Capua dovesse la sua fondazione, e se si trattasse dello stesso eroe che aveva fondato anche CAPHYAI (v.). Di qualunque dei due Capi si trattasse, a Capua era comunque venerato in età storica il sepolcro del fondatore, che è noto fino all’età di Cesare; e c’era anche una nobile famiglia locale che portava il nome dell’eroe (Svetonio, Cesare, 81). Al personaggio di Capi allude anche Stazio quando ricorda che egli «riempì di immigrati troiani la vasta Roma» (Silvae, III, 5, 76-77).
Svetonio racconta a proposito di Capi e di Capua un episodio singolare. Ai tempi di Cesare i coloni che si stanziarono nell’area di Capua antica si diedero a demolire sepolcri di antichissima origine allo scopo di costruirvi le proprie case di campagna, e durante i lavori di demolizione e di sterro si imbatterono in un gran numero di vasi di pregevole e antica fattura, veri e propri reperti archeologici ante litteram, che furono tratti alla luce da un sepolcro ritenuto del mitico fondatore della città; da tale sepolcro, in particolare, fu estratta una tavola di bronzo ove si leggeva, in lingua greca, questa epigrafe: «Quando verranno scoperte le ossa di Capi, sarà ucciso per mano di consanguinei un discendente [di Capi stesso], che poi sarà vendicato con grandi sciagure per l’Italia»: un’anticipazione della sorte che sarebbe toccata a Cesare, di lì a poco ucciso dal figlio Bruto, con i conseguenti rivolgimenti politici e sociali che interessarono Roma all’instaurarsi del principato. Capi è menzionato anche da Virgilio tra gli eroi che combattono contro i popoli italici quando Enea approda con i suoi in Italia, e viene messo direttamente in rapporto col nome della città di Capua (Eneide, X, 145); e ancora a lui allude Lucano quando a proposito di Capua cita «le mura campane del colono troiano» (Guerra civile, II, 393).
L’etimologia del toponimo era però spiegata diversamente da altre fonti: Livio, per esempio, che ricorda sì un Capi, ma lo dice sannita, pensa che «Capua» derivi dall’aggettivo «campestre» (a campestri agro, IV, 37, 1); Plinio a sua volta sostiene che Capua sia «detta così dalla pianura di quaranta miglia in cui sorge» (da campus: Plinio, Nat. Hist., III, 63); Servio invece ritiene che il nome sia da collegare al nome etrusco del falcone. Isidoro propone una relazione tra Capua e il verbo capere, «accogliere», «contenere», «perché la sua terra accoglie ogni frutto» (Etimologie, XV, i, 54), e fa derivare da Capua anche il nome della CAMPANIA (v.).
Nel racconto di Silio Italico (Guerra Punica, XIII, 115 ss.) l’esistenza della città era legata, secondo un’antica leggenda, a una meravigliosa cerva bianca. Come Capua, l’animale contava mille anni di età, e la sua stessa sopravvivenza garantiva quella della città: «C’era una cerva di un colore raramente visto dagli occhi dei mortali, più candida della neve, più bianca dei cigni. Era stata donata a Capi quando segnava con un solco i confini della città; egli, commosso dall’affetto della bestiola, l’aveva nutrita e allevata». Pazientemente addomesticata e «privata dei suoi istinti selvatici, essa era addestrata ad avvicinarsi alla tavola dei padroni e a sollecitare garbatamente le loro carezze. Con un pettine d’oro le donne avevano preso l’abitudine di pettinare la dolce bestiola, e di ravvivarne il candore lavandola nel fiume». A tanta dimestichezza si era aggiunta una sorta di venerazione: «La cerva era ormai la dea del luogo; si credeva che fosse al servizio di Diana e le si offriva l’incenso come a una divinità». La sua lunga vita si avviava però alla fine, segnando il momento della caduta di Capua nelle mani dei Romani: un giorno, durante la guerra contro Annibale, un branco di lupi si avvicinò alla città, e l’animale, spaventato, fuggì in mezzo ai campi finché incappò nei soldati, che la catturarono e la sacrificarono a Diana per mano del console romano Fulvio; la dea che ricevette tale omaggio era la Diana Tifatina venerata nella zona. A nord di Capua si trovava infatti il monte Tifata, sacro al culto di Giove e di Diana, che vi venivano venerati in età romana con l’epiteto di Tifatini; all’epoca delle guerre fra Mario e Silla, per diversi giorni alle sue pendici vennero visti due grossi caproni che si scontravano: non era null’altro che una visione, che si dissolse da sé sollevandosi nell’aria, ma fu interpretata come un segnale divino che preannunciava l’imminente scontro tra Mario e Silla (Plutarco, Silla, 27, 8-9).
Del resto, fenomeni soprannaturali non erano nuovi nella regione, e si narrava che un prodigio fosse avvenuto a Capua durante la calata di Annibale in Italia nel 217 a.C.: «si era avuta la visione di un cielo di fuoco e della luna che cadeva tra la pioggia» (Livio, XXII, 1, 12). Ma soprattutto, ai tempi di Annibale, Capua divenne famosa per gli ozi ai quali si abbandonarono il condottiero cartaginese e il suo esercito, trascorrendovi l’inverno durante la loro calata in Italia: «Il sonno, il vino, i banchetti, le prostitute, i bagni e il non far nulla, più dolce di giorno in giorno man mano che vi si abituavano, in tal modo infiacchirono i corpi e gli animi che in seguito valevano a difenderli più le vittorie passate che le forze presenti» (ibid., XXIII, 18, 12). La corruzione di Capua, la sua lussuria, l’indolenza, l’indifferenza alle leggi, e insieme l’orgoglio dei suoi abitanti, sono amaramente rievocati da Silio Italico (Guerra Punica, XI, 29 ss.), che proprio a Capua ambienta i canti di Teutrante, un poeta e musico che intrattiene i Cartaginesi a banchetto recitando gli episodi più celebri del mito (ibid., XI, 259-302 e 432-482).
A proposito della fine della città, oltre alla storia della cerva di Capi si narrava un aneddoto che aveva per protagonista un tal Seppio Loesio, nativo di Capua, uomo di oscuri natali e di modeste risorse (anche intellettuali). Quando era ancora in fasce, sua madre, nel tentativo di stornare un prodigio che coinvolgeva la famiglia, aveva interrogato sul suo conto gli indovini, i quali avevano predetto per lui che gli sarebbe toccata la più alta magistratura della Campania. Stupefatta e perplessa, la madre aveva avanzato il dubbio che la totale rovina si sarebbe abbattuta sui Campani se quella delicata responsabilità fosse toccata a suo figlio; e di fatto «quella canzonatura di verità anch’essa si trasformò in verità» nel momento in cui Seppio Loesio, «ultimo di tutti i Campani», ricoprì la carica (Livio, XXVI, 6, 13-17): di lì a poco infatti Capua, stretta d’assedio dai Romani, avrebbe capitolato. Si ricordava la fine alla quale erano andati incontro circa ventisette senatori di Capua che, rendendosi conto della rovina imminente della città, per non cadere nelle mani dei Romani seguirono uno di loro, Vibio Virrio, a casa sua, «e dopo aver banchettato con lui, con l’aiuto del vino, con le coscienze stravolte […] dalla sensazione della rovina imminente, bevvero tutti il veleno; poi, avuto termine il banchetto», chi insieme agli altri, chi nella solitudine della propria casa, andarono incontro alla morte. «Le vene ingombre di cibo e di vino resero meno efficace la potenza del veleno nell’affrettare la fine; perciò parecchi di loro lottarono con la morte per l’intera notte e parte del giorno seguente, tuttavia tutti spirarono prima che le porte fossero aperte ai nemici» (ibid., XXVI, 14).
Agli splendori di Capua e alla bellezza della città accenna Cicerone, quando la indica come «quella magnifica città che è Capua» (De lege agraria oratio tertia, 4, 16: praeclara illa Capua). Pausania insiste invece sul fronte degli aneddoti straordinari e incredibili, ricordando di aver esaminato coi suoi occhi un cranio di elefante conservato nel santuario di Artemide che si trovava a una trentina di stadi di distanza dalla città (Pausania, V, 12, 3).
CARAMBI, in gr. Kàrambis. «Promontorio rivolto all’Orsa Maggiore, scosceso da ogni parte […] su di esso si dividono le tempeste di Borea, perché tocca il cielo, proteso sul mare aperto»: così Apollonio Rodio (Argonautiche, II, 360-363) descrive un capo di questo nome, che divide il Ponto (l’odierno Mar Nero) in due bracci. Le alte montagne che si ergono alle sue spalle danno l’impressione di un promontorio più alto di quanto in realtà non sia. A fianco si estende la Grande Spiaggia, dove si trovano la foce dei fiumi Halys, il principale corso d’acqua dell’Asia Minore, e Iride, più piccolo. Il Capo Carambi fa parte delle località oltrepassate dagli Argonauti durante il loro viaggio verso la favolosa Colchide alla ricerca del vello d’oro; il suo nome attuale è Capo Ince, sulla costa settentrionale della Turchia.
CARDAMILE, in gr. Kardamle. Città della Laconia, nei pressi della costa occidentale della regione. Un recinto non lontano dalla spiaggia ricordava un evento mitico che vi aveva avuto luogo: le Nereidi erano uscite dal mare per vedere Pirro, figlio di Achille, di passaggio nella regione per raggiungere Sparta, dove lo attendevano le nozze con Ermione, la bellissima figlia della celebre Elena (Pausania, III, 26, 7).
CARIA, in gr. Karìa. Regione dell’Asia Minore, nell’odierna Turchia, a sud del fiume Meandro, compresa tra Licia, Lidia, Frigia e Mar Egeo. Era abitata da popolazioni insulari che secondo alcune tradizioni erano state un tempo sottomesse a Minosse, il mitico re di Creta: «I Carii sono giunti nel continente dalle isole: anticamente erano sudditi di Minosse e con il nome di Lelegi abitavano le isole; non pagavano nessun tributo, […] ma ogni volta che Minosse lo richiedeva gli fornivano gli equipaggi delle navi […]. Il popolo cario era quello che godeva allora, fra tutti, del prestigio maggiore» (Erodoto, I, 171, 2-3). Una tradizione raccontava che la Caria fosse stata colonizzata da Neleo, figlio di Codro, re di Atene e discendente di un omonimo Neleo ricordato come fondatore di Pilo, in Messenia. Un oracolo aveva predetto un giorno a Neleo junior che si sarebbe stanziato laddove una ragazza del posto gli avesse offerto terra e acqua: giunto nella Caria, l’eroe chiese un po’ di argilla e di acqua alla figlia di un vasaio per farne un sigillo, ed essendosi in tal modo compiuto il presagio egli si stanziò nella regione e vi fondò Mileto (Licofrone, Alessandra, 1378-1387).
Anche la tradizione che attribuiva la colonizzazione della Caria agli abitanti di Melos fu fonte di svariate leggende. Si raccontava che alcuni Meli, alla ricerca di una nuova terra nella quale insediarsi, furono esortati dall’oracolo a mettersi in mare e a continuare a navigare finché non avessero perduto tutti i loro mezzi di trasporto. Essi, comandati da un giovane di grande bellezza di nome Ninfeo, sbarcarono un giorno in Caria, ma mentre si trovavano a terra una tempesta distrusse tutte le loro navi. Gli abitanti del luogo li invitarono, impietositi, a restare, e concessero loro alcune terre, cosa che confermava la predizione dell’oracolo; ma ben presto i nuovi arrivati raggiunsero una così netta preminenza che i Carii, temendo di venir totalmente soppiantati, architettarono una congiura per disfarsi di loro: li avrebbero invitati a banchetto, e in quell’occasione ne avrebbero fatto strage cogliendoli di sorpresa. Il caso però aveva voluto che del bellissimo Ninfeo si fosse innamorata la non meno bella Cafene, una giovanetta caria, la quale, saputo del complotto, non esitò a riferirlo all’amato. Ninfeo allora si organizzò: accolse l’invito a banchetto dei Carii, chiedendo però loro di poter condurre con sé le spose, secondo il costume greco (permesso che venne accordato); poi ordinò ai compagni di presentarsi alla festa completamente disarmati, e di nascondere, tra le pieghe degli abiti delle donne, una spada ciascuno. Sedutisi così a tavola accanto alle loro spose, al momento opportuno e a un segnale di Ninfeo, i Melii afferrarono le spade dalle pieghe dell’abito delle mogli e compirono una strage dei loro ospiti colti di sorpresa. Con notevole crudeltà, ma con considerevole prudenza, rasero poi al suolo la città dove l’evento aveva avuto luogo, Criassa, e ne fondarono un’altra, che chiamarono Criassa Nuova; mentre Ninfeo e Cafene convolavano felicemente a nozze (Plutarco, Mulierum virtutes, 246 D-F). La cosa che più sorprende Plutarco, nel racconto della vicenda, è la capacità delle donne di non lasciar trapelare il loro segreto: «benché molto numerose, nessuna di loro, nemmeno involontariamente, si lasciò mai sfuggire una parola, nemmeno sotto effetto della paura». Coraggio e capacità di tacere erano considerate virtù prettamente maschili, quindi tanto più stupefacenti in un numero di donne così elevato.
I monti del Chersoneso di Caria erano ricordati in relazione con la figura di Podalirio, figlio del dio della medicina Asclepio e fratello di Macaone. Dopo la caduta di Troia Podalirio chiese all’oracolo di Delfi dove dovesse stabilirsi: l’oracolo gli suggerì di fondare la sua sede «nella città in cui, se il cielo fosse caduto, non avrebbe subito alcun danno: lui si stabilì in una località del Chersoneso di Caria dove le montagne chiudevano in cerchio il cielo» (Apollodoro, Epitome, VI, 18; cfr. VI, 2 e Pausania, III, 26, 10); nasceva così la località di Sirno, che prendeva il nome dalla figlia del re Dameto di Caria, Sirna, la quale, salvata da una caduta da un tetto grazie all’intervento di Podalirio, fu data in sposa al suo salvatore (Stefano di Bisanzio, ad vocem). Ancora tra i monti della Caria, nella valle del monte LATMO (v., ma secondo altre fonti nei pressi di Mileto), la mitologia ambientava la vicenda di Endimione, giovane bellissimo amato da Selene, la Luna; questa gli aveva infuso un sonno lunghissimo (perpetuo, secondo alcune fonti, di trent’anni o di un anno solo, secondo altre fonti), e il giovane si era addormentato in una grotta del Latmo. Qui, tutte le notti, approfittando del suo sonno la Luna veniva a contemplarlo e a baciarlo. Nel racconto di Teocrito, «Selene lo baciò che pascolava e, scesa dall’Olimpo, venne alla valle del Latmo e dormì insieme al ragazzo» (Carmi bucolici, XX, 37-39). Nella versione di Luciano (Dialoghi degli dèi, 8 [79], 11 [19], 1) Afrodite apostrofa Selene chiedendole: «È vero che, quando arrivi sulla Caria, fermi il tuo cocchio per guardare Endimione, addormentato da buon cacciatore all’addiaccio, e che talvolta interrompi il tuo viaggio per scendere da lui?». Nella rievocazione di Ausonio, «un’antica leggenda vuole che un tempo un giovane abbia dormito per un anno intero senza che lo svegliasse la successione delle notti e dei giorni, poiché la Luna gli aveva infuso un sonno senza fine» (Effemeride, I, 13-16). Nel racconto di Quinto Smirneo (X, 125 ss.), i resti del giaciglio di Endimione «si possono ancora vedere oggi sotto le querce. Intorno ad esso le vacche avevano lasciato spargersi il loro latte nel sottobosco e gli uomini possono ancora contemplare questa meraviglia. Da molto lontano, in effetti, si ha l’impressione di vedere del latte bianco. In realtà, si tratta di un’acqua limpida che cola da una grotta; ma dopo un breve tratto essa forma nel suo letto un deposito che cambia la sabbia in pietra» e assume un colore marmoreo o lattiginoso.
Tra gli altri personaggi mitologici legati alla Caria si ricordava Bellerofonte, venerato come eroe fondatore della città caria di Baryglia (per il personaggio di Bellerofonte v. CORINTO). In Caria era ambientato il mito di Ermafrodito, che, nato sul monte Ida, viaggia però per la Lidia e per la Caria, e in quest’ultima regione ha il suo incontro fatale con la ninfa Salmacide presso l’omonima fonte (per i particolari v. IDA). A Bubaso, città della Caria, accenna Ovidio nelle Metamorfosi (IX, 644), ricordando che le donne che vi abitano vedono correre, urlando in preda alla follia, l’infelice Biblide, figlia di Mileto, innamorata del fratello Cauno che l’ha respinta (per i particolari v. MILETO; v. anche CAUNO). C’è poi un bel racconto che ci è noto da Igino (Favole, 190) e che ha per protagonista Teonoe. Teonoe era figlia di Testore, un indovino che era anche padre del più famoso indovino Calcante, veggente ufficiale della spedizione di Troia. Un giorno Teonoe, mentre stava giocando – era dunque ancora giovanissima –, venne rapita dai pirati e portata in Caria; qui il re del luogo, Icaro, la comperò per farne la propria concubina. Testore, disperato, si mise alla ricerca della figlia, e durante la navigazione fu vittima di un naufragio che lo portò ad approdare fortunosamente proprio sulle coste della Caria, dove venne trattenuto prigioniero. Oltre a Teonoe, Testore aveva anche un’altra figlia, Leucippe. Rimasta priva del padre dopo aver perduto la sorella, la povera Leucippe interpellò l’oracolo di Delfi per sapere dove avrebbe potuto ritrovare i congiunti; Apollo le suggerì di vagare per il mondo come suo sacerdote, e li avrebbe ritrovati. Leucippe dunque si tagliò i capelli, e, travestita da uomo, nei panni di un sacerdote di Apollo, dopo svariate peregrinazioni giunse a sua volta in Caria. Qui Teonoe, credendola un maschio e innamoratasi di lei, chiese di poterne disporre per i propri amori, ma Leucippe, che ancora ignorava di avere davanti a sé la sorella, si oppose; Teonoe, che a sua volta non l’aveva riconosciuta, decretò che quel sacerdote disobbediente doveva morire, e affidò proprio a Testore, della cui identità non si era resa conto, l’incarico di ucciderlo. La conclusione dell’intricata e romanzesca vicenda vede, un attimo prima del disastro irreparabile, il reciproco riconoscimento dei protagonisti, e si avvia poi verso il lieto fine, con la famigliola di Testore che lascia la Caria, serena e riconciliata, e torna in patria carica di doni.
I popoli della Caria erano stati effigiati dal dio Vulcano nello splendido scudo di bronzo che Venere dona a Enea poco prima dell’inizio della guerra fra Troiani e Latini che si combatte sul suolo italico prima che l’eroe troiano vi si possa stabilire definitivamente con i suoi (Virgilio, Eneide, VIII, 725). E anche in occasione di un’altra spedizione bellica, quella di Dioniso in Asia ricordata nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, dove vengono descritte le armate che si schierano sotto il comando del dio, l’esercito messo a disposizione dalla Caria non poteva mancare (XIII, 546-565).
Gli abitanti della regione attribuivano l’origine del toponimo al nome di un eroe di nome Caro, che sarebbe stato fratello di Lido e Miso, capostipiti rispettivamente dei Lidi e dei Misi. Caro fu l’inventore dell’arte augurale della previsione del futuro dal volo degli uccelli (Plinio, Nat. Hist., VII, 203). Altre fonti mettono invece in relazione il toponimo con Chrysaor, o Chrysaoris, figlio di Glauco, che era a sua volta figlio di Sisifo (Pauly-Wissowa, s.v. Chrysaor).
Gli abitanti della regione erano considerati geniali inventori di alcuni accorgimenti che divennero poi di uso comune presso i Greci: «sono i Carii infatti che hanno insegnato a fissare i cimieri sugli elmi e a mettere emblemi sugli scudi; e sono stati i primi ad adattare agli scudi delle corregge interne» (Erodoto, I, 171, 4). Tuttavia, poiché dalla Caria giungevano ad Atene molti schiavi (Aristofane, Uccelli, 764), era diffusa nell’età classica la tendenza a considerare tutto ciò che proveniva da quella regione di scarso valore: come le «danze della Caria» di cui parla Aristofane nelle Rane (v. 1302). O come le Cariatidi, il cui nome indica le statue, in forma di giovani donne, che sorreggono gli architravi degli edifici in luogo delle colonne, come nel celebre Eretteo dell’Acropoli di Atene: secondo la tradizione, l’idea di raffigurare delle donne a sostenere il peso del tetto e di chiamarle Cariatidi derivava dalla scarsa stima che, appunto, in Grecia si aveva dei Carii, considerati vili e schiavi, e in particolare dal fatto che durante le guerre persiane i Carii, alleati del Gran Re di Persia, erano stati sconfitti: le più belle tra le loro donne erano state portate in Grecia come schiave, e l’arte ne aveva immortalato la sorte nell’immagine delle Cariatidi.
Alle località principali che identificano il territorio della Caria fa riferimento Quinto Smirneo (I, 278-286): spiccavano soprattutto le città di MILETO, ALICARNASSO, CNIDO, PRIENE (v.). Non mancano, nelle fonti antiche, le menzioni di prodigi e fenomeni naturali che hanno luogo in vari luoghi della Caria e suscitano ammirazione e meraviglia, lasciando supporre l’affacciarsi del soprannaturale: come nel caso della fontana situata nei pressi della località di Daskylon, dalla quale sgorgava acqua calda, più dolce del latte (Pausania, IV, 35, 11).
CARIE, in gr. Karai. Cittadina della Laconia che diede il suo nome a un tipo di danza, chiamata appunto «cariatide», praticata, oltre che a Carie stessa, anche a Sparta. Come ricorda Luciano di Samosata nel suo dialogo Sulla danza (33 [45], 10) i passi della cariatide furono insegnati agli Spartani dai Dioscuri, i divini gemelli Castore e Polluce, figli di Zeus e di Leda. In realtà la danza, che era originariamente eseguita in onore della dea Artemide, venerata con l’epiteto di Cariatide in onore del tempio di Carie a lei dedicato, era riservata alle fanciulle consacrate alla dea, e non aveva nulla delle danze guerriere che ci si aspetterebbe dai bellicosi Spartani, a maggior ragione se istruiti da due dèi a loro volta bellicosissimi come Castore e Polluce. La danza di Carie è cosa diversa dalla danza della Caria di cui parla Aristofane nelle Rane (v. 1302) per la quale v. CARIA.
CARISTO, in gr. Kàrystos. Città dell’isola di Eubea, nota anche con il nome di Egea o Ege. È ricordata per le sue «coste a picco» (Euripide, Elena, 1130), dove spiccava la cosiddetta «roccia Caristia» (Id., Ifigenia in Tauride, 1451), chiamata anche Oche; su tali ripide scogliere si sfracellarono alcune delle navi dei Greci di ritorno dalla guerra di Troia. Per i particolari v. EUBEA. Di Caristo era un’eroina, Epipole, che si travestì da uomo per poter partecipare alla guerra di Troia ma venne scoperta da Palamede e uccisa mediante lapidazione. Secondo il racconto di Diodoro Siculo nel IV libro della Biblioteca storica la città di Caristo venne eretta dai Driopi, popolazione originariamente residente nell’area del monte Parnaso e scacciata dalle sue terre da Eracle. Omero ricordava che era stata fondata dagli Abanti (Iliade, II, 539), mitica popolazione residente nell’Eubea, che aveva in Abante, figlio del dio Poseidone e della ninfa Aretusa, il proprio capostipite. Con il nome di Ege la città potrebbe identificarsi con la sede del meraviglioso palazzo sottomarino del dio Poseidone, per il quale v. EGE.
CARITI, GIARDINO DELLE Nel multiforme panorama dei giardini mitici di incerta collocazione e di sicuro fascino, il Giardino delle Cariti, o Grazie, è scarsamente menzionato: in Pindaro (Olimpiche, IX, 40) se ne trova la prima attestazione. Esso è poi ricordato da Aristofane, che con un vago cenno lascia intuire la ricchezza dei suoi frutti: «a primavera ci nutriamo delle vergini, candide bacche di mirto e dei frutti del giardino delle Cariti» (Uccelli, 1100). Le Cariti erano tre divinità femminili, figlie di Zeus e della antichissima dea nota come Eurinome; di origine celeste, esse erano apportatrici di gioia e di bellezza (dal greco , «rallegrarsi»), ma in alcune località, come Orcomeno, erano venerate anche in relazione con il mondo infernale, cosa che apparenterebbe il loro giardino con i Campi Elisi e le Isole dei Beati dell’oltretomba.
CARMANIA, in gr. Karmanìa. Regione dell’Asia affacciata sul Mar Rosso, nella quale secondo la tradizione abitavano i Chelonofagi: come indica il loro nome, queste popolazioni leggendarie si cibavano della carne delle testuggini e ne usavano i gusci per costruire i tetti delle abitazioni. Il loro corpo, coperto da un’ispida peluria tranne che sul capo, era coperto da indumenti ottenuti dalla lavorazione di squame di pesce (Plinio, Nat. Hist., VI, 109).
CARMELO, in gr. Kàrmelos. Nome di un monte e di un promontorio situato «tra la Giudea e la Siria», che si prolunga dall’Antilibano in direzione nord-ovest verso il mare, a una cinquantina di chilometri a sud di Tiro. Secondo Tacito (Annali, II, 78, 3) «è il nome di un monte e di un dio». Di questo dio, del suo culto e dei suoi miti siamo scarsamente informati: è ancora Tacito ad aggiungere che esso «non ha statua né tempio – così hanno tramandato gli avi –: solo altare e devozione». I luoghi di culto, prima fenici, poi ebraici, erano peraltro numerosi lungo le sue pendici, e tali rimarranno anche durante il cristianesimo, quando vi vissero diversi eremiti e vi sorsero importanti monasteri. In quel luogo si narrava che Vespasiano avesse ricevuto auspici favorevoli per le sue imprese da un sacerdote locale. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli vi fa tappa il dio Dioniso, che durante la sua spedizione in Oriente vi lascia le sue «truppe armate» e le sue «donne pronte al combattimento». Il toponimo, in ebraico, significa «giardino».
