E

EANTE, in gr. Aìas, in lat. Aeas, -antis. Fiume dell’Epiro. Nelle Metamorfosi di Ovidio è ricordato, personificato, tra i fiumi che si recano a consolare Peneo, il dio fluviale padre di Dafne, per la sorte toccata alla figlia, amata da Apollo ma trasformata in alloro per non cedere al suo amore (I, 580; v. PENEO).

EBRO, in gr. Hèbros, in lat. Hebrus. Fiume della Tracia, oggi chiamato Maritza. La mitologia lo ricorda in relazione alle fatiche di Eracle, che per compiere le sue imprese «al di là delle rive d’argento dell’Ebro dovette andare» (Euripide, Eracle, 385-388). La Tracia aveva ricchi giacimenti d’argento, cosa che giustifica la descrizione delle acque dell’Ebro come argentifere. Il fiume, popolato di cigni, era prediletto da Apollo, che con questi uccelli aveva un particolare legame, come ricorda Bacchilide nel Ditirambo XVI (vv. 5-7) e come ribadisce Aristofane: «Così i cigni, tio tio tio tio, mescolando il loro grido allo strepito delle ali, celebrano Apollo, tio tio tio tinx, posati sulla riva del fiume Ebro» (Uccelli, 769-774). Ai «geli dell’Ebro» accenna Virgilio nelle Bucoliche (X, 65). In Virgilio l’Ebro è menzionato fra i luoghi che risuonano dei pianti di Orfeo, e che ne condividono le lacrime dopo la morte di Euridice, punta da una serpe mentre cercava di sfuggire alle attenzioni del pastore Aristeo (Georgiche, IV, 463; v. TEMPE per altri particolari). Le «rapide dell’Ebro» sono ricordate poi dallo stesso Virgilio (Eneide, I, 317) in relazione con l’eroina Arpalice, figlia di un principe della Tracia, famosa per il suo coraggio e per la rapidità nella corsa, che la rendeva capace di superare anche le correnti più veloci dei fiumi del suo paese. Sul «gelido Ebro gronda di sangue Marte», il dio della guerra, quando i Latini e i Troiani si fronteggiano in guerra dopo che Enea ha posto piede in Italia con i suoi compagni (ibid., XII, 331-332). Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Ebro è menzionato tra i fiumi le cui rive e addirittura le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari); e ancora Ovidio, raccontando a sua volta il mito di Orfeo, assegna all’Ebro un ruolo importante nel raccogliere le spoglie del cantore ucciso dalle Baccanti invasate: «capo e lira li accogliesti tu, Ebro; è un prodigio; mentre fluttuano in mezzo alla corrente, la lira, non so come, flebile si lamenta, la lingua esanime mormora un flebile gemito e flebili rispondono le rive» (XI, 50-53; per la morte di Orfeo v. anche CICONI, PAESE DEI). Di ritorno dall’Ebro in compagnia dei Satiri il dio Bacco avrebbe scoperto il miele (Ovidio, Fasti, III, 737; v. RODOPE per i particolari del mito). Secondo una tradizione di cui riferisce Plinio, «un legno buttato in acqua» nell’Ebro «si ricopre di una corteccia pietrosa» (Nat. Hist., II, 226).

Un diverso fiume Ebro, che ha ancora oggi questo nome, scorre in Spagna e fu teatro di un evento prodigioso che ebbe per protagonista Annibale. Egli, oltrepassata Onussa (città a nord di Cartagena, forse corrispondente a Valentia) e giunto alle rive del fiume, ebbe nel sonno una visione: gli apparve un giovane dall’aspetto di un dio, il quale sosteneva di essere stato inviato da Giove per condurlo in Italia e gli raccomandava di seguirlo senza mai distogliere lo sguardo da lui e senza mai voltarsi indietro. Nel sogno, Annibale dapprima lo seguì diligentemente senza girarsi, ma poi, incapace di dominare la curiosità, si voltò: gli apparve allora «un serpente di straordinaria grandezza» che si avventava, abbattendoli, su alberi e arbusti, devastandoli; subito dopo, si scatenò uno spaventoso uragano. Sempre nel sonno, gli venne spiegato che quel prodigio significava la devastazione dell’Italia: «continuasse ad andare avanti e non cercasse di saperne di più, e lasciasse che i fati restassero segreti» (Livio, XXI, 22, 5-9; cfr. anche Cicerone, De divinatione, I, 24, 49; Silio Italico, Pun., III, 163-216; Valerio Massimo, I, 7, ext. 1).

ECALIA, in gr. Oichalìe. Nome di diverse città della Grecia, situate nell’isola di Eubea, in Tessaglia, in Tracia, in Messenia e in Beozia. Non sempre è possibile individuare quale di esse è menzionata nei racconti della mitologia, e talora i testi antichi sono in contraddizione tra loro; quasi tutte pretendevano di essere state la patria di diversi eventi mitici. Una di queste, collocata da alcune fonti nell’isola di Eubea, da altre in Tessaglia o in Tracia, è ricordata nell’Iliade tra quelle che parteciparono alla guerra di Troia. Nel Catalogo delle navi dell’Iliade si dice che le sue truppe erano capeggiate da Podalirio e Macaone, figli del dio della medicina Asclepio e medici a loro volta. Ecalia è definita da Omero «città di Eurito» (II, 730) ed è legata nella mitologia alla sfida tra Eurito ed Eracle. Eurito, re di Ecalia e padre di Iole e di Ifito, aveva promesso la mano della propria figlia Iole a chi avesse saputo batterlo nel tiro con l’arco. Eracle lo sfidò e lo vinse, ma Eurito si rifiutò di mantenere la promessa ed Eracle, allora, saccheggiò Ecalia. La città venne distrutta e i figli di Eurito e di Antiope, che si chiamavano Tosseo, Clizio e Molione, vennero uccisi dall’eroe. La vicenda era oggetto di due opere antiche andate perdute, La presa di Ecalia attribuita a Creofilo di Samo e l’Eraclea di Paniassi; era inoltre ricordata da Sofocle nelle Trachinie (260 ss., 476 ss.) e da Euripide nell’Ippolito (545 ss.) e nell’Eracle (472-473), oltre che riassunta nel IV libro della Biblioteca storica di Diodoro Siculo, nel II della Biblioteca di Apollodoro e nelle Favole (35) di Igino. Si narrava anche che per aver ucciso Ifito Eracle fosse stato condannato a servire come schiavo alla corte della regina orientale Onfale; e che per questo motivo, furioso per l’umiliazione subìta, Eracle avesse distrutto Ecalia e rapito Iole facendone la propria concubina (Sofocle, Trachinie, 68-75, 254 ss.). Alle «rovine di Ecalia» saccheggiata e distrutta da Eracle allude anche Seneca nella tragedia Ercole sull’Eta (127): essa, «la famosa Ecalia», è caduta: «un solo sole e un solo giorno l’ha vista prima in piedi e poi caduta e la passione d’amore è stata la causa della guerra» (ibid., vv. 422-424). Plutarco raccontava che «Eracle, non essendo riuscito a sposare Iole, saccheggiò Ecalia. Iole si gettò dai bastioni; ma accadde che il vento gonfiò i suoi abiti e che, cadendo, essa non si fece alcun male»: il primo paracadute della storia. Un caso analogo capitò a una fanciulla di nome Clusia, figlia di un re etrusco (forse, dato il nome della ragazza, il re di Chiusi), che fece innamorare di sé il condottiero romano Valerio Torquato; questi ne chiese la mano, ma, non avendola ottenuta, si diede a saccheggiare la città, mentre la ragazza si gettava dalle mura e si salvava per lo stesso motivo che aveva salvato Iole (Parall., 308 F-309 A).

Nelle Favole di Igino (29) si legge invece che a Ecalia andò a combattere Anfitrione, lo sposo di Alcmena (anche se secondo la maggior parte delle altre fonti era invece andato in guerra contro i Teleboi), e proprio durante la sua assenza Giove, assumendone le sembianze, raggiunse nel talamo Alcmena, ignara, raccontandole le proprie prodezze in battaglia: dalla loro unione sarebbe nato Eracle.

A una Ecalia che potrebbe essere la stessa citata sopra, oppure un’altra, fa riferimento Apollonio Rodio quando, nell’elencare gli eroi che parteciparono alla spedizione degli Argonauti capeggiata da Giasone alla ricerca del vello d’oro nella favolosa Colchide, ricorda «Clizio e Ifito, signori di Ecalia» (I, 86; cfr. Igino, Favole, 14): essi erano figli di Eurito, in questa versione del mito un famoso arciere che aveva insegnato a Eracle a tirare con l’arco e che aveva ricevuto in dono da Apollo un arco invincibile, ma che aveva osato con quell’arma divina rivoltarsi contro lo stesso dio, venendone punito (Apollodoro, Biblioteca, II, 4, 11; Odissea, VIII, 224-228). Di una Ecalia era originario, tra i partecipanti alla spedizione argonautica, anche Mopso, famoso indovino, e forse pure Ila, il giovane efebo compagno di Eracle (Igino, Favole, 14). Di Ecalia era poi detta Driope, una ninfa che, nel racconto di Ovidio (Metamorfosi, IX, 330-331), «era per bellezza la donna più famosa di Ecalia». Recatasi sulle rive di un ameno laghetto con il proprio bambino di neanche un anno, di nome Anfisso, la bella Driope raccoglie alcuni fiori per rallegrare il piccolo, ma con orrore vede che dagli steli cadono al suolo stille di sangue. In quella pianta si cela, senza che lei lo sappia, la ninfa Loti, che aveva cercato in tal modo di sfuggire alle insidie di Priapo. Terrorizzata, Driope cerca di fuggire, ma non ci riesce: i suoi piedi mettono radici e tutto il suo corpo, coprendosi di una tenera corteccia, s’indurisce, diventa un tronco d’albero, si corona di rami e di foglie: anche lei, come Loti, si è mutata in un loto d’acqua. La città aveva avuto altri illustri abitanti: in una «Ecalia in Beozia» si stabilisce Radamanto, figlio di Zeus, che sposò Alcmena, madre di Eracle (Apollodoro, Biblioteca, II, 4, 11).

ECATONCHIRIA Immaginaria città della Macedonia dove si diceva che abitassero gli Ecatonchiri; questi ultimi, nella tradizione mitica, erano giganti dalle cento braccia (tale, in greco, è il significato del loro nome, image) e dalle cinquanta teste, ma le interpretazioni evemeriste, cercando di razionalizzare il mito, li presentavano come comuni mortali, ancorché molto forti in guerra, residenti in una città che da loro aveva preso il nome (Palefato, Incredibilia, 20).

ECBATANA, in gr. Ekbàtana. Città dell’antica Persia, capitale dell’Impero dei Medi, coincidente con l’attuale Hamadan. Fu fondata, secondo la tradizione, da Deioce, un uomo estremamente saggio, ma assetato di potere, che viveva nella Media. Quando assunse il potere, «Deioce costrinse i Medi a edificare un’unica città e a dedicarle le loro cure, disinteressandosi degli altri centri abitati […]; egli fece costruire una fortezza ampia e ben munita, che oggi si chiama Ecbatana, formata da cerchie di mura concentriche. Essa è fatta in maniera tale che ogni cerchia oltrepassa quella vicina soltanto per i merli. In qualche misura contribuisce a una simile disposizione anche il sito, che è un colle; ma essa è soprattutto il risultato di un progetto ben preciso» (Erodoto, I, 98, 3-4). Le cerchie di mura sono sette; al centro di quella più interna si trova il palazzo reale, mentre i merli sono dipinti di colori diversi per ogni cerchia: nella prima «i merli sono bianchi, nella seconda neri, nella terza purpurei, nella quarta azzurri, nella quinta arancioni […] le ultime due poi hanno i merli una argentati, l’altra dorati» (ibid., I, 98, 5-6). Il numero sette ha un evidente valore simbolico, confermato anche dalla sequenza dei colori dei merli, che sembrano corrispondere ciascuno a uno dei sette pianeti conosciuti dall’astrologia caldea; e benché la descrizione erodotea della struttura della fortificazione rievochi quella della tipica ziqqurat, la piramide a gradini mesopotamica, l’archeologia non ha trovato sul terreno conferma dell’esistenza di un monumento del genere a Ecbatana. La tradizione aggiungeva che Semiramide avesse dotato la città di splendide fontane e avesse fatto erigere un meraviglioso palazzo reale (Ctesia di Cnido, Persica, F1b, § 14; Diodoro Siculo, II, 13, 6).

Sulle pendici dei monti che sorgono a nord di Ecbatana, verso il Ponto Eusino degli antichi, è ambientata anche un’altra vicenda dai contorni leggendari, pur se radicata nella verità storica, che costituisce l’oggetto di un lungo racconto di Erodoto (I, 107 ss.). Il re dei Medi Astiage aveva avuto un sogno premonitore, che secondo l’interpretazione dei Magi significava inequivocabilmente che egli sarebbe stato spodestato dal figlio di sua figlia. Per scongiurare il pericolo il sovrano aveva allora ordinato di uccidere il bambino nato da sua figlia Mandane e da suo genero Cambise, che fu chiamato Ciro. Il delicato e crudele incarico era stato affidato ad Arpago, un parente di Astiage, il quale a sua volta affidò il bambino a un bovaro di nome Mitradate, perché lo esponesse sul più alto e deserto dei monti a nord di Ecbatana, luogo adattissimo in quanto popolato da bestie feroci e che l’uomo ben conosceva perché vi pascolava le sue mandrie. Il bovaro, tuttavia, non eseguì il compito: complice la moglie, che proprio in quel mentre aveva partorito un bambino morto, tenne con sé il piccolo facendolo passare per figlio suo, esponendo invece il cadaverino del suo stesso neonato. In questo modo Ciro si salvò; per dare alla sua salvezza connotati ancora più prodigiosi venne diffusa ad arte la voce che fosse stato allevato da una cagna. Ciro, figura storica, divenne poi uno dei massimi sovrani persiani.

ECHEDORO, in gr. Echèdoros o Echèidoros. Fiume della Macedonia sulle cui rive sarebbe avvenuto lo scontro tra Eracle e Cicno, figlio di Ares e di Pirene (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11). Ares, desiderando vendicare il proprio figlio che era stato ucciso dall’eroe, scese a sua volta in combattimento, ma un fulmine interruppe il duello.

ECHINADI, in gr. Echìnai, poi Echinàdes. Isole greche poste di fronte alla regione dell’Acarnania, dalla baia di Astakos alla foce del fiume Acheloo, corrispondenti alle odierne Curzolari. Oggetto della descrizione geografica di Strabone (X, 2, 19), sono ricordate per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia. Nel Catalogo delle donne di Esiodo (III-IV, 72) esse sono identificate con le Strofadi (per i particolari v. ARPIE, ISOLE DELLE). Delle Echinadi facevano forse parte tra l’altro Dolica (v. DULICHIO) e, secondo Strabone, le isole Aguzze ricordate da Omero (v. AGUZZE, ISOLE; Strabone, VIII, 3, 8). Il nome era fatto risalire a quello di un leggendario indovino di nome Echino.

Dalle isole Echinadi «vennero i Tafii, famosi nel mare, solcando con le navi l’ampia distesa dell’acqua marina» (Esiodo, op. cit., III-IV, 91). I Tafii sono gli abitanti della città di Tafo, la principale delle Echinadi, che derivò il suo nome dal fondatore Tafio, nato da Ippotoe e Poseidone; gli abitanti delle isole erano chiamati anche Teleboi, perché Tafio, che così li aveva battezzati, «aveva dovuto andare lontano dalla sua patria»: questo era il significato greco della parola (Apollodoro, Biblioteca, II, 4, 5). Tafio era noto anche per aver generato, sulle isole, un figlio di nome Pterelao, che «Poseidone rese immortale ponendogli in testa un capello d’oro» (ibid.); quanto ai Teleboi, li ritroviamo nelle vicende della nascita di Eracle, perché è proprio mentre il padre (putativo) di Eracle, Anfitrione, sta combattendo contro i Teleboi, che Zeus s’intrufola nel talamo della sposa di lui e genera quello che diventerà il più forte eroe di tutta la Grecia (ibid., II, 4, 6). Anfitrione riuscì a conquistare le isole anche grazie all’amore di Cometo, figlia di Pterelao, che si innamorò di lui e che, appunto per amore, strappò dal capo del padre il capello d’oro che gli assicurava l’immortalità (ibid., II, 4, 7).

Nell’Inno a Delo di Callimaco le isole sono menzionate fra le regioni della Grecia che si rifiutarono di accogliere la dea Latona, o Leto, che stava per partorire Apollo e Artemide: poiché i due divini gemelli erano frutto di un tradimento di Zeus nei suoi confronti, la gelosissima Era aveva ordinato ad Ares e Iride di impedire che qualsivoglia località greca accogliesse la partoriente: così le Echinadi, che pure «hanno per le navi uno splendido porto», davanti alla furiosa reazione di Iride rifiutano di offrire la propria ospitalità (IV, 155). Le Echinadi vengono poi ricordate come uno dei riferimenti geografici dell’avventuroso viaggio di ritorno degli Argonauti dopo la conquista del vello d’oro: essi hanno da poco oltrepassato le isole e già riescono a intravedere il Peloponneso all’orizzonte, quando una terribile tempesta ne dilaziona l’approdo, spingendoli sulle coste della Libia (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1229 ss.).

Secondo una tradizione le Echinadi, personificate, erano cinque ninfe Naiadi che, durante un sacrificio celebrato per onorare gli dèi campestri, si dimenticarono di presentare offerte al dio fluviale Acheloo. Questi, furibondo per l’affronto subìto, provocò una piena improvvisa delle proprie acque, trascinando con sé fino al mare le infelici Naiadi, che sprofondarono tra i flutti e ne riemersero trasformate in isole (Ovidio, Metamorfosi, VIII, 577-610): tra queste, un po’ discosto dalle altre, Perimele, che, Naiade anch’essa e amata un tempo da Acheloo, venne scaraventata in mare dal padre Ippodamante quando questi si accorse dei suoi amori, e per intercessione del suo amante fu trasformata da Nettuno nell’isola di quel nome. Le Echinadi erano state teatro di alcune delle vicende di Alcmeone, che aveva sposato Calliroe, figlia dell’Acheloo, e si era stabilito su quelle terre facendone il proprio regno (per i particolari v. PSOFIDE).

ECUNTE, in gr. Oikoùnta, Antica città della Caria, in Asia Minore, nell’odierna Turchia sudoccidentale. La leggenda raccontava che era stata fondata da un eroe di nome Mileto, che vi aveva fatto sorgere un tempio dedicato ad Afrodite (cfr. Teocrito, Carmi bucolici, VII, 116: «Ecunte [Oikoùnta], sede alta della bionda Dione…»).

EEA, in gr. Aiàie, in lat. Aeaea. Il nome compare nella mitologia per indicare diverse località. La più celebre era l’isola situata al largo della costa italiana del Tirreno, dove viveva la maga Circe, a sua volta chiamata Eea. Da isola qual era in origine, essa si sarebbe poi unita alla terraferma e avrebbe formato quello che ancora oggi, nel ricordo della mitica figura femminile che la abitava, viene chiamato monte Circeo. Nell’Odissea Ulisse approda nell’accogliente porto dell’isola e, arrampicatosi su un picco sopraelevato, la osserva in una veduta d’insieme: «salivo su un poggio aereo se mai vedessi lavori di uomini o ne percepissi la voce. Salii dunque in vedetta su una roccia scoscesa e mi apparve del fumo dalla terra spaziosa di vie, nella casa di Circe, tra le folte macchie e la selva» (X, 147-50). Al centro di «un’isola che mare infinito incorona» (ibid., X, 195) il compagno di Ulisse, Euriloco, mandato in avanscoperta con alcuni compagni, trova «in un vallone boschivo, entro uno spazio ben protetto, la casa di Circe, eretta con pietre levigate. Intorno ad essa vagavano lupi montani e leoni che ella aveva stregato somministrando filtri nocivi […]; udivano Circe che dentro cantava con voce leggiadra percorrendo una tela grande, divina, quali sono i lavori delle dee» (ibid., X, 210-23). Nonostante l’aspetto apparentemente ospitale della casa e l’accoglienza sulle prime cordiale che la maga riserva loro, ben presto i compagni di Ulisse vengono trasformati in porci dai misteriosi filtri che vengono loro offerti da bere. L’isola che produce gli ingredienti degli intrugli capaci di causare quell’infausta metamorfosi ne genera però anche l’antidoto, un’erba chiamata moly, servendosi della quale Ulisse, dietro suggerimento del dio Ermes, può affrontare senza pericoli la potentissima maga, accettandone la sontuosa ospitalità.

Un accenno omerico (Odissea, XII, 3) lascerebbe intendere che l’isola si trovi in Oriente («l’isola Eea, ove sono le case e gli spiazzi di danza d’Aurora mattutina e la levata del Sole»: v. anche oltre), mentre le tradizioni successive associano invece senza incertezze l’isola al Mediterraneo a ovest dell’Italia. Così anche Virgilio, nell’Eneide (III, 386), e Ovidio, che nelle Metamorfosi (XIV, 243 ss.), raccontando con molti dettagli la storia di Circe e la metamorfosi dei compagni di Ulisse, sottolinea la pericolosità dei luoghi: «È un’isola, questa, credi a me, che va guardata solo di lontano […]. Evita le spiagge di Circe!», ammonisce Macareo, compagno di Ulisse, rivolgendosi ad Achemenide, altro Greco che si è unito dopo alterne vicende alle navi di Enea in viaggio verso il Lazio. Il «lido designato ancora dal nome di Circe» è menzionato dallo stesso Ovidio anche nei Fasti (IV, 70). Nell’isola di Eea, secondo una versione del mito, avrebbe trovato sepoltura il corpo di Ulisse (Igino, Favole, 127). Una tradizione meno diffusa riteneva che l’isola, situata nello Stretto di Sicilia, fosse la patria non di Circe, bensì di un’altra figura femminile fatale della saga di Ulisse, la ninfa Calipso (Pomponio Mela, Corografia, II, 7, 120; Igino, Favole, 125, 16).

C’era poi un’altra isola Eea nell’Oceano, nella terra degli Etiopi; il suo nome risulta collegato a quello di Eeta, re della Colchide, che significherebbe «uomo di Eea»; dagli abitanti di questa Eea etiopica sarebbe stata colonizzata la Colchide, e conseguentemente Eea si sarebbe identificata con la Colchide stessa e degli abitanti del luogo si sarebbero ricordate le origini egizie (Erodoto, II, 104 ss.). I Colchi «conservano le iscrizioni dei loro padri, tavolette sopra le quali sono segnate le strade e i confini di mare e di terra, a beneficio di chi si mette in cammino», ricorda Apollonio Rodio (Argonautiche, IV, 279-281), ribadendo i rapporti con l’Egitto.

L’Eea della Colchide compare nel mito degli Argonauti, dove, soprattutto nella versione offerta da Apollonio Rodio, essa appare remotissima e inattingibile, nelle sconosciute regioni del Ponto: come raggiungerla, si chiede Giasone, il capo della spedizione argonautica, «se è vero che […] essa si stende agli estremi confini di mare e di terra?» (Argonautiche, II, 417-18). Quando, dopo mille peripezie, i protagonisti finalmente vi approdano, il paesaggio che si apre ai loro occhi incarna la più totale diversità: «qui fioriscono molti filari di salici e tamarischi, e alle cime di questi sono appesi cadaveri, legati con delle corde. Ancor oggi infatti è sacrilegio per i Colchi bruciare gli uomini, e neanche è lecito loro sotterrarli e innalzare sui loro corpi il sepolcro; li avvolgono dentro pelli di bue non conciate e li appendono agli alberi, fuori città», ibid., III, 200-07). L’approdo di Giasone e dei suoi avviene presso una collinetta chiamata Circeo, in ricordo di Circe, sorella del re di Eea e come lui figlia del Sole, la quale prima di stanziarsi nell’isola Eea del Tirreno viveva in queste contrade. Il palazzo di Eeta, il sovrano della Colchide, troneggia a Eea con il grande cortile, le vaste porte, i colonnati, le mura sormontate da un fregio di pietra, i capitelli di bronzo, le viti che crescono nella corte: sotto i pergolati «scorrevano quattro fontane perenni, lavoro del dio Efesto: la prima versava latte, la seconda vino, la terza olio fragrante e l’ultima acqua», calda alla sera e fredda al mattino (ibid., III, 222-27; le quattro fonti sembrano discendere da quelle che si trovavano, anche se solo di acqua, nella dimora della ninfa Calipso, dove soggiorna Ulisse nell’Odissea, V, 70-71). Le decorazioni e gli arredi del palazzo di Eea sono opera del dio-fabbro Efesto, che ha forgiato nel bronzo porte, tori dalle cui bocche spalancate esce un terribile fuoco, e altre meraviglie, a fare da degna cornice al temibile re della Colchide, Eeta, e alla figlia di lui Medea.

Anche l’Eea del mar Tirreno, dove vive Circe, compare nelle Argonautiche: gli Argonauti la visitano per farsi purificare dalla maga dopo l’assassinio di Apsirto, fratello di Medea. Quando gli Argonauti vi arrivano, Circe appare «sconvolta da sogni notturni»: le era parso che tutti i muri e le stanze della sua casa grondassero sangue, e le fiamme inghiottissero i filtri con i quali prima incantava gli stranieri, mentre «lei stessa con le mani attingeva a quel sangue e spegneva le fiamme» (IV, 668-669). Per purificarsi da tali orrifiche visioni, Circe si reca a compiere abluzioni con l’acqua marina, seguita da «mostri non simili a fiere selvagge, e neanche ad uomini, misti di membra diverse» (ibid., IV, 672-673). Gli Argonauti la seguono nella sua dimora, e Giasone e Medea vengono purificati dai riti della maga.

Alla «bellissima madre di Circe nell’isola di Eea» allude Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 205): la madre di Circe era Persa o Perseide, figlia di Oceano e Teti.

V. anche CIRCEO, MONTE.

EFESO, in gr. Èphesos. Città della Lidia, nell’odierna Turchia, non lontana dal fiume Caistro, ritenuta una fondazione delle Amazzoni (Isidoro, Etimologie, XV, i, 39) o dei due eroi eponimi Efeso e Coreso (quest’ultimo avrebbe dato il nome al monte sulle cui pendici sorgeva la città); anticamente era chiamata anche Ortigia (Properzio, III, 23, 15).

Il culto di Artemide che vi era molto radicato aveva origini leggendarie: secondo Erodoto (I, 26, 2) gli Efesini consacrarono alla dea la loro città durante la guerra che li oppose al re di Lidia Creso, che li aveva assediati; per ribadire l’unione tra la città e il tempio di Artemide, estendendo quindi a tutto il territorio le sacre prerogative di inviolabilità del santuario, gli abitanti di Efeso collegarono le mura urbane al tempio di Artemide con un cavo. A un’origine leggendaria del culto di Artemide a Efeso fa riferimento anche Callimaco, che lo fa risalire alle Amazzoni: alla dea «innalzarono le Amazzoni, fautrici della guerra, sulla marina d’Efeso, una statua sotto un tronco, una quercia», e inaugurarono il rito in onore della dea, con canti e danze in armi. «Intorno a quella statua fu poi eretto un vasto santuario», di cui anche in età storica si ammirava la straordinaria grandiosità (Callimaco, Inni, III, 237 ss.). Pausania obietta che verosimilmente il poeta non era perfettamente informato, perché a parer suo il santuario non fu fondato dalle Amazzoni, bensì da Coreso, un indigeno, e da Efeso, «che ritengono fosse figlio del fiume Caistro: costoro furono i costruttori del santuario e il nome della città è derivato da Efeso» (VII, 2, 7), mentre il ruolo delle Amazzoni è ridotto a quello di supplici. Di un’azione diretta delle Amazzoni nella fondazione del tempio di Efeso, «costruito dall’Amazzone Otrera moglie di Marte», parla invece Igino, elencando l’Artemision come prima fra le sette meraviglie del mondo (Favole, 223). È noto l’aneddoto relativo all’incendio che devastò il tempio di Artemide nel luglio del 356 a.C., lo stesso giorno della nascita di Alessandro Magno: Egesia di Magnesia, retore e autore di una Storia di Alessandro Magno, «pronunciò una battuta che, fredda qual era, avrebbe potuto spegnere l’incendio: disse infatti che era naturale che bruciasse il tempio di Artemide, perché la dea era impegnata a portare alla luce Alessandro» (Plutarco, Alessandro, 3, 6). Ai confini tra storia e leggenda erano alcuni racconti relativi alla costruzione del tempio, che richiese centoventi anni di lavori e fu progettato dall’architetto Chersifrone. L’operazione più complessa fu sollevare all’altezza necessaria i pesantissimi architravi, in particolare quello della porta principale, così grande e ponderoso che non si riusciva a collocarlo nella giusta posizione; l’infelice architetto era talmente disperato che meditava addirittura di uccidersi. Una notte, mentre cercava sollievo dai suoi tormenti, gli apparve in sogno la dea Artemide in persona, che lo invitò a farsi coraggio, perché a collocare l’architrave aveva già provveduto lei stessa. L’indomani Chersifrone corse a vedere e constatò che in effetti il gigantesco blocco di pietra era perfettamente piazzato al suo posto (Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 96-97).

Efeso e i suoi dintorni erano teatro di molti episodi del mito. Antonino Liberale, per esempio, vi colloca la storia di Edone (che altre fonti situavano invece a Tebe o anche a Colofone), trasformata in usignolo dopo che ebbe ucciso per errore il proprio figlioletto Iti (Metamorfosi, XI). Per inciso, questa Edone era figlia di Pandareo, il quale abitava secondo Antonino Liberale «la regione di Efeso là dove si trova attualmente la roccia a precipizio presso la città», e che per dono divino della dea Demetra «non aveva mai lo stomaco appesantito dal cibo, qualunque ne fosse la quantità ingerita». Era un polifago, si potrebbe dire: qualità preziosa per una società nella quale non di rado si svolgevano per l’appunto tenzoni di polifagia. Di Efeso era poi una matrona che Petronio, nel Satyricon, presenta come protagonista di un aneddoto tra il comico e il macabro (cap. 111-112): la donna, nota in tutta la città per la sua pudicizia, alla morte del marito non solo ne aveva seguito il feretro e ne aveva pianto la salma nel sepolcro, ma aveva deciso di lasciarsi morire di fame accanto a lui. Ma poiché nei pressi del tempietto funerario il governatore della provincia aveva fatto crocifiggere due banditi, per sorvegliare i quali era stato messo di guardia un soldato, questi, dapprima colpito dall’eccezionale pietà della dama, si era intenerito della sua sorte e l’aveva convinta a mangiare, salvandola così dalla morte per inedia; e poi, «ricorrendo alle lusinghe con cui aveva ottenuto che la signora accettasse di vivere, il soldato sferrò l’attacco anche alla sua pudicizia. E a quella perla di castità il giovanotto non sembrava né brutto né cattivo parlatore», tanto che «neanche con questa parte del corpo la signora continuò l’astinenza». Poiché, tuttavia, approfittando dell’assenza del soldato, in tutt’altre faccende affaccendato, il corpo di uno dei due condannati alla crocefissione venne sottratto dal patibolo, e il soldato rischiava di conseguenza una tremenda punizione per aver trascurato i suoi doveri, la magnanima dama, «non meno misericordiosa che pudica», non esitò a far appendere sulla croce il cadavere del defunto marito, rivelando in tal modo di aver recuperato appieno il suo attaccamento alla vita.

Tra gli altri miti ambientati nel territorio di Efeso, una tradizione collocava quello di Eracle che uccise i Cercopi (Apollodoro, Biblioteca, II, 6, 3), turpi creature trasformate in scimmie da Zeus (Ovidio, Metamorfosi, XIV, 91-100); la loro madre, Teia, li aveva vanamente messi in guardia da un uomo «dalle natiche nere e pelose», che era appunto Eracle. Anche Pan aveva il suo spazio nei miti della città: si diceva che nei dintorni si trovasse una grotta nella quale il dio aveva deposto la prima siringa, lo strumento musicale di sua invenzione; nella stessa grotta si svolgeva anche un rito singolare, che serviva a dimostrare se una ragazza diceva il vero o se era mentitrice. Le giovani che si dichiaravano vergini, infatti, venivano chiuse nella grotta: se avevano detto la verità, dalle profondità della terra usciva il suono melodioso di una siringa e la grotta si apriva spontaneamente facendone uscire la ragazza sottoposta alla prova, incoronata da un ramo di pino; se invece la giovane aveva mentito, si udivano grida terribili dall’interno della caverna, e della ragazza non si trovava più traccia. Si ambientava a Efeso, poi, una vicenda per molti versi simile a quella che si raccontava a proposito della rupe Tarpea (per la quale v. ROMA): un re dei Galati, Brenno, mentre stava saccheggiando l’Asia si innamorò, per l’appunto a Efeso, di una vergine di nome Demonice. La giovane gli promise che gli si sarebbe concessa e l’avrebbe aiutato a conquistare Efeso se in cambio egli le avesse donato i gioielli che ornavano le donne dei Galati. Brenno chiese allora ai suoi soldati di gettare in grembo alla ragazza l’oro e l’argento che essi stessi portavano, e in breve quella massa di metalli preziosi seppellì l’avida giovinetta, che morì soffocata (Plutarco, Parall., 309 B-C). Singolare, sempre a Efeso, la vicenda di un certo Aristonimo, il quale «odiava le donne e aveva commercio con un’asina». Tanto fece che generò con lei una bella figlioletta, alla quale diede il nome di Onoscelide, «dalle gambe d’asina» (ibid., 312 E). Ai tempi di Tiberio, poi, si narrava la storia di una delegazione mandata da Efeso a Roma per perorare la causa dell’inviolabilità del santuario di Artemide; l’ambasceria cercò di sottolineare la sacralità del luogo: essa fece presente «che non a Delo, come volgarmente si credeva, erano stati generati Apollo e Diana; nel loro paese – così dissero – si trovavano il fiume Cencrio ed il bosco di Ortigia, nel quale Latona, al termine della gravidanza, aveva dato alla luce i due numi, appoggiata ad un olivo che tuttora esisteva; ed il bosco era stato consacrato per ordine degli dèi, ed Apollo stesso vi aveva trovato riparo contro l’ira di Giove, dopo l’uccisione dei Ciclopi», che egli aveva sterminato per vendicare Asclepio, ucciso dal fulmine di Zeus per le sue capacità mediche che rischiavano di sovvertire l’ordine della natura; successivamente Bacco o Dioniso, «il padre Libero, vittorioso in guerra, aveva fatto grazia a quelle tra le Amazzoni che si erano prostrate supplici al suo altare; e la santità del tempio era stata poi accresciuta dal favore di Ercole, quando s’impadronì della Lidia» (Tacito, Annali, III, 61).