CARPATO Isola del mar Egeo, tra Creta e Rodi (detta oggi anche Scarpanto), ricordata per la prima volta nella mitologia (nella forma Kràpathon) nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 675). Era nota come parte dei possedimenti del re cretese Minosse; era stata inoltre una delle tappe degli Argonauti durante il loro viaggio di ritorno dalla Colchide dove si erano recati alla conquista del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1635-1636: «la rocciosa Carpato»). Nell’isola e nel mare di Carpato risiedeva, secondo una tradizione variamente attestata da diversi poeti, l’indovino Proteo, divinità marina che alle capacità divinatorie aggiungeva la facoltà di assumere aspetti diversi, trasformandosi in acqua, fuoco e in svariati animali, cosa che gli permetteva molto spesso di sfuggire a quanti lo interrogavano per strappargli una profezia; era presentato come pastore di un branco di foche, presso le quali soggiornava (Odissea, IV, 351 ss.; Virgilio, Georgiche, IV, 387; Ovidio, Metamorfosi, XI, 249; Stazio, Achilleide, I, 135-136). Nelle acque di Carpato si gettò Glauco (Ausonio, Mosella, 279), che fu trasformato in divinità marina (v. ANTEDONE e SCILLA E CARIDDI per i particolari del mito che lo riguarda). Gli abitanti dell’isola dicevano che le unghie e la pelle della lince, bruciate e poi bevute, sono un ottimo ed efficace rimedio contro il libertinaggio maschile; possono essere consigliabili anche contro la libidine femminile, ma in tal caso bisogna utilizzarle mediante aspersione (Plinio, Nat. Hist., XXVIII, 122). Secondo fonti più tarde il nome dell’isola deriva dalla «velocità con cui in essa maturano i raccolti», dal greco karpòs, «frutto» (Isidoro, Etimologie, XIV, vi, 24).
CARRINO Località difficilmente identificabile della Spagna, dove secondo Plinio scorrevano, l’una vicina all’altra, due fonti, una che rigettava, l’altra che ingoiava ogni cosa (Nat. Hist., II, 231); forse traccia del toponimo si trova oggi nel fiume Carrion presso León.
CARSEOLI, in lat. Carseoli o Carsioli. Antica cittadina situata lungo la via Valeria che collegava Roma con il territorio dei Peligni; corrisponde all’odierna Carsoli, in provincia dell’Aquila. Già città degli Equi, poi conquistata dai Romani, si trovava al centro di un’area dal clima troppo freddo per la produzione di olive, ma propizio alla coltivazione delle messi. È quanto ci racconta Ovidio, che ricorda come un tempo in quella regione abitasse una coppia di modesti contadini, che conducevano una vita estremamente frugale con il figlioletto dodicenne. Un giorno quest’ultimo riuscì ad acchiappare in un bosco una volpe che aveva depredato il loro pollaio, e dopo averla avvolta in stoppie le diede fuoco. L’animale, però, riuscì a sfuggirgli, e correndo per i campi già ricchi di messi appiccò ovunque passasse il fuoco che la bruciava, provocando ingenti danni. Da allora è consuetudine a Carseoli vietare di nominare la volpe nel giorno anniversario dell’evento; e «perché la specie sconti la pena» di aver danneggiato i frutti della terra, posti sotto la protezione della dea Cerere, «nella festa di Cerere si brucia una volpe: a quel modo che fece perire le messi, essa perisce» (Ovidio, Fasti, IV, 711-712).
CARTAGENA Città della Spagna, fondata dal condottiero cartaginese Asdrubale nel 221 a.C. Con le parole di Polibio, che la descrive nelle sue Storie (X, 10), essa «si trova su per giù nel mezzo della costa dell’Iberia in una insenatura esposta al libeccio, profonda venti stadi e larga dieci […]. La città ha forma di semicerchio» ed è circondata da alture e colline, ciascuna delle quali è dedicata a una diversa divinità: la maggiore è sormontata da un tempio di Asclepio, mentre «altre tre alture minori circondano la città a settentrione; fra esse quella che guarda a levante è detta di Efesto, la successiva di Alete, personaggio che ha ottenuto onori divini per aver scoperto giacimenti d’argento, la terza è detta di Crono». La città, chiamata dai Romani Carthago Nova per distinguerla dalla più antica metropoli punica di Cartagine, sarebbe stata fondata secondo la mitologia da alcuni compagni di Teucro (Strabone, III, 4, 3), il celebre condottiero greco, figlio di Telamone di Salamina e fratello di Aiace Telamonio, che, al ritorno dalla guerra di Troia, per non aver vigilato su Aiace o per non averne vendicata la morte, viene mandato in esilio dal padre. Anche Silio Italico ricorda l’origine di Cartagena come «fondata dall’antico Teucro» (Guerra Punica, III, 368; XV, 192); il primitivo nome della fondazione di Teucro era Mastia.
CARTAGINE, in lat. Carthago. Celebre città della costa settentrionale dell’Africa, nei pressi dell’odierna capitale della Tunisia, della quale restano testimonianze archeologiche di diverse epoche. Nelle fonti greche cenni a Cartagine compaiono a più riprese, quasi sempre in relazione a dati relativi alla sua organizzazione politica, sociale e militare o alle sue usanze religiose – aspetti tutti dei quali si sottolinea la diversità rispetto al mondo greco – e raramente, invece, in un contesto legato al mito. Paragonando le consuetudini religiose dei Cartaginesi a quelle greche, per esempio, Platone scrive: «Presso di noi […] è fuori legge compiere sacrifici umani: sarebbe anzi un’empietà; mentre i Cartaginesi compiono sacrifici umani come santa e legittima cosa, e alcuni d’essi giungono perfino a sacrificare i propri figli a Crono» (Minosse, 315 c). Alla costituzione di Cartagine gli antichi attribuivano qualità particolari: «Pare che anche i Cartaginesi abbiano una buona costituzione e per molti aspetti diversa da quella degli altri, ma soprattutto affine in alcuni punti a quella degli Spartani» (Aristotele, Politica, 1272 b).
La città di Didone. Il legame tra Cartagine e il mito diventa invece indissolubile nella grande letteratura latina, e in particolare nell’Eneide virgiliana, dove la città è uno dei poli fondamentali del viaggio di Enea verso Roma e verso il suo destino di antenato delle grandezze dell’Impero, e dove, in difesa o contro «le dimore dell’altera Cartagine», si schierano gli stessi dèi (Virgilio, Eneide, IV, 97). Cartagine grandeggia fin dai primi versi del poema di Virgilio: «Una città antica esisteva, abitata da coloni di Tiro, Cartagine, dirimpetto all’Italia e, di lontano, alle bocche del Tevere, ricca di mezzi e zelantissima nell’aspra condotta della guerra, che Giunone, si dice, fra le terre più di tutte, unica, posponendo anche Samo, predilesse» (ibid., I, 12-16). Addirittura, in questa città Giunone teneva le sue armi e il suo carro. La sua predilezione per Cartagine spiega il comportamento ostile della dea verso i Troiani ed Enea, dal momento che una profezia avvertiva che un giorno un eroe di sangue troiano avrebbe distrutto la città a lei così cara.
Le origini di Cartagine erano legate ai Fenici di Tiro: Virgilio la definisce infatti «città di Agenore» (ibid., I, 338) con riferimento al fondatore del regno fenicio di Tiro, appunto Agenore (v. TIRO per i particolari). Il mito della fondazione di Cartagine (che la tradizione collocava nell’anno 814 a.C.) s’intreccia a una «lunga storia di offese», a «lunghi intrichi» che si possono riepilogare con l’aiuto di Venere, la quale, per sommi capi, li riassume per suo figlio Enea (ibid., I, 341 ss.). Didone, originaria di Tiro e regina di Cartagine ai tempi in cui Enea vi sbarca, mentre ancora si trovava nella sua città natale era andata sposa a «Sicheo, il più ricco padrone di terre fra i Fenici». A quell’epoca tuttavia regnava a Tiro Pigmalione, «più mostruoso di tutti gli altri scellerati», fratello germano di Didone, che non esitò a uccidere Sicheo senza preoccuparsi dei sentimenti della sorella, profondamente innamorata dello sposo. Quando l’infelice Didone scopre il delitto, Pigmalione la induce a lasciare la patria, e a lei si uniscono tutti coloro che, per le più svariate ragioni, hanno in odio il tiranno oppure lo temono. La spedizione, capeggiata da Didone («guida all’impresa, una donna»), approda là dove sorgerà Cartagine, e vi fonda la città, «dopo aver acquistato il suolo, che dal fatto chiamarono Bursa, quanto potessero cingere con una pelle taurina». Didone, infatti, ebbe dagli indigeni la promessa che le avrebbero ceduto tanta terra quanta ne avesse potuta coprire con una pelle di bue; l’astuta regina, tagliata la pelle in striscioline sottilissime, riuscì con quelle a recingere un’area grande a sufficienza per costruire il suo insediamento (v. anche BYRSA). Si diceva che nel primo luogo dove si cominciò a scavare per fondare la nuova città venne alla luce il teschio di un bue; il fatto venne interpretato come un presagio sinistro, e si cambiò allora area, scegliendone un’altra dove si trovò invece il cranio di un cavallo, segno decisamente favorevole (v. oltre). Cartagine godrà del favore incondizionato di Giunone, la dea che arriverà a preferirla a Samo, ad Argo e a Micene, centri antichissimi del suo culto, e la appoggerà un giorno contro i Romani, prendendo le parti di Annibale (Silio Italico, Guerra Punica, I, 26-28). Ma questi sono fatti di là da venire: Enea, in fuga da Troia distrutta, sbarca a Cartagine durante il suo viaggio verso l’Italia («L’Italia cerco, mia patria», Eneide, I, 380), e la trova nel pieno fervore della costruzione: salito su un colle che gli permette di dominarla dall’alto, ammira «la mole degli edifici, capanne una volta, ammira le porte, e il fragore e la distesa delle vie». I lavori fervono: «Assidui al lavoro gli ardenti Tiri, chi traccia i muri e innalza la rocca, a mano rotolando le pietre, chi cerca un luogo per la casa e lo cinge d’un solco». Mentre si gettano le basi delle magistrature che reggono la città, «qui gli uni scavano porti, là per i vasti teatri le fondamenta stabiliscono altri o smisurate colonne dalle rupi distaccano, per le scene eccelso ornamento in futuro» (ibid., I, 419-429).
Nel cuore della città «sorgeva un boschetto rallegrato d’ombra», dove i compagni di Didone, approdati fortunosamente durante una tempesta dopo il loro lungo viaggio da Tiro, avevano trovato nel terreno il segno che la dea Giunone aveva loro promesso: una testa di cavallo, simbolo di animo indomito e bellicoso, «perché tale sarebbe stata, in guerra eccellente e ricca di risorse nei secoli, quella razza» (ibid., I, 441-445; il cavallo è un simbolo della città che compare spesso sulle monete puniche). Proprio lì Didone aveva eretto un gigantesco tempio in onore della dea, dagli splendidi ornamenti e dalla porta di bronzo, decorato con meravigliose raffigurazioni degli episodi della guerra di Troia. La vista turba e commuove profondamente Enea: «Nell’immenso tempio, mentre esamina ogni cosa aspettando la regina, mentre la ricchezza della città, le mani degli artisti in gara fra loro e l’impegno delle opere ammira, vede d’Ilio per ordine scontri e battaglie, ormai dalla fama diffuse per l’intero universo» (ibid., I, 453-457); è qui, sotto le immagini che raccontano la caduta della sua città, che Enea ha il suo primo incontro con la bellissima regina cartaginese. Ed è a Cartagine, o nelle sue immediate vicinanze, che la tragedia di Didone si consuma: accesa d’amore per Enea, con il quale celebra le nozze in una grotta costiera, dove i due si sono rifugiati per ripararsi da un temporale durante una battuta di caccia, viene però abbandonata dall’eroe per volere divino, benché lo stesso Enea si fosse dato, a sua volta, a erigere parti della città; distrutta dalla disperazione d’amore, la regina si toglie la vita (ibid., libro IV).
Roma e Cartagine. La versione del mito raccontata da Virgilio apporta una variazione a una tradizione più antica, che escludeva dalla storia la figura di Enea e secondo la quale Didone avrebbe cercato la morte sul rogo per sfuggire alle nozze con il re locale Iarba. Nella versione virgiliana la tradizione vedeva la remota origine dell’ostilità che contrappose in tempi storici Roma e Cartagine: come preannuncia Giove stesso in un augusto consesso divino sull’Olimpo, «verrà il momento giusto […] per le battaglie, quando la feroce Cartagine sulle rocche romane, un giorno, grande rovina attraverso le Alpi aperte lancerà» (ibid., X, 11-13), con evidente allusione al passaggio del cartaginese Annibale attraverso la catena alpina.
La guerra di Roma contro Cartagine alimentò una fioritura di aneddoti ispirati ai protagonisti delle vicende belliche, tra i quali spicca l’eroe romano Attilio Regolo, incaricato di una delicata missione diplomatica per trattare la pace tra le due potenze. Benché si fosse impegnato presso i Cartaginesi a tornare da loro se la sua ambasceria non avesse avuto successo presso i senatori romani, Regolo non esitò a suggerire al Senato di rifiutare le condizioni proposte dai nemici, e tornato poi a Cartagine secondo la promessa finì atrocemente torturato dai Punici, che lo chiusero, come è noto, dentro una botte irta di chiodi, facendolo rotolare lungo un pendio (Livio, XVIII). Nel contrasto che contrappose Roma e Cartagine un ruolo di primo piano spettò poi a Marco Porcio Catone, fervido sostenitore della necessità che i Romani muovessero guerra alla città nemica e la distruggessero. La sua fiera avversione per la metropoli dell’antica Libia divenne oggetto di diversi aneddoti celebri, della cui storicità non abbiamo motivo di dubitare, ma la cui fama sconfina nella leggenda: per giustificare la sua posizione di ferma e irremovibile avversione a Cartagine, si narra che Catone avesse un giorno portato dei fichi in Senato: «Dicono che Catone scuotendo la toga facesse cadere nel Senato dei fichi portati a bella posta dalla Libia. Poi, ammirandone tutti la grandezza e la bellezza, disse che una città la quale produceva questi frutti distava da Roma appena tre giorni di navigazione». Facile immaginare che da una città così ricca e così vicina non potessero venire a Roma che problemi di ogni tipo (Plutarco, Catone, 27, 1), e comprendere il perché del famoso detto attribuito a Catone Carthago delenda, «Cartagine va distrutta».
E Cartagine venne distrutta davvero: alla fine della terza guerra punica, il suolo dell’antica città, rasa al suolo nel 146 a.C. dopo un assedio durato tre anni, venne interdetto a ogni ricostruzione: solo all’epoca di Cesare e poi di Augusto (dopo un tentativo fallito di Caio Gracco) sulla stessa area dell’insediamento antico si instaurò la nuova Colonia Julia Concordia Carthago.
Ancora in piena età imperiale si favoleggiava di un misterioso tesoro portato a Cartagine da Didone in fuga da Tiro e rimasto sepolto in qualche anfratto inviolato. Un misterioso personaggio di nome Cesellio Basso, ricordato da Tacito (Annali, XVI, 1, 1), aveva instillato nella mente dell’imperatore Nerone la convinzione che quel tesoro fosse a portata di mano: «gli prometteva con assoluta certezza che i forzieri contenenti un antichissimo tesoro reale – quello che la regina Didone aveva portato via con sé fuggendo da Tiro – si trovavano in Africa, nascosti in enormi caverne, e si potevano tirar fuori di lì con pochissima fatica» (Svetonio, Vite dei Cesari, VI, 31, 4). Inutile dire che tale meraviglioso tesoro non venne mai trovato, né da Nerone né da altri.
Tradizioni indigene e rivisitazioni letterarie. Dei miti legati alle divinità locali poco sappiamo, se non quanto ci riferiscono fonti non indigene, bensì greche e soprattutto romane: fonti forse di parte, che molto probabilmente per motivi propagandistici tendevano a gettare discredito sulle usanze del posto mettendo in particolare evidenza gli aspetti più cupi delle figure di Tanit e Baal Hammon, le principali divinità cartaginesi, rispettivamente femminile e maschile, la prima assimilata con Giunone Celeste: «tu che frequenti le sedi felici dell’eccelsa Cartagine, che t’adotta sotto la specie di vergine portata dal leone trasvolante per i cieli» la apostrofa Apuleio (Metamorfosi, VI, 4), sottolineando il sincretismo fra le due dee. Nel grande santuario a cielo aperto di queste divinità, il tophet, ricchissimo di sepolture di bambini (e di piccoli animali), si diceva che si svolgessero cruenti sacrifici umani nel rito chiamato molk (il moloch della Bibbia), sulla cui reale frequenza, funzione e modalità tuttavia poco sappiamo di certo: molti aspetti della religione cartaginese e della sua interpretazione sconfinano a loro volta nella leggenda e hanno alimentato truculente fantasie fino ai tempi moderni.
Di Cartagine era originario il protagonista della commedia Poenulus, letteralmente «il piccolo Cartaginese», di Tito Maccio Plauto. E naturalmente la città ha un posto importante nella Guerra Punica di Silio Italico, che rievoca fin dal I libro il santuario dedicato alla commemorazione di Didone, nascosto da una cortina di pini e cipressi, che con la loro ombra lugubre velano la luce del giorno: «è là, dice la leggenda, che la regina un tempo disse addio ai tormenti della vita terrena. Là sorgono tristi statue di marmo: Belo, l’antenato della stirpe, e tutta la discendenza di Belo», compresa la statua di marmo della stessa Didone, della quale, a seguito delle cerimonie religiose celebrate da una sacerdotessa che invoca il mondo infernale, i lineamenti marmorei si bagnano di sudore (I, 81-98). In quel santuario matura l’odio di Annibale ancora ragazzino verso i Romani, contro i quali combatterà da adulto.
La lode più alta e commossa della città è forse quella che si legge in Apuleio: «Quale lode più grande e più sicura che celebrare Cartagine, dove tutti i cittadini sono istruitissimi, dove i ragazzi imparano ogni disciplina, i giovani ne sono orgogliosi, i vecchi insegnano? Cartagine, maestra venerabile della nostra provincia, Cartagine, Musa celeste dell’Africa, Cartagine Camena del popolo dei togati» (Florida, XX).
Il toponimo. Cartagine significava «città nuova» (qart hadasht); il nome era stato assegnato alla città forse per sottolinearne la recenziorità rispetto alla più antica Utica, situata un poco più a nord. È quanto si può ricavare da un passo delle Orazioni di Catone (XL, 149), dove si dice che Cartagine «fu costruita al tempo in cui regnava in Libia il re Iapon, da una donna di nome Elissa [cioè Didone], di provenienza fenicia, e fu chiamata Carthada, che in lingua fenicia appunto significa “città nuova”. Poi, con traduzione dal fenicio al punico, la donna fu chiamata Elisa e la città ebbe nome Cartagine». L’altro nome con cui era indicata, Byrsa, veniva erroneamente messo in relazione con il greco byrsa, «pelle», «pelle di bue», cosa che favorì le leggende relative alla fondazione, mentre significava più propriamente «abbeveratoio per le pecore» oppure «fortezza», «luogo fortificato». Alla trasformazione del nome di Cartagine fa riferimento Ausonio (Ordine delle città celebri, 2-3), che ne celebra il rango fra i centri urbani più importanti, e, personificandola, immagina che la città, «rossa di vergogna», accusi gli dèi di averla costretta a cedere il primo posto nella graduatoria delle città celebri a Roma prima, e poi a Costantinopoli. Il nome del porto di Cartagine, Cothon, viene dato da Silio Italico a un pilota cartaginese (Guerra Punica, VI, 357).
CASIO, in gr. Kàsion òros. C’erano almeno due monti di questo nome, dei quali uno era situato al confine tra l’Egitto e l’Arabia, presso la città di Pelusio, e un altro presso la città di Seleucia Pieria, in Siria. Di quest’ultimo Plinio (Nat. Hist., V, 80) ricorda una caratteristica peculiare: era così alto «che da esso, nell’ultima parte della notte, è possibile vedere sorgere il sole dall’oscurità. Basta che lo spettatore giri lo sguardo per osservare simultaneamente il giorno e la notte»; l’altezza del monte (misurata però verosimilmente secondo la pendenza e non in verticale), secondo Plinio, era di quattro miglia. «Montagna boscosa che eleva nell’aria una sommità arrotondata e da dove, al secondo canto del gallo, si possono vedere i primi raggi del sole che si leva» conferma Ammiano Marcellino (XXII, 14, 4). Sulla sua vetta si celebrava Zeus Casios, e si diceva che Seleuco Nicatore avesse interrogato il dio per sapere dove dovesse fondare Antiochia. Si narrava anche che sulla montagna si fosse inerpicato un giorno Giuliano l’Apostata, ultimo imperatore pagano, desideroso di assistere allo spettacolo dell’alba, e che vi avesse incontrato Zeus Casios in persona (Libanio, Orazione, XVIII, 172). Vi si venerava inoltre Trittolemo, divinità connessa con il culto della dea della terra e delle messi, Demetra. Per la relazione tra il monte Casio e il mostruoso Tifone v. TIFONIA, RUPE.
CASO, in gr. Kàsos. Isola greca dell’Egeo, a sud-ovest di Scarpanto, ricordata nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 675) tra le località che partecipano alla guerra di Troia.
CASPERIA Cittadina dell’Italia centrale, in provincia di Rieti. La mitologia ricorda con questo nome una delle località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 714). L’identificazione della Casperia virgiliana con l’omonimo centro attuale non è però provata.
CASPIO, MARE, in gr. Kaspìe thàlassa o Kàspios pèlagos. Il Mar Caspio, chiamato anticamente anche Ircanio (Diodoro Siculo, XVII, 75, 3; Plutarco, Alessandro, IV, 2; Ircania era chiamata una regione che vi si affacciava), è relativamente poco presente nelle fonti classiche, e solo saltuariamente nella mitologia. È ricordato in relazione con il mito di Medea e Giasone: Apollonio Rodio racconta nelle Argonautiche (III, 859) che entro una conchiglia del Caspio Medea aveva raccolto l’umore delle radici di un fiore simile al croco, nato dal sangue di Prometeo, e lo aveva utilizzato per produrre un magico filtro. Quando poi, nell’Eneide virgiliana, Enea visita l’aldilà e incontra il fantasma del padre Anchise, recentemente scomparso, questi gli vaticina che la sua stirpe dominerà sulla città di Alba Longa e i suoi successori fonderanno numerose altre città, estendendo poi il loro potere al mondo intero fino all’epoca di Augusto, al pensiero del cui avvento «fin d’ora i regni del Caspio rabbrividiscono» (VI, 798-799): un modo per indicare uno dei luoghi più remoti della terra e per alludere con riferimenti geografici evocatori all’ampiezza dell’Impero di Roma e alla grandezza del suo sovrano.
Si diceva che le acque del Caspio fossero più dolci di quelle degli altri mari, forse perché si riteneva che in esso confluisse l’acqua della palude Meotide, ossia dell’attuale Mar d’Azov, che ne attenuava la salinità (il Mar Caspio, d’altronde, è propriamente il più grande lago della Terra e non un vero mare, e la sua salinità è molto variabile). A parte il sapore, le sue acque avevano un’altra caratteristica, e cioè quella di «nutrire serpenti di straordinaria grandezza; i pesci che in esso si trovano hanno colori molto diversi dagli altri». Secondo alcuni, poi, il Mar Caspio non sarebbe altro che una parte dell’Oceano che cinge l’intera Terra conosciuta (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, VI, 4, 18-19).
CASSITERIDI, in gr. Kassiterìdes. Isole semileggendarie, note per la loro produzione di stagno, il cui nome deriva dal greco kassìteros che significa appunto «stagno». Erano variamente identificate con isole o regioni ricche di tale metallo, e collocate ora nel canale della Manica, ora nella penisola della Cornovaglia, ora in generale nelle isole britanniche. Il mito le poneva più vagamente in un imprecisato e misterioso mare al di là dell’Europa che ne segnava i confini. Erodoto, menzionandole, lascia trapelare i suoi dubbi circa la loro reale collocazione e addirittura si domanda se esistano veramente: «non so nulla dell’esistenza delle isole Cassiteridi, dalle quali ci verrebbe lo stagno […]. Nonostante tutto il mio impegno, non sono mai riuscito a sentir affermare da un testimone oculare che esista un mare al di là dell’Europa. In ogni caso lo stagno e l’ambra ci vengono da un estremo confine del mondo» (III, 115, 1-2), cosa che non lo stupisce: a quanto sembra, «proprio le regioni estreme, che circondano e racchiudono al loro interno gli altri paesi, posseggono le cose che noi riteniamo più belle e più rare» (ibid., III, 116, 3). Apparentemente più sicure le informazioni che ci fornisce Strabone, che tuttavia, pur dando notizie rigorose sul numero delle isole (dieci) e sulla loro collocazione («al largo del porto degli Artabri»), offre dei loro abitanti una descrizione tanto suggestiva quanto letteraria e difficilmente verificabile: «Una di esse è deserta, mentre le altre sono abitate da uomini che indossano mantelli neri, chitoni che li avvolgono fino ai piedi, una cintura intorno al petto e dei bastoni con i quali camminano, simili alle Pene delle tragedie» (III, 5, 11).
CASTEL GANDOLFO Nella celebre località del Lazio sui Colli Albani, ancora oggi residenza estiva del Pontefice, si suole identificare il sito della città di Alba Longa, legata nel mito alla fondazione da parte di Ascanio, figlio di Enea. Per i particolari v. ALBA LONGA. Per il Lago di Castel Gandolfo v. ALBANO, LAGO.
CASTNIO, in gr. Kàstnion. Monte della Panfilia, non lontano dalla città di Aspendos, sulla costa meridionale dell’odierna Turchia; era sacro alla dea Afrodite, che vi era venerata con l’epiteto di Castnia (Licofrone, Alessandra, 403).