E ancora, per rimanere nel mondo latino, a Efeso è ambientata la commedia Il soldato fanfarone di Plauto. Per gli amanti del vino, può essere infine interessante sapere che da un borgo vicino a Efeso, anticamente chiamato Borgo di Leto e poi Latoreia, dal nome di un’Amazzone che si chiamava appunto Latoreia, ma della quale nulla sappiamo, proveniva il vino noto come vino di Pramno, molto apprezzato nel mondo antico (Ateneo, Deipnosofisti, I, 56, 31 d).

EFIRA, in gr. Ephimagera. Toponimo piuttosto diffuso in Grecia. Esso indica tra l’altro una località della Tesprozia, in Epiro. Era stata conquistata da Eracle, che vi aveva condotto una spedizione con gli abitanti di Calidone. Dopo la vittoria, Eracle si unì ad Astioche, la figlia del re del luogo Filante, e generò Tlepolemo (Apollodoro, Biblioteca, II, 7, 6), ricordato come uno dei pretendenti alla mano di Elena e partecipanti alla guerra di Troia. Con lo stesso toponimo erano indicate anticamente anche le città di CORINTO e di CRANNONE (v.).

EGE, in gr. Aigài. È il luogo dove si trova il palazzo sottomarino del dio delle acque, Poseidone. Nel XIII canto dell’Iliade il dio lo raggiunge con grandi salti: «e andando balzò tre volte, e alla quarta raggiunse la meta, Ege, dove una casa bellissima negli abissi del mare gli sorge, d’oro, scintillante, per sempre indistruttibile» (XIII, 20-22). In quel meraviglioso palazzo il dio tiene i suoi prodigiosi cavalli dai piedi di bronzo e dalle ali e dalle criniere d’oro, capaci di sorvolare rapidissimi le onde. La scuderia subacquea del dio si presenta come una specie di grotta: «Nei profondi abissi del mare vi è una grotta vastissima, a mezzo fra Tenedo e Imbro rocciosa; qui Poseidone che scuote la terra fermò i cavalli, li staccò dal carro e mise davanti a loro il cibo divino, perché mangiassero; poi intorno alle zampe gettò delle catene d’oro che non si potevano né spezzare né togliere, perché lì attendessero immobili il ritorno del loro signore» (ibid., XIII, 32-38). Il legame fra Poseidone ed Ege è sottolineato anche nell’Odissea (V, 381), dove è ricordato il «nobile tempio» (o la «casa famosa») che vi ha il dio, e nell’Inno omerico a Poseidone (XXII, 3), dove Poseidone è ricordato come «dio marino che regna sull’Elicona e sull’ampia Ege». Nella Teogonia di Esiodo (930-933) Poseidone divide il suo meraviglioso regno subacqueo splendente d’oro con una delle sue numerose spose, Anfitrite, dalla quale è nato Tritone, che a sua volta vive in quello stesso palazzo nelle profondità del mare. Nel Ditirambo 17 di Bacchilide si legge la storia del tuffo negli abissi marini compiuto da Teseo: l’eroe, offeso da Minosse che aveva osato insinuare dei dubbi sulla sua discendenza da Poseidone e aveva gettato in mare un anello sfidandolo a recuperarlo, si getta in acqua senza timore, riemergendone non solo con l’anello ma anche, per sovrappiù, con una corona offertagli da Anfitrite. Il soggetto era stato rappresentato, stando alla particolareggiata testimonianza di Pausania (I, 17, 3), dal pittore Micone, che lo aveva dipinto su una parete del tempio di Teseo ad Atene (e chissà che la tomba detta del Tuffatore, da Paestum, con la sua raffigurazione di un giovane che si getta in acqua da un trampolino, non si ispiri a quel mito). Ancora ai tempi di Licofrone (Alessandra, 135), in ricordo della sua sede subacquea Poseidone era chiamato Egeone.

Nella geografia della Grecia altre due città avevano questo nome, una nell’isola di Eubea (nota anche come Egea o CARISTO, v.) e un’altra nell’Acaia; di quest’ultima Ege Pausania (VII, 25, 12) dice che si trovava presso il fiume Crati e che con il tempo fu abbandonata a causa della sua debolezza; esiste poi anche un isolotto roccioso tra Teno e Chio che potrebbe parimenti essere identificato con il sito omerico, e c’è quell’accenno a «Tenedo e Imbro rocciosa» nella stessa Iliade, ma nessuno di questi suggerimenti sembra pienamente soddisfacente per la collocazione precisa del luogo.

Una diversa Ege, destinata a diventare celebre perché legata alle origini di Alessandro Magno, si trovava in Macedonia ed era stata fondata da un eroe di nome Archelao, figlio di Temeno e originario di Argo. Mandato in esilio dai fratelli per questioni dinastiche, Archelao giunse in Macedonia alla corte del re Cisseo, il quale in quel momento si trovava a dover fronteggiare l’assalto di diversi popoli vicini; non gli parve dunque vero di poter contare sull’appoggio di un personaggio così potente (Archelao era discendente di Eracle): gli offrì perciò il regno e la mano della propria figlia se lo avesse aiutato. Archelao debellò i nemici di Cisseo in una sola battaglia ma, come spesso succede nei racconti del mito di questo tipo, al momento di pagare il suo debito il re si dimostrò recalcitrante e anzi tese una trappola ad Archelao: fece scavare una fossa piena di tizzoni ardenti e coperta di frasche per mimetizzarla, e cercò di indurre l’aspirante genero a cadervi dentro. Mal gliene incolse: un servo avvertì Archelao del pericolo, e fu Archelao a scagliare Cisseo nella fossa, uccidendolo. Successivamente, guidato da un oracolo di Apollo, Archelao seguì il percorso di una capra e dove essa si fermò fondò una città che, dal nome greco dell’animale, chiamò per l’appunto Ege (Igino, Favole, 219; alla storia di Archelao Euripide aveva dedicato una tragedia a lui intitolata e per noi perduta). Ege era la capitale e il luogo di sepoltura dei re macedoni; e Archelao era considerato antenato diretto di Alessandro Magno. Per i problemi relativi all’identificazione della città di Ege v. VERGINA.

EGEO, in gr. Aigàios, in lat. Aegaeus. Mare della Grecia, corrispondente alla parte orientale del Mediterraneo compresa tra la Grecia e l’Asia Minore. La mitologia ne faceva derivare il nome da Egeo, re di Atene e padre di Teseo, che si buttò nelle sue acque per la disperazione per la presunta morte del figlio. Infatti Teseo, partito per l’uccisione del Minotauro (v. CRETA), aveva promesso di issare al suo ritorno delle vele bianche se la spedizione avesse avuto successo, ma si era poi dimenticato di farlo, e il padre, che ne attendeva il ritorno sulla riva, quando vide le navi prive del segnale convenuto lo credette morto e, disperato, si gettò in mare.

Dopo la guerra di Troia, quando «Atena e Poseidone decisero di distruggere l’esercito acheo, l’uno per amore dello Stato che aveva fondato [Troia], l’altra per odio contro i Greci» che avevano profanato il suo tempio e la sua sacerdotessa Cassandra, l’Egeo diventa il teatro della vendetta divina: Poseidone fa sì che «il mar Egeo sia tutto un mugghiare di cavalloni e gorghi», che siano piene «di morti le insenature dell’Eubea», che «le scogliere di Micono, le rocce di Delo, Sciro, Lemno e il capo Cafereo» ricevano «gli innumerevoli cadaveri» (Euripide, Le Troiane, argomento e vv. 82 ss.): in mezzo a queste tempeste si svolgeranno i travagliati e spesso infelici ritorni in patria dei condottieri greci. Alle «acque selvagge dell’Egeo» allude anche Menandro nella commedia La tosata (v. 379). Nei «salmastri abissi del mar Egeo, dove le Nereidi a frotte creano le più belle figure di danza» (Euripide, Le Troiane, 1-3), aveva la sua sede il dio marino Poseidone (v. EGE). Nella parte del mar Egeo compresa tra Rodi e Creta e chiamata Carpatio aveva invece la sua dimora, nell’abisso, «l’azzurro Proteo, che l’ampia distesa delle acque percorre con un cocchio aggiogato di pesci e di bipedi cavalli» (Virgilio, Georgiche, IV, 387-389). La sua residenza è «un antro immenso sotto il fianco di una corrosa montagna, dove abbondante il vento spinge l’onda, che poi si frange in cavità remote […]. Là dentro Proteo si ripara dietro la protezione di un grande masso» (ibid., IV, 418-422). Qui egli viene visitato da Aristeo, che riesce ad avere ragione delle sue molteplici e sfuggenti metamorfosi: Proteo è infatti un essere capace di trasformarsi in mille modi, e «diverrà all’improvviso un cinghiale irsuto e un’oscura tigre e uno squamoso drago e una leonessa di fulva cervice; oppure darà uno stridulo crepitio di fiamma […] oppure in acque fluide dissolto svanirà» (ibid., IV, 407-410). Solo con l’aiuto dei suggerimenti di sua madre, la ninfa Cirene, Aristeo riesce ad acchiapparlo e a chiedergli ragione della terribile moria di api che lo ha colpito (per i particolari del mito di Aristeo v. TEMPE). Alle «colonne di Proteo», che segnano i confini orientali del mondo, allo stesso modo in cui quelle d’Ercole ne segnano i limiti occidentali, allude Virgilio nell’Eneide (XI, 262), riferendosi all’EGITTO (v.).

Nel racconto di Ovidio, il mar Egeo viene percorso da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 565; per i particolari del mito v. ENNA). La parte dell’Egeo compresa tra l’isola di Creta, l’isola di Eubea e il Peloponneso aveva anticamente nome Mirtoo: secondo il mito Mirtilo, figlio di Mercurio, era l’auriga di Enomao, re dell’Elide; il sovrano aveva promesso la mano della propria figlia Ippodamia a chi lo avesse battuto nella corsa dei carri, e Mirtilo si era lasciato corrompere da Pelope, aspirante alla mano della ragazza, per sabotare il carro del suo padrone, cosicché quest’ultimo l’aveva scaraventato in mare per punizione (altre versioni raccontavano che a gettarlo in mare fosse stato Pelope stesso, dal momento che Mirtilo aveva preteso in cambio dei suoi servigi una notte d’amore con Ippodamia; in ogni caso, dal suo nome sarebbe derivato al mare quello di Mirtoo, e con una immagine poetica piuttosto barocca Licofrone, nella sua Alessandra, 163 ss., descrive la morte di Mirtilo presentandocelo nell’atto di bere «l’ultima coppa», verosimilmente di acqua marina).

La derivazione del nome del mare da quella del citato personaggio di Egeo è ricordata tra gli altri da Seneca (Tieste, 139-142) e da Isidoro (Etimologie, XIII, xvi, 8). Varrone, invece, propone un’etimologia diversa, sostenendo che «il nome Egeo deriva da “capre”» (De re rustica, II, 1, 8). Lo stesso nome, nella Teogonia di Esiodo (vv. 483-485), indica invece una montagna, precisamente quella nelle cui viscere, in una grotta riparata, venne nascosto il piccolo Zeus appena nato: un monte di difficile identificazione, che solitamente si riconosce nel monte Ditteo e nell’altopiano di Lassithi dell’isola di Creta; nelle vicinanze si trovava anche la località di Lyctos o Lyttos (v. LICTO), città dove secondo Esiodo Rea fece la prima tappa in attesa di partorire il suo divino figliolo (v. CRETA).

EGIALEA ed EGIALO, in gr. Aigialòs, Aigiàleia. Il nome indicava una regione del Peloponneso (ma secondo Diodoro, anticamente contrassegnava l’intera penisola) e derivava dall’eroe Egialo, figlio di Inaco. Il nome di Egiale, o Egialo, o Egialea, era anche quello con cui anticamente era indicata la città di SICIONE (v.), dal suo fondatore eponimo. Nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia, Egialo fa parte dei possedimenti di Agamennone. Una seconda località dallo stesso nome, in Paflagonia, è ricordata tra le città alleate dei Troiani (ibid., II, 855). La regione peloponnesiaca era particolarmente legata al culto di Era (Callimaco, Inni, IV, 73-74).

EGINA, in gr. Aigìna. Piccola isola della Grecia, posta nel Golfo Saronico tra l’Attica e l’Argolide, ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia. È definita «Egina dai lunghi remi» nell’Olimpica VIII di Pindaro (v. 21). Uno dei principali personaggi mitici di Egina era il re Eaco (nonno dell’eroe Achille), originario forse della Tessaglia, nato da Zeus, ricordato, oltre che come re mitico di Egina, anche come uno dei giudici del mondo infernale; fu lui a chiamare l’isola con il nome della propria madre, la ninfa Egina, figlia di Asopo e amante di Zeus (la spiegazione è fornita, tra gli altri, da Diodoro Siculo nel IV libro della sua Biblioteca storica). Eaco ebbe tre figli, Foco, Peleo e Telamone. Gelosi della superiorità di Foco nei giochi ginnici, Peleo e Telamone lo uccisero; Eaco scacciò dalla città i fratricidi e Telamone si rifugiò allora nell’isola di Salamina, mentre Peleo si trasferiva a Ftia. Tutta la vicenda costituiva l’oggetto di un poema ciclico perduto, l’Alcmeone (cfr. un indiretto riferimento in Euripide, Andromaca, 687; cfr. anche Pausania, II, 29, 6-10 e Antonino Liberale, Metamorfosi, XXXVIII). Prima di essere scacciato a Salamina, Telamone fu sottoposto a processo, ma poiché non gli era stato consentito di sbarcare sulla terraferma di Egina egli si recò al porto chiamato Cripto («nascosto») e costruì un molo, rimasto visibile secondo la tradizione anche in età storica, sul quale sostenne, sia pure vanamente, la sua difesa (Pausania, II, 29, 10).

Il fatto che l’isola portasse il nome di una sua rivale – la ninfa Egina che si era unita a Giove–, suscitò le ire di Giunone, dea notoriamente piuttosto vendicativa, la quale scatenò su Egina una terribile pestilenza (Ovidio, Metamorfosi, VII, 523 ss.). Davanti all’immensa strage di cittadini che la calamità provocò sull’isola, il re Eaco implorò Giove, suo padre, di dargli nuovi sudditi per ripopolare il suo regno; e ne ebbe immediatamente un segno divino: «Rarissima per la vastità dei rami c’era una quercia della specie di Dodona, consacrata a Giove. Qui noi scorgemmo una fila di formiche in cerca di semi». Stupito per il loro numero, Eaco chiese al suo padre divino di dargli altrettanti nuovi cittadini. La quercia – segno sicuramente soprannaturale – fremette con le sue fronde; e – altro segno soprannaturale – durante la notte Eaco sognò che quelle formiche si mutassero in esseri umani (ibid., VII, 622-642). Il sogno fu davvero premonitore: al suo risveglio il sovrano si accorse che la reggia era nuovamente popolata, e una nuova stirpe di abitanti risiedeva nell’isola. Eaco li chiamò Mirmidoni, «perché il nome ne ricordi l’origine» (in greco image significa «formica»; ibid., VII, 654). Di poco differente, ma più stringata e meno incline al meraviglioso, la versione fornita da Pausania: quando ancora l’isola era disabitata e si chiamava Enone, Zeus vi condusse Egina, figlia di Asopo, e impose a quella terra il nome di lei. «E quando Eaco, giunto all’età matura, chiese a Zeus che gli concedesse degli abitanti, allora Zeus, secondo la leggenda, gli fece spuntare degli uomini dalla terra» (II, 29, 2; il mito era riepilogato anche da Igino, Favole, 52). Successivamente Egina è ricordata tra le località che Minosse visita per cercare alleati allo scopo di intraprendere una guerra contro Atene, rea di avergli ucciso il figlio; Egina tuttavia, con il suo re Eaco, non si schiererà dalla sua parte, legata da un’antica alleanza con il re di Atene Cecrope (Ovidio, Metamorfosi, VII, 475-484). Tale antica amicizia sembra del tutto dimenticata in età storica, quando, per eliminare una potente concorrente sui mari, Atene, su ordine di Pericle, sconfisse Egina; si cominciò allora a ripetere un motto dello stesso Pericle, che voleva «che fosse allontanata dal Pireo come un bruscolo da un occhio» (Plutarco, Demostene, 1, 2; cfr. Id., Pericle, 8, 7).

Con il mito di Eaco era messa in relazione anche una caratteristica fisica di Egina, le coste scoscese e dal difficile approdo: era stato Eaco stesso a rendere difficile accostarsi all’isola, poiché aveva paura dei pirati (Pausania, II, 29, 6). Ciò non fu però di ostacolo agli Argonauti: essi vi fanno scalo durante il loro viaggio di ritorno dalla Colchide dopo la conquista del vello d’oro. Il motivo della sosta è la necessità di rifornirsi di acqua: «E qui nel fare provvista d’acqua s’impegnarono in una gara leale, chi primo l’attingeva e la portava alla nave: li incalzavano insieme il bisogno e un vento impetuoso». E ancora oggi gli abitanti, nel ricordo di quell’episodio, «si sfidano nelle gare di corsa» (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1765-1772).

Il famoso tempio di Afaia, tuttora visibile e che costituisce una delle principali attrattive archeologiche dell’isola, era dedicato al culto di una divinità locale, venerata anche dai Cretesi, intorno alla quale era nata una saga mitologica. Si diceva che Carmanore, colui che purificò Apollo dall’uccisione del serpente Pitone di Delfi, ebbe un figlio di nome Eubulo; questi a sua volta ebbe una figlia di nome Carme, la quale, da Zeus in persona, generò una fanciulla divina di nome Britomarti. Quest’ultima, una volta cresciuta, divenne amica intima della dea Artemide e passava con lei il suo tempo dedicandosi alla corsa e alla caccia nei boschi di Creta. Un giorno però Minosse, il sovrano cretese, si innamorò di lei e la inseguì; per sfuggirgli Britomarti si gettò in mare, dove si impigliò nelle reti di alcuni pescatori. Artemide la salvò, rendendola dea: in memoria delle reti in cui era rimasta prigioniera venne venerata a Creta con il nome di Dictinna («quella delle reti»), mentre Artemide la fece poi ricomparire nell’isola di Egina, dove fu venerata come Afaia,«gettata» (cfr. Pausania, II, 30, 3 e Antonino Liberale, Metamorfosi, XL, dove si aggiunge il dettaglio dell’amore che la ragazza suscitò in un pescatore che l’aveva issata a bordo con le reti: fu proprio per sfuggire alle insidie dell’uomo che Britomarti saltò in mare dalla barca e raggiunse il bosco di Egina nel quale sarebbe sorto il suo tempio).

Tra le altre apparizioni mitiche dell’isola, nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, dove vengono descritte le armate che si schierano sotto il comando di Dioniso per la sua spedizione in Asia, è citato anche l’esercito messo a disposizione del dio da Egina (XIII, 201-221). Sull’isola si conservavano tracce delle tombe dei fondatori della città, Eaco e Foco. Per la prodigiosa vicenda delle statue di legno d’olivo rubate a Epidauro e trasferite a Egina v. EPIDAURO. A Egina, secondo una tradizione, era stato portato Platone, ivi venduto come schiavo (Plutarco, Dione, 5, 6-7).

Il toponimo, come si è accennato, era messo in relazione con l’omonima Ninfa, figlia del dio fluviale Asopo (Pausania, II, 5, 2) e legata alla saga dei Mirmidoni (per la quale v. anche FTIA e FTIOTIDE). Nella spiegazione di Ovidio, anticamente Egina si chiamava Enopia: «Enopia era il nome antico, ma Eaco lo cambiò in Egina dal nome di sua madre» (Metamorfosi, VII, 473-474; cfr. Pindaro, Istmiche, VIII, 45). Tra i nomi poetici con i quali l’isola è chiamata, come si è visto, si ricorda anche Enone (Pindaro, Nemee, IV, 46; V, 16; VIII, 7; Istmiche, I, 34; Erodoto, VIII, 46; Apollodoro, Biblioteca, III, 12, 6; Licofrone, Alessandra, 175).

EGIO, in gr. Àigion. Città della Grecia, in Acaia, ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia. Era considerata «la più famosa fra le città dell’Acaia fin dai tempi antichi e molto potente» (Pausania, VII, 7, 2). Fa parte dei possedimenti di Agamennone, che infatti qui, vicino al mare, si diceva avesse riunito «gli uomini più illustri della Grecia perché insieme deliberassero sul modo di organizzare la spedizione contro il regno di Priamo», ossia la guerra di Troia (ibid., VII, 24, 2).

A Egio, secondo una tradizione locale, Zeus ancora bambino era stato allevato da una capra (Strabone, VIII, 387). Non si può escludere che la localizzazione del mito a Egio volesse spiegare il toponimo, la cui radice si può individuare in image che significa appunto «capra». Nei pressi della riva marina si trovavano diversi santuari e una sorgente ricca di acqua, come pure un tempio dedicato alla dea Soteria, ossia «Salvatrice», il cui culto la metteva in relazione con un’altra sorgente famosa molto lontana: i sacerdoti compivano infatti in suo onore un rituale che prevedeva dapprima un’offerta di cibo; poi «prendono dalla dea le focacce fatte alla maniera del luogo, le gettano in mare e dicono di mandarle alla Aretusa di Siracusa» (Pausania, VII, 24, 3; v. ALFEO e SIRACUSA per il mito di Aretusa). La «sorgente ricca di acqua» di cui parla Pausania esiste ancora, benché molto trasformata, sotto una terrazza della città attuale di Egio, in riva al mare e ornata di platani, uno dei quali è ancora tradizionalmente chiamato «Platano di Pausania» (cfr. Pausania, Guida della Grecia, VII, L’Acaia, note, p. 322).

EGIPLANCTO, in gr. Aigìplagktos. Monte della Megaride, in Grecia. È ricordato nella tragedia Agamennone di Eschilo, dove la notizia della vittoria riportata finalmente dai Greci su Troia viene diffusa attraverso fuochi che si accendono in successione sulle sommità di una serie di monti, dalla Troade alla Grecia, ivi compreso l’Egiplancto (281 ss.).

EGIRA v. IPERESIA.

EGITTO, in gr. Àigyptos. Nel mondo classico l’Egitto era considerato uno dei luoghi di più antica civiltà della terra, custode di saggezza, tradizioni e usanze che vi erano nate prima di estendersi poi a tutti gli altri paesi: si poneva agli estremi cronologici del mondo, agli albori di esso, un po’ come le Colonne d’Ercole o l’Oceano ne costituivano gli estremi spaziali e geografici. Il territorio dell’Egitto era stato definito dalle parole dell’oracolo di Ammone: «l’Egitto è tutta la regione che il Nilo irriga con le sue inondazioni e sono Egiziani coloro […] che bevono le acque di questo fiume» (Erodoto, II, 18, 3). Spesso infatti alla regione si alludeva menzionando semplicemente il suo fiume principale, il Nilo: «la terra dove scorre il Nilo» è chiamato per esempio l’Egitto nel primo verso dell’Elena di Euripide (v. NILO); ed Erodoto lo definisce «dono del fiume» (II, 5, 2). Un altro nome poetico con il quale la regione era talora indicata era Aeria (Gellio, XIV, 6, 4). L’etimologia del toponimo «Egitto» è ricordata, con la mescolanza di filologia e fantasia che caratterizza tutte le sue interpretazioni, da Isidoro di Siviglia: «Gli Egizi derivano il proprio nome da quello di un re chiamato Egitto: anteriormente, infatti, erano chiamati Aeri. In lingua ebraica il loro nome si interpreta come “coloro che affliggono”, dato che essi afflissero il popolo di Dio prima che fosse liberato dall’aiuto divino» (Etimologie, IX, ii, 60).

Il luogo d’origine degli dèi e degli uomini. Era opinione assai diffusa che all’origine della creazione dell’universo fu proprio in Egitto che nacquero i primi uomini, grazie al felice clima della regione e alla natura del fiume Nilo (Diodoro Siculo, I, 10, 1); così come in Egitto la tradizione mitica classica (tralasciamo qui di parlare degli dèi e dei miti egizi) poneva l’origine degli stessi dèi (ibid., I, 9, 6). D’altronde, quando sulla terra si scatenò il diluvio universale (detto Diluvio di Deucalione dal nome dell’unico uomo che si salvò), «se la maggior parte degli esseri viventi fu annientata, è verosimile che furono gli abitanti dell’Egitto meridionale a sopravvivere meglio degli altri, a causa dell’assenza pressoché totale di piogge nella loro regione» (ibid., I, 10, 4). Dopo aver ospitato la prima comparsa dell’uomo, dunque, l’Egitto ne aveva permessa anche la sopravvivenza attraverso quell’immane cataclisma. Come paese dove hanno origine gli dèi e gli uomini, l’Egitto è il luogo di nascita di innumerevoli istituzioni, usi, scoperte umane, tra le quali primeggia l’uso del linguaggio articolato (ibid., I, 12, 1). E poiché gli dèi nacquero in riva al Nilo, non sorprende che l’Egitto sia «l’unico paese dove numerosissime città furono fondate proprio dagli dèi: gli dèi antichi, come Zeus, Elio, Ermes, Apollo, Pan, Ilitia e molti altri» (ibid., I, 12, 6). Molte città egiziane, in effetti, derivavano il loro nome greco dall’identificazione di un dio greco con un dio locale dalle caratteristiche simili: per esempio Diospolis (Tebe) era la «città di Ammone», Eliopoli la «città di Ra», Ermopolis la «città di Thot» e così via. Una città sulla riva sinistra del Nilo, Herakleopolis Magna, nel territorio del Fayyum, derivava il nome dal culto di Harsaphes, una divinità in forma di ariete che veniva assimilata dagli autori classici a Eracle. Né sorprende che, come conseguenza dell’origine degli dèi in Egitto, molte delle loro vicende possano trovare proprio in questo paese la loro ambientazione ideale. O che molti dei principali eroi (da Cadmo a Eracle) potessero essere ricondotti alla terra d’Egitto, della quale si diceva che fossero originari: di un Eracle egizio – più antico di quello greco – parlano, per esempio, Erodoto (II, 43 e 145) e Diodoro Siculo (I, 24), secondo il quale il ruolo di purificatore delle terre dai mostri ben si addice a un eroe vissuto in un paese che, come l’Egitto, era infestato in alcune sue aree da temibili bestie feroci. Non soltanto si riteneva che gli antenati di Anfitrione e di Alcmena, i genitori di Eracle, fossero di origine egizia; c’era anche «questo sciocco racconto relativo a Eracle: dicono cioè che quando giunse in Egitto, gli Egizi lo incoronarono con delle bende e lo condussero in processione per immolarlo a Zeus; lui per un po’ rimase tranquillo, ma quando cominciarono presso l’altare i riti preliminari per il suo sacrificio fece ricorso alla forza e li massacrò tutti quanti» (Erodoto, II, 45, 1)

Il panorama degli dèi classici collegati all’Egitto è molto vasto. Nel nomo Mendesio dell’Egitto, regione situata nel nord-est del Delta del Nilo, Erodoto racconta che era particolarmente venerato il dio Pan, la divinità rappresentata con volto e zampe di capro; e che in generale tutte le capre e i caproni erano oggetto di particolare rispetto e venerazione. «Fra i caproni ne venerano uno in particolare e, quando muore, in tutto il nomo Mendesio si proclama un lutto solenne» (II, 46, 3). Il nesso fra la regione e il dio-caprone Pan sembra essere accentuato, secondo Erodoto, dal fatto che in egiziano sia «caprone» sia «Pan» si traducono con la parola mendes. E nella stessa regione ai suoi tempi «avvenne un fatto straordinario: un caprone si univa a una donna e la cosa era diventata uno spettacolo pubblico» (II, 46, 4). L’eccezionalità era data, più ancora che dall’evento in sé – probabilmente da mettere in relazione con riti miranti a ottenere la fertilità, non così insoliti in molte società antiche –, dal fatto che questa unione avveniva in pubblico e non, come ci si poteva aspettare, all’interno di un santuario o di un luogo di culto.

Osservatore curioso e attento della cultura egizia, Erodoto riconosce molti punti di contatto fra le divinità e i riti egizi e quelli greci, e non esita ad ammettere che la Grecia li abbia ereditati dall’Egitto. Le similitudini tra i culti di Dioniso praticati in Egitto e in Grecia, per esempio, gli fanno riconoscere che doveva esserci stato un passaggio diretto fra le due civiltà; e artefice di tale passaggio sarebbe stato un celebre indovino del mito, Melampo, che aveva anche eccezionali doti di guaritore (Odissea, XV, 225 ss.). Melampo doveva il suo nome al fatto che aveva i piedi neri (dal gr. mèlas, «nero», e poùs, «piede»): quando era nato, infatti, la madre lo aveva deposto all’ombra di un albero, ma i piedi rimasero al sole e risultarono quindi molto scuri e abbronzati. Melampo, dunque, «uomo sapiente, divenne padrone dell’arte divinatoria e importò in Grecia, con poche modifiche, molti culti conosciuti in Egitto, tra i quali anche quello di Dioniso», ed è verosimile che «abbia appreso il culto di Dioniso da Cadmo di Tiro e da quei Fenici che giunsero insieme a lui nella regione ora chiamata Beozia» (Erodoto, II, 49, 2-3).

Proteo ed Elena. L’estrema antichità della cultura egizia favorì dunque la collocazione in Egitto, da parte dei Greci, di molte divinità e di molteplici personaggi leggendari. Sovrano dell’Egitto nei tempi mitici era per esempio Proteo, figlio di Oceano e di Teti e divinità marina che cercava in tutti i modi, cambiando spesso forma, di sfuggire alle interrogazioni che gli venivano rivolte per le sue doti di veggente (Odissea, IV, 351 ss.). Il suo palazzo era collocato sull’isola di Faro (Euripide, Elena, 5), nella baia antistante la città egizia di Alessandria, oppure sulla terraferma, probabilmente a Menfi (così Erodoto; e «colonne di Proteo» era un’espressione usata per alludere, oltre che al suo palazzo, agli estremi confini orientali del mondo, simmetricamente alle «Colonne d’Ercole» che ne erano il confine occidentale: v. Virgilio, Eneide, XI, 262). Nella citata tragedia di Euripide Proteo è detto sposo di Psamate, una Ninfa delle acque, e padre di Teoclimeno e di una bambina di nome Eido, che divenuta adulta cambiò il proprio nome in Teonoe, «mente divina», con riferimento alla sua conoscenza di tutto il mondo divino e alla sua capacità di predire il futuro. E proprio in Egitto, secondo una versione del mito che era stata presentata per la prima volta da Stesicoro e che poi Euripide aveva fatto propria nell’Elena (cfr. vv. 666 ss.), Elena aveva trascorso tutto il tempo della guerra di Troia: essa non aveva seguito infatti in carne e ossa Paride a Troia, ma al suo posto era stato mandato un fantasma, una creatura fittizia a sua immagine e somiglianza, per volere di Era, che aveva voluto in tal modo punire Paride per via del famoso giudizio di bellezza nel quale le aveva anteposto Afrodite. La ben nota storia (v. IDA per i particolari) raccontava che nella gara di bellezza tra Era, Atena e Afrodite, della quale era stato scelto come giudice Paride, quest’ultimo avesse eletto come dea più bella Afrodite perché la dea della bellezza gli aveva promesso che gli avrebbe dato come sposa la donna più bella del mondo, Elena; perciò Paride, quando l’aveva vista alla corte di Menelao, secondo la versione corrente del mito l’aveva rapita portandola con sé a Troia e dando origine alla spedizione achea contro la sua città. Secondo l’altra versione, invece, Elena era rimasta in Egitto.

Con l’Egitto hanno a che fare anche altri personaggi del ciclo troiano. Nell’Odissea, per esempio, Ulisse menziona un’avventura che gli è capitata proprio in quel paese. Si trova sotto mentite spoglie nel suo palazzo di Itaca, dove è approdato in incognito, e come straniero viene accolto alla mensa che i Proci hanno imbandito nella sua stessa dimora. Qui Ulisse racconta loro di essere a sua volta un nobile e ricco signore, e di aver raggiunto Itaca in seguito ad alcuni rovesci di fortuna: Zeus lo aveva indotto infatti a unirsi a una spedizione di pirati che si spinse verso l’Egitto e che dopo l’approdo si diede a saccheggiare quelle terre portando via donne e ricchezze. Ne nacque un terribile scontro con gli indigeni, e lo stesso Ulisse venne fatto prigioniero e consegnato a Dmetore figlio di Iaso, re di Cipro, come bottino (XVII, 424-444).

Il mito di Io. In Egitto era collocata una parte della complessa vicenda che aveva per protagonista Io, figlia di Inaco, bellissima fanciulla amata da Zeus, che il dio, per metterla al riparo della gelosia di Era, trasformò in una giovenca, e che, anche così, fu sottoposta alle angherie della permalosissima dea attraverso la persecuzione di un tafano. Per sfuggirlo, la ragazza-giovenca scappò per ogni dove (per i particolari v. BOSFORO e CANOPO) e approdò infine in Egitto, dove, riacquistate le sembianze umane, diede alla luce un figlio, di nome Epafo (da epàphe, in greco «il tocco», naturalmente del dio), che nacque sulla riva del Nilo (presso «l’acqua del Nilo immune da malattie», come scrive Eschilo nelle Supplici, 561). L’implacabile Era, però, ordinò ai Cureti di farlo scomparire, e mentre Zeus, irato, uccideva i Cureti, Io percorreva l’intera Siria alla ricerca del figlio, che era stato raccolto e allevato dalla regina di Biblo; la sua ricerca fu alfine coronata da successo e la storia si conclude con il rientro di Io in Egitto, l’ascesa al trono di Epafo come re del paese e l’identificazione di Io stessa con la dea egizia Iside, con la quale la sua storia ha qualche punto in comune (Apollodoro, Biblioteca, II, 1, 3-4): nella mitologia egizia, poi ripresa dalla tradizione grecoromana, Iside è sposa di Osiride e madre del dio solare Oro; Seth, dio delle tenebre, uccide Osiride e ne fa a pezzi il corpo, e Iside vaga per il mondo alla ricerca delle membra dilacerate dello sposo, con un vagabondaggio che la accomuna anche alla figura di Demetra, parimenti costretta a percorrere la terra alla ricerca della figlia Persefone rapitale da Ade.

Tra i discendenti di Io e di Zeus si annoverava, oltre a Epafo, anche Egitto, che, divenuto re, diede il proprio nome alla regione, e che ebbe cinquanta figli, parallelamente al fratello Danao che ebbe cinquanta figlie; quando tra i due fratelli e i loro eredi sorsero contese dinastiche, Danao avrebbe lasciato il paese con le figlie, le Danaidi, a bordo di una nave che sarebbe stata, secondo la tradizione, la prima imbarcazione del genere che fosse mai stata costruita, complice l’aiuto di Atena (II, 1, 4).