CASTRA MINERVAE Città del territorio dei Salentini, che secondo la tradizione era stata fondata da Idomeneo, re di Creta (Varrone, De re rustica, III, 6). I fondatori Salentini erano ritenuti originari di Licto, nell’isola di Creta, da dove erano giunti con Illiri e Locresi sotto il comando di Idomeneo (Virgilio, Eneide, III, 400); essi avevano dato il loro nome (Promontorium Sallentinum) al Capo Iapigio. Sembra che il luogo antico si possa identificare con Castri di Lecce, oggi Castro. V. anche SALENTO.
CASTRO D’INUO, in lat. Castrum Inui. Città del Lazio, a sud di Ardea, nel territorio di Pomezia, fondata, secondo la tradizione, dalla stirpe di Enea. Quando Enea visita l’aldilà e incontra il fantasma del padre Anchise, recentemente scomparso, questi gli vaticina che la sua stirpe dominerà sulla città di Alba Longa e i suoi successori fonderanno numerose città, tra le quali Pomezia e appunto Castro d’Inuo (Virgilio, Eneide, VI, 775).
CASTRO NUOVO, in lat. Castrum Novum. Città del Lazio, presso l’attuale Santa Marinella a sud di Civitavecchia, che talvolta nelle fonti compare anche con il nome di Castrum Inui e viene identificata con l’omonima località a sud di Ardea (nel territorio dell’attuale Pomezia: v. CASTRO D’INUO). Si diceva che l’area di Castro Nuovo fosse una regione abitata dal dio Pan e dal dio Fauno. Sia l’uno che l’altro assicurano alla popolazione del posto la fecondità, giacché soprattutto il secondo, dio locale, «è rappresentato come molto incline ai piaceri di Venere» (Rutilio Namaziano, De reditu, I, 231-236).
CATANIA, in gr. Katàne o Katàna. La città siciliana era stata fondata, secondo la tradizione, da coloni calcidesi provenienti da Nasso, altra antica colonia greca di Sicilia (identificabile con l’odierna Giardini Naxos). Il fondatore era, al pari di tutti i capi di spedizioni coloniali, un personaggio a metà fra il mito e la storia, un tal Tucle; alcune fonti però ricordano come fondatore di Catania un diverso comandante, Evarco (Tucidide, VI, 3, 3). Anticamente chiamata anche Aetna, la città assunse il nome di Catina o Catana al tempo dei Romani (secondo qualcuno, col significato di «catino» che alluderebbe alla sua fertilissima piana; altre tradizioni, come quella attestata da Stefano di Bisanzio, dicevano invece che Catana fosse il nome della nave di Tucle, con la quale l’eroe avrebbe condotto una colonia di Calcidesi, Ioni e Dori).
Sotto l’attuale piazza del Duomo scorre ancor oggi, interrato, il fiume Giudicello, che scaturisce dall’Etna, anticamente chiamato Amenanos e personificato come essere per metà uomo e per metà animale; la sua effigie compare in alcune antiche monete della città e il suo corso è ricordato da Ovidio nelle Metamorfosi (XV, 279-280): «l’Amenano, che trascina sabbie di Sicilia, a volte scorre, a volte, inaridita la sorgente, si prosciuga». Oltre le sue rive passa la dea Cerere quando, disperata per il rapimento della figlia Proserpina, si pone alla sua ricerca percorrendo l’intera Sicilia, dove secondo una versione del mito il ratto aveva avuto luogo (Ovidio, Fasti, IV, 467). Nella città, i cui destini furono sempre legati al vicino e incombente Etna, si serbava il ricordo di due giovani, chiamati Anfinomo e Anapia, che durante l’eruzione del vulcano salvarono i genitori dalle fiamme, trovando essi stessi la morte (Ausonio, L’ordine delle città celebri, 16-17; le loro gesta erano ampiamente ricordate anche da diverse altre fonti, come Strabone, Pausania, Seneca, Silio Italico, Valerio Massimo, Claudiano, l’anonimo autore del poemetto latino Etna e altri). Di Catania si diceva che fosse un giovane di nome Nireo, che si gettò in mare dalla rupe di Leucade per un dispiacere amoroso; raccolto miracolosamente nelle reti di alcuni pescatori, scoprì che insieme a lui i suoi salvatori avevano tratto a riva anche uno scrigno pieno d’oro, di cui rivendicò il possesso. In sogno, tuttavia, Apollo lo ammonì a non desiderare cose che non gli appartenevano, e a sentirsi soddisfatto di aver avuto salva la vita (l’aneddoto era raccontato da mitografi tardi: cfr. P. Grimal, Enciclopedia dei miti, p. 479).
Al confine tra mito e storia si collocava un aneddoto ricordato nel III libro di Strabone, che aveva per protagonista un ladro di nome Seleuro, vissuto ai tempi di Augusto. Costui, che si faceva chiamare «figlio dell’Etna», si era posto a capo di una banda di briganti che devastavano le contrade dei dintorni di Catania, sottoponendole a ruberie e saccheggi. Catturato infine e portato a Roma per essere giudicato, fu sottoposto a una singolare punizione: posto sulla cima di un’alta struttura che rappresentava simbolicamente l’Etna, vi venne lasciato fino a che il marchingegno, all’improvviso, si disfece, facendo precipitare il condannato dall’alto nel bel mezzo di un branco di fiere appositamente predisposte. La lezione, per chi aveva intenzione di imitare le gesta di Seleuro, fu memorabile. Storico, anche se tangente alla dimensione divina, era poi un caso ricordato da Cicerone nella V Verrina, dove si raccontava che Verre fece rapire l’antichissima statua di Cerere venerata a Catania nel tempio della dea: una scultura circondata dalla più grande venerazione e che solo le sacerdotesse potevano toccare. Verre non esitò, dopo averla sottratta, ad accusare un altro del furto; ma le sacerdotesse, con notevole coraggio, discolparono l’innocente, dichiarando che nei pressi del santuario si erano visti all’ora incriminata solo i servi di Verre; cosicché l’imputato, contrariamente ai desideri dell’accusatore, fu assolto.
CAUCASO, in gr. Kàukasos. Sistema montuoso posto al confine tra Europa e Asia, tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Il Caucaso, «altissimo tra i monti», con «vette prossime alle stelle» (Eschilo, Prometeo incatenato, 719-720), era ricordato in diversi racconti del mito come una delle terre estreme del mondo, paragonabile, per l’altezza delle sue cime, l’asprezza del suo clima, la sua collocazione remota, la solitudine dei suoi orizzonti e la grandiosità sinistra dei miti che vi erano ambientati, ad altri luoghi scarsamente conosciuti, ai limiti dell’ignoto, come il Paese degli Iperborei, o certe regioni della Scizia, o le località poste al di là dell’Oceano sconosciuto. Tra le sue rupi, nella tragedia eschilea a lui intitolata, è incatenato Prometeo, il Titano che per aver sottratto agli dèi il fuoco e averlo donato agli uomini viene punito dall’aquila di Zeus, che gli rode il fegato mentre egli giace impossibilitato a muoversi e a difendersi (a questo mito allude Virgilio parlando di «uccelli del Caucaso» e di «furto di Prometeo» nelle Bucoliche, VI, 42; mentre del nome dell’aquila siamo edotti da Igino, Favole, 31, che ci dice che si chiamava Aetone, «la fulva»); l’aquila viene vista anche dagli Argonauti che, passando in prossimità dei monti caucasici mentre si recano verso la Colchide alla conquista del vello d’oro, sentono il gemito straziante di Prometeo (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 1251-1259). Prometeo viene incatenato da Ermes e da Efesto, che nel dialogo Prometeo o il Caucaso di Luciano di Samosata (7 [23], 1) cercano a lungo «un dirupo adatto, se uno ve n’è libero dalla neve, per fissare più saldamente le catene e per rendere costui [Prometeo] visibile a tutti, una volta appeso». Il Titano viene così «crocifisso sul Caucaso vicino alle porte Caspie, spettacolo miserando per tutti gli Sciti» (ibid., 4). La vetta alla quale il Titano viene incatenato, secondo Arriano, si chiama Strobilo (Periplo, 11, 5). Qui Prometeo resterà per un periodo di trentamila anni (Igino, Favole, 54), fino a quando Eracle giungerà a liberarlo (Apollodoro, Biblioteca, I, 7, 1), scagliando una freccia contro l’aquila (ibid., II, 5, 11). Della liberazione di Prometeo dalle rupi caucasiche sono testimoni gli Argonauti (Valerio Flacco, Argonautiche, V, 154-176). Altre versioni del mito di Prometeo collocavano invece il luogo dove fu sottoposto al suo supplizio in una caverna del Parapamiso, l’Hindu Kush (cfr. Arriano, Anabasi di Alessandro, V, 3, 2); a seconda delle fonti, si parla anche di un suo seppellimento nelle viscere della terra, o sulla superficie del deserto scitico. La sofferenza di Prometeo incatenato alla rupe del Caucaso è tale che il Titano «accusa il figlio di Saturno [Giove], non cessa di rimproverare a Giove in persona il dono di una vita senza fine»: per lui, molto meglio sarebbe morire e porre fine a quegli atroci tormenti (Ausonio, Ecloghe, II, 21-23).
Tra le stesse montagne passa Io, la figlia di Inaco, l’eroina amata da Zeus che, per sfuggire alla gelosia di Era, viene trasformata in giovenca e costretta a fuggire nelle più remote plaghe della terra per evitare l’assillo di un instancabile tafano che la insegue (il mito è ricordato ancora nel Prometeo incatenato di Eschilo); nel territorio del Caucaso inoltre si trova la rupe Tifonia (v. TIFONIA, RUPE) che dà i natali al mostruoso Tifone o Tifeo. Il luogo evoca ambienti impervi, ostili, barbari, e in questo contesto lo cita Didone, la bellissima regina di Cartagine, quando Enea, di cui si è innamorata, appare insensibile al suo amore e deciso a lasciarla per dirigersi verso l’Italia: la fredda determinazione e la durezza di cuore di Enea inducono l’infelice eroina a esclamare: «ti generò irto di dure rocce il Caucaso» (IV, 366-357). Nelle Metamorfosi di Ovidio il Caucaso è menzionato tra le regioni che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Dal Caucaso proviene inoltre Abari, un eroe che combatte contro Perseo durante la rissa che si scatena alle nozze di quest’ultimo con Andromeda (Ovidio, Metamorfosi, V, 86). E nel Caucaso, «montagna ghiacciata» situata in un luogo remoto e isolato della gelida Scizia, ha sede la Fame: «C’è nelle estreme contrade della Scizia un luogo gelato, una terra desolata, sterile, priva d’alberi e di messi; abitano lì l’inerte Gelo, il Pallore, il Brivido e la Fame digiuna» (ibid., VIII, 788-791). Quest’ultima, in una pietraia, si dedica a «svellere con unghie e denti i rari fili d’erba», con l’aspetto di un’apparizione spettrale: «Ispidi aveva i capelli, occhi infossati, viso pallido, labbra sbiancate dall’inedia, gola rosa dall’arsura, rinsecchita la pelle, diafana al punto da mostrare le viscere», e via rabbrividendo (ibid., VIII, 800-804). Nei monti del Caucaso aveva la propria sede la popolazione degli Albani, che erano considerati discendenti di Giasone (Plinio, Nat. Hist., VI, 38). E sulla cima del Caucaso Zeus appare addormentato nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli (XXV, 263).
Anche senza scavare tra le leggende, il Caucaso appariva come un luogo ai limiti del favoloso agli autori antichi per il carattere estremo del clima delle sue cime: si diceva che coloro che le abitavano dovessero coprirsi i piedi con apposite calzature fatte di pelli di bue e coperte di spunzoni, simili ai moderni ramponi, per non scivolare sul ghiaccio e sulla neve che copriva le vette anche d’estate; e che per scendere a valle gli abitanti, veri anticipatori dell’invenzione degli sport invernali, si sedessero su grandi pelli di animale e si lasciassero scivolare sulla superficie nevosa, una specie di discesa in slittino ante litteram (Strabone, XI, 5, 6).
Il toponimo era spiegato mettendolo in relazione con un termine che «in lingua orientale significa candido nel senso di bianco per le nevi densissime» (Isidoro, Etimologie, XIV, viii, 2).
CAULONIA, in gr. Kaulonìa. Città della Calabria, situata fra Crotone e Locri, in provincia di Reggio, che secondo una tradizione leggendaria doveva il suo nome a un eroe di nome Caulo o Caulone, figlio dell’amazzone Cleta (o Clete). Quest’ultima era stata la nutrice della regina delle Amazzoni, Pentesilea, e si sarebbe recata in Italia all’epoca della guerra di Troia divenendo regina di una città che portava il suo nome, non lontana da Caulonia. Più tardi la regina sarebbe stata uccisa dagli abitanti di Crotone durante una durissima battaglia (ma altre fonti dicono che Crotone fu la fondatrice di Caulonia). Il destino di Cleta e il suo ruolo di regina di una città dell’Italia sarebbe stato profetizzato da Cassandra (Licofrone, Alessandra, 993-1007). Diverse regine che si succedettero sul trono di Caulonia, secondo il mito, avrebbero portato il nome dell’amazzone Cleta per perpetuarne il ricordo.
Caulonia è tra le località che Enea oltrepassa durante la sua navigazione alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la caduta di Troia (Virgilio, Eneide, III, 553). Nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 705) la località è menzionata, con il nome di Caulone, tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, recuperò le proprie divine sembianze e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
CAUNO, in gr. Kàunos. Città della Caria che si diceva derivasse il nome dal suo fondatore, Cauno, protagonista di un celebre mito a fianco di Biblide (per i particolari v. MILETO). La tradizione vi ambientava anche una leggenda che aveva per protagonista Lirco, re di Cauno, ed Emitea. Lirco, re senza eredi, si recò a visitare l’oracolo di Didima, presso Mileto, per avere lumi a proposito della sua discendenza; l’oracolo gli vaticinò che la prima donna con la quale avesse giaciuto gli avrebbe generato un figlio. La notizia giunse alle orecchie di Stafilo, re di Bibasto, figlio del dio Dioniso e padre di una ragazza in età da marito di nome Emitea. Senza pensarci due volte, Stafilo gliela mise nel letto: ne nacque, come l’oracolo aveva predetto, un bambino che sarebbe succeduto a Lirco come re di Cauno (Partenio di Nicea, Erotikà pathémata, I). Per altri dettagli su Emitea v. anche CHERSONESO.
CEFALONIA La più grande delle isole Ionie, situata all’imbocco del golfo di Patrasso, a ovest di Itaca. Con Itaca e Zacinto, Cefalonia (anticamente Cefallene, Kephallenìa, da cui anche Cefallenia, in Omero Same) faceva parte del piccolo regno del quale era sovrano Ulisse, che viene chiamato «re dei Cefalleni» e «straniero di Cefallene» (Sofocle, Filottete, 264 e 791). Il territorio dei Cefalleni è ricordato nel Catalogo delle donne di Esiodo (III-IV, 71) come patria dei figli del dio Ermes e di Calipso, la bellissima Ninfa ricordata nell’Odissea, che trattenne presso di sé Ulisse durante il suo viaggio di ritorno dalla guerra di Troia. Quelle terre sono descritte come luogo abitato dal «popolo degli animosi Cefalleni, che generò ad Ermes la divina ninfa Calipso»; vi si spinsero, racconta ancora Esiodo, i due eroi Calais e Zete, figli di Borea, durante il loro inseguimento delle Arpie, le mostruose creature che perseguitavano l’indovino Fineo e che quest’ultimo li aveva pregati di debellare. A Cefallenia si trova, sempre secondo Esiodo, «un monte Eno, dove sorge un tempio di Zeus Enesio». Se il monte Eno (Ainos), che conferisce all’isola il suo tipico aspetto montuoso, si può tuttora ammirare, molto più difficile è verificare una curiosa notizia secondo la quale sull’isola vivevano delle capre che avevano l’abitudine di placare la loro sete semplicemente aprendo la bocca in direzione dei venti salmastri, sufficienti per dissetarle (Valerio Massimo, I, 8, ext. 18). Sull’isola, secondo una tradizione, risiedeva Forchis, il Vecchio del Mare; ne era originaria anche la famiglia di Ulisse, essendo Laerte, suo padre, un figlio di Cefalo, l’eroe eponimo. Cefalo era protagonista di molti racconti a sfondo amoroso (con Eos, l’Aurora, e con Procri ebbe lunghe e travagliate storie d’amore: per le sue vicende v. TORICO): secondo una versione del racconto l’eroe, dopo la morte di Procri, fu condannato all’esilio e si stabilì sull’isola che prese il suo nome. Un monte di Cefalonia, chiamato Baio, prendeva invece il nome da quello stesso pilota di Ulisse che era anche l’eponimo della località di BAIA (v.). A rinsaldare i legami di Ulisse con l’isola si ricordava che Itaca era stata colonizzata da tre eroi di nome Polittore, Itaco e Nerito, provenienti da Cefalonia. Un mito secondario raccontava poi che uno dei sovrani di Cefalonia fu un certo Prono, il quale pretendeva di esercitare una sorta di ius primae noctis nei confronti delle ragazze dell’isola; la turpe usanza durò fino a che un eroe di nome Antenore, travestitosi da donna, non si infilò nel letto del tiranno, uccidendolo (Eraclide Pontico, fr. 32).
V. anche SAME.
CEFISO, in gr. Képhisos. Esistevano in Grecia diversi fiumi con questo nome: «uno nella Focide, un altro ad Atene, un altro a Salamina, un quarto e un quinto a Sicione e a Sciro, un sesto ad Argo, che nasce nel monte Liceo; e ad Apollonia, presso Epidamno, scorre presso il ginnasio una sorgente che si chiama Cefiso» (Strabone, IX, 3, 16). I principali dal punto di vista della mitologia sono due, quello dell’Attica e quello della Focide e della Beozia, anche se talvolta non è chiaro a quale di essi alludano i racconti dei poeti.
Il fiume della Focide e della Beozia. Il Cefiso della Focide e della Beozia scorre attraverso la città di Orcomeno, «dove anche le Grazie hanno il loro culto» (Esiodo, Catalogo delle donne, I, 48). Personificato nella forma di un dio fluviale, il Cefiso era ritenuto padre di un eroe di nome Eteoclo che aveva fondato un santuario nel territorio di Orcomeno, presso una sorgente sacra alla ninfa Acidalia, dove si veneravano le Cariti o Grazie. Secondo l’Inno omerico ad Apollo (III, 240) il dio Apollo attraversa il fiume durante i suoi vagabondaggi alla ricerca di un luogo dove fondare il proprio oracolo: «giungesti poi al Cefiso dalla bella corrente, che da Lilaia versa le sue acque dalle belle onde». Nello stesso inno è indicato come «Lago del Cefiso» il Lago Copaide, oggi prosciugato, nel quale sbocca il fiume (ibid., 280); la formazione del Lago del Cefiso sarebbe stata dovuta a un intervento di Eracle, che deviò il corso del fiume (Pausania, IX, 38, 7).
In un passo delle Metamorfosi (III, 19) Ovidio ricorda il Cefiso tra i fiumi che vengono oltrepassati da Cadmo, fratello di Europa e figlio di Agenore re di Fenicia, quando vaga alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi, non osando tornare in patria dopo il fallimento della sua ricerca della sorella, che era stata rapita da Zeus in forma di toro (per i particolari v. SIDONE, BEOZIA e CRETA). Il Cefiso della Beozia e della Focide è ricordato poi da Ovidio (ibid., I, 369 ss.) come sede di un oracolo di Temi, non lontano dal monte PARNASO (v.): è presso il tempio della dea sulle rive del fiume che Deucalione e Pirra si recano dopo il diluvio universale. Il mito narrava che Giove avesse coperto il mondo di una spessa coltre di acqua, sommergendolo sotto un immane diluvio, a causa dell’infamia e perversità degli uomini. Solo due esseri umani, Deucalione e sua moglie Pirra, a bordo di una piccola e fragile imbarcazione, si erano salvati andando ad arenarsi sulla cima del Parnaso. Ritiratesi le acque del diluvio, Deucalione e Pirra si accorgono di essere rimasti soli in quel mondo umido e infangato, e si recano presso la corrente del Cefiso per interpellare la dea Temi, il cui santuario si presenta «scolorito e deturpato fino in cima dal muschio, e privo di qualsiasi fuoco sugli altari». Genuflettendosi sui gradini di pietra gelida, i due sopravvissuti chiedono soccorso alla dea, che dà loro questo sibillino responso: «Velatevi il capo, slacciatevi le vesti e alle spalle gettate le ossa della grande madre» (ibid., 382-383). Solo dopo aver lungamente riflettuto Deucalione comprende che le ossa della grande madre sono le pietre della terra, che, gettate alle loro spalle, si trasformano con una prodigiosa metamorfosi in uomini e donne, ripopolando il mondo.
Non soltanto nel mito del diluvio il tema dell’acqua sembra intrecciarsi a quello della morte. Sulle rive del Cefiso avvenne per esempio un altro luttuoso evento mitico: secondo il racconto di Properzio, il bel giovane Arginno, amato da Agamennone, vi perse la vita annegandovi. La sua morte, con il conseguente indugio da parte di Agamennone a compiere i sacrifici e le cerimonie funebri, fece sì che si perdesse del tempo prezioso e che, per l’improvviso calare dei venti, la flotta dei Greci non potesse salpare per la spedizione contro Troia; ne sarebbe conseguita la necessità di sacrificare Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitemnestra, per ottenere dagli dèi venti favorevoli (v. AULIDE). Nella sintesi di Properzio: «perduto questo giovane, l’Atride non salpò con la flotta, e per tale indugio fu sacrificata Ifigenia» (III, 7, 21-24). Disperato per la fine dell’amato, Agamennone eresse presso il luogo della sua morte un santuario dedicato ad Afrodite, che era venerata con l’epiclesi di Arginna in ricordo del giovinetto scomparso.
Il fiume, personificato, era considerato padre di diverse figure leggendarie. Il più famoso dei suoi figli era il bellissimo Narciso, del quale ci racconta la storia Ovidio nelle Metamorfosi (III, 341 ss.). Narciso era nato «dall’azzurra Liriope, che Cefiso un giorno aveva spinto in un’ansa della sua corrente, imprigionato fra le onde e violentato. Rimasta incinta, la bellissima Ninfa partorì un bambino che sin dalla nascita suscitava amore, e lo chiamò Narciso». Sedicenne, Narciso faceva innamorare di sé tutte le fanciulle che incontrava, ma «in quella tenera bellezza v’era una superbia così ingrata, che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò». Fino a quando le sue strade si incrociano con quelle di Eco, la bella Ninfa che, a quell’epoca, ancora aveva il suo corpo, e non era soltanto voce, come sarà in seguito; ma poteva usare quella voce solo per ripetere quanto detto da altri, per punizione di Giunone, che volle castigarla per la sua complicità con le altre Ninfe: quando esse giacevano tra le braccia di Giove e Giunone aveva qualche sospetto, infatti, Eco si metteva a chiacchierare con la dea e la distraeva, trattenendola in modo che le sue compagne avessero modo di fuggire dalla scena e nascondere ogni traccia del tradimento di Giove. Eco, «che non sa tacere se parli, ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni» vede Narciso, se ne invaghisce, cerca di conquistarlo, ne viene respinta e da allora si consuma nell’ombra dei boschi, riducendosi a sola voce, mentre le sue membra si trasformano in pietre. Quanto a Narciso, forse proprio sulle rive o nella valle del Cefiso (Ovidio non lo dice esplicitamente) si specchia in una fonte meravigliosa («c’era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti») e rimane affascinato dalla propria immagine, che non sa riconoscere come sua: «desidera, ignorandolo, se stesso, amante e oggetto amato: mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde». Invano cerca di conquistare quella vana parvenza che è la propria immagine riflessa: quando, piangendo d’amore, le lacrime «sconvolgono lo specchio d’acqua, che increspandosi ne offusca lo splendore», e il riflesso svanisce, il giovane si crede abbandonato, e il suo struggimento amoroso lo porta alla consunzione e infine alla morte: «e anche quando fu accolto negli Inferi, mai smise di contemplarsi nelle acque dello Stige».
Come tutti i fiumi, anche il Cefiso poteva rivelarsi dotato di qualità prodigiose: menzionando le caratteristiche straordinarie di alcuni corsi d’acqua, Plinio, tra quelli della Beozia, cita appunto il Cefiso, informandoci che le pecore che vi si abbeverano diventano bianche (Nat. Hist., II, 230).
Il fiume dell’Attica. Le acque del Cefiso dell’Attica percorrono nel loro corso anche la regione di Atene: qui, «nell’acqua del Cefiso dalla bella corrente raccontano che Cipride [Afrodite] attinga delicate e soavi brezze e le sparga per il paese» (Euripide,Medea, 835-840). Per le sorgenti del Cefiso, ricordate da Sofocle nell’Edipo a Colono, v. COLONO. Con l’Ilisso, altro corso d’acqua che scorre in Attica, il Cefiso era considerato un fiume sacro (Euripide, Medea, 846). Euripide (Ione, 1261) lo chiama «padre Cefiso taurino», attribuendogli probabilmente forma di toro per l’impeto delle sue acque; quanto all’appellativo di «padre», la tradizione ricordava che dal Cefiso personificato erano nati alcuni personaggi del mito: egli era infatti padre di Diogenia, madre di Prassitea, sposa di Eretteo, il re di Atene.
Sulle rive del Cefiso, durante il suo viaggio da Trezene in direzione di Atene, alla ricerca del padre Egeo, l’eroe attico Teseo incontra delle persone che lo salutano per prime: «Era la prima volta che Teseo s’imbatteva per via con uomini ospitali» (Plutarco, Teseo, 12, 1). Nella piana del Cefiso, però, secondo Ovidio Teseo si imbatterà successivamente anche in un essere temibile e tutt’altro che ospitale, Procuste o Procruste (Metamorfosi, VII, 438; v. MEGARIDE per i particolari). Presso lo stesso fiume si riteneva che si trovasse, in un luogo chiamato Erineo, la porta di accesso al mondo infernale attraverso la quale Plutone, dopo aver rapito Persefone, scese sotto terra (Pausania, I, 38, 5). A un Cefiso che potrebbe essere quello di cui si è parlato fin qui allude poi Ovidio elencando le località toccate da Medea nel suo viaggio su un carro volante trainato da draghi alati, di ritorno dalla raccolta di erbe magiche per la preparazione delle sue pozioni: «In lontananza scorse il Cefiso in lacrime per la sorte del nipote trasformato da Apollo in una foca tumida» (Metamorfosi, VII, 388-389). Del mito al quale qui si fa cenno non abbiamo altre informazioni e ignoriamo perciò i dettagli di questa metamorfosi e dei suoi protagonisti (il Cefiso citato potrebbe anche essere un altro). Il Cefiso, con l’Ilisso, partecipa poi della festosa accoglienza riservata dall’Attica all’arrivo del dio Dioniso, che proviene dall’Asia e giunge in Grecia a portare la conoscenza della vite e del vino (Nonno di Panopoli, Dionisiache, XLVII, 13-15).
Dal nome del Cefiso derivavano alcuni nomi personali diffusi soprattutto in Attica (come Cefisodoto, nome portato tra l’altro da alcuni noti scultori dell’antichità, compreso il padre del grande Prassitele; e poi Cefisodemo, Cefisodoro, Cefisocrate ecc.).
CELEMNA Città d’incerta collocazione, forse in Campania, sulla quale regna Ebalo, figlio di Telone, re dei Teleboi e sovrano di Capri. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 739). Nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 704) la località – se si tratta della stessa – è menzionata tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, riprese le sembianze solite e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
CELENE, in gr. Kelainài. Antica città della Frigia, in Asia Minore, chiamata più tardi Apamea e oggi Dinar. Il nome con il quale era più nota, Apamea, derivava da quello della moglie di Seleuco I Nicatore, che gli era stata data da Alessandro Magno e che si chiamava Apama (Livio, XXXVIII, 13, 5). Senofonte, nell’Anabasi (I, 2, 7), ricorda che qui Ciro di Persia «possedeva una reggia e un grande parco pieno di animali selvatici, che era solito cacciare a cavallo, quando voleva tenere in esercizio se stesso e i suoi cavalli. In mezzo al parco scorre il fiume Meandro, che nasce all’interno della reggia e attraversa poi la città di Celene». Il parco al quale si fa riferimento viene indicato con una parola, o «paradiso», che proprio qui Senofonte introduce per la prima volta nella lingua greca e che indicherà poi sempre, successivamente, un ampio parco recintato e isolato dalla natura circostante. Perciò il termine risulterà particolarmente adatto per indicare, nella traduzione greca, il giardino dell’Eden della Bibbia e assumerà per il mondo ebraico e poi cristiano il significato di luogo di beatitudine che attende le anime elette dopo la morte.
A Celene scorreva, oltre al Meandro, anche il suo affluente Marsia: «Là, si narra, Apollo scorticò Marsia, dopo averlo vinto in una gara di abilità, e ne appese la pelle nella grotta da cui scaturiscono le sorgenti del fiume: per questo motivo il fiume si chiama Marsia» (ibid., I, 2, 8). L’allusione è a un celebre episodio del mito, quello della gara artistica nel suono del flauto che contrappose il sileno Marsia ad Apollo e che vide vincitore il dio, il quale si prese un’atroce rivincita sullo sconfitto, appunto scorticandolo. L’aneddoto è ricordato anche da Erodoto, che attribuisce però al fiume il nome di Catarracte (VII, 26, 3). Ovidio, nelle Metamorfosi, dà invece al corso d’acqua il nome tradizionale e ricorda il grande pianto che Fauni e Satiri, compagni di Marsia, sparsero alla sua morte, aggiungendo che «da lui prende il nome quel fiume che tra il declinare delle rive corre rapido verso il mare, Marsia, il più limpido della Frigia» (VI, 399-400). Si diceva che dalla fonte del Marsia le acque proiettassero fuori dei sassi (Plinio, Nat. Hist., XXXI, 16). Il mito è ricordato anche da Livio (XXXVIII, 13): «Il fiume Marsia, che scaturisce non lontano dalle sorgenti del Meandro, si getta nel Meandro stesso, e una diffusa leggenda vuole che a Celene Marsia gareggiasse con Apollo nel suono del flauto». Lucano (III, 306-308) ricorda che il flauto usato dal Sileno per sfidare Apollo era stato gettato via proprio lì da Atena: si narrava infatti (Igino, Favole, 165) che la dea fu la prima a inventare il flauto, costruendolo con le ossa di un cervo, e che si presentò al banchetto degli dèi suonando la sua originale creazione. La sua esecuzione suscitò però l’ilarità delle dee, soprattutto di Era e di Afrodite, che si diedero a prenderla in giro perché nello sforzo di emettere il suono le si gonfiavano le guance e gli occhi sembravano uscirle dalle orbite: delusa per quell’accoglienza, Atena si rifugiò in un bosco, dove ebbe modo di vedere il proprio volto rispecchiato nelle acque di una sorgente dell’Ida e si rese conto che le dee avevano ragione nel deriderla. Irata, gettò via lo strumento, minacciando nel contempo punizioni terribili a chi avesse osato raccoglierlo. Cosa, come si è visto, che fece il povero Marsia. All’ambientazione in quel luogo del mito di Apollo e Marsia allude anche Strabone (XII, 8, 15), secondo il quale le sorgenti del Marsia e del Meandro trarrebbero origine da un lago poco distante da Celene, sulle cui rive crescevano delle canne utilizzate per la fabbricazione dei flauti. Oltre a Marsia, altre fonti collocavano a Celene la nascita di un altro mitico cantore, uno dei musici più antichi che il mito ricordi, di nome Iagnide (Hyagnis), al quale parimenti si attribuiva l’invenzione del flauto (Marmo Pario, X; Aristosseno, fr. 78).
A Celene si raccontava che si fosse aperta un giorno una voragine nel terreno, dove, a seguito di un’inondazione, furono inghiottite alcune case con i loro abitanti. Il re Mida, interpellato l’oracolo, seppe che la voragine si sarebbe richiusa se egli vi avesse gettato dentro quanto aveva di più prezioso. A nulla valse che il re si privasse di enormi quantità d’oro e d’argento: la voragine era sempre là. Allora il figlio di Mida, riflettendo sul fatto che solo un essere umano è qualcosa di veramente prezioso, abbracciò i suoi genitori e si gettò a cavallo dentro l’abisso, che immediatamente si richiuse. Mida consacrò a quel punto un altare a Zeus del monte Ida, che si trasformò in oro appena egli lo toccò (Plutarco, Parall., 306 E-F): una storia molto simile era raccontata a proposito del lacus Curtius di Roma.
Il nome «Celene» era messo in relazione con il culto di Poseidone, divinità particolarmente venerata ad Apamea, il quale ebbe un figlio di nome Celeno che gli nacque dai suoi amori con una delle Danaidi che si chiamava a sua volta Celeno. Si ipotizzava però anche che il toponimo avesse qualche relazione con il colore scuro delle pietre della città, «dovuto all’azione ripetuta del fuoco» (Strabone, XII, 8, 18): deriverebbe dal greco , «nero», «fosco», «scuro» (cfr. lat. caligo).
CELTRO, in gr. Kèltros. Nome di un fiume difficilmente identificabile, menzionato da Licofrone nell’Alessandra: «le foci dalle acque paludose del fiume Celtro» (v. 189). È stato ipotizzato che, se non si tratta di un problema di trasmissione delle nostre fonti, potrebbe essere un idronimo formato dalla fusione tra il termine «celtico» e il nome dell’Istro, d’invenzione dello stesso Licofrone; qualcuno ha supposto che si riferisca al Danubio. Il poeta lo cita per fornire un elemento di identificazione del luogo in cui era collocata l’«Isola Bianca», LEUKE (v.), mitico luogo di soggiorno degli eroi dopo la morte: per questo l’indefinitezza della precisazione geografica appare suggestiva, al di là dei problemi filologici che pone.
CENCREE Oggi Kenkri, sul golfo Saronico, l’antica Kenchreài era l’emporio marittimo della vicina Corinto. Qui, nelle Metamorfosi di Apuleio (X, 35), il protagonista Lucio, che per un tragicomico errore è stato trasformato in asino, ritornerà a seguito di un rito iniziatico ad assumere sembianze umane; poiché Corinto era considerata particolarmente corrotta e di facili costumi, la scelta di ambientare la redenzione di Lucio nei pressi di questa località attraverso l’iniziazione a Iside poteva acquisire ancor maggiore risalto simbolico. Pausania ricorda, anche se con qualche incertezza, che il toponimo doveva risalire a quello di Cencria, figlio della ninfa Pirene (II, 24, 7). Per uno dei più celebri e meno benvoluti residenti di Cencree, il brigante Sinide, v. CORINTO.
CENINA, in lat. Caenina. Antica città del Lazio, situata verosimilmente a nord-est di Roma, al di là del fiume Aniene, nel territorio della Sabina. Vi abitava una popolazione assai fiera e bellicosa, che mosse guerra a Romolo dopo il ratto delle Sabine (v. ROMA) sotto la guida di Acrone: «Acrone, re dei Ceninensi, uomo coraggioso ed esperto nelle cose di guerra, che già aveva in sospetto le prime audaci imprese di Romolo e lo stimava ormai, a seguito dell’azione compiuta con il ratto delle Sabine, pericoloso per tutti e insopportabile, se non fosse stato punito, per primo mosse guerra contro Romolo, avanzando contro di lui con un grosso esercito» (Plutarco, Romolo, 16, 2). La vittoria arrise a Romolo, che conquistò Cenina. La vicenda è rievocata anche da Properzio (IV, 10, 7 ss.); un dettagliato resoconto della conquista della città, che fu trasformata in una delle prime colonie di Roma, si legge in Dionigi di Alicarnasso (II, 33).
CENTAURI, PAESE DEI Creature ibride e mostruose con la parte inferiore del corpo e gli arti equini e il busto e la testa umani, i Centauri, indicati da Omero con l’appellativo di «bestie selvagge» e di «fiere», risiedevano in una zona imprecisata della Tessaglia, sulle pendici del monte Pelio, dove conducevano un’esistenza vagabonda e animalesca ai limiti della ferinità. In seguito al loro epico scontro con i Lapiti (per il quale v. LAPITI, PAESE DEI), furono scacciati dalle loro sedi originarie e si insediarono sulle pendici del monte Pindo, ai confini con l’Epiro. Più tardi, secondo una leggenda ricordata dal poeta alessandrino Licofrone, i Centauri, scacciati da Eracle, si trasferirono di nuovo, nell’Isola delle Sirene; i loro frequenti spostamenti d’altronde ben si addicono alla loro natura selvaggia, incompatibile con una esistenza sedentaria e regolare. Tra il popolo dei Centauri spicca e si differenzia Chirone, giusto e saggio, ricordato per aver ospitato nella sua grotta sulle pendici del monte Pelio un gran numero di divinità e di eroi e aver fatto loro da precettore.
CEO, in gr. Kèos. Isola greca, la più occidentale dell’arcipelago delle Cicladi, posta di fronte al Capo Sunio. La storia la ricorda come patria di grandi poeti lirici greci come Simonide e Bacchilide. Secondo la mitologia, invece, vi visse Aristeo, eroe civilizzatore, inventore dell’apicoltura e della coltivazione dell’olivo, e secondo alcune fonti indovino. Egli, dalla Ftiotide dove precedentemente risiedeva, si sarebbe trasferito sull’isola su invito degli abitanti delle Cicladi, afflitti dal dardeggiare della stella Sirio (tradizionalmente sinonimo di disgrazia e portatrice di implacabile siccità): Aristeo portò a Ceo un gruppo di Parrasi, popolazione arcade che prendeva il nome da Parrasio, figlio di Licaone, e popolò in tal modo la regione. Poi «costruì un grande altare in onore di Zeus, dio delle piogge, e celebrò sopra i monti i riti per Sirio e per il figlio di Crono [Zeus]. Perciò, mandati da Zeus, i venti etesii rinfrescarono per quaranta giorni la terra, e a Ceo i sacerdoti ancor oggi compiono dei sacrifici prima che sorga la costellazione del Cane» (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 521-527). La vegetazione dell’isola era salva; e ai «rigogliosi cespugli» che vi crescono allude Virgilio nelle Georgiche (I, 14).
Nelle Metamorfosi, Ovidio accenna a un mito minore relativo alla città di Cartea, dove regnava Alcidamante (VII, 368-370). La figlia di Alcidamante si chiamava Ctesilla, e prima di essere trasformata in colomba era un’affascinante giovinetta amata da Ermocare, giovane ateniese; la loro storia aveva qualche punto in comune con quella, ben più nota, di Aconzio e Cidippe (Antonino Liberale, Metamorfosi, I). A Iulis, città natale di Ctesilla, fu fondato un tempio dove si venerava Afrodite Ctesilla. Quanto al mito di Aconzio e Cidippe, esso raccontava che Aconzio, giovanotto di Ceo, si innamorò della bella Cidippe, figlia di un eminente cittadino di Atene. Per sedurla, Aconzio fece ricorso a uno stratagemma: mentre la ragazza era seduta nel tempio di Artemide, egli fece rotolare ai suoi piedi una mela sulla quale aveva inciso le parole: «Giuro per il santuario di Artemide di sposare Aconzio». Quando, incuriosita, Cidippe raccolse la mela e lesse ad alta voce quel che vi era scritto, si vincolò automaticamente al giuramento, fatto per di più all’interno di un santuario: cosicché fu Artemide stessa a impedirle di sposare un altro uomo, come suo padre avrebbe voluto, e a favorire il lieto congiungimento dei due giovani (Ovidio, Eroidi, 20 e 21). Ancora Ovidio racconta la storia infelice di Ciparisso, bellissimo giovane di Cartea, «il più bello della gente di Ceo» (ibid., X, 120), che aveva fatto amicizia con un cervo di straordinaria bellezza, sacro alle Ninfe del luogo: era un animale gigantesco, dalle splendide corna lucenti d’oro e ornato di monili di perle e di pietre preziose che gli pendevano sul petto e alle orecchie. L’animale era molto domestico e si lasciava avvicinare e accarezzare da tutti, ma era soprattutto Ciparisso a cercare per lui i pascoli più verdi e le fonti di acqua più limpida; finché un giorno per un tragico errore proprio Ciparisso non lo trafisse con la sua lancia. In preda alla disperazione, il bellissimo giovane, vedendo morire il cervo, si lasciò morire a sua volta, e il suo corpo si trasformò in un albero di cipresso per volere di Apollo, che, sconsolato davanti alla sua fine, non sapeva darsi pace: «Da me sarai pianto e tu, accanto a chi soffre, piangerai gli altri» (ibid., X, 141-142).
Una tradizione locale di cui rimase vivo il ricordo nella letteratura raccontava che i vecchi solevano togliersi la vita con la cicuta per lasciare il posto sull’isola alle nuove generazioni (sono I vecchi di Ceo ai quali Pascoli dedicò uno dei suoi Poemi conviviali). Questa antica tradizione era spiegata da Strabone, che parla della legge «evocata soprattutto da Menandro: “È bella, o Fania, la legge degli abitanti di Ceo: non deve vivere male chi non può vivere bene”. La legge prescriveva infatti, a quanto sembra, che chiunque superava l’età di sessanta anni doveva bere la cicuta affinché ci fosse sempre del cibo a sufficienza per tutti gli abitanti» (X, 5, 6).
Sull’isola si ricordava poi la presenza di un santuario di Atena che la tradizione diceva fondato da Nestore al suo ritorno da Troia (ibid.).
CERATO, in gr. Kàiratos. Nome di un fiume dell’isola di Creta. Come tutti i fiumi era personificato, e la divinità corrispondente è presentata nell’atto di gioire quando la dea Artemide, ancora bambina, sceglie fra le Ninfe del Cerato stesso, sue figlie, le compagne che la seguiranno nella sua vita in mezzo ai boschi e alle montagne (Callimaco, Inni, III, 44-45).
CERAUNI, in gr. Keràunia òre. Monti situati al confine tra l’Illiria e l’Epiro. Secondo Apollonio Rodio (Argonautiche, IV, 519-520) erano i «monti del fulmine», dalla folgore di Zeus che li bersagliava. Keraunfi© in greco indica appunto il fulmine. L’etimologia è tenuta presente anche dagli scrittori latini: così Virgilio ricorda che i Cerauni, insieme all’Athos e ai Monti Rodopi, «con l’ardente dardo» il padre Giove «sconquassa» nella stagione autunnale (Georgiche, I, 331-333). Enea, durante il suo lungo viaggio per mare alla ricerca di una terra dove stabilirsi dopo la caduta di Troia, oltrepassa i Cerauni costeggiandoli perché in quel punto «il tragitto verso l’Italia e la corsa sono i più brevi sulle onde» (Id., Eneide, III, 506-507). I Cerauni sono menzionati anche da Properzio (I, 8, 19 e II, 16, 3). Nel racconto di Apollodoro, sui Cerauni si stabilirono alcuni degli abitanti della Colchide, la favolosa regione nella quale era conservato il vello d’oro: su incarico del loro re Eeta, essi erano partiti per mare alla ricerca di Medea, la figlia del re, fuggita con l’eroe greco Giasone; non riuscendo a ritrovarli, e temendo per questo la punizione di Eeta, avevano preferito non tornare in patria e stabilirsi alle pendici di quei monti (Apollodoro, Biblioteca, I, 9, 25).
CERCNE, in gr. Kerchnèia. Aveva questo nome una sorgente dell’Argolide, ricordata da Eschilo nel Prometeo incatenato (v. 676) in relazione con il mito di Io, figlia di Inaco, che per essere stata amata da Zeus venne trasformata in una giovenca per sfuggire alla collera della gelosissima Era, assillata da un insistente tafano e sottoposta all’assidua sorveglianza del pastore dagli innumerevoli occhi Argo: come rievoca la stessa Io, «dotata di corna […], tormentata dai morsi acuti di un tafano, saltavo con balzo folle alla dolce corrente di Cercne e alla fonte di Lerna».
CERE, in lat. Caere. Città dell’Etruria, anticamente abitata dai Pelasgi e chiamata Agilla (Plinio, Nat. Hist., III, 5; Virgilio, Eneide, VIII, 479; Rutilio Namaziano, De reditu, I, 226), successivamente occupata dai Tirreni, ossia dagli Etruschi (Dionigi di Alicarnasso, III, 44-48, 1), e oggi chiamata Cerveteri.
Le antiche origini etrusche della città sono ricordate da Evandro, il re degli Arcadi con i quali Enea, giunto in Italia dopo le lunghe vicissitudini seguite alla guerra di Troia, si allea contro i Latini per riuscire a insediarsi nella regione. Ad Agilla, infatti, come pure a Pisa, secondo una tradizione Enea sarebbe passato con i suoi durante le sue peregrinazioni dopo la caduta di Troia (Licofrone, Alessandra, 1240 ss.). Evandro rievoca dunque i fasti antichi della città, ricordando nel contempo la tradizione che voleva gli Etruschi originari della Lidia: «Non lontano di qui, fondato su di una rupe antica, è abitato il sito della città di Agilla, ove di Lidia, un tempo, una gente illustre alla guerra tra i colli si stabilì dell’Etruria. Città per molti anni fiorente, un re poi sotto il suo superbo imperio e con armi crudeli la piegò, Mezenzio» (Virgilio, Eneide, VIII, 478-482): un torvo tiranno al quale gli abitanti di Agilla si ribellano, scacciandolo. Mentre Mezenzio cercherà rifugio tra i Rutuli, facendosi ospitare da Turno, nemico di Enea, Agilla si schiera dalla parte di Enea: trecento sono gli eroi di Cere che lo seguono (ibid., X, 183). Presso Cere scorreva un fiume (forse il Minio, o Mignone), accanto al quale si estendeva «un immenso bosco, dalla religione dei padri per largo tratto consacrato. Da ogni parte i colli lo rinchiudono nella loro cavità e di scuri abeti cingono la foresta» (ibid., VIII, 597-599): in questo bosco, consacrato al dio Silvano, pongono l’accampamento i guerrieri etruschi che, capeggiati da Tarconte, prendono posizione dalla parte di Enea nella guerra contro i Latini.
Cere era definita «sacrario del popolo romano, albergo dei sacerdoti e rifugio delle cose sacre di Roma» (Livio, VII, 20, 7). Vi si svolgevano feste religiose e grandi giochi equestri e ginnici la cui origine era legata a un prodigio. Dopo la battaglia di Alalia, nella quale Etruschi e Cartaginesi, che controllavano i traffici del Mediterraneo, si scontrarono contro i greci Focei, che minacciavano di far loro una pericolosa concorrenza, i Focei fatti prigionieri dai nemici erano stati lapidati. A seguito di tale episodio, ad Agilla o Cere aveva cominciato a manifestarsi un misterioso e inquietante portento: «tutti gli esseri viventi che passavano per il luogo in cui erano sepolti i Focei lapidati diventavano storpi, invalidi o paralitici, sia che si trattasse di pecore o animali da soma, sia che si trattasse di uomini» (Erodoto, I, 167). Gli abitanti della città andarono allora a consultare l’oracolo di Delfi e la Pizia «ordinò loro di fare ciò che ancora oggi gli Agillei compiono: infatti in onore dei Focei uccisi offrono grandiosi sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri» (ibid.). Altri eventi prodigiosi furono registrati poi in svariate località della penisola nel 217 a.C., mentre Annibale si trovava in Italia. Tra questi, a Cere «le acque erano scaturite miste a sangue e la stessa fonte di Ercole era sgorgata macchiata di spruzzi di sangue» (Livio, XXII, 1, 10); la fonte di Ercole era probabilmente una sorgente termale della città. Qualche tempo dopo, altri eventi prodigiosi si erano succeduti a Cere: vi erano nati un porco con due teste e un agnello che era al tempo stesso maschio e femmina (ibid., XXVIII, 11, 3), mentre in un’altra occasione era stato visto un serpente crinito cosparso di macchie gialle (ibid., XLI, 21, 13).
Per il racconto della vicenda che ha per protagonista la ninfa Agilla che secondo una tradizione sarebbe stata l’eponima della città v. TRASIMENO.
CERINEA, in gr. Kerneia. Avevano questo nome diverse località della Grecia: una città dell’isola di Cipro, corrispondente all’odierna Kyrenia, non sembra legata a miti particolari, mentre una Cerinea dell’Acaia, per quanto di incerta identificazione, forse presso l’odierna Mamousia, era ricordata perché vi si trovava un santuario detto delle Eumenidi, che era stato fondato secondo la tradizione da Oreste, nel corso delle sue peregrinazioni dopo l’uccisione della madre Clitemnestra (Pausania, VII, 25, 7). Il mito raccontava infatti che Oreste, per vendicare il padre Agamennone, che al ritorno dalla guerra di Troia era stato ucciso dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto, si era macchiato della colpa di matricidio, e per questo era stato condannato a vagare tormentato dalle Erinni, toccando, nelle sue peregrinazioni, anche Cerinea. Il santuario era teatro di cupe e spaventose visioni: «chi entra per visitarlo, se è colpevole di reati di sangue o di altri delitti o di empietà, si dice venga subito colto dal terrore ed esca di senno; e per questa ragione l’ingresso non è consentito a tutti né indiscriminatamente» (ibid.).
La Cerinea più celebre era però una rupe così chiamata che si trovava in Arcadia ed era collegata al mito di Eracle. L’eroe vi compì una delle sue celebri fatiche: «La cerva dalle corna d’oro e dal dorso variegato, flagello degli agricoltori, uccise e sacrificò ad Artemide, la dea cacciatrice» (Euripide, Eracle, 375-379; cfr. anche Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 3). La cerva era un animale meraviglioso e imponente, nel quale secondo una tradizione si era trasformata Taigeta, una compagna di Artemide che, per aver infranto il voto della castità amando Zeus, era stata dalla dea punita in quel modo. Eracle l’aveva inseguita a lungo prima di riuscire a catturarla, e secondo alcune versioni l’aveva portata viva a Micene; secondo altre, l’aveva uccisa, consacrando le sue corna dorate nel tempio di Artemide a Enoe.
CERNE, in gr. Kèrne o Kerneàtis nèsos. Immaginaria isola collocata in un punto imprecisato dell’Oceano, dove, secondo l’interpretazione di Licofrone (Alessandra, 18), aveva la sua sede e il suo letto l’Aurora. La tradizione raccontava che essa fu distrutta da Mirina, regina delle Amazzoni.
CEROSSO, in gr. Kerossòs. Una delle isole toccate dagli Argonauti durante il viaggio di ritorno dalla loro spedizione nella Colchide alla ricerca del vello d’oro. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio è ricordata come «l’alta Cerosso» (IV, 572): è possibile che si tratti di un’isola reale, ma l’identificazione è estremamente problematica.
CERVETERI v. CERE.
CEUTA Città situata sulla costa dell’Africa di fronte a Gibilterra, non lontana dalle antiche COLONNE D’ERCOLE (v.). Era chiamata dai Romani Septe e derivava questo nome da sette monti, chiamati i Fratelli per via della loro somiglianza, che si affacciano sul golfo di Gades (Isidoro, Etimologie, XV, i, 73). Una tradizione faceva del promontorio di Ceuta la terra di Calipso, la mitica isola di OGIGIA (v.).
CEYLON v. GIAMBULO, ISOLA DI e TAPROBANE.
CHABURA Città dell’antica Mesopotamia dove si venerava una fonte la cui acqua era soavemente profumata perché, si diceva, vi si era bagnata la dea Giunone (Plinio, Nat. Hist., XXXI, 37 e XXXII, 16).