Altri miti e aneddoti leggendari. Un curioso episodio ambientato in Egitto, con protagonisti storici ma inserito entro una cornice aneddotico-favolistica, viene riferito da Luciano di Samosata in uno dei suoi dialoghi: «Tolemeo figlio di Lago, riuniti gli Egizi nel teatro, mostrò loro molte altre meraviglie e alla fine due esseri mai visti, che aveva portato lui in Egitto, un cammello della Battriana tutto nero e un uomo di due colori, tale che una metà era perfettamente nera, l’altra straordinariamente bianca, e le due metà erano divise in modo da essere uguali». I due prodigi suscitarono però paura e ribrezzo nel pubblico egizio (Luciano, Dialoghi, 2 [71], 4). Un altro aneddoto che ha per protagonisti due amici greci e che si svolge in Egitto è quello relativo a Demetrio del Sunio e Antifilo di Alopece, raccontato dallo stesso Luciano nel dialogo Tossari o l’amicizia. I due, partiti insieme per visitare l’Egitto, «per vedere le piramidi e Memnone, poiché avevano sentito che le prime, essendo pur alte, non davano ombra, e che Memnone gridava al sorgere del sole» (la statua colossale di Memnone effettivamente emetteva suoni particolari all’alba), si dovettero presto separare perché Antifilo non reggeva al caldo e alla fatica del viaggio. Egli si trovò ben presto in ulteriori difficoltà a causa di un suo schiavo, Siro «di nome e di patria», che compì furti sacrileghi nel tempio di Anubi e venne scoperto e incriminato, trascinando con sé nell’accusa, in quando responsabile delle sue azioni, anche il proprio padrone. Il povero Antifilo fu così chiuso in carcere, dove sarebbe sicuramente morto per i disagi, gli stenti e le torture se Demetrio non fosse nel frattempo ricomparso al suo fianco, e, scoperto quel che era successo, non si fosse dato da fare per alleviare le sue sofferenze: egli, in una scena che sembra anticipare il celebre episodio di san Martino di Tours che dona al povero il proprio mantello, dopo averlo riconosciuto non senza sbigottimento per le condizioni spaventose in cui si trova, «diviso in due il suo mantello, ne indossa una metà egli stesso e, strappati all’amico i cenci sozzi e laceri che aveva, dà a lui l’altra». Si dedica poi a migliorare le sue condizioni di vita corrompendo i carcerieri, si fa addirittura incarcerare a sua volta per stargli vicino e poterlo assistere meglio, e finalmente, dopo varie vicissitudini, riesce a farlo liberare e ad avere giustizia: una storia commovente di profonda amicizia (41 [57], 34).

Secondo Ovidio (Metamorfosi, V, 74) veniva da Siene, in Egitto (oggi Assuan), l’eroe Forbas o Forbante, che combatte contro Perseo durante la rissa che si scatena alle nozze di Perseo stesso con Andromeda. Sempre nelle Metamorfosi, poi, Ovidio invoca Iside – dea identificata, come si è visto, con la greca Io, figlia di Inaco – come dea di Paretonio, di Marea e di Faro, località diverse del paese (IX, 773). E ancora, si narrava che quando il mostruoso Tifone (per il quale v. CILICIA) assalì il cielo, gli dèi si diedero alla fuga riparando in Egitto (Apollodoro, Biblioteca, I, 6, 3).

Le invenzioni degli Egizi. Agli Egizi costruttori di piramidi gli antichi Greci attribuivano capacità eccezionali non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello fisico, come abilissimi e robusti trasportatori di materiali pesanti (Aristofane, Uccelli, 1133; Rane, 1406). Si riteneva inoltre che «le arti matematiche si costituirono per la prima volta in Egitto, dove la casta sacerdotale poteva dedicarsi all’ozio» (Aristotele, Metafisica, 981 b). In età tardoantica era opinione diffusa che la scrittura fosse stata ideata da Iside, ritenuta regina d’Egitto (Isidoro, Etimologie, I, iii, 5; cfr. anche VIII, xi, 84); la stessa Iside avrebbe inventato anche il sistro: «da ciò anche il fatto che a suonare tale strumento a percussione siano le donne, poiché fu una donna a inventarlo» (ibid., III, xxii, 12).

Mirabilia. In Egitto vivevano, secondo alcune tradizioni, animali rari e fantastici, che si potevano trovare solo nelle plaghe più remote della terra, come il camaleonte (Plinio, Nat. Hist., XI, 188); sognarli poteva essere preannuncio di disgrazie (Artemidoro, Onirocritica, II, 13). Che eventi abbastanza singolari potessero avvenire sul suolo egizio è confermato da svariate fonti: Macrobio ci dice, per esempio, che dalla terra e dall’acqua piovana in Egitto nascono i topi (Saturnali, VII, 16, 12). Ma, con le parole di Plutarco, «contrariamente a quello che talvolta si crede, gli Egiziani non introducevano nei loro culti alcun elemento irrazionale, alcun prodotto della superstizione» (Iside e Osiride, 353 E). Di diverso parere sembrano altri autori: allo spirito superstizioso che regna in Egitto fa per esempio riferimento in più punti la Satira XV di Giovenale, che rievoca un «Egitto selvaggio» (44-45: Horrida sane Aegyptos). Quello stesso Egitto selvaggio, peraltro, produceva erbe medicinali ampiamente usate nella farmacopea greca e latina, a partire dall’epoca in cui Elena, come racconta l’Odissea (IV, 220 ss.), imparò a mescolare nel vino degli eroi un farmaco egizio che serviva a lenire il dolore e a sospendere il pianto e le lacrime persino davanti alle sofferenze più grandi, come la morte di un padre o una madre.

Per alcuni miti relativi a località specifiche dell’Egitto v. ABIDO; ACANTO; ALESSANDRIA; ANISI; ANTINOOPOLIS; ARCANDROPOLI; BABILONIA; BUBASTIS; BUSIRIDE; BUTO; CANOPO; CHEMMI; DAFNE PELUSIACA; ELIOPOLI; FARO; GIZAH; LABIRINTO; MAREA; MENDES; MENFI; MOERIS; NAUCRATI; NILO; PAPREMIS; PELUSIO; SAIS; SERBONIDE; TEBE D’EGITTO; TERRA NEBBIOSA; TERRA ROSSA; TROIA.

EGNAZIA v. MONOPOLI.

EGOSPOTAMI, in gr. Aigòs potamòi o potamòs, in lat. Aegos flumen. Piccolo fiume del Chersoneso Tracio, il cui nome significa «fiume della capra». Gli Ateniesi ricordavano una sconfitta che essi subirono sulle sue rive nel 405 a.C.; ma molto tempo prima di quell’evento storico si narrava che Anassagora di Clazomene, famoso filosofo ionico, nel 467-466 a.C. avesse predetto, «grazie alle sue conoscenze della dottrina astronomica, in che tempo un sasso sarebbe caduto dal sole; e questo accadde, in pieno giorno, presso Egospotami, in una regione della Tracia». La pietra, «grande come il carico di un carro», all’apparenza bruciacchiata, si conservava religiosamente e non era stata l’unico prodigio di quella giornata, perché nella notte si era vista anche una cometa solcare il cielo (Plinio, Nat. Hist., II, 149).

EIONE, in gr. Eiònes, -on. Città della Tracia situata sulla riva sinistra del fiume Strimone e porto di Anfipoli, ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia. A Eione, secondo una tradizione, l’eroe greco Fenice, compagno di Achille, venne seppellito da Neottolemo, figlio dello stesso Achille (Licofrone, Alessandra, 417).

ELATEA, in gr. Elàteia. Città della Focide. Era stata fondata da Elato, figlio di Arcade, l’eroe eponimo dell’Arcadia (Apollodoro, Biblioteca, III, 9, 1; Pausania, VIII, 4, 2 e ss., VIII, 48, 6 e X, 34, 3).

ELBA, ISOLA D′ L’isola del mar Tirreno, la maggiore dell’Arcipelago Toscano, era legata a molti episodi del mito. Vi sarebbe approdato Menelao durante le sue peregrinazioni nel Mediterraneo dopo la fine della guerra di Troia (Licofrone, Alessandra, 852-876). Era inoltre ricordata con il nome di Etalia nel mito degli Argonauti: gli eroi greci che avevano preso parte alla spedizione di Giasone alla conquista del vello d’oro, nella lontana Colchide, durante il viaggio di ritorno avevano percorso un complesso itinerario che li aveva portati a far scalo anche sulla costa dell’isola d’Elba. A ricordo del loro arrivo esisteva un porto chiamato Porto d’Argo (Argo era il nome della loro nave), che si identifica con l’odierna Portoferraio. Il nome del porto era spiegato, oltre che in relazione con la fondazione degli Argonauti (Strabone, V, 2, 6), anche come derivato dal colore bianco della spiaggia (in greco argòs significa «splendente», «lucente»). Giasone avrebbe consacrato sulle coste dell’isola un santuario a Eracle, sulla cui collocazione tuttavia le fonti non sono precise. Non meno problematica è l’interpretazione di una curiosa spiegazione che viene offerta dal mito per giustificare la presenza di numerosi ciottoli variopinti disseminati sulla spiaggia nel luogo in cui secondo il mito la nave Argo sarebbe approdata: con tali ciottoli gli eroi greci si sarebbero detersi il sudore dalla fronte, lasciando su di essi venature di colori diversi (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 654-658; Licofrone, Alessandra, 871-876; nelle parole di Strabone, V, 224 = 2, 6: «Le raschiature prodotte dagli strigili degli Argonauti, indurite, rimangono ancora oggi sotto la forma dei sassolini colorati che sono sulla spiaggia»; nella versione di Licofrone, «sul litorale restano le tracce dell’untume dei Minii raschiato dagli strigili; l’onda marina non le lava via né le deterge la pioggia di nevischio interminabile»). Con il nome di Ilva l’isola è menzionata tra le terre che si alleano con Enea nella sua guerra contro Turno (Virgilio, Eneide, X, 173): assicura al condottiero troiano trecento uomini e viene definita «isola generosa d’inesausti metalli dei Calibi», con riferimento al popolo semimitico dei Calibi che la tradizione legava alla metallurgia del ferro (la ricchezza di ferro dell’isola d’Elba era nota già agli antichi). Nella descrizione di Diodoro Siculo (V, 8) l’isola è chiamata Etalia: il nome greco era spiegato con riferimento al termine image, «fuliggine», «fiamma», e collegato con l’attività mineraria.

ELBO v. ANISI.

ELEA Città dell’Asia Minore, in Eolia. Secondo alcune tradizioni sarebbe stata fondata dall’eroe ateniese Menesteo durante il suo viaggio di ritorno dopo la guerra di Troia. Nella città aveva sede un importante culto di Atena, confermato anche dalla presenza dell’effigie della dea sulle monete locali. Originario di Elea era detto Augias, figlio del Sole, re dell’Elide, proprietario delle stalle che vennero ripulite da Eracle in una delle sue famose fatiche (Igino, Favole, 14). Diversa è la città di Elea in Italia meridionale (Campania), chiamata in origine Hyèla e dai Romani VELIA (v.), celebre per la scuola filosofica che vi si sviluppò tra VI e V secolo con Senofane, Parmenide e Zenone. Il toponimo greco Elàia significa letteralmente «oliva».

ELETTRIDE In greco il nome (Elektrìs nèsos) significa «isola dell’ambra» e indica una mitica isola ricordata da Apollonio Rodio nelle Argonautiche, dove è definita «l’isola sacra di Elettride, ultima fra tutte, accanto al corso dell’Eridano» (IV, 505-06). La menzione dell’Eridano non basta a dissipare le incertezze sulla sua collocazione, dal momento che il fiume è a sua volta variamente identificato; alcune fonti scientifiche antiche, poi, ricordano più isole con questo nome, mentre altri autori, come Strabone e Plinio, ne negano l’esistenza. Nei pressi della «rocciosa Elettride», comunque (Apollonio Rodio, IV, 580), uno dei travi di legno di cui era fatta la nave Argo, proveniente da una quercia del sacro bosco di Dodona, in Epiro, sede di un oracolo di Zeus, si mette a parlare, ordinando riti di purificazione per espiare l’assassinio di Apsirto, il fratello di Medea, ucciso da Giasone. Alle Elettridi fa riferimento anche lo Pseudo-Scimno (374), che le nomina al plurale, paragonandole, con altri gruppi di isole dell’Adriatico (tra cui le Apsirtidi, legate al mito del citato Apsirto; v. BRIGIE), alle isole Cicladi per la loro disposizione. In generale le fonti le collocano o alla foce del Po o nel golfo del Quarnaro (cfr. Strabone, V, 1, 9 = 215; Plinio, Nat. Hist., III, 151-152 e XXXVII, 31-32). Nell’isola si trovava un luogo sacro dove erano erette due statue di Dedalo e Icaro; e vi si trovava una palude «d’acqua calda» (Ps. Aristotele, 836 A-B): qui sarebbe precipitato Fetonte, il figlio del Sole (v. ERIDANO per i particolari).

ELEUNTE, in gr. Elaioùs, -oùntos, o Eleoùs. Località del Chersoneso tracio nella quale aveva sede un santuario dedicato al culto di Protesilao (Erodoto, VII, 33), il primo eroe greco a cadere sul suolo troiano all’inizio della guerra di Troia (v. FILACE per i particolari). Il santuario sorgeva nel luogo in cui secondo la tradizione era la tomba dell’eroe, circondata da un recinto sacro «dove si trovavano molti oggetti preziosi, coppe d’oro e d’argento, bronzo, vesti e altre offerte votive»; questi donativi furono sottratti da Artaucte, governatore della regione per conto del re di Persia, il quale violò anche la sacralità del santuario, facendo coltivare e seminare il terreno dove sorgeva e «unendosi a donne nell’interno del tempio» (Erodoto, IX, 116). Colto dall’assedio dei Greci mentre si trovava a Sesto, Artaucte cercò di fuggire, ma venne catturato e fatto prigioniero. Quando era sotto sorveglianza, a un Greco che lo aveva in custodia capitò un singolare prodigio: mentre si cucinava il pranzo, «i pesci salati, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano proprio come pesci appena pescati». I presenti erano stupefatti, ma Artaucte ritenne di avere una spiegazione e fece chiamare il Greco dicendogli: «Straniero di Atene, non avere paura di questo prodigio: non è per te: è a me che Protesilao di Eleunte vuol far sapere che, pur essendo morto e imbalsamato, ha dagli dèi la forza per vendicare chi lo ha offeso» (ibid., IX, 120). I cittadini di Eleunte chiesero che Artaucte fosse messo a morte per punirlo dei sacrilegi che aveva compiuto e la richiesta venne esaudita: «lo condussero sulla spiaggia […], lo inchiodarono e lo appesero a una tavola; quanto a suo figlio, lo lapidarono sotto i suoi occhi» (ibid.).

Sul sepolcro di Protesilao crescevano degli alberi «che da quel tempo lontano, ad ogni generazione, quando sono cresciuti abbastanza da arrivare a vedere Ilio diventano secchi e poi di nuovo riprendono a crescere» (Plinio, Nat. Hist., XVI, 238); ovvero, con le parole di un epigramma dell’Antologia Palatina: «Eroe Protesilao, […] gli alti alberi che verdeggiano intorno alla tua tomba sono tutti gravidi dell’odio contro Troia; se dai rami estremi scorgono Ilio, si disseccano, rifiutando l’ornamento delle foglie. Che collera bollente sentisti per Troia, se anche i tronchi serbano la tua ira contro i nemici!» (VII, 385; v. anche CHERSONESO).

Meno famoso era il mito di Demifonte, re di Eleunte, il quale, per far cessare una pestilenza, aveva ricevuto dall’oracolo l’ordine di uccidere ogni anno una ragazza proveniente da una delle famiglie più nobili della città. Quando la scelta cadde sulla figlia del nobile Mastusio, questi si vendicò uccidendo a sua volta le figlie del re Demifonte e facendone bere il sangue al padre, mescolato col vino in una coppa. Quando se ne accorse, Demifonte fece gettare in mare Mastusio, e da allora quel tratto di mare prese il nome di Mare Mastusio e il porto che vi si affacciava fu chiamato Cratere (Igino, Astronomica, II, 40).

La fondazione di Eleunte era attribuita a Egesistrato, un uomo di Efeso che, mandato in esilio a Delfi per aver ucciso un membro della sua stessa famiglia, interrogò l’oracolo per sapere dove doveva trasferirsi. L’oracolo gli disse che avrebbe dovuto insediarsi là dove avesse visto dei contadini portare delle corone di olivo. La scena gli si presentò in una località del Chersoneso tracio, dove alcuni contadini stavano celebrando una festa con la testa coronata di olivo; lì Egesistrato fondò la città di Eleunte (Plutarco, Parall., 315 F - 316 A).

ELEUSI, in gr. Eleusìs, -ìnos. Città dell’Attica a una ventina di chilometri a nordovest di Atene, alla quale era collegata dalla cosiddetta Via Sacra; fu celebre in tutto il mondo classico per il culto di Demetra e Persefone e per la celebrazione dei misteri, chiamati appunto eleusini, in onore delle due divinità. Era stata fondata da un eroe di nome Eleusi, figlio di Ermes e di Daira (a sua volta figlia di Oceano), oppure figlio di Ogigo o Ogige (Pausania, I, 38, 7); da Eleusi poi sarebbe nato Celeo. In età tardoantica Isidoro di Siviglia ricorda Ogige come mitico fondatore (Etimologie, XIII, xxii, 3). Sovrano di Eleusi era stato Eumolpo, capostipite della famiglia degli Eumolpidi, una stirpe sacerdotale alla quale era affidato il compito di celebrare i misteri eleusini; egli era figlio di Poseidone e di Chione (per la sua storia v. ATENE e cfr. Igino, Favole, 46 e Apollodoro, Biblioteca, III, 15, 5).