CHELIDONIE, in gr. Chelidòniai nèsoi. Piccole isole poste a occidente del golfo di Panfilia, in Asia Minore, sulla costa meridionale della Turchia; costituiscono una sorta di corona intorno al Capo Chelidonio, noto anche come Hierà Àkra («sommità sacra»), che segnava il confine tra Licia e Panfilia. «Felici confini dell’antica Ellade» sono chiamate da Luciano di Samosata (Gli Amori, 38 [49], 7). Lo stesso Luciano racconta però anche, nel dialogo La nave o le preghiere (66 [73], 7-9), la paurosa avventura toccata ad alcuni naviganti che, salpati dall’isola egizia di Faro, dopo aver raggiunto l’Acamante (promontorio all’estremo occidentale dell’isola di Cipro, oggi capo Arnaoutes), per i venti contrari furono respinti fino a Sidone e poi alle Chelidonie: «So io, avendo io stesso una volta costeggiato le Chelidonie, a quale altezza si leva l’onda in quel punto»; alla base del promontorio «le rocce sono tagliate a picco e affilate dai marosi fino a riuscire aguzze» e il moto ondoso «rende temibilissimi i frangenti, enorme il rimbombo, e le onde spesso sono alte quanto lo scoglio medesimo». La sventurata nave sarebbe sicuramente colata a picco, se gli dèi non avessero «fatto apparire un fuoco dalla Licia, in modo che potessero riconoscere quella regione, e uno dei Dioscuri posò sulla cima dell’albero una stella risplendente, che diresse la nave a sinistra verso l’alto mare, quando già si avvicinava alle rocce». L’allusione è ai cosiddetti fuochi di sant’Elmo, un fenomeno di natura elettrica, che nell’antichità si attribuiva all’intervento dei Dioscuri, Castore e Polluce (cfr. Plinio, Nat. Hist., II, 101). Le isole Chelidonie erano quindi ritenute «molto pericolose per i naviganti» (ibid., V, 131).
CHEMMI, in gr. Chèmmis, -eos. Città dell’Alto Egitto, capitale del IX nomo o distretto, corrispondente all’attuale città di Achmin. Era centro del culto di Min, divinità egizia che i Greci identificavano con Pan; vi sorgeva però anche un santuario di Perseo, uno dei più grandi eroi del mito greco (per le vicende che lo riguardano v. PERSIA). «Gli abitanti di Chemmi affermano che Perseo appare spesso nel loro paese e spesso all’interno del santuario»; in tale santuario, di forma quadrangolare e circondato da palme, «si trova un sandalo, calzato da lui, lungo due cubiti»; e quando Perseo compare nella regione, «tutto l’Egitto gode di prosperità» (Erodoto, II, 91). In onore di Perseo nella città venivano banditi giochi atletici. Gli abitanti del luogo ritenevano che l’eroe fosse originario della loro città, perché i suoi antenati, Danao e Linceo, erano nati a Chemmi. Perseo poi, secondo i Chemmiti, «era giunto in Egitto per lo stesso motivo indicato anche dai Greci e cioè per riportare dalla Libia la testa della Gorgone: si era recato da loro e aveva riconosciuto tutti i suoi parenti; quando era arrivato in Egitto conosceva già il nome di Chemmi, poiché l’aveva appreso dalla madre» (ibid.).
La città di Chemmi non è da confondere con un’isola dallo stesso nome, situata su un lago ampio e profondo presso la città di BUTO (v.); la tradizione diceva che si trattasse di un’isola galleggiante, ed essa ospitava un grande tempio di Apollo e diversi boschetti e alberi da frutto. «Fu in quest’isola, che fino ad allora non galleggiava, che Leto […] ricevette in consegna Apollo da Iside e lo salvò; lo nascose appunto nell’isola che ora si dice galleggiante, quando arrivò Tifone, che cercava dappertutto per trovare il figlio di Osiride» (ibid., 156, 4). Per comprendere il mito al quale il passo allude occorre tenere presente che la leggenda della nascita di Apollo e Artemide da Leto o Latona era tramandata in Egitto, secondo Erodoto, con qualche variante: mentre secondo i Greci Leto era la madre dei due divini gemelli, in Egitto si riteneva che essi fossero nati da Dioniso e Iside, e che Leto si fosse limitata a salvarli da Tifone e poi li avesse allevati. Come emerge chiaramente nel racconto di Erodoto, molte divinità dell’antico Egitto erano assimilate a quelle greche: Tifone si identificava con l’egizio Seth, Apollo con Horus, Demetra con Iside, Artemide con Bubasti. In ogni caso, la leggenda spiegava che l’isola era diventata galleggiante per sottrarre i neonati alle ricerche di Tifone.
Secondo Diodoro Siculo il toponimo significherebbe, nella lingua locale, «città di Pan», divinità «particolarmente venerata presso gli Egizi» (I, 18, 2). I Pani e i Satiri abitavano numerosi la regione, e si diceva che l’origine del termine «panico» fosse da collegare con un mito locale: un giorno Tifone, desiderando sbarazzarsi di Osiride, architettò un trucco diabolico. Fece realizzare, dopo aver preso segretamente le misure esatte del corpo di Osiride, un sarcofago che corrispondesse esattamente a quelle dimensioni, e lo fece decorare con estrema ricchezza e raffinatezza; poi, non senza un certo gusto del macabro, ordinò che fosse portato a corte e, introdottolo nella sala del banchetto, lo espose all’ammirazione di tutti i presenti, che rimasero estasiati da tanto sfarzo e da una così squisita eleganza. Tifone allora promise che avrebbe regalato il preziosissimo oggetto a chi lo avesse trovato esattamente della propria misura, e invitò gli astanti a sdraiarvisi dentro per verificare le dimensioni. Tutti ci provarono, ma a nessuno la taglia risultava adatta. Quando però Osiride vi si adagiò, e constatò che sembrava fatto a pennello per lui, il perfido Tifone ordinò ai suoi complici di chiudere immantinente il coperchio e di sigillarlo con piombo fuso. Costoro trascinarono poi il sarcofago con il suo prezioso contenuto fino alla riva del Nilo e lo abbandonarono alla corrente, lungo quel ramo del fiume che veniva per quel motivo chiamato «maledetto» o «esecrabile». Ora, la tragica notizia fu appresa per primi dai Satiri e dai Pani di Chemmi, i quali subito la diffusero intorno: «da qui il nome di “panico” che si dà ancora ai nostri giorni al disordine improvviso di una folla terrorizzata» (Plutarco, Iside e Osiride, 355 B-D).
CHERONEA, in gr. Chairòneia. Antica città della Beozia, posta ai confini con la Focide, su una rupe tra il fiume Cefiso e il monte Thurion, in corrispondenza dell’odierna Caprena. La città era così chiamata perché fondata da Cherone (Chairon), figlio di Apollo e di Tero, o Turo (Pausania, IX, 40, 5; Plutarco, Silla, 17). Nei pressi della città caddero alcune delle Amazzoni che avevano partecipato alla mitica spedizione contro Atene nella quale si era distinto Teseo: lo scontro fece molte vittime tra le intrepide eroine, e molte «ne morirono anche presso Cheronea, e furono sepolte vicino al ruscello che una volta, come pare, veniva chiamato Termodonte ed ora è chiamato Emone» (Plutarco, Teseo, 27, 8). Non lontano da Cheronea si mostrava poi il luogo in cui Crono venne ingannato da Rea e inghiottì una pietra invece del piccolo Zeus (Pausania, IX, 41, 6): il notissimo mito raccontava che il Titano, sapendo che uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato, divorava i neonati appena venivano al mondo, e solo con un trucco, porgendogli cioè una pietra in fasce e dicendogli che si trattava dell’ultimo nato, la madre Rea riuscì a salvare Zeus, che, come volevano i fati, avrebbe effettivamente spodestato il padre. Singolare era anche, a Cheronea, il culto riservato a un bastone nel quale si voleva riconoscere lo scettro che era stato di Agamennone. Nella stessa città si conservava anche lo scettro d’oro realizzato da Efesto per Zeus (ibid., IX, 40, 11-12).
In tempi storici presso Cheronea avvenne la famosa battaglia, vinta da Filippo di Macedonia, che pose fine alla libertà della Grecia (338 a.C.). Lo scontro fu preceduto da «tremendi presagi, e si ripeté un antico oracolo tratto dai versi Sibillini: “Possa io stare lontano dalla battaglia sul Termodonte, e osservare come aquila nell’aria, tra le nubi. Piange il vinto, ma chi ha vinto è distrutto”» (Plutarco, Demostene, 19, 1). Quanto al Termodonte, anche qui, come nel passo citato sopra, viene ripetuto che forse corrisponde all’Emone: «Dicono che il Termodonte sia dalle nostre parti, in Cheronea; un fiumiciattolo che confluisce nel Cefiso. Ma io non conosco alcun fiume che abbia questo nome, ora, e ritengo che quello che ora si chiama Emone si chiamasse allora Termodonte». Esso scorre presso il recinto consacrato a Eracle nei pressi del quale i Greci eressero il loro accampamento in occasione della battaglia, e quando, a seguito dei combattimenti, «si riempì di sangue e di cadaveri, assunse questo nuovo nome» (ibid., 19, 2). Non mancano altre interpretazioni che Plutarco ci riferisce: «Termodonte non era un fiume, e alcuni, rizzando una tenda e facendovi intorno il canale di scolo, trovarono una statuetta di sasso sulla quale alcune lettere indicavano che era Termodonte che portava tra le braccia un’amazzone ferita», con evidente collegamento all’Amazzonomachia di Teseo ricordata sopra (ibid., 19, 3). V. però anche TERMODONTE per un diverso fiume di questo nome collocato in Asia Minore.
CHERRONESO, in lat. Cherronesus. Città situata presso Sebastopoli, nei pressi dell’odierna Gurtschi, nella regione a nord del Mar Nero. La località era stata fondata, secondo la leggenda, dalla dea Diana in persona; nella sua cittadella si trovava una grotta adibita a ninfeo e sacra quindi al culto delle Ninfe (Pomponio Mela, Corografia, II, 1, 3; in questo passo, per chi ama le curiosità filologiche, è usata per la prima volta nella lingua latina la parola ninfeo).
CHERSO v. APSIRTIDI.
CHERSONESO Il nome deriva dal greco chersos, «terraferma», e nesos, «isola», e significa quindi «penisola», che è insieme terraferma e isola; per questo suo significato abbastanza generico ricorreva nella toponomastica antica per indicare diverse regioni. Vi era in primo luogo il Chersoneso Tracio, nella Tracia, situato di fronte alla Troade, dalla quale lo divide lo stretto dei Dardanelli (oggi è noto come penisola di Gallipoli). Chersoneso era detta anche la penisola di Crimea, che veniva distinta nella sua denominazione dal Chersoneso Tracio in quanto definita Chersoneso Taurico o Chersoneso Aspro. Un altro Chersoneso si trovava nel Peloponneso tra Epidauro e Trezene; un altro ancora era il Chersoneso di Bibasso o di Cnido, sull’attuale costa turca tra Rodi e Coo; Chersoneso poteva essere chiamata la penisola Calcidica; Chersoneso Cimbrico era il nome antico della Danimarca, e così via.
Nella mitologia aveva un notevole spazio il Chersoneso Tracio, territorio molto fertile, dove si estendevano numerose coltivazioni, soprattutto di cereali, e dove scorreva il piccolo fiume EGOSPOTAMI (v.). Nella tragedia Ecuba di Euripide, che vi è ambientata, si ricorda che vi regna Polimestore e si parla della regione come dell’«ottima pianura del Chersoneso» (v. 8). Del Chersoneso Tracio, secondo la versione del mito seguita dalla stessa tragedia, era originario Cisseo, padre di Ecuba, la regina di Troia; e in questa regione il re troiano Priamo, suo sposo, e la stessa Ecuba mandarono Polidoro, il loro figlio più giovane, nella speranza di riuscire a metterlo in salvo dalla guerra che divampava in città. La loro speranza fu però vana: quando Troia cadde il re tracio Polimestore, al quale il giovane era stato affidato con un ricco corredo d’oro, lo uccise per impadronirsi delle sue ricchezze. La vicenda è ricordata dallo stesso fantasma di Polidoro nei versi iniziali della tragedia Ecuba di Euripide già citata e sarà poi ripresa con piccole varianti da Virgilio nell’Eneide (v. ENEIA o ENEADE) e da Ovidio nelle Metamorfosi (v. TRACIA). Nel Chersoneso Tracio era seppellita la stessa Ecuba, in una località nota come Tomba del Cane (Cynossema), così chiamata perché la regina di Troia si era trasformata in cagna (Apollodoro, Epitome, V, 24; Strabone, VII, fr. 55) oppure, metaforicamente, a causa della misera sorte nella quale la donna era precipitata (Pomponio Mela, Corografia, II, 2, 26); il vicino tratto di mare era stato detto Cineo per la stessa ragione (Igino, Favole, 111); la zona si identifica con l’odierna punta di Kilitbahir. Nel Chersoneso Tracio si trovava anche la tomba di Elle figlia di Atamante, protagonista di un celebre episodio del mito: Atamante aveva sposato in prime nozze Nefele, dalla quale aveva generato Frisso e la stessa Elle; in seconde nozze poi aveva sposato Ino. Quest’ultima però costituiva con le sue insidie una continua minaccia per i figliastri, i quali per sfuggirle montarono in groppa al montone dal vello d’oro dirigendosi verso la Colchide; qui però solo Frisso arrivò, mentre Elle precipitò in mare dando il suo nome alle acque sottostanti, che da allora furono chiamate Ellesponto, «mare di Elle». E ancora, nel Chersoneso si trovava, a Eleunte, la tomba di Protesilao, il primo eroe greco a perire in territorio troiano (Erodoto, IX, 116, 2): «il tuo sepolcro ombreggiato da olmi circondano di cure le Ninfe, in faccia a Ilio detestata» (Antologia Palatina, VII, 141; v. anche ELEUNTE).
Cirno, principe argivo, che venne mandato da Inaco re di Argo alla ricerca della figlia Io (la quale era stata mutata in giovenca da Zeus, che la amava, per proteggerla dalla gelosia di Era), dopo aver percorso innumerevoli terre giunse nel Chersoneso e vi si fermò; accolto benevolmente dagli abitanti, fondò in quella regione una città che da lui prese il nome (Diodoro Siculo, V, 22). Lo stesso Diodoro, poco oltre (V, 62 ss.), ambienta nella città di Castabo la storia di Molpadia e Partene, figlie di Stafilo, le quali, poste dal padre a custodire il vino da lui prodotto, e che era stato recentemente inventato, si addormentarono e permisero che alcune scrofe si avvicinassero alle botti che lo contenevano: le botti furono rotte e il vino si sparse sul pavimento. Terrorizzate all’idea dell’ira del padre, davanti al quale non avrebbero saputo come giustificare la propria negligenza, le due ragazze si gettarono in mare da un’alta rupe del Chersoneso. Apollo, tuttavia, le salvò per l’amore che portava alla sorella delle due giovani, Roio, dalla quale aveva avuto un figlio, e le trasportò nella città; qui Molpadia divenne oggetto di venerazione divina con il nome di Emitea (letteralmente «mezza dea»), e le venne eretto un tempio particolarmente venerato nella regione. Il rispetto e l’adorazione riservati alla dea erano testimoniati dal fatto, che sembra colpire profondamente Diodoro, che il tempio, benché ricchissimo di offerte e privo di qualsivoglia tipo di protezione, recinzione o chiusura, non venne mai saccheggiato, né nulla vi fu mai sottratto. Quanto a Partene, Apollo la mandò a Bubasto, in Egitto.
Il toponimo, secondo l’ipotesi formulata da Diodoro Siculo nel V libro della Biblioteca storica, doveva la sua origine a un re eponimo.
Lo stesso nome indicava, in Tolomeo (VI, 4, 2) e altre fonti, una penisola sulla costa del golfo Persico, indicata anche come Insula sine nomine da Plinio (Nat. Hist., VI, 99), ricca di giardini e di alberi da frutta.
V. anche TRACIA per altri miti ambientati nel Chersoneso Tracio. Per il Chersoneso Taurico v. anche TAURIDE.
CHIETI La città dell’Abruzzo, anticamente Teate, nel territorio sabellico, benché non faccia da sfondo ad alcun racconto mitico specifico fu teatro di un evento prodigioso che ci viene raccontato da Plinio il Vecchio: «Dei prati e degli uliveti separati da una strada statale si scambiavano di posto» nelle proprietà di Vezio Marcello, cavaliere romano che amministrava i beni di Nerone (Nat. Hist., II, 199); più precisamente, «un oliveto […] attraversò in blocco la strada statale e, dalla parte opposta, dei campi vennero a prendere il posto dell’oliveto» (ibid., XVII, 245). Il prodigio sembra preludere a un periodo caratterizzato da lotte civili (quelle che nel 69 d.C. seguirono la morte di Nerone).
CHIMARRO, in gr. Chèimarros. Fiume dell’Argolide di incerta identificazione, ricordato dalla mitologia perché si riteneva che nei suoi pressi si trovasse un recinto di pietre attraverso il quale, dopo aver rapito Persefone, Ade scese nel mondo infernale (Pausania, II, 36, 7).
CHIO, in gr. Chìos. Isola greca dell’Egeo situata a circa otto chilometri dalla costa turca, di fronte alla penisola di Eritre; entra molto presto negli scenari della mitologia perché situata sulla rotta degli eroi greci che, dopo la guerra di Troia, intraprendono il viaggio di ritorno in patria. È definita «impervia» da Omero (Odissea, III, 170), caratteristica che le deriva anche dalla natura vulcanica del territorio. Una tradizione leggendaria raccontava che «Poseidone giunse sull’isola quando questa era priva di abitanti e qui si unì a una Ninfa; durante il parto della Ninfa dal cielo cadde della neve [chion] e di conseguenza Poseidone impose al bambino il nome di Chio», nome che sarebbe poi passato all’isola stessa (Pausania, VII, 4, 8).
Mitico colonizzatore di Chio era secondo la tradizione (riassunta anche da Diodoro Siculo nel V libro della Biblioteca storica) Enopione, figlio di Arianna e Dioniso o di Arianna e Teseo, un personaggio nel cui nome greco si annida la radice oino- che richiama il nome del vino (significa letteralmente «bevitore di vino»). Enopione era ricordato infatti per aver introdotto a Chio – dove era giunto da Creta, Lemno o Nasso – l’uso del vino rosso. Quando dovette liberarsi dalle belve che infestavano l’isola, Enopione si rivolse a un cacciatore gigantesco, Orione, che accorse in suo aiuto; egli si innamorò però della figlia di Enopione, Merope, e la chiese in sposa, ma venne rifiutato. Non solo: Enopione lo fece ubriacare con il suo famoso vino rosso e lo accecò, quasi replicando il celebre episodio di Ulisse che acceca l’ebbro Polifemo (altre versioni della storia raccontavano che le cose andarono un po’ diversamente, perché fu Orione a ubriacarsi e, ebbro, a tentare di violare Merope, per difendere la quale Enopione accecò l’innamorato troppo intraprendente). I miti relativi a Enopione e Orione sottolineavano, al di là dei diversi dettagli, l’importanza dell’attività vitivinicola dell’isola, che rimase sempre famosa. L’introduzione della produzione del vino in quelle aree era ricordata da Ateneo: «Chio è la prima terra dove venne prodotto il vino nero e i suoi abitanti, avendo imparato per primi l’arte di piantare e curare le vigne, grazie a Enopione, figlio di Dioniso, colui che fece uno Stato della loro isola, trasmisero quest’arte agli altri uomini» (Deipnosofisti, I, 47, 26 b-c). Al vino di Chio fa riferimento, per restare in un contesto leggendario, Luciano di Samosata, quando nella Storia vera immagina di aver fatto sosta, nel suo viaggio alla scoperta delle terre al di là dell’Oceano, su un’isola «alta e selvosa», dove scorre un fiume che ha, al posto dell’acqua, «un vino in tutto simile a quello di Chio». Per scoprire dove tale miracoloso fiume avesse origine, il narratore ricorda di averlo risalito controcorrente: «ma invece delle sorgenti trovai molte grandi viti, ricolme di grappoli: accanto a ciascuna radice sgorgava una stilla di vino limpidissimo e da tutte queste insieme era formato il fiume» (26 [13], 6-7). Virgilio, nelle Bucoliche (V, 71), allude al «vino di Ariusia», che si ricava dalle viti del promontorio roccioso di Ariusia proprio nell’isola di Chio. Per Strabone (XIV, 1, 35) quel promontorio produceva il vino migliore di tutta la Grecia.
Il rapporto del vino con l’isola era rinsaldato da un episodio della vita di Dioniso, dio del vino, che veniva solitamente ambientato proprio sulle spiagge di Chio. Ce lo racconta in dettaglio Ovidio nelle Metamorfosi (III, 582 ss.), nell’ambito del mito di Penteo (v. TEBE): Penteo, ostile al culto di Dioniso, fa catturare uno dei suoi seguaci, Acete, che è di origine etrusca e nativo della Lidia (a quei tempi si riteneva che gli Etruschi fossero originari dell’Asia Minore); lo interroga, e Acete gli racconta la propria storia. Dice di essere un pescatore, e di essere approdato, un giorno, sulle spiagge di Chio con altri compagni, che durante la sosta s’imbatterono in un giovanetto di straordinaria bellezza e lo catturarono. Quel giovanetto altri non era che Bacco, il quale, fatto prigioniero sulla nave dai compagni di Acete contro la volontà di quest’ultimo, compì un incredibile prodigio nelle acque antistanti l’isola: prima di tutto «s’arresta in mezzo al mare la nave, proprio come se la tenesse in secco un cantiere». Poi «radici d’edera inceppano i remi e serpeggiando in un intrico di volute vanno a ornare le vele con dovizia di corimbi». Lo stesso Bacco, «con la fronte incoronata di grappoli d’uva, agita un’asta tutta fasciata di pampini; intorno gli si accucciano apparizioni spettrali: tigri, linci e figure selvagge di pantere screziate». E per finire, i marinai stessi sono trasformati prodigiosamente in delfini: a uno di essi «la bocca si allarga, il naso si incurva e la pelle indurita si copre di squame»; a un altro «le mani ormai più tali non sono e già pinne possono chiamarsi»; un altro ancora «si ritrova senza braccia e inarcando quel corpo amputato si getta in acqua: all’estremità vibra una coda falcata». Non rimane che Acete, tremante di paura, con le sue fattezze umane: Bacco gli ordina di portarlo a Dia, e il pescatore diventerà fedele sacerdote del dio. Cosa che gli costerà la morte per mano di Penteo, (v. anche NASSO per la versione del mito narrata nell’Inno omerico a Dioniso, VII, e TIRRENO, MARE per la versione presentata da Igino). L’episodio è stato raffigurato magistralmente dal pittore attico Exekias nel fondo di una coppa a figure nere. Forse non estranea allo stretto legame tra l’isola e il dio Dioniso (con vino annesso) sarà da considerare una diceria riferita da Isidoro di Siviglia, che la riprende da Plinio: «dicono che nell’isola di Chio esista una sorgente che rende ottusi» (Etimologie, XIII, xiii, 3).
Una tradizione voleva che di Chio fosse originario Omero, che secondo altre leggende era invece nativo di Smirne, di Io o di Colofone (v. SMIRNE per i particolari); troncando perentoriamente la discussione, Luciano sentenzia che «in realtà era babilonese e presso i suoi concittadini non si chiamava Omero, bensì Tigrane; poi, essendo stato come ostaggio in Grecia, aveva mutato nome» (Storia vera, 27 [14], 20). Ciò non impedì tuttavia agli abitanti di Chio di continuare a sostenere l’origine locale del più illustre poeta della Grecia, mostrando lungo la costa orientale dell’isola, a nord del capoluogo, una pietra rotonda in forma di tavola, chiamata Daskalòpetra («la pietra del maestro»), dove Omero impartiva i suoi insegnamenti. Gli archeologi ritengono che più probabilmente la pietra, tuttora visibile, fosse un altare dedicato alla dea Cibele. Quasi a ribadire il legame tra il sommo poeta greco e l’isola, a Chio aveva sede la confraternita degli Omeridi, poeti che si dicevano discendenti di Omero e che si tramandavano l’arte rapsodica di generazione in generazione.
Tra i sovrani mitici che regnarono sull’isola alcune fonti ricordavano anche Ettore, l’eroe troiano (Pausania, VII, 4, 9-10). Una leggenda circondava poi la fondazione di Leuconia, città situata sull’isola omonima a circa 5 chilometri a sud di Chio. Si diceva che tutto avesse avuto origine durante la festa di nozze di uno dei notabili di Chio, alla quale, tra gli altri personaggi illustri, era stato invitato anche il re dell’isola, Ippoclo. Quest’ultimo, nell’ebbrezza del vino e dei festeggiamenti, era balzato sul carro che portava la sposa, probabilmente senza intenzioni oltraggiose nei confronti di quest’ultima, ma semplicemente per qualche scherzo, sia pure di pessimo gusto. Gli amici della sposa, però, temendo per lei, lo uccisero. Ben presto i segni della collera ultraterrena si manifestarono, e la divinità, per mezzo di uno dei suoi oracoli, ordinò di uccidere gli assassini di Ippoclo. Avvenne allora un fatto strano: tutti indistintamente gli abitanti dichiararono di essere stati gli assassini. La divinità ordinò infine a tutti coloro che si dichiaravano colpevoli di abbandonare Chio; e fu così che la maggior parte degli abitanti si trasferì nella vicina isola di Leuconia (o Leuconio). Più tardi, gli uomini di Leuconia furono sconfitti da quelli di Eritre in seguito a una contesa, e accondiscesero a capitolare, a condizioni, per di più, assai umilianti: venne loro concessa la salvezza soltanto a patto che portassero con sé esclusivamente un abito e una coperta. Furono le donne di Leuconia a incitare i loro mariti a non cedere le armi tanto facilmente e a opporre resistenza; e «fu grazie al fatto che le donne insegnarono loro l’ardimento che gli uomini di Leuconia furono salvati dalla sorte» (Plutarco, Mulierum virtutes, 244 E-245 C). Per la contesa tra Chio ed Eritre circa il possesso di una statua antichissima di Eracle giunta dal mare, v. ERITRE.
Si diceva che i primi al mondo a comprare degli schiavi fossero stati proprio gli abitanti di Chio; ma gli schiavi, in gran numero, scapparono dalle città e si rifugiarono sulla montagna, conducendo una vita libera sotto la guida di Drimaco, che li capeggiava anche nei numerosi assalti che conducevano ai danni dei loro padroni. Sulla testa di Drimaco venne posta una taglia, nonostante una tregua che aveva sancito una pacifica convivenza fra gli schiavi ribelli della montagna e i loro ex padroni della pianura; e Drimaco, alla fine, stanco della vita, chiese a un suo amante di tagliargli la testa e di passare poi all’incasso della taglia. Dopo di che, però, gli assalti degli schiavi ripresero peggiori di prima, e i padroni compresero che l’unico modo per placarli, e per placare gli dèi che evidentemente li guidavano, consisteva nell’erigere un santuario a Drimaco. Da allora, si diceva che a chiunque rischiasse di essere danneggiato da uno schiavo apparisse in sogno la visione di Drimaco che lo metteva in guardia (Ateneo, VI, 265 b).
La città portuale di Chio era ritenuta da Apollonio Rodio (Argonautiche, IV, 1470) una fondazione degli Argonauti, mentre in base all’iconografia che compare sulle monete sembrerebbe che la si ritenesse fondata da Eracle.
CHITONE, in gr. Chitòn. Nome di un demo dell’Attica, nel quale, secondo la tradizione, Neleo figlio di Codro, re di Atene, fabbricò una statua di legno della dea Artemide prima di salpare per l’Asia Minore, dove avrebbe fondato la città di Mileto. Da tale evento mitico sarebbe derivato l’epiteto di Chitonea con il quale viene talora indicata la dea Artemide (per esempio in Callimaco, Inni, III, 225); in alternativa tale epiteto può derivare dal tipico abbigliamento di Artemide, vestita dell’abito chiamato appunto chitone, una specie di tunica, oppure dalla consuetudine delle puerpere di offrire ad Artemide il proprio chitone.
CHIUSI, in lat. Clusium, originariamente Camars o Camers. L’antica città etrusca della Toscana, in provincia di Siena, fondata secondo il mito da Telemaco, figlio di Ulisse e di Penelope (Plutarco, Romolo, 2), ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende di Enea. Quando Enea giunge in Italia a seguito delle sue lunghe peregrinazioni dopo la caduta di Troia, infatti, gli abitanti di Chiusi gli offrono aiuto contro i popoli indigeni che, capeggiati da Turno, si oppongono fieramente al suo stanziamento: guidati dal loro condottiero Massico, mille giovani eroi chiusini seguono Enea con una nave chiamata Tigre, armati di archi e frecce (Virgilio, Eneide, X, 166-167; cfr. Macrobio, Saturnali, V, 15, 4). Un’altra nave di Chiusi, appartenente al re Osinio, è ricordata poi in relazione con un episodio celebre del combattimento fra Enea e Turno: avendo ottenuto, se non di cambiare il corso della guerra, per lo meno di salvare la vita di Turno a lei caro, Giunone plasma in una nuvola le fattezze di Enea, e con questo simulacro dell’eroe troiano attira Turno lontano dalla mischia, fino alla nave di Osinio re di Chiusi, che se ne stava «stretta al saliente di un’alta roccia, con esposte le scale e col ponte apprestato» (Eneide, X, 653 ss.). Qui il simulacro di Enea si rifugia, e qui Turno lo insegue, ma Giunone molla di colpo gli ormeggi e «la nave sottrae alla risacca sulla distesa delle acque», portando il suo protetto al sicuro in mare aperto, mentre il fantasma di Enea si dissolve nel cielo.
Il sovrano più illustre della città fu Lara Porsenna, che combatté a più riprese con i Romani. A tali combattimenti risalgono gli episodi di Orazio Coclite (per il quale v. ROMA, a proposito del Ponte Sublicio) e di Muzio Scevola, l’eroe romano che, introdottosi negli accampamenti etruschi senza destare sospetti grazie alla sua conoscenza dell’idioma etrusco, e desideroso di uccidere Porsenna stesso, sbagliò persona, uccidendo il segretario anziché il re, e sottoposto a interrogatorio dal sovrano nemico non esitò a lasciar bruciare la propria mano destra che aveva sbagliato («la lasciava bruciare con l’animo quasi staccato dai sensi» osserva Livio, II, 12, 13): il gesto suscitò un’enorme impressione su Porsenna e sugli Etruschi, che decisero davanti a tale prova di coraggio di lasciarlo andare («Va’ pure libero, tu che hai osato atti più ostili verso di te che verso di me» esclama ammirato Porsenna: ibid., II, 12, 14); ne seguì un accordo con i Romani, mentre Muzio veniva da quel momento chiamato Scevola, che significa «mancino» (Plutarco, Publicola, 17; cfr. anche Plutarco, Parall., 305 E-F; Varrone, III, 3, 1). A garanzia dei patti stretti tra Etruschi e Romani, questi ultimi consegnarono a Porsenna come ostaggi dieci fanciulle di nobili origini, fra le quali c’era anche la celebre Clelia, che esortò le giovani a fuggire attraversando il Tevere a nuoto e le ricondusse sane e salve a Roma. Il re Porsenna, dapprima irato per quella fuga, mandò degli ambasciatori a richiedere la restituzione di Clelia, secondo i patti; ma poi, placatasi l’ira, in lui subentrò l’ammirazione per il comportamento della ragazza, e dichiarò che «se non fosse stato consegnato l’ostaggio avrebbe considerato rotto il trattato, ma che a consegna avvenuta l’avrebbe restituita incolume e inviolata ai suoi. Ambedue le parti tennero fede alla parola data: i Romani rispettando i patti restituirono il pegno della pace, e presso il re etrusco la virtù trovò non solo protezione ma anche onore; dopo aver lodato la vergine disse che le faceva dono di una parte degli ostaggi: essa stessa scegliesse quelli che voleva». Con una decisione che venne unanimemente approvata, e «che si addiceva alla sua verginità», essa scelse gli ostaggi adolescenti (Livio, II, 14, 8-10; Valerio Massimo, III, 2, 2). Il coraggio virile della fanciulla venne celebrato in una statua equestre che le venne eretta a Roma sulla Via Sacra che sale al Palatino (Plutarco, Publicola, 19; sulla figura di Clelia v. anche Id., Mulierum virtutes, 250 A-F e la rievocazione del mito in Silio Italico, Guerra Punica, X, 492-502).
Di Chiusi era originario, secondo una leggenda riferita da Livio (V, 33), un certo Arunte, il quale voleva vendicarsi del suo concittadino Lucumone, che gli aveva sedotto la moglie, e a questo scopo non esitò a chiedere aiuto a una potenza straniera, quella dei Galli, inducendo questo popolo a invadere l’Italia scendendo a sud delle Alpi. «Lucumone, di cui Arunte era stato tutore, era un giovane assai potente, del quale non era possibile vendicarsi se non ricorrendo a una forza straniera; questo Arunte guidò i Galli nel passaggio delle Alpi e li consigliò di attaccare Chiusi», e per rafforzare la sua proposta portò in Gallia dell’ottimo vino, bevanda che quel popolo non conosceva e che ebbe un ruolo non secondario nell’indurlo all’attacco.
E ancora di Chiusi, secondo la tradizione, era originaria la ninfa Vegoia o Begoe, scopritrice o creatrice dei Libri Fulgurales, che spiegavano i criteri con i quali interpretare il significato divinatorio dei fulmini (Servio, ad Aen., VI, 72): gli Etruschi erano celebri come indovini e interpreti dei segni divini.
CIANE, in gr. Kyanè. Nome di una fonte che sgorgava in Sicilia nei pressi di Siracusa, a circa nove chilometri a sud-ovest della città. Il nome riprende quello di una fanciulla chiamata Ciane, figlia del mitico re Liparo, sovrano delle isole Eolie, che venne sposata da Eolo, il re dei venti, destinato a succedere a Liparo sul trono. Da Ciane Eolo ebbe sei figli che ereditarono la saggezza dal padre e regnarono sulle isole e le coste circostanti: i loro nomi erano Giocasto, Feremone, Androcle, Xuto, Agatirno e Astioco (Diodoro, IV, 67, 2-7; V, 7-8). Per il mito di Ciane amata da Anapo v. ANAPO; per la metamorfosi della Ninfa in fonte v. SIRACUSA. Oltre le acque della fonte Ciane passa la dea Cerere quando, disperata per il rapimento di sua figlia Proserpina, si mette alla sua ricerca percorrendo l’intera Sicilia, dove, nei pressi di Enna, secondo una versione del mito il ratto aveva avuto luogo (Ovidio, Fasti, IV, 469). Il nome della sorgente si riferiva presumibilmente al colore delle sue acque e significa «azzurro» o «scuro», «cupo».
CIANEE, in gr. Kyanèai. Note anche con il nome di Simplegadi, sono mitiche isole che si ritenevano collocate allo sbocco del Bosforo nel Ponto Eusino. Si presentavano nella forma di due grandi rocce mobili, che cozzavano l’una contro l’altra e stritolavano le navi che cercavano di oltrepassarle. Divennero fisse solo quando gli Argonauti, con la protezione di Era, riuscirono a superarle indenni. Il nome significa propriamente «scure» o «azzurre», «turchine». Per altri particolari v. SIMPLEGADI.
CIBELO, in gr. Kbelon. Località dell’Attica, non lontana da Atene, ricordata da Luciano nel suo dialogo sul Giudizio delle vocali (4 [16], 7) come «una cittadina non brutta, colonia, come si dice, di Atene». Vi è ambientato il curioso dialogo, nel quale si immagina che la lettera greca Sigma accusi il Tau, altra lettera dell’alfabeto ellenico, trascinandolo davanti al tribunale delle Sette Vocali con l’accusa di rapina dei suoi averi e di violenza: nella dotta e divertente disquisizione, in cui la lettera Tau, tipica dell’uso attico, soppianta non solo il Sigma ma anche altre lettere nella pronuncia, la località di Cibelo è poco più che uno sfondo sul quale si muovono i sapienti ma arguti esempi scelti da Luciano per mettere alla berlina la pronuncia alla moda.
Per un diverso Cibelo, monte sacro alla dea Cibele, v. FRIGIA.
CICLADI, in gr. Kyklàdes nèsoi. Isole del mar Egeo, del quale costituiscono l’arcipelago maggiore; derivano il loro nome dal fatto di essere disposte in cerchio (in greco ; cfr. Pomponio Mela, II, 7, 111) intorno all’isola sacra per eccellenza, quella di Delo, patria dei divini gemelli Apollo e Artemide. Le Cicladi sono in tutto 39, di cui 24 sono oggi abitate. «Certo tutte le Cicladi, le isole più sacre che si trovano nel mare, sono degne di canto» scrive Callimaco nell’Inno a Delo (vv. 2-4). Il loro popolamento ha origini mitiche, ricordate nella tragedia Ione di Euripide (1581-1585), e viene attribuito ai discendenti di Xuto e di Ione. Nei tempi più antichi, secondo la mitologia, queste isole fecero parte dei possedimenti di Minosse, il leggendario re di Creta, che ne scacciò i primitivi abitanti, i Carii, i quali si trasferirono sulla terraferma dell’Asia Minore, nell’area a sud del fiume Menandro (Tucidide, I, 4).
Le Cicladi sono percorse e attraversate da Enea e dai suoi compagni durante il loro viaggio alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la caduta di Troia: «disperse sulle acque, le Cicladi, per stretti agitati da terre frequenti corriamo» (Eneide, III, 126-127). Nelle Metamorfosi di Ovidio sono menzionate in relazione con l’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole, e con la conseguente siccità che attanaglia il mondo (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari): «Il mare si contrae, e dove c’era l’acqua, ora vi sono distese d’arida sabbia; e i monti, dissimulati nei fondali, ora affiorano moltiplicando l’arcipelago delle Cicladi» (II, 262-264). Nel racconto di Ovidio, le isole vengono poi oltrepassate da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 565; per i particolari del mito v. ENNA).
Igino (Favole, 276) ricorda i nomi delle isole Cicladi: sono Andro, Mykonos, Delo, Teno, Nasso, Serifo, Giaro, Paro, Renia. Anche Stazio, elencando i luoghi dove Tetide, madre di Achille, medita di nascondere il figlio per evitargli la morte sicura, ancorché gloriosa, che lo attende se parteciperà alla guerra di Troia, riserva una menzione alle «rinserrate Cicladi», ricordando che la dea, passandole in rassegna, esclude come possibile rifugio per Achille sia Mykonos, sia «la piccola Serifo», sia «Lemno, mal disposta verso gli uomini», sia «l’ospitale Delo», mentre la sua scelta cadrà su Sciro (Stazio, Achilleide, I, 204 ss.).
Per i principali miti ambientati nelle isole v. alle voci relative a ciascuna di esse, e in particolare AMORGO; ANDRO; ASTERIA; CEO; CIMOLIA; CITNO; DELO; FOLEGANDRO; GIARO; ICO; IO; MELOS; MYKONOS; NASSO; PARO; PEPARETO; SERIFO; SIFNO; SIRO; TENO; TERA.
CICLOBORO, in gr. Kyklobòros. Torrente dell’Attica le cui acque scorrevano impetuose e piuttosto rumorose: al fragore del Cicloboro Aristofane paragona, negli Acarnesi, la voce di Cleone: «Urlava quasi fosse il Cicloboro: un vero diluvio» (v. 381). Il paragone era particolarmente caro ad Aristofane, che lo utilizza anche nei Cavalieri («aveva voce di Cicloboro», v. 137), nelle Vespe («aveva voce di torrente che genera distruzione», v. 1034) e nella Pace (dove compare la stessa espressione al v. 757).
CICLOPI, TERRA DEI I Ciclopi erano esseri giganteschi e selvaggi, «dagli occhi rotondi» (tale è il significato letterale del loro nome, correlato alla presenza di un occhio solo nella Teogonia di Esiodo, 144 s.), che conducevano un’esistenza rozza e primitiva. Essi, secondo il mito, vivono «ingiusti e violenti», e «fidando nei numi immortali non piantano pianta di loro mano, non arano; ma inseminato e inarato lì tutto nasce, grano, orzo, viti, che portano il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus» (Odissea, IX, 106 ss.). La loro vita non è regolata da leggi, ignorano le assemblee e vivono in caverne sulle cime di alti monti, isolati e solitari, ignorandosi a vicenda. La rozzezza delle loro consuetudini e il fatto che non conoscano l’agricoltura ma pratichino soltanto la pastorizia li assimila alle descrizioni dei popoli più primitivi, ma anche a quelli della mitica età dell’oro, che non hanno bisogno di coltivare la terra perché essa produce spontaneamente i suoi frutti: e infatti davanti al porto della terra dei Ciclopi si estende un’isola bassa e piatta, non abitata né coltivata, sulla quale vivono soltanto capre, la quale «non è sterile e produrrebbe ogni sorta di frutti. Vi son prati, del mare schiumoso lungo le rive, umidi e morbidi: e vigne durevoli potrebbero crescervi. Facile v’è l’aratura e folta sempre la messe alla stagione potrebbero mietere, ch’è molto pingue il suolo di sotto. C’è un porto comodo, dove […] basta approdare e restare a piacere […]. In capo al porto scorre acqua limpida, una sorgente sotto le grotte: pioppi crescono intorno» (ibid., IX, 131-41).
Il mitico paese dei Ciclopi è ricordato nell’Odissea come teatro di una delle più celebri avventure di Ulisse, quella con il ciclope Polifemo. Polifemo vive in una grotta, descritta nei particolari da Omero: «Entrati nell’antro, osservammo ogni cosa; dal peso dei caci i graticci si piegavano; steccati c’erano, per gli agnelli e i capretti, e separata ogni età vi stava chiusa, a parte i primi nati, a parte i secondi, a parte ancora i lattonzoli» (ibid., IX, 218-221). L’ingresso del Ciclope nella caverna provoca un cupo rimbombo, ed egli chiude l’ingresso con un gigantesco macigno, una «immensa roccia scoscesa» (v. 243). Ulisse e i compagni restano così prigionieri nell’antro, solo per accorgersi, con immenso orrore, che il mostro è antropofago: «quando si accorse degli uomini, ne divorò alcuni» (Apollodoro, Epitome, VII, 4 ss.). Ulisse riesce tuttavia ad avere ragione di Polifemo dapprima ubriacandolo, grazie al vino che gli era stato fornito da Marone, sacerdote di Apollo a ISMAROM (v.); poi, con l’aiuto di un lungo palo acuminato e arroventato nel fuoco, accecandogli l’unico occhio. E quando il Ciclope, urlando per il dolore, attira l’attenzione dei suoi compagni, che gli chiedono chi gli stia facendo del male, l’astuzia di Ulisse si rivela ancora una volta, giacché egli aveva detto a Polifemo di chiamarsi Nessuno, e di conseguenza a Nessuno viene attribuita da Polifemo stesso la colpa dei suoi tormenti: cosa che naturalmente induce i suoi compagni a non intervenire in suo aiuto. Nascondendosi poi sotto il vello degli arieti che fanno parte delle mandrie del Ciclope, e approfittando della cecità di quest’ultimo, Ulisse e i suoi compagni riescono a uscire dalla grotta, trovando all’aperto la salvezza. Sulla falsariga del celebre episodio omerico, anche l’incontro di Enea e dei suoi con i Ciclopi, al pari di quello di Ulisse, è terrificante: nel racconto virgiliano Polifemo appare come «un mostro orrendo informe enorme, cui la luce fu tolta» (Eneide, III, 658), mentre i suoi compagni riempiono le spiagge e incombono «ritti, inutilmente torvo l’occhio, […] urtando il cielo con la punta del capo, concilio orrendo» (ibid., III, 677-679). A Enea e ai suoi non resta che fuggire a precipizio. Una descrizione meno terrifica dell’antro di Polifemo e dei suoi possedimenti viene offerta invece per bocca dello stesso Polifemo, che canta il suo amore per Galatea, nelle Metamorfosi di Ovidio: «Posseggo una grotta, in una parte del monte, con la volta di roccia viva, dove non si soffre il sole in piena estate o il gelo d’inverno. Ho alberi carichi di frutta e, sui lunghi tralci del vigneto, un’uva che sembra d’oro e un’altra color porpora» (XIII, 810-14).
Con l’abbondanza di dettagli sui quali i poeti indulgono nella descrizione della terra di Polifemo contrasta l’assoluta mancanza di indizi che permettano di collocarla in un luogo preciso: l’identificazione del sito ove poteva trovarsi è stata perciò oggetto di svariate congetture. Poiché un’altra tradizione, risalente a Esiodo (Teogonia, 139-146), faceva dei Ciclopi gli artigiani che fabbricavano i fulmini di Zeus, o gli assistenti di Efesto, il dio fabbro dell’Olimpo, che secondo alcune credenze aveva la sua officina nelle viscere dell’Etna, una delle identificazioni più frequenti è quella che vede la terra dei Ciclopi nella Sicilia, oppure in una delle vulcaniche isole Eolie: Virgilio per esempio collega i Ciclopi all’Etna nelle Georgiche (I, 471-473): «Quante volte gorgogliando sui campi dei Ciclopi vedemmo l’ondata dell’Etna giù dalle spaccate fornaci rovesciare globi di fiamme e pietre liquefatte!»; anche nell’Eneide la costa della Sicilia ai piedi dell’Etna si identifica con le «rive dei Ciclopi», dove Enea e i suoi approdano durante il loro viaggio alla ricerca di una nuova terra dove stabilirsi dopo la caduta di Troia (III, 569: Cyclopum oris; v. anche ETNA e inoltre ACI; ACIREALE; ACI TREZZA; RIVIERA DEI CICLOPI; SICILIA). Callimaco pensa invece all’isola di Lipari (Inno a Diana, 46-50).
Se fin dall’origine la collocazione dei giganti monocoli è stata vaga, benché mai spostata al di fuori del Mediterraneo, nel corso dei secoli essi hanno mutato sede più volte. Secondo Isidoro di Siviglia essi risiedono in India e sono «così chiamati perché si crede che abbiano un unico occhio al centro della fronte. Sono detti anche agriofagiti perché si nutrono esclusivamente di carne di animali selvaggi» (Etimologie, XI, iii, 16; l’epiteto deriva dal greco , «selvaggio», letteralmente «che vive nei campi», e
, «mangiare»). Della loro dimensione gigantesca dà conto anche un’annotazione di Plinio, il quale, celebrando l’opera di un artista per noi rimasto sconosciuto, il pittore Timante, ne loda un piccolo quadretto che raffigura il Ciclope addormentato: «volendo dar conto della sua grandezza, dipinse accanto a lui dei Satiri che ne misurano il pollice con il tirso» (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 74).
CICNO, in gr. Kknos. Nome di un’antica città dell’Asia Minore di incerta collocazione, in una baia costiera del Mar Nero non lontana dal paese dei Colchi. Si diceva che fosse stata fondata da alcuni mercanti greci i quali, navigando in quella zona durante una terribile tempesta, non riuscivano a individuare la terraferma e ritrovarono l’orientamento solo grazie al canto di un cigno che nella nebbia e nella bufera indicò loro la direzione; in ricordo di quell’episodio, battezzarono Cicno, ossia «cigno», l’emporio che fondarono (Pomponio Mela, Corografia, I, 19, 110).
CICONI, PAESE DEI Popolazione semimitica della Tracia, i Ciconi sono ricordati nei poemi omerici tra gli alleati di Troia durante la guerra contro i Greci. Dopo la caduta di Troia, secondo il racconto dell’Odissea, Ulisse e i suoi compagni, nel viaggio di ritorno in patria, fecero una prima tappa nel paese dei Ciconi e ne saccheggiarono la capitale Ismaro («dalla città le donne e molte ricchezze rapimmo», IX, 41); ma mentre i Greci si abbandonavano alle gozzoviglie, gli scampati al massacro di Ismaro cercarono rinforzi e capovolsero gli esiti dello scontro, costringendo gli assalitori alla fuga.
Le donne del popolo dei Ciconi, secondo la leggenda riferita da Virgilio (Georgiche, IV, 520-527), furono le artefici dell’uccisione di Orfeo, il mitico cantore tracio che non seppe consolarsi della morte dell’amata Euridice, morsa da un serpente mentre cercava di sfuggire alle insidie del pastore Aristeo (v. TEMPE): con il suo pianto e il suo canto il poeta e cantore era riuscito a commuovere anche gli dèi infernali, che gli avevano consentito di riportare con sé Euridice dal mondo dei morti a condizione che non si voltasse indietro a guardarla fino a che non fosse tornato sulla terra dei vivi; ma poiché l’amore gli impedì di trattenersi, ed egli si volse indietro, Euridice venne reinghiottita definitivamente nel mondo infernale. Incapace di consolarsi, Orfeo continuò a piangere la sposa perduta, fino a quando, «offese da tanta fedeltà, le donne dei Ciconi, durante una sacra cerimonia agli dèi – un’orgia notturna di Bacco – lacerarono il giovane e i brani dispersero per la vasta campagna». La testa mutilata di Orfeo, però, continuò instancabile a invocare e piangere il nome di Euridice. Il racconto, uno dei più famosi della mitologia, e che ci è noto con diverse varianti, era narrato con toni accorati anche nell’XI libro delle Metamorfosi di Ovidio.
Nel territorio abitato dai Ciconi avvenne l’unione fra Borea, impetuoso dio dei venti, e Orizia, splendida figlia del re ateniese Eretteo (Ovidio, Metamorfosi, VI, 710); essi divennero genitori di due eroi di nome Calais e Zete, che si sarebbero distinti nella lotta contro le temibili Arpie. Benché la Tracia sia un luogo reale, ed Erodoto nel VII libro delle Storie ricordi i Ciconi come una popolazione storicamente esistita, lo statuto dei Ciconi resta incerto, a metà tra la fantasia e la storia; e le caratteristiche del paese possono sconfinare facilmente nella leggenda, come nella descrizione di un fiume che, «attinto per bere, rende i visceri di sasso e riveste di marmo le cose con cui viene a contatto» (Ovidio, Metamorfosi, XV, 313-314).
CIDNO, in gr. Kdnos. Fiume della Cilicia che scorre presso la città di Tarso. Il «limpido Cidno» era ricordato dalla mitologia perché venne attraversato dall’eroe Perseo quando si recò nella regione (Nonno di Panopoli, Dionisiache, XVIII, 292). Si diceva che Alessandro Magno amasse prendervi il bagno, attirato dal suo corso «bello e limpido, profondo ma senza pericolo, rapido ma senza violenza, invitante al nuoto, fresco nella stagione estiva», dove non si sarebbe astenuto dall’immergersi «pur se avesse previsto con certezza la malattia che vi contrasse» (Luciano, La sala, 61 [10], 1). Una possibile causa della malattia che venne interpretata come il primo manifestarsi del morbo che sarebbe stato fatale per il condottiero poteva essere la temperatura gelida delle acque del fiume, spiegata con la vicinanza alla sorgente.
CIDONIA, in gr. Kydonìa. Antica città dell’isola di Creta, sulla costa settentrionale, presso l’attuale La Canea. Era la capitale della popolazione dei Cidoni ricordata da Omero: «a Creta, lungo le correnti dello Iardano abitano i Cidoni» (Odissea, III, 291-292). Il toponimo indicava però anche altre località, tra cui un’isola presso Lesbo; forse a una ignota città sull’isola di Cos fa riferimento Teocrito nominando un viandante di Cidonia in uno dei suoi Carmi bucolici (VII, 12). La tradizione la voleva fondata da Minosse e da suo figlio Cidone, che le diede il nome (Diodoro Siculo, V, 78, 2; Pausania, VIII, 53, 4). Si diceva che da Cidonia provenisse Climeno, un discendente di Eracle al quale si attribuiva la fondazione dei Giochi olimpici cinquant’anni dopo il diluvio di Deucalione (Pausania, V, 8, 1 ss. e VI, 21, 6).
CIFANTA Località della Laconia, in Grecia, i cui resti sono stati individuati nei pressi dell’odierna Kyparissi. Il luogo, già abbandonato ai tempi di Pausania che ne cita le rovine («i resti della cosiddetta Kyphànton»), ospitava una grotta sacra ad Asclepio, dio della medicina; nei pressi si trovava una sorgente che zampillava dalla roccia. «Qui, dicono, Atalanta, afflitta dalla sete mentre cacciava, percosse con la lancia la roccia e così ne scaturì l’acqua» (Pausania, III, 24, 2). Il prodigio di far scaturire l’acqua dalla roccia era tipico delle creature divine, e qualcosa di divino aleggiava anche intorno ad Atalanta. La celebre eroina infatti era stata abbandonata ancora infante da suo padre e allevata dapprima da un’orsa e poi da alcuni cacciatori; divenuta a sua volta un’intrepida cacciatrice, aveva partecipato alla caccia al cinghiale di Calidone, che fu la prima a colpire; fiera della sua verginità, aveva alla fine posto la propria mano in palio in una gara di corsa, promettendola a chi fosse riuscito a batterla in velocità, ed era stata sconfitta, sia pure con l’inganno, da Melanione, che ne aveva ritardato la corsa lanciandole delle mele d’oro. Da Melanione Atalanta generò un figlio, Partenopeo, prima di venir trasformata, con lo sposo, in leone.