Demetra e Persefone. Secondo un mito che aveva a Eleusi il suo centro principale e costituiva il fondamento dei misteri eleusini, Persefone era stata rapita da Aidoneo, re degli Inferi, per farne la propria sposa, e sua madre Demetra aveva vagato per il mondo intero alla sua ricerca, trascurando, durante quell’affannoso viaggio, di assicurare la fecondità dei campi, com’era nel suo ruolo di dea delle messi; infine, scoperto per la rivelazione del Sole che Persefone era divenuta regina dei morti, aveva ottenuto dagli dèi che la figlia trascorresse una parte dell’anno negli Inferi, ma tornasse per la parte restante nel cielo fra gli dèi dell’Olimpo. Queste vicende, che implicavano un riferimento al tema della fecondità della terra e del ciclo delle stagioni, erano rievocate nelle celebrazioni dei misteri eleusini, rituali riservati agli iniziati che dovevano permettere di sperimentare verità fondamentali concernenti la sorte umana. A Demetra e Persefone erano affiancate nel culto di Eleusi le figlie di Celeo e la moglie di quest’ultimo, Metanira (cfr. Clemente Alessandrino, Protrepticon, III, 45, 1; Pausania, I, 39, 2); e si diceva che tutto fosse cominciato intorno a un pozzo. Nella città si trovava infatti un pozzo ritenuto sacro e variamente chiamato dalle fonti: viene indicato come «Pozzo Partenio», o «pozzo delle vergini» (o anche «pozzo dall’acqua limpida e pura»), nell’Inno omerico a Demetra (II, 99); come «Pozzo dei fiori» in altre fonti (Pausania, I, 39, 1: «Anzio», cioè appunto «dei fiori» in greco); ma più spesso come Callichoron (v. CALLICORO). Nei pressi di questo pozzo avviene, nell’inno omerico citato, un incontro tra Demetra e le figlie del re del luogo Celeo. La dea si è fermata alla fonte quando vi arrivano, per attingere acqua, le bellissime e giovani figlie del re, Callidice, Cleisidice, Demò e Callitoe: le ragazze si stupiscono di veder lì quella donna afflitta e sola, e la dea, celando la propria vera identità, racconta loro di essere stata rapita a Creta da un gruppo di pirati e di essere riuscita a sfuggire loro fortunosamente. Le ragazze, colpite dalla sua storia, la invitano a recarsi a palazzo reale dove potrà occuparsi dell’ultimogenito, Demofonte, in qualità di governante. Come racconta il seguito dell’inno, Demetra porrà il piccolo Demofonte nel fuoco per renderlo immortale, ma la madre Metanira, scopertala, e ignorando la sua natura divina, lo sottrarrà terrorizzata alle fiamme. È allora che Demetra, svelando la propria identità, annuncerà alla sconvolta Metanira e agli «stolti esseri umani, incapaci di prevedere il destino della gioia o del dolore che incombe», la sorte che sarebbe toccata al giovane Demofonte, e insieme ordinerà la costruzione di un grande santuario che si discute se sia identificabile con quello che ancora oggi offre allo sguardo del visitatore di Eleusi le sue affascinanti rovine, il Telesterion. «Per me un grande tempio, e in esso un’ara, tutto il popolo innalzi ai piedi della rocca e del suo muro sublime, più in alto di Callicoro, sopra un contrafforte del colle; io stessa v’insegnerò il rito, affinché in futuro celebrandolo piamente possiate placare il mio animo»: a prescindere dalla discussione sulla specifica localizzazione del tempio, ci troviamo nel passo citato di fronte alla fondazione dei misteri eleusini (Inno omerico a Demetra, II, 270 ss.). Quanto alla costruzione del santuario, esso era stato eretto, secondo Plutarco (Pericle, XIII, 4), da un mitico architetto di nome Corebo, dopo la morte del quale i lavori furono affidati a Metagene e Xerocle.

Il nesso tra Eleusi e il mito di Demetra-Cerere è ribadito da Ovidio nel racconto dei Fasti (IV, 508 ss.): anche nella sua versione è proprio a Eleusi che il re Celeo, presentato qui nelle vesti di un modesto contadino, accoglie presso di sé la dea che vaga alla ricerca della figlia e le offre la sua modesta ma calorosa ospitalità. Ed è sempre a Eleusi che la dea, con il suo bacio, riporta in vita il figlioletto di Celeo e Metanira, Trittolemo, che appariva come morto, guadagnandosi la perenne riconoscenza dei genitori; al piccolo la dea vorrebbe conferire l’immortalità immergendolo nelle fiamme del focolare, ma la madre, ignara della natura divina di Cerere, lo strappa orripilata dal fuoco, impedendo che il prodigio si compia, benché Cerere faccia comunque di Trittolemo, seppure rimasto mortale, il primo uomo capace di arare la terra (sulla figura di Trittolemo cfr. Pausania, I, 14, 1-4; Apollodoro, Biblioteca, I, 5). Alcune versioni del racconto dicevano che il padre di Trittolemo si chiamasse Eleusi, dal quale derivò il nome della città (Igino, Favole, 147). Tra i figli di Trittolemo si annoverava anche Croco o Crocone, secondo una tradizione il primo signore di Eleusi, capostipite mitico di una stirpe di sacerdoti di Demetra e Core chiamati Croconidi; a Eleusi ai tempi di Pausania si indicava ancora una località chiamata «Reggia di Crocone» (Pausania, I, 38, 2). Croco, che secondo altre versioni del mito era figlio di Celeo e Metanira, o secondo altre ancora sposo di una figlia di Celeo, era messo in relazione con la pianta del croco, che aveva un ruolo nella celebrazione dei misteri.

La descrizione dei rituali misterici attiene alla storia delle religioni più che alla mitologia, e, per la natura segreta, appunto misterica, cioè riservata agli iniziati, delle celebrazioni, molti loro aspetti restano oscuri. Tra gli iniziati si ricordava anche Eracle (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 12); tra i riti, lo stesso Inno omerico citato menziona (vv. 265 ss.) una cerimonia che si svolgeva annualmente in onore di Demofonte: «ogni volta che l’anno avrà compiuto il suo ciclo attraverso le stagioni, i figli degli Eleusini per sempre eseguiranno un combattimento fra loro, una mischia violenta»: si trattava di un rito legato ai temi della purificazione e della successione delle stagioni.

Altri miti del territorio eleusino. Lungo la Via Sacra che collegava Atene a Eleusi si trovava la casa di Fitalo, un personaggio che accolse presso di sé Demetra durante le sue peregrinazioni alla ricerca della figlia; si narrava che la dea, in cambio dell’ospitalità ricevuta, avesse donato a Fitalo la pianta del fico, fino a quel momento sconosciuta. Sul posto era venerata la tomba dello stesso Fitalo, il cui epitaffio recitava: «Qui il signore eroe Fitalo accolse un tempo la veneranda Demetra, quando ella per la prima volta fece spuntare il frutto della tarda estate, che il genere umano chiama sacro fico: da allora la stirpe di Fitalo ebbe onori immortali» (Pausania, I, 37, 2). Lungo la stessa Via Sacra si ambientava poi un altro evento mitico che aveva avuto per protagonisti due discendenti di Cefalo, chiamati Calcino e Deto. Questi ultimi vivevano esuli da Atene per un’antica colpa della quale si era macchiato Cefalo, loro antenato: egli aveva ucciso la propria moglie Procri e per questo era stato cacciato dalla città con tutta la sua discendenza. Calcino e Deto, interpellato l’oracolo di Delfi per sapere quali comportamenti tenere per essere riammessi ad Atene, ricevettero un responso sibillino: dovevano per prima cosa fare un sacrificio ad Apollo in quella regione dell’Attica dove avessero visto una nave trireme correre sulla terra. Essi si imbatterono poco dopo, presso il monte Pecilo («multicolore»), in un serpente che correva strisciando sulla terra verso la propria tana, e compresero che quella era la trireme indicata dall’oracolo. In quel luogo compirono dunque il sacrificio prescritto e così ottennero di poter ritornare ad Atene, mentre nel luogo dell’apparizione edificarono un tempio ad Apollo (Pausania, I, 37, 6-7). Lungo la via tra Atene ed Eleusi era ambientato anche un mito che aveva al suo centro Imeneo, un giovane di Atene; questi, mentre si recava a Eleusi con un gruppo di ragazze, venne rapito dai pirati insieme con le giovani, confuso fra di esse per la sua straordinaria bellezza. Egli riuscì però a liberarsi, a uccidere i pirati e a convolare a nozze con la fanciulla che amava; da quell’episodio si diceva che il nome del ragazzo fosse stato dato al canto nuziale, detto in greco appunto «imeneo» (Servio, ad Aen., IV, 99).

A Eleusi furono seppelliti gli eroi greci che parteciparono alla famosa guerra dei Sette contro Tebe cantata dal mito: poiché i corpi dei guerrieri che avevano marciato e combattuto contro la città erano rimasti insepolti fuori dalle sue mura e i Tebani si rifiutavano di dar loro sepoltura e di autorizzare i parenti a farlo, Teseo, re di Atene, ergendosi a protettore degli oppressi, ricevette un’ambasceria delle madri e delle vedove dei Sette caduti, ascoltò le loro preghiere e mosse guerra ai Tebani, recuperando le spoglie e seppellendole con tutti gli onori a Eleusi (v. anche ELEUTERE). La vicenda, che si prestò spesso a essere riletta per fini propagandistici come una prova del ruolo di Atene quale protettrice degli oppressi e vendicatrice delle ingiustizie, era al centro delle Supplici di Euripide, che è ambientata proprio a Eleusi, nel tempio di Demetra: qui, nel primo verso, la dea è invocata come «protettrice della terra eleusina» (cfr. anche Erodoto, IX, 27, 3, Plutarco, Teseo, 29, 4 ss. e Pausania, I, 39, 2). Il citato eroe Teseo era ricordato in relazione con Eleusi anche perché egli aveva vinto nella lotta l’arcade Cercione, uccidendolo: Cercione si era stabilito nei pressi di Eleusi e sfidava nella lotta tutti coloro che passavano dalle sue parti, avendo sempre la meglio e facendo strage dei malcapitati alla fine del combattimento (Plutarco, Vita di Teseo, 11,1; Ovidio, Metamorfosi, VII, 439; Pausania, I, 39, 3 ricorda che ancora ai suoi tempi c’era un luogo chiamato Palestra di Cercione); Teseo lo aveva vinto «sollevandolo in alto e fracassandolo al suolo» (Apollodoro, Epitome, I, 3).

Altri miti ambientati nel territorio di Eleusi erano quello di Alope, eroina che aveva dato il suo nome a una sorgente che scaturiva nei pressi della città (Igino, Favole, 187; per i particolari v. ALOPE); quello di Ascalabo, giovinetto che per aver riso vedendo Demetra che si dissetava bevendo d’un fiato l’acqua che le era stata offerta, venne dalla dea tramutato in lucertola (Ovidio, Metamorfosi, V, 446-461); e quello di Museo, compagno delle Muse, cantore e indovino, al quale era attribuita l’introduzione in Attica dei misteri eleusini.

Tra storia e leggenda. Dal mito alla storia, sia pure con un alone di leggenda: durante le guerre persiane un prodigio era avvenuto nei pressi di Eleusi poco prima della battaglia navale di Salamina. Si era visto avanzare da Eleusi e procedere attraverso la pianura Triasia un turbine di polvere, quale avrebbe potuto essere sollevato da trentamila uomini in marcia; e contemporaneamente si era sentita una voce che sembrava ripetere l’invocazione rituale di Iacco, ossia il grido che veniva innalzato durante la celebrazione dei misteri eleusini. Dal turbine e dalla voce si levò poi una nube che si diresse verso Salamina e sull’accampamento dei Greci: il prodigio venne interpretato come un segno del favore divino e dell’imminente disfatta navale dei Persiani (Erodoto, VIII, 65).

ELEUTERE, in gr. Eleuthèr, -èros. Piccolo villaggio fortificato dell’Attica, non lontano da Atene e vicino al confine con la Beozia. È ricordato nelle Supplici di Euripide come luogo dove Teseo dà sepoltura agli eroi argivi caduti nella battaglia dei Sette contro Tebe che erano stati lasciati senza gli onori funebri in quanto assalitori della città. Le vedove, le figlie e le madri delle vittime si erano recate presso Teseo per chiedere il suo aiuto allo scopo di compiere i riti, dal momento che Creonte, il re tebano, non voleva saperne di permettere loro di recuperare le salme. Teseo riesce nell’intento, nel suo duplice ruolo di re di Atene e di valoroso combattente, e dà sepoltura ai caduti sulle pendici del Citerone, «dove c’è l’ombrosa rupe di Eleutere» (v. 759). Nei pressi di Eleutere, alle pendici del monte Citerone, si trovava anche una grotta non particolarmente grande, nella quale, secondo la leggenda, Antiope, regina delle Amazzoni, dopo aver partorito i figli Anfione e Zeto, nati dalla sua unione con Zeus, li depose e li abbandonò; un pastore li trovò e li lavò presso la vicina fonte (Pausania, I, 38, 9; Apollodoro, Biblioteca, III, 5, 5). Il toponimo derivava dal nome di Eleutero, figlio di Licaone, che fondò la città.

ELICE, in gr. Elìke. Città greca dell’Acaia, nel Peloponneso, ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia; fa parte dei possedimenti di Agamennone. Vi era radicato il culto di Poseidone, come si legge nell’Iliade (XX, 401 ss.), dove la caduta dell’eroe troiano Ippodamante e il rantolo della sua agonia sono paragonati al muggito di un toro «mentre lo tirano i giovani intorno all’altare del signore di Elice, di Poseidone che, al vederli, si rallegra nell’animo». Dal nome di Elice Poseidone riceveva l’epiteto di «Eliconio» con il quale era venerato (che poteva però derivare anche dal monte Elicona).

La collocazione precisa dell’antica città, la principale dell’Acaia, non è nota; Pausania racconta che essa andò completamente distrutta a causa di un terremoto che «sottrasse alla vista dei posteri non solo le costruzioni, ma, insieme alle costruzioni, anche le loro fondamenta» (VII, 24, 6). Il terremoto era stato causato dall’empietà dell’uomo: era infatti una conseguenza dell’ira di Poseidone, divinità che presiedeva a terremoti e maremoti e che aveva tra i suoi epiteti anche quello di Gaieochos, «scuotitore di terra». La collera del dio era stata provocata dal sacrilegio degli Achei, i quali uccisero alcuni supplici che si erano rifugiati nel suo santuario diventando perciò inviolabili («non fare torto ai supplici: i supplici sono sacri e degni di rispetto», aveva detto una volta lo Zeus di Dodona: ibid., VII, 25, 1). Poseidone, furibondo, scatenò la forma di terremoto peggiore di tutte: «il terremoto più distruttivo», quello che «penetra direttamente sotto gli edifici e scuote le fondamenta, così come le opere delle talpe si sollevano dalle viscere della terra. Questo è il solo genere di terremoto che non lascia sulla terra nessun segno della precedente occupazione umana». Tale, appunto, fu il terremoto che colpì Elice, e a esso si aggiunse una violenta onda di maremoto: «il mare invase gran parte del territorio e circondò completamente Elice; in particolare, l’onda marina inondò a tal punto il bosco di Poseidone che si potevano vedere soltanto le cime degli alberi». I flutti, così, «trascinarono via Elice e tutti i suoi abitanti» (Pausania, VII, 24, 11-12), anche se i suoi resti rimasero visibili, benché corrosi dall’acqua salsa. La catastrofe che distrusse Elice, avvenuta storicamente nel 373 a.C., suscitò una grande eco in numerose fonti letterarie antiche, e il luogo dove la città aveva avuto sede ed era scomparsa nel mare divenne molto presto meta di visite: secondo Strabone, per esempio, Eratostene si era recato sul posto e parlando con alcuni pescatori aveva saputo che in fondo al mare giaceva una statua di Poseidone nella quale spesso si impigliavano le reti (Strabone VIII, 384).

Elice è ricordata dalla mitologia anche a proposito dello scontro tra Eracle e Cicno, un predone che depredava tutti coloro che recavano offerte al santuario di Delfi, uccidendo i malcapitati con l’intenzione di erigere ad Apollo un tempio di crani umani. Eracle lo sconfisse e le urla del combattimento fecero risuonare tutte le città vicine, compresa Elice (cfr. lo Scudo pseudo-esiodeo, vv. 380 ss.). Nell’Inno a Delo di Callimaco, poi, Elice è ricordata fra le località che rifiutarono di offrire ospitalità a Latona o Leto, madre di Apollo e Artemide, che cercava un luogo per partorire i divini gemelli (IV, 101).

Il nome della città derivava da quello di un’eroina, Elice, unica figlia di Selinunte re degli Egialesi, che fu data in sposa a Ione, portandogli come dote anche il regno di Egialo, territorio corrispondente all’Acaia (Pausania, VII, 1, 3-4; v. anche ACAIA). Il toponimo «Elice» sarebbe però più propriamente da mettere in relazione col termine greco hèlix che indica la spirale e tutto ciò che di spirale ha la forma, come i tralci e i viticci: potrebbe significare quindi «luogo dei viticci», secondo un’etimologia comune anche ad altre località della Grecia (v. per esempio ELICONA).