CIFO, in gr. Kphos. Località della Tessaglia ricordata da Omero tra quelle che parteciparono alla guerra di Troia. Nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 748) si dice che contribuì alla spedizione con ventidue navi capeggiate da Guneo.
CILICIA, in gr. Kilikìa. Antica regione dell’Asia Minore situata nella porzione sudorientale dell’odierna Turchia, tra la Cappadocia a nord e il Mediterraneo a sud; a ovest confinava con la Pisidia e la Panfilia e a est con la Siria. Re della Cilicia ai tempi della guerra di Troia era, secondo Omero, il padre di Andromaca, la sposa dell’eroe troiano Ettore; la Cilicia di Omero era però situata nell’attuale Turchia nordoccidentale, non lontano dall’antica Troade. Originariamente gli abitanti della regione erano indicati con il nome di Ipachei; successivamente presero il nome di Cilici da quello di Cilico o Cilice, figlio del fenicio Agenore, padre di Cadmo e di Europa (Erodoto, VII, 91): di questo Cilice si diceva che fosse «originario della Fenicia e più antico di Giove» (Isidoro, Etimologie, XIV, iii, 45) e che regnasse «in Cilicia presso le cime nevose dell’alto Tauro» (Nonno di Panopoli, Dionisiache, II, 684-685). Quando sua sorella Europa, innamoratasi di un bellissimo toro nelle cui fattezze si celava Zeus, seguì l’animale che la rapì portandola fino all’isola di Creta, i suoi fratelli, per incarico del padre, si diedero a cercarla ovunque; Cilice concentrò le sue ricerche, e poi si stabilì, nel territorio che da lui prese il nome (Apollodoro, Biblioteca, III, 1, 1). Secondo altre tradizioni egli combatté durante la guerra di Troia a fianco di Sarpedonte e da questi ottenne in dono la terra alla quale diede il suo nome; altre versioni lo presentano invece come zio di Sarpedonte e raccontano che lo uccise accidentalmente.
Monti e fiumi mitici. Molti monti, fiumi e città della Cilicia erano legati a specifici racconti ed episodi del mito. Si diceva per esempio che nella località di Magarsos fosse stato sepolto l’eroe Anfiloco, originario di Argo e fondatore di Argo Anfilochica, che era stato ucciso da Apollo presso Soli di Cilicia (Esiodo, fr. 279 MW; Tucidide, II, 68). L’eroe, figlio di Anfiarao, aveva fondato a Mallos, vicino a Soli, un oracolo divenuto famoso (Plutarco, De defectu oraculorum, 434 D). Nelle Metamorfosi di Ovidio si menzionava il monte Tauro di Cilicia tra le montagne che s’incendiarono a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Senofonte (Anabasi, I, 4, 1) ricordava in Cilicia un fiume chiamato Piramo (attuale Ceyhan), che può essere messo in relazione con il celebre mito di Piramo e Tisbe, ricordato da fonti greche e da Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 55-166): la conclusione della storia dei due amanti, secondo una versione del racconto, era proprio la trasformazione di lui in un fiume e di lei nella sorgente del fiume stesso. La storia era tenera e insieme fortemente drammatica: i due giovani Piramo e Tisbe, entrambi bellissimi e follemente innamorati, cercavano ogni pretesto per incontrarsi, di nascosto dai loro familiari; un giorno, datisi appuntamento in gran segreto, Tisbe arrivò un po’ in anticipo al luogo designato, in tempo per vedere una leonessa che sbranava un torello. Terrorizzata, la ragazza fuggì, e nella corsa perse il mantello: più tardi Piramo lo trovò, macchiato casualmente di sangue dalla leonessa di passaggio, e temette il peggio. Nella versione corrente del mito, Piramo si uccise nella convinzione che la sua bella fosse stata divorata, e Tisbe, trovando il corpo dell’amato, si tolse a sua volta la vita. Per un altro fiume della Cilicia legato alla mitologia v. CIDNO.
Un singolare rapporto tra i monti della Cilicia e la Chimera, mostro triforme dalla testa di leone, dal corpo di capra e dalla coda di drago, viene stabilito da Isidoro di Siviglia, secondo il quale a proposito del mostro «alcuni studiosi dei fenomeni fisici dicono che non si tratti di un animale, bensì di un monte della Cilicia che in alcuni punti offre nutrimento ai leoni e alle capre, in altri arde e in altri è pieno di serpenti: Bellerofonte lo rese abitabile e per questo si dice che uccise la Chimera» (Etimologie, XI, iii, 36; cfr. anche XIV, iii, 46, dove il monte Chimera è collocato in Licia).
Miti e città. La regione era stata visitata anche dall’eroe Perseo, figlio di Danae, che vi avrebbe fondato Tarso, la città principale (ibid., XV, i, 38). L’etimologia del toponimo «Tarso» era variamente spiegata dagli antichi, che come di consueto cercavano di trovarne il fondamento in qualche episodio del mito: così Stefano di Bisanzio raccontava che Tarso era stata la prima città fondata in Cilicia dopo che le acque del diluvio si erano ritirate, e quindi sulla terra secca e asciutta (dal greco , «seccare», «prosciugare»); più spesso però il nome era messo in relazione con la parola greca
, «pianta del piede» o anche «zoccolo di cavallo», e spiegato o con il mito del cavallo alato Pegaso, che avrebbe impresso l’impronta del proprio zoccolo sul suolo, o con la storia di Bellerofonte, il già citato eroe uccisore della Chimera, che proprio cadendo dal mitico cavallo alato Pegaso si sarebbe rotto un piede in quel punto; ancora, si spiegava il toponimo facendo riferimento a Perseo, che proprio in corrispondenza del sito della città aveva posto piede a terra; oppure si ricordava che proprio in quel punto Perseo stesso aveva perso una piuma – in greco
– della sua caviglia alata (cfr. Nonno di Panopoli, XVIII, 292-294; Perseo, divinità protettrice della città, era spesso raffigurato sulle monete locali); a meno che non si trattasse di una penna delle ali di Pegaso («quella riva dove caddero le penne del cavallo della Gorgone»: Giovenale, Satire, III, 117-118; v. anche TARSO per altri particolari).
Città della Cilicia erano anche Olbe, fondata da Aiace il giovane, figlio di Teucro e di Eune, e Mopsuestia, il cui nome si prestava facilmente a una paretimologia che la metteva in relazione con l’indovino Mopso attraverso il passaggio Mopsou hestia, cioè «il focolare», «la casa di Mopso». Mopso, famoso indovino, è ricordato da tradizioni diverse della mitologia, che menzionano due personaggi con questo nome, talvolta sovrapponendoli in una figura sola: un Mopso della stirpe dei Lapiti, fondatore della città tessala di Mopsio, che partecipò alla spedizione degli Argonauti e morì poi in Libia, e un Mopso figlio di Manto l’indovina, che avrebbe fondato, con sua madre, il tempio di Apollo a Claro (Pomponio Mela, Corografia, I, 17, 88). Nella sua rievocazione della fondazione della città Ammiano Marcellino, dopo aver detto che Mopso fondò Mopsuestia, sovrappone le tradizioni mitiche relative alle due figure: «Mopso, essendosi allontanato per errore dalla spedizione degli Argonauti quando questi tornavano dopo aver rubato il vello d’oro, fu portato verso le rive dell’Africa e rapito da una morte improvvisa» (XIV, VIII, 3).
Tifone in Cilicia. Quando, alla fine della mitica lotta che contrappose gli dèi ai Giganti, questi ultimi vennero sconfitti, Gea, la loro madre, adirata, si unì al Tartaro generando, proprio in Cilicia, una creatura mostruosa, Tifone, che aveva natura umana e bestiale insieme e dimensioni gigantesche: «fino alle cosce la sua forma era di uomo, ma di tale altezza da superare tutte le montagne; con la testa sfiorava spesso le stelle; se stendeva le braccia, con uno toccava l’Occidente e con l’altro l’Oriente; dalle braccia stesse emergevano le teste di cento serpenti, dalle cosce si dipartivano le spire di vipere enormi che si estendevano fino alla testa, emettendo sibili acuti», in un raccapricciante catalogo di orrori (Apollodoro, Biblioteca, I, 6, 3). Quando Tifone mosse all’assalto del cielo, gli dèi scapparono rifugiandosi in Egitto; qui il mostro si scontrò aspramente con Zeus, lo catturò, lo privò dei tendini e lo trascinò, prigioniero, in una caverna in Cilicia, nell’antro Coricio o di Corico (che è cosa diversa dall’antro Coricio aperto sulle pendici del monte Parnaso a Delfi, per il quale v. CORICIO, ANTRO); i tendini del re degli dèi, per quanto nascosti dal mostro e affidati alla sorveglianza di Delfine, per metà serpente e per metà fanciulla, vennero tuttavia recuperati da Ermes ed Egipan, che li riattaccarono al loro legittimo proprietario, restituendogli così il suo vigore. Zeus riprese perciò il suo inseguimento di Tifone (ibid.). All’antro di Tifone a Corico, «caverna sanguinante degli Arimi», allude Nonno di Panopoli (Dionisiache, I, 140; cfr. anche XVIII, 292), ricordando che vi fa sosta Cadmo alla ricerca di Europa rapita da Zeus; altre fonti riconoscevano nel luogo la presenza di due grotte, una più grande e bella, l’altra più cupa e sinistra (Pomponio Mela, I, 72-76: la sua ampia descrizione dell’antro costituisce una pagina dal carattere singolarmente «romantico», e gli aspetti inquietanti della grotta stessa vengono presentati come la principale ragione del fatto che le viscere della terra sono in questo luogo sostanzialmente inesplorate); i due ampi spazi sotterranei vengono indicati ancora oggi con i nomi di Cennet e Cehennem, il Cielo e l’Inferno. Nella sua furia, Tifone addirittura lacera le vette circostanti l’antro di Corico (Nonno, I, 258). Al mito di Tifone erano collegati i monti Arimi e il popolo che li abitava, per i quali v. ARIMI. Nella stessa zona si trovava anche «il bosco di Corico, dove nasce il croco» (Curzio Rufo, Anabasi di Alessandro, III, 5, 10); il fiore del croco cilicio era nato, secondo una tradizione, sotto i corpi di Era e Zeus uniti nell’amore: in quel momento «la Terra apre il suo seno dischiudendo i suoi profumi e circonda il loro talamo di fiori d’amore» (Nonno, XXXI, 86): il croco avvolge Zeus, lo smilace Era, in una stanza nuziale dalle pareti di nuvole e dalle splendide fioriture. E ancora, nella stessa località cilicia di Corico si trovava l’efestite, una gemma color rosso acceso che riflette le immagini come uno specchio e della cui originalità si può essere certi solo se, al suo contatto, l’acqua bollente si raffredda all’istante o se essa, esposta ai raggi solari, fa ardere della legna secca (Isidoro, Etimologie, XVI, xv, 15). Nei pressi, altro prodigio, «brucia notte e giorno una fiamma inestinguibile, che non si spegne mai; tutt’intorno prosperano delle palme che danno frutti in abbondanza, mentre le loro radici producono scintille con le pietre» (Quinto Smirneo, XI, 92-97).
Altre figure mitiche. In Cilicia sarebbe passato anche Dedalo, in fuga con le sue ali dall’isola di Creta (Isidoro, Etimologie, XIX, xix, 9; per i particolari del mito di Dedalo v. CRETA). Nativo di Soli, in Cilicia, era poi Tespesio, protagonista di un mito raccontato da Plutarco (De sera numinis vindicta, 563 B ss.) secondo il quale egli ebbe una visione completa del mondo dell’oltretomba (per i particolari v. ADE).
CILLA Località di incerta collocazione, citata come Kìlla in diversi contesti e variamente identificabile. Una Cilla è ricordata nell’Iliade (I, 38 e 452) come non lontana da Tebe; Erodoto (I, 149) ne menziona un’altra che si troverebbe in Eolia; Dicti cretese nel suo poema sulla guerra di Troia (II, 13) la ricorda come città distrutta da Achille. Una di queste molteplici Cilla (quale, è difficile dire) avrebbe determinato il culto di Apollo venerato con l’epiteto di Cilleo (Strabone, XIII, 1, 62). Una tradizione collegava una Cilla della Troade a un Cilla auriga di Pelope, l’eroe eponimo del Peloponneso (Pausania, V, 10, 7; Strabone, XIII, 613).
CILLENE, in gr. Kyllène. Montagna dell’Arcadia, la più alta dell’intero Peloponneso (m 2376), sacra a Ermes, al quale erano dedicati un tempio che sorgeva sulla vetta e alcune grotte che si aprivano sulle sue pendici e al cui interno l’archeologia ha rivelato la presenza di tracce di culto. Nell’Inno omerico a Ermes (IV, 2) il dio è definito «signore di Cillene» e si narra che esso nacque dagli amori della ninfa Maia con Zeus: ella «sfuggiva il consesso degli dèi beati, dimorando nell’antro ombroso, dove il Cronide era solito unirsi con la Ninfa dalle belle trecce nel buio della notte» (ibid., 5-7). Il dio neonato rivelò proprio nella grotta di Cillene la propria straordinaria precocità: «Nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la lira, e dopo il tramonto rubò le vacche ad Apollo arciere» (ibid., 17-18). Dopo il furto delle vacche, avvenuto nella regione della Pieria, il temerario, giovanissimo dio nottetempo ritorna furtivo nella grotta cillenia, «muovendo con passo leggero» (ibid., 349) per non essere sentito e per poter rientrare innocentemente nella sua culla nelle profondità sotterranee. Quando Apollo lo identifica come autore del furto, lo raggiunge proprio nella grotta, dove avviene un burrascoso incontro tra i due. La montagna di Cillene non è però soltanto testimone di quella precoce prodezza di Ermes: quando il piccolo dio ritorna nella grotta, infatti, trova davanti all’ingresso una tartaruga che bruca. «La svuotò, sul carapace tese delle corde ricavate dalle viscere delle vacche che aveva sacrificato e in questo modo inventò la lira» (Apollodoro, Biblioteca, III, 10, 2). L’impresa è ambientata da altre fonti su un diverso monte non lontano, il Chelidorea, identificato con l’attuale monte Oros: egli vi «trovò una tartaruga e, dopo aver strappato l’animale dal guscio, con questo fece una lira» (Pausania, VIII, 17, 5). L’etimologia mitica dell’oronimo lo spiegava infatti da chèlys, «tartaruga» e da un derivato di dèrein, «scorticare». Per l’importanza che Cillene ha nella storia di Ermes, il dio è spesso chiamato con l’epiteto di Cillenio o «signore di Cillene»: cfr. per esempio Alceo (5 RP., 2 D.). Cyllenius è chiamato Mercurio anche da Virgilio (Georgiche, I, 337), che ricorda come «la fulgida Maia sulla gelida cima del Cillene, dopo averlo concepito, lo partorì» (Eneide, VIII, 138-139). In una notazione di Servio a questo passo di Virgilio si legge che sul Cillene a Mercurio addormentato vennero amputate le mani dai due figli del re d’Arcadia Corico: essi avevano inventato l’arte della lotta, ma la loro sorella Palestra l’aveva rivelato a Mercurio, suo amante, che si era allora appropriato della novità vantandosi di averla scoperta prima di loro. La crudele vendetta dei figli di Corico nei confronti del dio non rimase senza punizione: Mercurio si lamentò dell’accaduto con Giove e il dio punì Corico nel modo più atroce, scorticandolo e facendo con la sua pelle un grande otre; l’arte della lotta, per una curiosa ingiustizia della sorte, venne poi in greco chiamata palestra, dal nome della giovinetta che aveva causato tutto quell’incrociarsi di vendette reciproche e sanguinose.
Il monte Cillene era legato anche ad altri personaggi del mito. Secondo una tradizione, il celebre indovino Tiresia qui vide due serpenti che si accoppiavano, e li ferì; da uomo che era, gli dèi lo trasformarono in donna, e tale rimase fino a quando spiò nuovamente gli amori dei serpenti e tornò alla sua natura maschile. Tiresia era cieco e la cosa era spiegata con le ragioni più varie: si diceva che fosse stato accecato dagli dèi perché rivelava agli uomini cose che essi volevano tenere segrete; oppure che la sua cecità fosse stata voluta dalla dea Atena, perché egli l’aveva vista nuda; poiché non era in grado di restituirgli la vista, la dea l’aveva ricompensato purificandogli le orecchie in modo che potesse sentire e comprendere il linguaggio degli uccelli e gli aveva donato un bastone di corniolo con il quale poteva camminare esattamente come quelli che ci vedono. Si diceva però anche che la cecità di Tiresia fosse stata provocata da Era, la quale, discutendo con Zeus se nei rapporti amorosi provasse più piacere l’uomo o la donna, interpellò Tiresia, che poteva parlare a ragion veduta, avendo sperimentato entrambe le condizioni; e alla sua risposta – che la somma del godimento era uguale a diciannove parti, di cui nove toccavano all’uomo e dieci alla donna – Era lo accecò, mentre Zeus gli donava l’arte della mantica, rendendolo il migliore di tutti gli indovini e concedendogli di vivere per sette generazioni (Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7; Igino, Favole, 75; v. anche IPPOCRENE).
Il toponimo «Cillene» indicava anche una città dell’Elide nella quale, come nella grotta arcade omonima, era venerato Ermes (Pausania, VI, 26, 5). Oltre che a Ermes, il Cillene era sacro al dio montano Pan: «Pan, Pan, mostrati a noi; vieni per mare, dalle falde nevose del Cillene, vieni, signore che guidi le danze degli dèi», invoca il coro dell’Aiace di Sofocle (694-698). Tra gli eroi arcadi legati al monte di Cillene spiccava poi Epito, figlio di Elato e padre di Piritoo: egli aveva la sua sepoltura presso la sacra montagna, sulle pendici del monte Sepia, dove era stato mortalmente morso da un serpente. Ancora ai piedi del Cillene, presso Feneo, si trovava una palude che Ercole, con giganteschi lavori di scavo e drenaggio, prosciugò (Catullo, LXVIII, 109-110). Ovidio cita il monte Cillene in relazione con il mito di Aretusa e Alfeo tra le località che Aretusa stessa oltrepassa per sfuggire alle insidie di Alfeo, innamorato di lei (per i particolari v. ALFEO; ARETUSA; SIRACUSA). Lo stesso poeta menziona inoltre la località elencando le tappe del viaggio di Medea sul suo cocchio trainato da draghi alati, di ritorno dall’aver cercato erbe per le sue pozioni magiche: in questo contesto accenna a un mito non altrimenti noto, secondo il quale proprio in quella zona un certo Menefrone – del quale nulla sappiamo, salvo che in greco il suo nome significa letteralmente «dalla mente furiosa, folle» – «come una bestia si sarebbe un giorno accoppiato con la madre» (Metamorfosi, VII, 386-387). E a proposito di erbe e pozioni magiche, sul Cillene e nei pressi del Feneo, secondo Plinio (Nat. Hist., XXV, 26), cresceva la prodigiosa erba moly, usata contro i peggiori avvelenamenti, scoperta da Mercurio e descritta già da Omero come antidoto ai sortilegi di Circe (Odissea, X, 302-306: «la radice era nera, al latte simile il fiore […] strapparla è difficile per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono»). Alcune fonti collocavano poi ai piedi del monte Cillene lo scenario del ratto di Persefone da parte di Aidoneo, il re dei morti.
Il nome del monte, secondo Pausania (VIII, 4, 6), derivava da quello di Cilleno (Kyllen), un discendente di Arcade, eroe eponimo dell’Arcadia: questo Cilleno o Kyllen era nato da Elato, che a sua volta era figlio di Arcade stesso e della ninfa Erato. Altre fonti indicano come eponima una ninfa Cillene, presentata talora come sposa di Pelasgo e madre dei Pelasgi, talora come nutrice di Ermes, talora come moglie, o madre, di Licaone.
CIMINO Nel Lazio settentrionale, nome di un monte, il più alto dei monti Cimini, che si eleva presso quello che oggi è chiamato lago di Vico (anticamente lacus Ciminus). È ricordato da Virgilio nell’Eneide tra i luoghi che si schierano con altri popoli indigeni contro Enea, appena sbarcato in Italia alla ricerca di una nuova patria dopo la caduta di Troia (VII, 697). Nel territorio intorno ai monti Cimini si riteneva che ci fossero località dove «oggetti conficcati nella terra non si estraggono più» (Plinio, Nat. Hist., II, 211).
CIMMERIA, in gr. Kimmerìe. Regione semimitica, situata in un luogo remoto e inaccessibile nel quale non compare mai il sole, dove vive la popolazione dei Cimmeri, storicamente considerati di probabile origine tracia e stanziati nelle terre a nord del Mar Nero, ma dei quali fin dagli albori della letteratura greca si impossessò la leggenda. La più antica descrizione che ci sia pervenuta della regione è quella di Omero, per il quale i Cimmeri si trovano «ai confini dell’Oceano dalla profonda corrente», e la loro terra e la loro città sono «di nebbia e nubi avvolti; mai su di loro il sole splendente guarda con i suoi raggi», ma «una terribile notte pesa sugli infelici mortali» (Odissea, XI, 14 ss). I caratteri della descrizione farebbero propendere per una collocazione dei Cimmeri o nell’estremo Occidente del mondo oppure in regioni settentrionali d’Europa che conoscano la notte artica: a favore di quest’ultima identificazione potrebbe aver agito il ricordo di un evento storico, l’invasione delle città greche dell’Egeo, avvenuta nel VII secolo a. C., a opera di popolazioni di origine iranica, giunte dalla Russia meridionale attraverso l’Asia Minore e note alle fonti proprio con il nome di Cimmeri. Poiché, d’altronde, Omero mette in relazione i Cimmeri e il mondo dell’oltretomba, dove si reca Ulisse, non si può neppure escludere che essi fossero da localizzare presso l’accesso al mondo infernale, a sua volta variamente situato, dagli estremi lidi occidentali del mondo ai dintorni di Cuma presso il lago AVERNO (v.). Secondo altre tradizioni poi essi vivevano sotto terra, cosa che adombrerebbe una loro relazione con l’attività estrattiva nelle miniere, soprattutto delle regioni settentrionali e occidentali dell’Europa.
Oltre che nell’Odissea, la Cimmeria è menzionata anche in opere di tipo storico e scientifico come la Naturalis Historia di Plinio (III, 61), in Strabone (VII, 2, 2 e 4, 5) e in Diodoro Siculo (V, 32, 4): quest’ultimo assimila i Cimmeri ai Cimbri. Callimaco ricorda che i Cimmeri, con il loro capo Ligdami, assediarono il santuario di Artemide a Efeso, e partendo da questo spunto storico ne approfitta per dare di quella popolazione una descrizione evocatrice: «Il prepotente Ligdami […] condusse un esercito fitto come sabbia di Cimmeri che mungono cavalle e hanno la dimora sullo stretto della giovenca Inachia», ossia sul Bosforo, attraversato da Io, figlia di Inaco (Callimaco, Inni, III, 252 ss.). Ma è soprattutto dallo storico greco Erodoto che ricaviamo maggiori informazioni, a metà tra storia e leggenda: «I Cimmeri, costretti dagli Sciti nomadi ad abbandonare le loro sedi, arrivarono in Asia e occuparono Sardi, tranne l’Acropoli» (I, 15). Quando gli Sciti li assalirono, la reazione dei Cimmeri fu singolare: «i Cimmeri, rendendosi conto che un grande esercito stava muovendo contro di loro, si consultarono sul da farsi […]: il popolo riteneva che era opportuno allontanarsi e che non bisognava arrischiarsi a combattere contro nemici così numerosi, mentre i re erano del parere di battersi fino in fondo contro gli invasori in difesa della loro terra […]. I sudditi allora decisero di andarsene senza combattere, abbandonando il paese agli invasori; i re invece scelsero di giacere morti sulla propria terra […]. Una volta presa questa risoluzione, i re si divisero in due gruppi di ugual numero e combatterono fra di loro: perirono tutti, gli uni per mano degli altri […]. Gli Sciti, quando arrivarono, occuparono una regione deserta» (ibid., IV, 11, 2-4).
Così consacrate dalla tradizione storica e letteraria, le caratteristiche ambientali ed etnografiche della terra dei Cimmeri diventano patrimonio comune della poesia successiva e inducono Ovidio a collocarvi la grotta abitata dal dio Sonno, una spelonca sotterranea dove non batte mai il sole (v. SONNO, CASA DEL); così come alle «oscure rupi dei Cimmeri, ai quali non appariva mai il giorno con la candida alba», fa riferimento il Panegirico di Messalla (vv. 64-65).
CIMOLIA, in gr. Kìmolos. Isola delle Cicladi, a nord di Melos, dalla quale proveniva un tipo di creta dalle proprietà detergenti ricordate seriamente da Plinio (Nat. Hist., XXXV, 195-198) e scherzosamente da Aristofane nelle Rane (v. 713). Alle caratteristiche della sua argilla fa riferimento Ovidio con l’appellativo di «isola argillosa» (cretosa rura Cimoli) ricordandola come uno dei regni dei quali Minosse si vuole assicurare l’appoggio per scendere in guerra contro Atene dopo che suo figlio Androgeo proprio ad Atene ha trovato la morte (Metamorfosi, VII, 463).
CINETA, in gr. Knaitha. Città dell’Arcadia settentrionale identificata con l’odierna Kalavryta, situata su un altopiano dominato dal monte Chelmos, l’antico Aroani. Nei pressi sgorgava una sorgente prodigiosa, la fonte Alisso, che si diceva avesse la facoltà di guarire diverse malattie e soprattutto la rabbia (in greco lyssa; Pausania, VIII, 19, 3). La presenza, nella stessa zona, dell’acqua dello STIGE (v.), ritenuta velenosa, era quindi equilibrata dalle capacità curative di queste acque.