ELICONA Massiccio montuoso della Grecia, tra la Beozia e la Focide, che fin dalle epoche più antiche era collegato alla poesia perché considerato la sede delle Muse. «Esse abitano il grande e sacro monte dell’Elicona e danzano coi piedi delicati attorno alla fonte dall’acqua color di viola ed all’altare dell’onnipotente Cronide [Zeus]; […] esse sono solite intrecciare belle e incantevoli danze sulla cima» dello stesso monte (Esiodo, Teogonia, 2-7). Ai piedi dell’Elicona Esiodo pascolava le sue greggi di agnelli quando le Muse gli apparvero e gli «ispirarono una voce divina», perché egli potesse cantare «le cose che saranno e le cose che furono» (ibid., 22 ss.). Esiodo era infatti nativo di Ascra, località alle falde dell’Elicona, «cattiva d’inverno, pessima d’estate, giammai confortevole», dove suo padre, «fuggendo la cattiva povertà», si era stabilito dopo aver attraversato un lungo tratto di mare e aver abbandonato «Cuma eolica» (Opere e giorni, 635 ss.). Ancora in età romana si ricordava che sull’Elicona Esiodo dedicò alle Muse un tripode che commemorava la sua celebre tenzone poetica con Omero, nella quale aveva riportato la vittoria (Aulo Gellio, Notti Attiche, III, 11, 3); sul tripode si leggeva l’iscrizione: «Esiodo questo dedicò alle Muse dell’Elicona, dopo aver vinto nel canto a Calcide il divino Omero» (Antologia Palatina, VII, 53). Anche l’origine della poesia latina veniva posta all’ombra dell’Elicona: Lucrezio menzionava «il dilettoso Elicona» (l’aggettivo latino è amoenus) come luogo dal quale il poeta Ennio, considerato il padre della lingua poetica latina, «per primo recò una ghirlanda di fronde perenni» (De rerum natura, I, 117-118), ossia fondò la poesia latina: nel proemio dei suoi Annali Ennio infatti immaginava che in sogno gli fosse apparso Omero per rivelargli la dottrina della metempsicosi e per spiegargli che proprio in lui si era reincarnato. Il nesso tra l’Elicona e la poesia poteva poi essere menzionato anche in un contesto ironico: nel dialogo Zeus tragedo di Luciano di Samosata, a proposito di Apollo, si insinua che sieda «sull’Elicona a filosofare con le Muse senza nessuno scopo» (44 [21], 26). Anche altrove Luciano ricorda l’Elicona, «dove si dice che le dee s’intrattengano» (A un incolto che compra molti libri, 58 [31], 3).

Diversi episodi del mito erano ambientati sul monte. Alle boscose pendici dell’Elicona fa riferimento Euripide nell’Eracle (v. 240): qui si dice che il re Lico, che ha usurpato il trono di Tebe durante l’assenza di Eracle, manda i suoi servi a far legna proprio su questa montagna per accendere un grande rogo sul quale bruciare i figli e i parenti di Eracle, legittimi eredi del regno. Sembra di cogliere in questo un sinistro scherzo del destino, giacché proprio «ai piedi del divino Elicona» (Teocrito, Carmi bucolici, XXV, 209 s.) Eracle si era procurato la clava che costituisce, insieme con la pelle del leone Nemeo gettata sulle spalle, uno dei suoi tipici attributi, «bastone massiccio di oleastro imponente con la sua corteccia e il midollo», che egli stesso aveva «trovato e divelto tutto intero con le fitte radici». Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Elicona è menzionato tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). E sull’Elicona si reca Pallade Atena per ammirare la sorgente recentemente scaturita «dal duro zoccolo di Pegaso», il cavallo alato che era nato dal sangue di Medusa, decapitata da Perseo. «A lungo ammirò le linfe sgorgate dai colpi di zoccolo, contemplò tutt’intorno i recessi delle foreste secolari, le grotte e i prati punteggiati d’innumerevoli fiori…» (Ovidio, Metamorfosi, V, 256 ss.; per la nascita di Pegaso v. anche TARTESSO; la sorgente era nota con il nome di IPPOCRENE, v.). Una singolare spiegazione della nascita della sorgente dallo zoccolo di Pegaso era offerta da Antonino Liberale (Metamorfosi, IX) secondo il quale quando le Muse cantavano «l’Elicona, affascinato dal piacere di ascoltarle, cresceva al punto di raggiungere il cielo, fino a quando, per ordine di Poseidone, Pegaso lo arrestò, colpendone la cima con il suo zoccolo». Accanto alla fonte Ippocrene, un’altra sorgente famosa che sgorgava dalle pendici dell’Elicona era chiamata Aganippe. Più tardi Avieno, traducendo i Fenomeni di Arato, ricorda poi una enigmatica «roccia dei misteri» che «mormora di fronte alle dotte caverne» proprio sul monte Elicona (v. 491). E Colluto, nel Ratto di Elena (v. 23), definisce l’Elicona «regno delle api».

Nell’Inno omerico a Poseidone (XXII, 3) si ricorda che sull’Elicona regna il dio marino Poseidone, signore anche dell’«ampia Ege»; «Eliconio» è uno degli epiteti del dio (che alcuni facevano peraltro derivare anche da ELICE, v.). «Abitatore del colle d’Elicona» è chiamato anche Imeneo, dio delle nozze, da Catullo (LXI). Il toponimo (in gr. Helikòn, -ònos) è da ricondurre al termine greco hèlix, «spirale», da cui deriverebbero i diversi usi della parola, anche per indicare il viticcio, il tralcio: «Elicona» sarebbe allora «il monte dove crescono i viticci» (per questa etimologia v. anche ELICE).

Oltre che a un monte, il nome si riferiva anche a un fiume che scaturisce da quella stessa montagna e che, dopo un primo tratto, sparisce sotto terra per ricomparire poi più a valle (questa seconda parte del suo corso era chiamata Bafira); si diceva che lo strano andamento carsico del fiume fosse stato provocato dal fatto che dopo aver ucciso Orfeo le donne di Tracia avessero voluto lavarsi con la sua acqua, e che esso, per non contaminarsi con il sangue della vittima di un così barbaro assassinio, avesse preferito inabissarsi nelle viscere della terra e scomparire (Pausania, IX, 30, 8; per l’uccisione di Orfeo v. TRACIA).

ELIDE, in gr. Èlis, -idos. Regione del Peloponneso nordoccidentale che comprendeva le aree dell’Elide propriamente detta, della Pisatide e della Trifilia: vi scorrevano i fiumi Alfeo e Peneo e la parte settentrionale della regione, l’Elide in senso stretto, nella quale il Peneo scavava la sua valle, era chiamata Elide Cava (Tucidide, II, 25, 3). L’Elide è ricordata per la prima volta nella mitologia nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), dove sono elencati gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia: le novanta navi dell’Elide sono capeggiate da Nestore, figlio di Neleo e considerato uno dei più anziani e dei più saggi fra gli eroi greci che prendono parte alla spedizione. Nell’Odissea la regione è descritta come «Elide dai larghi spazi di danza» (IV, 635) e anche come «Elide luminosa, dove signoreggiano gli Epei» (ibid., XIII 275); e si dice che uno dei Proci, i pretendenti alla mano di Penelope, Noemone figlio di Fronio, vi aveva dei cavalli (ibid., IV, 635-637). Fin dall’epos omerico l’Elide ebbe sempre un ruolo centrale nel mito, anche perché nel suo territorio sorgevano alcune delle località sede dei più importanti cicli mitici greci, come OLIMPIA, PILO e PISA (v.).

Uno dei re dell’Elide fu Augias, figlio del dio Sole, Elio, e proprietario di ricche mandrie di bestiame. Eracle, al servizio del re Euristeo, dovette compiere, tra le sue dodici fatiche canoniche, anche quella di ripulire le stalle di Augias, che erano grandi, numerose e sparpagliate sul territorio: «Le greggi dai bei velli del re Augias non si nutrono tutte a un solo pascolo o a una sola contrada; ma alcune pascolano sulle rive attorno all’Elisunte [fiume al confine tra Elide e Pisatide], altre presso la sacra corrente del divino ALFEO [v.], altre a BUPRASIO [v., a nord dell’Elide] ricco di grappoli […]; separatamente sono fatti gli ovili per ciascuna di esse» (Teocrito, Carmi bucolici, XXV, 7-12). Per ripulire le stalle Eracle fece ricorso alle acque di un fiume che scorreva nelle vicinanze, dirottandone il corso in modo che passasse dentro le stalle stesse: il fiume in questione, ricordato variamente nei testi, era il Peneo oppure il Menio, sul quale sorgeva la città di Elide, oppure l’Alfeo (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 5). Una descrizione delle stalle si legge ancora in Teocrito: «La stalla […] è tutta ben visibile, oltre la corrente del fiume, là dove crescono i platani fittissimi e il verde oleastro del tempio sacro di Apollo Nomio», signore e protettore del bestiame. «Accanto, gli alloggi estesissimi per i contadini […]; tutta questa pianura appartiene all’accorto Augias» (Carmi bucolici, XXV,18 ss.). La pulitura delle stalle dovette essere per Eracle una fatica indimenticabile, se poco prima di morire, distrutto dalla camicia di Nesso (v. EVENO), egli la ricorda tra le proprie gesta gloriose rievocando «le imprese di Elide» (Ovidio, Metamorfosi, IX, 187). Il re Augias era considerato l’inventore della concimazione dei campi mediante il letame; questo sistema sarebbe stato poi divulgato in Italia da Eracle stesso, e per questa invenzione l’Italia avrebbe tributato l’immortalità al proprio re Stercuto (nome parlante!), figlio del dio Fauno (Plinio, Nat. Hist., XVII, 50).

I numerosi riferimenti al mito evocati dal territorio dell’Elide sono riepilogati da Luciano di Samosata nel suo trattatello Sulla danza: «Anche Elide offre molti spunti […]: Enomao, Mirtilo, Crono, Zeus e i primi atleti dei Giochi olimpici» (33 [45], 47): tutti i personaggi citati sono legati alla fondazione e alle prime celebrazioni dei Giochi (per i quali v. OLIMPIA). Alle competizioni olimpiche legò il suo nome anche Amitaone, nato a Iolco da Creteo e Tiro, successivamente insediatosi a Pilo, la città di Neleo di cui egli era fratellastro, dove gli nacquero i figli Melampo e Biante: Amitaone è ricordato per aver rinnovato i Giochi olimpici (Pausania, V, 8, 2) e in suo onore una pianura dell’Elide era chiamata Amitaonia. Indipendentemente dalle diverse narrazioni relative all’origine dei Giochi olimpici, l’opinione che a Elide fossero stati inventate le corse con le quadrighe era molto diffusa (Igino, Favole, 274); un accenno al mito di Ippodamia, sposa di Pelope e figlia di Enomao, e all’Elide che le venne data in dote, con le ricchezze che la regione «si era procurata con i cavalli», ossia appunto con le gare dei cocchi, si legge in Properzio (I, 8, 35-36).

La regione era legata anche ad altri personaggi e miti celebri. La fondazione della città di Elide, per esempio, secondo Apollodoro (Biblioteca, I, 7, 5) si doveva a un eroe di nome Endimione, per alcuni figlio di Zeus, per la sua straordinaria bellezza amato da Selene; Zeus gli concesse il dono di poter dormire per sempre, restando perennemente giovane e immutato, senza morire e senza invecchiare mai (v. CARIA, ERACLEA, LATMO). Ancora, l’Elide «ricca di cavalli» è menzionata da Valerio Flacco nelle Argonautiche (I, 389) tra le regioni che partecipano alla spedizione di Giasone alla ricerca del vello d’oro nella remota Colchide. Altri episodi del mito erano invece meno noti: come quello dell’etolo Ossilo, discendente di Etolo, ritenuto fondatore di Elide, collegato alla saga del ritorno degli Eraclidi. Questi ultimi avevano avuto dall’oracolo l’indicazione di cercare un eroe «con tre occhi», e ritennero di riconoscerlo appunto in Ossilo, che per essere stato colpito da una lancia aveva perso un occhio e apparve loro in sella a un cavallo, totalizzando così nell’insieme i tre occhi richiesti (per i particolari v. NAUPATTO). Poco noto è anche Molpide, un eroe che salvò la regione dalla terribile siccità che l’aveva colpita sacrificando se stesso a Zeus Ombrio, signore della pioggia; gli abitanti del luogo, per riconoscenza, gli eressero una statua nel tempio del dio, e l’Elide è chiamata in suo onore «roccia ampia di Molpide» da Licofrone (Alessandra, 159).

V. anche ALFEO e PENEO.

ELIMIA, in gr. Elimìa o Elìmeia. Città dell’Arcadia situata fra Orcomeno e Mantinea, che recava nel suo nome il ricordo dei rapporti mitici che legavano gli Arcadi con l’antichissima popolazione degli Elimi, cioè dei discendenti dei Troiani che dopo la caduta di Troia fuggirono in Occidente e si stanziarono in Sicilia (cfr. Senofonte, Elleniche, VI, 5, 13). Questa città è diversa da Elima, per la quale v. ERICE.

ELIOPOLI, in gr. Heliòpolis. Città sacra dell’antico Egitto, nota anche con il nome di «Porte del Sole» (Diodoro Siculo, I, 96, 7), dove era praticato il culto del Sole e dove secondo il mito greco la fenice, simbolo del sole nascente, era oggetto di particolare venerazione. La fenice era rappresentata come un uccello simile a un airone cinerino o purpureo: «le penne delle ali sono in parte color oro, in parte rosse; per sagoma e grandezza è assai simile all’aquila». Essa compariva a Eliopoli ogni cinquecento anni, trasportandovi, dall’Arabia, il corpo del proprio padre morto avvolto nella mirra, per seppellirlo in quel santuario. Il trasporto avverrebbe in questo modo stupefacente: «innanzitutto [la fenice] foggia un uovo di mirra, grande quanto è in grado di portare»; indi, dopo essersi accertata di essere in grado di sollevarlo in volo, «svuota l’uovo per mettervi dentro il padre e con altra mirra ricopre il foro aperto nell’uovo» per introdurvelo; e quando è «così avvolto interamente nella mirra lo trasporta in Egitto nel santuario di Helios» (Erodoto, II, 73). Si riteneva che esistesse un unico esemplare della specie, e che avesse altre caratteristiche sorprendenti: per esempio nessuno lo aveva mai visto mangiare, e la sua vita durava centoquaranta anni. Il giovane uccello porta il suo nido presso la PANCHEA (v.) o Pancaia (regione dell’Arabia), o nella Città del Sole, appunto Eliopoli, dove lo depone su un altare (Plinio, Nat. Hist., X, 3-4). Alcune tradizioni raccontavano che la fenice vivesse in India, sulle rive del Gange («uccello del Gange» è chiamata da Ausonio, Lettere, 20, 9). Le opinioni che circolavano nell’antichità sul mitico uccello e sui suoi rapporti con Eliopoli sono riassunte da Tacito (Annali, VI, 28), il quale precisa che di ciò che si racconta intorno alla fenice «tutto è incerto e arricchito da favole; però che questo uccello si mostri talvolta in Egitto», appunto nel territorio di Eliopoli, «è cosa intorno alla quale non v’è alcun dubbio».

Eliopoli era definita «città di Iperione» da Ovidio (Metamorfosi, XV, 406). Iperione era uno degli epiteti del Sole (significa propriamente «che va al di sopra» della terra), anche se in alcune versioni del mito si legge che era uno dei Titani e padre del Sole.

ELLADE, in gr. Hellàs, -àdos. Il nome, che era in origine quello di una città della Tessaglia meridionale fondata da Elleno e che designò a seconda delle epoche, fino ai giorni nostri, in parte o interamente il territorio della Grecia, è oggetto di una riflessione dello storico greco Tucidide, che lo incornicia entro una serie di eventi mitici: «Prima della guerra di Troia non sembra che l’Ellade abbia svolto nessuna azione in comune. Ritengo anzi che essa nel suo insieme non avesse ancora neppure questo nome, ma che prima di Elleno, figlio di Deucalione, tale denominazione non esistesse affatto» (I, 3, 1-2). Deucalione, figlio di Prometeo e sposo di Pirra, era l’unico mortale sopravvissuto al grande diluvio che aveva sommerso la terra nei più antichi tempi mitici. Da suo figlio Elleno erano discese, secondo la mitologia, tutte le stirpi dei Greci: egli aveva avuto infatti due figli, Doro ed Eolo, capostipiti rispettivamente dei Dori e degli Eoli, e due nipoti, Ione e Acheo, capostipiti degli Ioni e degli Achei e figli di suo figlio Xuto. Da Elleno derivò il nome di Elleni con il quale gli abitanti della Grecia sono chiamati in tempi storici; tuttavia, come scrive ancora Tucidide, «per molto tempo quel nome non poté prevalere su tutti. La migliore prova la fornisce Omero: vissuto ancora parecchio tempo dopo la guerra di Troia, non li chiamò in nessun luogo con questo nome nel loro insieme; né lo applica a nessun altro fuori che ai seguaci di Achille venuti dalla Ftiotide, i quali furono infatti i primi Elleni; i nomi che nei suoi poemi Omero dà agli Elleni sono Danai, Argivi ed Achei» (I, 3, 3). Rielaborando le diverse opinioni che in età classica le fonti esprimono a proposito della collocazione degli Elleni, gli studiosi moderni hanno ipotizzato che in un primo momento, ai tempi di Omero, con questa denominazione si indicassero gli abitanti della Tessaglia meridionale, nell’area corrispondente al fiume Spercheo, e che «Ellade» fosse chiamata per lo più la sola zona intorno a Ftia. Il nome peraltro sembra portare, secondo l’opinione di altri studiosi moderni, al territorio di Dodona, collegandosi forse con quello degli Helloi o Selloi, che erano per l’appunto i sacerdoti del santuario oracolare di Zeus a DODONA (v.). Già a partire da Omero, sembra che si usi talvolta il termine «Elleni» per indicare i Greci continentali, distinguendoli dagli Argivi o Achei, che erano invece gli abitanti del Peloponneso. Solo in seguito il nome passò a indicare tutti gli abitanti della Grecia, dai quali venivano normalmente esclusi quelli delle colonie, mentre i Peloponnesiaci erano inclusi. Il confine settentrionale della Grecia era segnato normalmente dall’Olimpo, dalla valle di Tempe e dal Pindo; i popoli che si trovavano a cavallo di quella linea di demarcazione, gli Epiroti e i Macedoni, rimasero fino all’età classica catalogati come barbari, e solo successivamente come Greci. Il nome di «Ellade» e quello di «Attica» sono spesso usati come sinonimi: «L’Ellade e l’Attica, chiamata anticamente Actis, sono la stessa terra», scrive Isidoro di Siviglia (Etimologie, XIV, iv, 10). Le osservazioni delle fonti antiche sui nomi della Grecia, tuttavia, esulano dal campo della mitologia propriamente detta se non per i pochi spunti cui s’è fatto cenno.