CINEZIO, in gr. Kynaithèus. Promontorio della Laconia, in Grecia, che deriva il suo nome, secondo il mito, da un compagno di Enea, Cineto, che morì in quella località e vi fu sepolto quando Enea e i suoi vi fecero tappa nel corso delle loro peregrinazioni per il Mediterraneo successive alla guerra di Troia (Dionigi di Alicarnasso, I, 50, 2).
CINIFO, in gr. Kìnyps, -ypos o -yphos. Fiume africano che percorre le regioni più fertili della Libia presso il confine con il Paese delle Esperidi. Menzionato da Erodoto (IV, 198), è ricordato nel mito come luogo dove venne sepolto Mopso, l’indovino, uno degli eroi che avevano preso parte alla spedizione degli Argonauti: sulla costa tra la foce del fiume Cinifo e la città di Ausigda la sua tomba venne ornata da un legno infranto della nave Argo. Nello stesso luogo la maga Medea offrì a Tritone, divinità marina, un cratere d’oro, in segno di riconoscenza per l’aiuto fornito dal dio nel tener salda la rotta della nave (Licofrone, Alessandra, 885 ss.). Secondo il vaticinio di Tritone, se i Libici avessero consegnato quel dono a un Greco questi avrebbero dominato la regione; per questo i Libici, sentito il presagio, per scongiurare il pericolo di cadere sotto il dominio greco nascosero il prezioso e pericoloso oggetto sotto terra (con qualche variante il mito era ricordato anche da Erodoto, IV, 179).
CINOCEFALE, in gr. Kynòs kephalài. Città della Tessaglia dove, secondo la tradizione, erano passate le Amazzoni durante la loro spedizione contro Atene che le vide contrapposte al grande eroe attico Teseo. Alle Amazzoni cadute sul posto erano erette delle tombe nelle vicinanze di Scotussa e di Cinocefale che venivano ancora mostrate ai tempi di Plutarco (Teseo, 28, 9).
CINOCEFALI, REGNO DEI Popolo mitico di uomini a testa di cane (tale è, in greco, il significato del nome) che si riteneva abitassero in regioni remote dell’Oriente, per lo più in India (FGrH 688 F 45); alcune tradizioni li collocavano anche in Libia (Erodoto, IV, 191) o in Etiopia (Strabone, XVI, 4, 16; Eschilo, fr. 603 ab Mette). Essi appaiono già nel Catalogo delle donne di Esiodo (III-IV, 71), dove sono definiti «Cinocefali animosi». Aulo Gellio, nelle Notti Attiche, conferma la loro collocazione in India e li ricorda come «uomini con la testa di cane, che latrano e si cibano cacciando uccelli e fiere» (IX, 4, 9). Molto sinteticamente, Isidoro di Siviglia scrive di essi che «hanno tale nome in quanto aventi testa canina e perché il loro stesso latrare li manifesta più animali che uomini: nascono in India» (Etimologie, XI, iii, 15). Molti dettagli sulle loro stupefacenti usanze si leggevano nel trattato sull’India di Ctesia di Cnido, dove le loro abitudini igieniche vengono descritte minuziosamente: le donne si lavano soltanto una volta al mese, facendo il bagno; gli uomini invece non lo fanno mai, ma si lavano le mani e per tre volte al mese si ungono il corpo con un grasso ricavato dal latte. La loro coda è folta e morbida. Da questo nome deriva quello che la scienza dà ad alcune grosse scimmie come babbuini e mandrilli; e non è escluso che il mito avesse elaborato le sue tradizioni a proposito dei Cinocefali proprio basandosi su quanto si favoleggiava delle scimmie.
CINOSARGE Località attica della valle dell’Ilisso, ad Atene, nota soprattutto per il suo ginnasio. Secondo una tradizione leggendaria il toponimo (da kon, kynòs e argès, «cagna bianca») derivava da un singolare episodio legato al culto di Eracle: mentre un eroe locale, Diomos, stava sacrificando in onore di Eracle divinizzato, un cane dal mantello candido gli si avvicinò e gli sottrasse la carne del sacrificio. Sul luogo dove si produsse l’evento l’oracolo suggerì a Diomos di erigere un altare e un santuario in onore di Eracle, forse da identificare con quello situato nel demo di Diomea che proprio da Diomos prendeva il nome (Aristofane, Rane, 651; Pausania, I, 19, 3).
CINOSURIDE Città della Laconia. Da essa, secondo la mitologia, provenivano «sette cagne […] più veloci del vento, rapidissime i cerbiatti a rincorrere, e la lepre che non chiude mai gli occhi, e a segnalare dove ha il giaciglio il cervo e i covi l’istrice, e a guidare sulle orme del capriolo» (Callimaco, Inni, III, 94-97): sono cani da caccia che vengono offerti dal dio Pan alla dea della caccia, Artemide. Il riferimento ai cani è esplicito nel toponimo (kynosourìs, -ìdos indica il cane da caccia).
CINTO o CINZIO, in gr. Knthos. Colle che si erge nell’isola di Delo a circa centodieci metri sul livello del mare. È definito «grande monte» nell’Inno omerico ad Apollo (III, 17), probabilmente più per la sua fama – in quanto nei suoi pressi la dea Latona o Leto diede alla luce Apollo e Artemide – che non per le sue dimensioni. Sui suoi pendii impervi Apollo si aggirava con il suo arco d’argento (ibid., 140). Quando Enea, durante il suo viaggio alla ricerca di una nuova patria dopo la caduta di Troia, fa sosta all’isola di Delo e interpella il dio Apollo nel suo santuario, ne ottiene in risposta un’esortazione a cercare la terra dei suoi avi (anticam exquirite matrem) e una serie di segni prodigiosi, tra i quali un sommovimento del monte Cinto (Virgilio, Eneide, III, 91-92). Una suggestiva immagine di Apollo che sale sulle vette del Cinto, intrecciando foglie e corone d’oro sui capelli e facendo tintinnare la faretra delle frecce sulle spalle, è offerta ancora da Virgilio poco oltre, nel IV libro (vv. 147-149). Nelle Metamorfosi di Ovidio il Cinto è menzionato tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). V. anche DELO.
CIPRO, in gr. Kpros. Isola del mar Egeo chiamata anche Ofiusa («ricca di serpenti»: cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 229). Le diverse tappe della sua colonizzazione a opera di cinque diversi eroi greci (Teucro, Agapenore, Acamante, Cefeo, Prassandro) sono rievocate da Licofrone nell’Alessandra (447), dove l’isola è chiamata Sfecia, dal nome dei suoi antichi abitanti, e Cerastia, con riferimento o agli abitanti stessi, che secondo gli scoliasti avevano le corna, oppure alle corna in senso figurato, cioè ai numerosi promontori dell’isola.
La maggior fama derivava però all’isola soprattutto dal culto di Afrodite, chiamata spesso con l’appellativo di Cipride o Ciprigna o Ciprogenia («dea di Cipro» la definisce l’Inno omerico ad Afrodite, V, 2; «che ha in suo dominio le mura di tutta Cipro» dice l’altro Inno omerico ad Afrodite, VI, 2; «la generata a Cipro» la chiama Saffo, 36 RP., 36, 3-8 D; Luciano di Samosata, nella parodia di tragedia La gotta, 80 [69], 87-88, celebra «Afrodite, di Cipro la dea, uscita da un cielo di gocce»; ancora ai tempi di Nonno di Panopoli, Dionisiache, VI, 82 Afrodite è «Ciprogenia», o, in VI, 238 e passim, «Cipria»). La tradizione narrata da Esiodo raccontava che Afrodite era nata dalla spuma del mare proprio in prossimità di Cipro, dove Crono, figlio di Urano e Gea, aveva gettato nelle acque i genitali del padre che egli aveva evirato con un falcetto di diamante. Dalla spuma che sorgeva dalla carne divina prese forma una bellissima fanciulla, la dea Afrodite, così chiamata «per il fatto che nella spuma era stata allevata» (Teogonia, 197; il nome era posto tradizionalmente in relazione con , che significava appunto «spuma»).
Il santuario di Pafo. Il legame indissolubile fra Afrodite e l’isola era sottolineato dalla presenza di diversi santuari in onore della dea. Nella località di Pafo, nella zona sudoccidentale dell’isola, presso l’odierno villaggio di Kouklia, si trovava il principale, quello che secondo Erodoto (I, 105, 3) era «il più antico di tutti i santuari che appartengono a questa dea». Qui, secondo il mito raccontato nell’Inno omerico V a lei dedicato, «le Grazie la detersero, e la unsero con l’unguento soprannaturale che cosparge gli dèi che vivono in eterno, divino, dolce, che era stato profumato per lei. E dopo aver bene indossato tutte le sue belle vesti, adornatasi d’oro, Afrodite che ama il sorriso si affrettò verso Troia, lasciando il giardino fragrante» (vv. 61-66). In questo santuario Afrodite trovò rifugio, secondo Omero, dopo che fu scoperto il suo amore segreto per Ares: la dea, infatti, secondo questa versione del mito era la sposa di Efesto, il dio del fuoco (il più grande artefice ma anche il più fisicamente sgraziato di tutti gli dèi), ma nonostante avesse uno sposo non esitò a unirsi ad Ares, che era a sua volta innamorato di lei. Venuto a sapere della tresca, Efesto finse di assentarsi dalla propria casa, sistemando però sopra il talamo un’invisibile trappola forgiata nella sua prodigiosa officina e costituita di catene invisibili: non appena Afrodite e Ares si sdraiarono l’una accanto all’altro, le catene li avvolsero impedendo loro il minimo movimento. Tutti gli dèi furono chiamati a cogliere in flagrante i due adulteri, e nel vederli così incatenati scoppiarono in una risata fragorosa; Efesto ebbe perciò la sua vendetta. Quando il dio tradito sciolse le catene, Afrodite raggiunse «Cipro, in Pafo, dove ha un santuario e un altare fragrante d’incenso; e lì le Cariti la lavarono e la spalmarono d’olio divino, come se ne ungono gli dèi che vivono in eterno, e la vestirono di vesti seducenti, meraviglia per l’occhio» (Odissea, VIII, 363-366: è evidente la somiglianza di questi versi con quelli, più tardi, dell’Inno omerico riportato sopra).
Mentre la città di Pafo era stata fondata, secondo una tradizione, da Eo, figlio di Tifone (Isidoro, Etimologie, XV, i, 48), del santuario si diceva che fosse stato eretto da Agapenore, eroe di Tegea che aveva capeggiato l’esercito degli Arcadi nella guerra di Troia (Pausania, VIII, 5, 2); prima della costruzione di quel santuario il principale e più antico luogo di culto di Afrodite era nella località chiamata Golgi, che derivava il suo nome da un eroe, Golgo, figlio della stessa Afrodite e di Adone. Altre tradizioni raccontavano che il mitico fondatore del santuario di Pafo fosse stato Cinira, ritenuto da alcuni figlio di Apollo e spesso considerato di origine assira nonché padre di un ragguardevole numero di figlie che, per una ragione o per l’altra, non mancarono di entrare in conflitto con la stessa Afrodite. Cinira era padre di Mirra, protagonista con lui di una cupa storia di amore incestuoso variamente riferita dalle fonti: secondo una versione, poiché la madre di Mirra aveva osato vantare la bellezza della figlia definendola addirittura superiore a quella di Afrodite, la dea si vendicò suscitando nella fanciulla un insano amore per il proprio stesso padre: una notte, complice l’ubriachezza di quest’ultimo, Mirra riuscì a unirsi a lui e rimase incinta. Quando Cinira, ripresosi, lo seppe, la inseguì con la spada sguainata per ucciderla, ma Afrodite la trasformò nell’albero della mirra, e sul suo tronco andò a colpire il fendente regale. Dal tronco di Mirra nacque Adone, destinato a diventare a sua volta amante di Afrodite: la dea non esita a lasciare i luoghi a lei più cari, tra i quali appunto Pafo, pur di raggiungerlo nelle terre d’Arabia fino a che egli sarà poi ucciso da un cinghiale scatenatogli contro dal gelosissimo amante divino di Afrodite, Ares (Ovidio, Metamorfosi, X, 298 ss.); ovvero, secondo altre versioni, ancora giovinetto, il bellissimo Adone incorrerà nelle ire di Artemide, la quale lo farà ferire a morte da un cinghiale durante una battuta di caccia (Apollodoro, Biblioteca, III, 14, 4). Una diversa versione, forse la più nota del mito, che esclude dai protagonisti Cinira, diceva che Adone fosse nato dall’unione incestuosa tra Smirna e suo padre Teia, re degli Assiri (cfr. Antonino Liberale, Metamorfosi, XXXIV). Smirna, in questa versione, era incorsa nelle ire di Afrodite perché non la onorava degnamente; la dea allora suscitò in lei un amore insaziabile verso il padre, che per dodici notti andò a letto con lei, con la complicità della nutrice, ignorandone l’identità. Quando se ne accorse, il re, furioso, inseguì la figlia a spada sguainata, e stava per colpirla quando Smirna implorò gli dèi, che ne ebbero pietà e la trasformarono nell’albero che viene chiamato mirra. Dopo nove mesi, dal tronco dell’albero nacque il bellissimo Adone, che fu poi affidato da Afrodite alle cure della dea degli Inferi, Persefone.
A prescindere dalla storia di Adone, le origini mitiche del santuario di Venere a Pafo incuriosirono anche Tacito, che ne racconta la fondazione negli Annali (II, 3, 1): «è tradizione antica che il fondatore del tempio sia stato il re Aeria; alcuni dicono invece che questo sia il nome della dea. Secondo una leggenda più recente il tempio fu consacrato da Cinira nel luogo ove toccò terra la dea stessa, concepita dal mare» (la stessa notizia si legge in Ovidio, Metamorfosi, VI, 98). Tacito aggiunge che al suo interno la dea non era venerata in forma umana, ma che la sua statua aveva l’aspetto di «una spirale ininterrotta, che da una base più larga s’innalza a cono fino a un giro strettissimo», e deve ammettere che «non se ne conosce la ragione». Quanto al già ricordato Cinira, primo re di Cipro, probabilmente lo stesso che, figlio di Agriopa, inventò le tegole e scoprì le miniere di rame (Plinio, Nat. Hist., VII, 195), aveva trasmesso ai suoi discendenti, i Ciniradi, il ruolo di sacerdoti di Afrodite a Pafo. Di lui si narrava che quando scoppiò la guerra di Troia, Menelao si recò a trovarlo a Cipro per chiedergli di partecipare alla spedizione. Il re diede a Menelao una corazza d’oro in dono per Agamennone, che non era presente, e giurò che avrebbe armato e inviato cinquanta navi; invece «ne mandò una sola, le altre le fabbricò con della terra e poi le mise in mare», con esiti facilmente immaginabili (Apollodoro, Epitome, III, 9).
La popolarità del santuario di Pafo continua immutata in tutta la poesia romana. Nella descrizione di Virgilio, Venere «a Pafo per l’aria s’invola e i suoi santuari lieta rivede, ove nel tempio a lei dedicato cento are riscalda l’incenso sabeo e di fresche ghirlande esala il profumo» (Eneide, I, 415-417). Ai «mirti di Pafo» allude ancora Virgilio nelle Georgiche (II, 64): il mirto era tradizionalmente pianta sacra ad Afrodite. E proprio a Pafo Venere vorrebbe che il giovane Ascanio trovasse rifugio, sfuggendo alle guerre che si combattono sul suolo d’Italia da quando Enea e i Troiani vi sono sbarcati alla ricerca di una nuova terra nella quale insediarsi dopo la caduta di Troia (Eneide, X, 51). Lucano ribadisce che il santuario di Pafo era il preferito della dea: «il tempio preferito della dea memore dell’onda di Pafo», si legge nella Guerra civile (VIII, 457-458). E Plinio attribuiva al tempio una curiosa caratteristica: riteneva che su un determinato perimetro del santuario non cadesse mai la pioggia (Nat. Hist., II, 210). Collegato al santuario di Pafo era poi il mito di Pigmalione, l’abilissimo artista che aveva scolpito nell’avorio la statua di una donna di straordinaria bellezza e se ne era innamorato, al punto da trattarla come una sposa vera e da chiedere a Venere di concedergli come compagna una donna in tutto e per tutto simile a quella che lui stesso aveva realizzato con la sua arte. Venere accoglie la sua preghiera e con somma sorpresa e infinita felicità Pigmalione si accorge che ai suoi baci e alle sue carezze la sua statua risponde non con la freddezza inanimata dell’avorio, ma con il tepore e la morbidezza della carne vera: la sua statua è davvero diventata una donna in carne e ossa. «La dea Venere assiste alle nozze che ha reso possibili» (Ovidio, Metamorfosi, X, 295); e dall’unione di Pigmalione con la sua statua nascerà Pafo, dal quale deriva il nome con cui era chiamata la città e, per estensione, l’isola stessa.
Salamina e i suoi miti. Un altro santuario dedicato ad Afrodite si trovava nella località cipriota di Salamina (Inno omerico ad Afrodite, X). Quest’ultima città venne fondata, secondo la tradizione, da Teucro, figlio di Telamone e fratello di Aiace Telamonio, uno degli eroi della guerra di Troia: come egli racconta nell’Elena di Euripide, si è recato in Egitto, presso la profetessa Teonoe, per avere un vaticinio che dica a quale vento dovrà affidarsi per raggiungere Cipro, dal momento che l’oracolo di Apollo gli ha predetto che lì dovrà vivere e fondare una città alla quale darà il nome della sua patria, Salamina. Nell’Eneide, riallacciandosi a questa tradizione, Virgilio immagina che Teucro possa fondare Salamina di Cipro grazie all’aiuto di Belo, padre di Didone, che aveva da poco conquistato l’isola (I, 619-622); e Orazio fa dichiarare allo stesso Teucro, in navigazione con i suoi compagni: «Mai non si deve disperare sotto la guida di Teucro e con gli auspici di Teucro; poiché Apollo che non inganna ha promesso che in una nuova terra sorgerà un’altra Salamina pari all’antica» (Odi, I, VII, 27-29). Una tradizione raccontava che Teucro, tornato nella città di Salamina, sua patria, dopo la guerra di Troia, ne fu scacciato dal padre Telamone, irato con lui perché non aveva riportato in patria le ossa del fratello Aiace Telamonio, che si era ucciso per l’affronto subìto quando le armi del morto Achille erano state assegnate a Ulisse anziché a lui: per questo Teucro, lasciata la sua patria, fondò una città nuova, a Cipro, che aveva lo stesso nome dell’antica (Velleio Patercolo, 1). Successivamente, secondo altre tradizioni, Teucro si sarebbe trasferito in Galizia, regione i cui abitanti si ritenevano di origini greche (Isidoro, Etimologie, IX, ii, 111).
Tra i discendenti di Teucro collegati nel mito alla città di Salamina Ovidio menziona Anassarete, giovane nobile e bella della quale si innamorò perdutamente Ifi, un giovanotto a sua volta bello e nobile d’animo, ma di condizione molto umile; respinto dall’aristocratica Anassarete, si impiccò. La fanciulla dimostrò totale insensibilità davanti a quella morte avvenuta per causa sua, e mentre, dalla finestra di casa, assisteva al funerale dell’infelice giovane con l’indifferenza con la quale si assiste a uno spettacolo, Venere, dea dell’amore, la mutò in una statua di pietra, così come di pietra era il suo cuore. A Salamina si mostrava la statua che la riproduceva e sorgeva un tempio eretto in onore di Venere in quella circostanza mitica (Metamorfosi, XIV, 698-761). La stessa storia era raccontata da Antonino Liberale (Metamorfosi, XXXIX) mutando i nomi dei protagonisti, che per lui si chiamano Arceofonte e Arsinoe.
Il santuario dell’Idalio. Tra le località cipriote dove la dea dell’amore era particolarmente venerata si ricorda l’Idalio, regione montuosa nella quale sorge una città di nome Idalia, che funge da scenario per un episodio chiave dell’Eneide virgiliana (I, 681 ss.): per assicurare a Enea il buon esito del viaggio da Troia distrutta verso l’Italia, dove diventerà capostipite di nuovi regni e nuove genti, Venere desidera instillare l’amore per Enea nel cuore di Didone, la regina di Cartagine presso la quale l’eroe è approdato. Perché la scintilla amorosa scocchi, la dea fa assumere a Cupido, dio dell’amore, le sembianze di Ascanio, il figlioletto di Enea; così Cupido, accolto con Enea alla corte di Didone, potrà compiere la sua opera. Nel frattempo, «Venere ad Ascanio placido tra le membra un riposo istilla e nel tepore del suo grembo divina lo innalza agli alti boschi d’Idalia, ove la soffice maggiorana lui, sui fiori e in dolce ombra, esalando profumo, avvolge». A Idalia vorrebbe poi che Ascanio rimanesse per sempre, al sicuro dalle guerre scoppiate tra Enea e i popoli locali (ibid., X, 52).
All’Idalio come cuore del culto di Venere fa riferimento anche Catullo (XXXVI; LXI); e ancora con riferimento a Venere Stazio parla dei «chiari uccelli d’Idalia», le colombe sacre alla dea (Tebaide, XII, 16). «Signora che ami Golgi e Idalio», è invocata Afrodite nei Carmi bucolici di Teocrito (XV, 100, con un’apostrofe ripresa da Catullo, XXXVI). Il monte Idalio è teatro secondo una versione del mito dell’incidente toccato al già menzionato Adone, il bellissimo giovane figlio di Cinira, amato da Venere e ferito da un cinghiale durante una caccia sulle pendici selvose del monte, dove trovò poi la morte: «Un feroce cinghiale uccise sul monte Idalio, mentre andava a caccia, il niveo Adone: si dice che il bel giovinetto giacesse in quelle paludi, e tu ti recassi colà, o Venere, con le chiome sparse» in segno di lutto (Properzio, II, 13, 53-56; v. sopra per il mito di Adone).
Altri luoghi, altri miti. Tra le città cipriote che vantavano origini illustri si ricordava Soli, anticamente chiamata Epea: era «una città non grande, fondata da Demofonte, figlio di Teseo, situata nei pressi del fiume Clario, in una zona ben munita, ma per altro scomoda e povera». In questa città regnava Filocipro, un sovrano che ospitò Solone durante la sua sosta sull’isola; il grande sapiente ateniese «lo persuase a trasferire la città su di una bella pianura sottostante e a renderla più attraente e più grande»; lo stesso Solone partecipò attivamente alla nuova fondazione, e Filocipro «ripagò Solone con l’onore di chiamare Soli, dal suo nome, la città, che prima si chiamava Epea» (Plutarco, Solone, 26, 2-3).
Una pianura «che è la parte più bella dell’isola di Cipro» viene ricordata da Ovidio nelle Metamorfosi (X, 644 ss.) con il nome di Tamaso: qui, in questa campagna fertilissima che fa parte dei possedimenti di Venere, cresceva nei tempi del mito una splendida pianta «dalla fulva chioma e dai rami crepitanti d’oro», che produceva pomi dorati. Di tre di questi pomi Venere fa dono a Ippomene, un giovane aitante e coraggioso innamorato della bellissima Atalanta, la quale però ha promesso la propria mano soltanto a chi saprà batterla nella corsa: tutti coloro che la sfideranno e che saranno battuti dovranno morire. Gli splendidi pomi dono di Venere sono destinati a rivelarsi determinanti nell’esito della gara. Quando infatti Ippomene è in difficoltà, perché Atalanta corre più veloce di lui (per quanto le dispiaccia batterlo, dal momento che anche lei si è innamorata), i pomi cambiano le sorti della gara. Ippomene li lascia cadere uno alla volta: per raccoglierli, affascinata dal loro splendore, Atalanta perde tempo prezioso e viene battuta, sia pure con l’inganno, dal suo sfidante. La storia avrà però un finale drammatico: dimentico di ringraziare Venere dell’aiuto che gli ha fornito, Ippomene ne suscita le ire, e la dea fa in modo che i due giovani si uniscano in un luogo sacro, il santuario di Cibele, compiendo un orribile sacrilegio che la stessa Grande Madre, appunto Cibele, punisce trasformandoli in due belve feroci (v. anche ONCHESTO).
Nell’isola erano nati, secondo una tradizione, i Centauri, spuntati dalla terra quando Afrodite –- in questa versione del mito figlia di Zeus – scappava dalle mire del padre che si era innamorato di lei: il dio, incapace di raggiungerla nella sua rapidissima fuga, inseminò la terra, dalla quale nacque «una stirpe stranamente cornuta» (Nonno di Panopoli, XIV, 193-202). Nelle Dionisiache, poi, dove vengono descritte le armate che si schierano sotto il comando di Dioniso per la sua spedizione in Asia, è citato anche l’esercito messo a disposizione del dio da Cipro (ibid., XIII, 432-463); nonostante questo, in quanto isola della dea dell’amore, che per definizione non è armata, Cipro viene definita «terra pacifica» (ibid., XXIV, 237).
A Cipro erano collegati molti altri personaggi di primo piano della mitologia. Sull’isola Ulisse racconta di essere stato trattenuto come prigioniero da Dmetore figlio di Iaso, dopo che in Egitto era stato fatto prigioniero dagli indigeni; per il racconto v. EGITTO (Odissea, XVII, 424-444). «Voglio andare a Cipro, isola di Afrodite, dove regnano gli Amori, ammaliatori degli uomini» canta il coro delle Baccanti di Euripide (402-403). Per la relazione di Cipro con il mito di Arianna e Teseo v. CRETA. Quanto alla fama secondo la quale esisteva uno stretto intreccio fra Cipro e le origini della prostituzione, in un frammento del poeta latino arcaico Ennio si legge che Venere, a cui si deve l’invenzione del mestiere di meretrice, «spinse a Cipro le donne a fare comunemente commercio del proprio corpo». Il motivo è singolare: «le indusse a ciò perché non sembrasse lei sola, fra le altre donne, impudica e desiderosa del maschio» (il passo si legge in Lattanzio, Div. Inst., I, 17, 10).
Per altre leggende v. anche CIZIO.