ELLESPONTO, in gr. Hellèspontos. È il nome antico dell’attuale stretto dei Dardanelli, ricordato da Omero come «Ellesponto ricco di pesci» (Iliade, IX, 360). Propriamente «mare di Elle», prendeva il nome da Elle, figlia di Atamante e sorella di Frisso. Mentre fuggiva sul dorso del montone dal vello d’oro, Elle era precipitata nel mare sottostante: «Questo stretto, dove cadde la fanciulla, prenda da lei il nome di Ellesponto», decreta Poseidone nei Dialoghi marini di Luciano. La fanciulla, «montata senza esperienza su una cavalcatura insolita, guardando l’immensa profondità ne fu stordita e, presa nello stesso tempo dal caldo dell’aria e dalle vertigini per l’impeto del volo, lasciò andare le corna dell’ariete, alle quali si era aggrappata fino a quel momento, e cadde in mare» (9 [78], 9 [6], 1-2). La storia di Elle è riassunta da Apollodoro nella Biblioteca (I, 9, 1): Elle e suo fratello Frisso erano nati da Atamante e dalla dea Nefele; successivamente, però, il loro padre aveva sposato Ino, che gli aveva generato altri due figli, Learco e Melicerte. Ino, gelosa dei due figli avuti da Atamante e Nefele, aveva tramato un sottile inganno per eliminarli: dapprima aveva convinto le donne del posto a far tostare le sementi che dovevano essere piantate nei campi, in modo che non germogliassero e non portassero frutti; davanti alla carestia incombente, Atamante decise di mandare dei messi a consultare l’oracolo di Delfi, e allora la diabolica Ino li corruppe, convincendoli a riferire un responso da lei architettato, secondo il quale l’unico modo per debellare la fame era di sacrificare a Zeus il giovane Frisso. Atamante, costretto a furor di popolo, dovette portare Frisso sull’altare, ma Nefele, in quel preciso istante, lo rapì e lo sistemò, con la sorella Elle, in sella a un ariete dal vello d’oro che aveva ricevuto in dono da Ermes, e con quell’irraggiungibile cavalcatura lo fece volare sopra il mare e le terre fino al Chersoneso. E fu proprio lì che la povera Elle scivolò dal dorso dell’ariete, precipitando nel mare che da lei, da quel momento, prese il nome.

La storia avrebbe poi avuto un seguito favoloso, perché mentre Elle precipitava in acqua Frisso atterrò invece felicemente presso i Colchi, dove sposò la figlia del re del luogo, Calciope, e offrì in sacrificio a Zeus l’ariete, donando il vello d’oro al re della Colchide: sono queste le premesse per il celebre mito degli Argonauti, che, capeggiati da Giasone, si spingeranno in quelle remote regioni alla ricerca del preziosissimo vello. L’attraversamento delle «ardue correnti di Elle» è una delle tappe del loro viaggio (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 928): a bordo della nave Argo e con la guida di Giasone essi oltrepassano, nel corso di una notte di navigazione, il capo Reteo, che rappresenta l’estremità dello stretto posta sulla costa asiatica, e inoltre le città di Dardania, Abido, Percote e Pitiea (come era chiamata anticamente l’attuale Lampsaco). Sulla riva dello stretto si trovava inoltre la località di Tempio, «dove dicono che Giasone di ritorno dalla Colchide abbia fatto il primo sacrificio ai dodici dèi» (Polibio, IV, 39).

Sull’Ellesponto era ambientato anche il mito di Ero e Leandro (per il quale v. ABIDO). Nel racconto di Ovidio, l’Ellesponto viene poi attraversato da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 567; per i particolari del mito v. ENNA). E sulla riva asiatica, la località detta La Vacca serbava il ricordo del passaggio di un’altra eroina del mito, Io, amata da Zeus, trasformata in giovenca e perseguitata da un tafano dalla gelosissima Era: essa, dopo aver attraversato a nuoto la Propontide, riemerse in quel punto dal mare (Polibio, IV, 43).

Tra storia e leggenda, è noto l’aneddoto secondo il quale il re persiano Serse si macchiò di una colpa gravissima nei confronti dell’Ellesponto: egli, accingendosi a muovere guerra alla Grecia, aveva fatto costruire un ponte per trasferire i suoi eserciti da una riva all’altra di quel braccio di mare, ma una tempesta improvvisa aveva distrutto quanto i suoi ingegneri avevano appena completato. Furibondo, allora, aveva ordinato di comminare allo stretto una pena simile a quelle che venivano riservate agli schiavi: «ordinò di colpire l’Ellesponto con trecento frustate e di gettare in mare un paio di ceppi»; e come se non bastasse mandò anche degli uomini a marchiare le acque. Il comportamento di Serse era tanto più tracotante in quanto l’Ellesponto, alla pari degli altri mari e fiumi, nella mitologia greca era personificato e ritenuto una divinità (Erodoto, VII, 35). Più tardi Serse, forse per cercare di porre rimedio a tanta superbia, avrebbe versato libagioni in mare da una coppa d’oro, levando preghiere al cielo e gettando nell’Ellesponto, come offerta votiva, la coppa, un cratere d’oro e una spada (VII, 54; cfr. anche Eschilo, Persiani, 745).

Sull’Ellesponto, e in particolare nella località di Lampsaco, era particolarmente venerato in età romana il dio Priapo: la «sicura tutela di Priapo Ellespontiaco» è ricordata da Virgilio (Georgiche, IV, 111). La città di Parium, situata anch’essa nell’Ellesponto, è invece degna di nota perché vi vivono secondo Plinio gli Ofiogeni, propriamente «uomini nati dai serpenti», che col tocco della mano sono in grado di guarire dai morsi dei rettili velenosi e che con la semplice imposizione delle mani sono capaci di estrarre ogni tipo di veleno dai corpi (Nat. Hist., VII, 13).

ELO «Borgo sulla riva del mare» della Laconia (Iliade, II, 584: Hèlos), di difficile identificazione, Elo si diceva fondata da Elio (Hèleios), figlio di Perseo e di Andromeda: l’eroe, in cambio dell’aiuto offerto ad Anfitrione nella guerra contro i Tafii, aveva ottenuto da questi il dominio su alcune isolette e località costiere e vi aveva fondato un insediamento. Quando, più tardi, la città di Elo fu stretta d’assedio e sconfitta dai Dori, i suoi abitanti divennero i primi schiavi pubblici degli Spartani e furono i primi a essere chiamati «iloti», nome con il quale erano indicati gli schiavi di Sparta anche in età storica e che un’etimologia ripresa in diverse fonti spiegava appunto con il nome della loro città d’origine (Pausania, III, 20, 6). Un’altra Elo è menzionata nell’Iliade (II, 594) come parte dei possedimenti di Nestore, ma è di incerta collocazione. Il toponimo potrebbe rifarsi al greco image, «terreno paludoso».

ELONE, in gr. Elòne. Località della Grecia, in Tessaglia, ricordata nell’Iliade tra quelle che parteciparono alla guerra di Troia. Nel Catalogo delle navi dell’Iliade si dice che le sue truppe erano capeggiate da Polipete e da Leonteo.

ELORO, in gr. Èloros, in lat. Helorus ed Elorus. Piccolo fiume della Sicilia che scorre a nord di Capo Pachino (Plinio, Nat. Hist., III, 89), sfocia presso Noto e viene identificato con il Tellaro attuale. Durante il suo viaggio alla ricerca di una nuova terra dove insediarsi dopo la caduta di Troia, Enea ne oltrepassa la foce nella sua navigazione lungo le coste della Sicilia: «supero il fertilissimo suolo dello stagnante Eloro» (Virgilio, Eneide, III, 698). Nel racconto di Ovidio, il fiume viene attraversato da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 477; per i particolari del mito v. ENNA). Alle «rive scoscese dell’Eloro» aveva già fatto riferimento Pindaro (Nemee, IX, 95). Presso la foce del fiume, secondo una versione del mito, sbarcarono anche gli Achei capeggiati da Ulisse durante il viaggio di ritorno dalla guerra di Troia; qui l’eroe fondò un tempio ad Atena (Licofrone, Alessandra, 1032-1033).

Lo stesso nome identificava anche una città che sorgeva alla foce del fiume.

ELPIE Città dell’antica Daunia, nell’Italia meridionale, secondo alcune fonti fondata dal rodio Elpias, o da Diomede (Vitruvio, De architectura, I, 4, 12; Antonino Liberale, Metamorfosi, XXXVII), dove le donne tributavano un culto alla profetessa troiana Cassandra. Secondo altri testi tale culto era una prova del fatto che nella città erano giunti dei Troiani che avevano fatto vela per il Mediterraneo occidentale dopo la caduta di Troia (Licofrone, Alessandra, 1126-1140). V. anche SALAPIA o SALPE.

EMILIA-ROMAGNA Per i miti principali ambientati nella regione v. APPENNINO; BOLOGNA; FIDENZA; LITANA, SELVA; MODENA; PIACENZA; TREBBIA.

EMO, in gr. Àimos. Montagna della Tracia che domina la pianura di Filippi, teatro della celebre vittoria di Ottaviano su Bruto e Cassio nel 42 a.C. Il monte, presente in diversi racconti della mitologia, fu protagonista dell’epica battaglia tra Zeus e Tifone, un mostro gigantesco e orribile, che Zeus colpì con i suoi fulmini proprio presso la montagna, facendone colare il sangue sulle pendici: «sul monte, il suo sangue scorreva a fiumi: per questo, dicono, esso fu chiamato Emo», che significa appunto «sangue» (Apollodoro, Biblioteca, I, 6). Un’altra interpretazione è offerta da Stefano di Bisanzio: «Emo: monte della Tracia. Secondo i più non è né un monte né in Tracia. Emo fu figlio di Borea e di Orizia e da lui prese nome il monte». Come si vede, incertezze e contraddizioni non mancano; la tradizione sembra però concorde nel raccontare come Emo e Rodope, sovrani della Tracia, per aver osato paragonarsi a Giove e Giunone pretendendo di ricevere culti divini, per punizione furono trasformati negli omonimi monti (v. TRACIA per i particolari). Si narrava anche che sul monte Emo fosse stato ucciso da Bizante, in duello, il tiranno di Tracia Emo, che aveva mosso guerra a Bisanzio, la città da poco sorta sul Corno d’oro (v. BISANZIO).

Sul monte Emo Artemide fece la sua prima sosta sul suo carro al quale aveva appena aggiogato quattro splendide cerve catturate sul monte PARRASIO (v.; cfr. Callimaco, Inni, III, 114). Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Emo è menzionato tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Nei pressi del monte Emo era collocata la sede della misconosciuta popolazione dei Coralli, ricordati dallo stesso Ovidio (Lettere dal Ponto, IV, 2, 37) e forse identificabili con una tribù dei Sarmati; secondo Valerio Flacco (Argonautiche, VI, 89 ss.) facevano parte dell’esercito che si schierò, sotto la guida di Perseo, a fianco di Eeta, re della Colchide, per contrastare gli Argonauti sopraggiunti sotto la guida di Giasone per conquistare il vello d’oro. Le loro truppe si distinguevano per le insegne che recavano l’effigie di una ruota e quella di un porcospino, e per il fatto che si incitavano al combattimento non mediante l’uso della tromba ma cantando a gran voce i nomi e le gesta dei loro condottieri.

Il monte era stato teatro di una famosa ascensione (storica) che veniva ricordata con toni epici: si narrava che Filippo V, re di Macedonia, avesse un giorno accarezzato l’idea di salire sulla cima del monte Emo, credendo alla diceria ampiamente diffusa che da quella vetta, per la sua altezza, fosse possibile vedere contemporaneamente l’Adriatico e il Mar Nero, il fiume Istro (ossia il Danubio) e le Alpi: «trovarsi distesa sotto gli occhi tutta quella zona doveva giovare non poco ai suoi disegni per una guerra con Roma» (Livio, XL, 21, 2). La salita era però irta di difficoltà, e il re, ormai non più giovane, arrivò in cima con grande fatica dopo tre giorni di ascensione in luoghi «sempre più boscosi e per la maggior parte impervi»: «arrivarono a una via così scura che, per il folto degli alberi e dei rami intrecciati gli uni con gli altri, a mala pena si poteva riuscire a vedere il cielo». E addirittura, «quando si avvicinarono alle creste, cosa rara sulle alture, le nebbie coprivano tutto in maniera che erano ostacolati né più né meno che in una marcia notturna. Solo il terzo giorno arrivarono alla cima», e fu fatica vana, perché era davvero improbabile che «da un solo luogo si potessero vedere mari e monti e fiumi così lontani fra loro». Il ritorno richiese due giorni di cammino e fu ostacolato dal freddo pungente (ibid., XL, 22, 5-7).

EMONIA Nome antico della TESSAGLIA (v.).

EMPI, ISOLA DEGLI Isola immaginaria che costituisce il corrispettivo negativo dell’Isola dei Beati, una sorta di inferno nel quale i defunti espiano le colpe commesse in vita. È descritta, sotto la generica etichetta di «luogo degli empi» (27 [14], 23), senza un nome preciso, ma con tutte le caratteristiche di un’isola, nella Storia vera di Luciano di Samosata. L’isola ospita, tra gli altri, il tiranno Falaride di Agrigento, che faceva arrostire i suoi nemici entro un toro di bronzo; Diomede, re tracio della popolazione dei Bistoni, che nutriva le sue cavalle con la carne dei suoi visitatori; Timone di Atene, personaggio scontroso, maleducato, burbero e odioso. Tutte le caratteristiche dell’isola sono il contrario di quelle della terra dei Beati della tradizione (v. BEATI, ISOLA DEI): in luogo dei profumi soavi di quella, vi si sente un puzzo di bitume, zolfo e pece bruciati assolutamente insopportabile, e l’aria, «scura e nebbiosa», sembra stillare «una rugiada di pece»; la costa, «dirupata e scoscesa, arida nelle sue rocce e scabrosità», è di una «bruttezza estrema»; non ci sono pascoli né acqua. I dannati sono raccolti in un recinto dal suolo «coperto di una spontanea fioritura di spade e di spunzoni», e intorno scorrono fiumi, «uno di fango, il secondo di sangue, il più interno di fuoco»; qui «subivano le pene più gravi coloro che durante la vita avevano mentito e gli storici che non avevano scritto il vero». Luciano, protagonista in prima persona della singolare visita, può tirare un sospiro di sollievo, nella «coscienza di non aver detto nessuna menzogna» nella sua Storia vera.

ENARIA, in lat. Aenaria. Altro nome con il quale è indicata nelle fonti antiche l’isola di ISCHIA (v.), collegato a quello di Enea: il mito ne faceva l’approdo dell’eroe troiano. Lo stesso nome viene utilizzato da Frontone nel suo epistolario per indicare un’isola di pura fantasia, descritta come «quell’isola nel mar Ionio o Tirreno, o meglio Adriatico, o se è un altro mare aggiungi tu il nome», la quale «accoglie le onde marine e le rigetta ed è essa a sostenere ogni assalto delle flotte dei pirati, ogni violenza dei mostri marini o delle burrasche, ma dentro, in un lago, protegge un’altra isola, al riparo da ogni pericolo e molestia, partecipando però di tutti i vantaggi e le amenità», dal momento che «l’isola che sta nel lago è ugualmente bagnata dalle onde, ugualmente riceve le brezze salutari, ugualmente è abitata, ugualmente si affaccia sul mare» (Corrispondenza con M. Cesare, III, 8, 1).

ENEIA o ENEADE o ENO, in gr. Àineia, Ainèiai, Àinos. Città dell’antica Tracia, nel CHERSONESO (v.), in corrispondenza della località turca attuale di Enez, che secondo la tradizione mitica (Dionigi di Alicarnasso, I, 49, 4) venne fondata da Enea durante le sue peregrinazioni nel Mediterraneo dopo la caduta di Troia. «Città notevole, fondata da Enea in fuga» la definisce Pomponio Mela (Corografia, II, 2, 28). Nella città Enea eresse anche un tempio in onore di Afrodite. Il toponimo nelle sue diverse forme riflette in modo evidente il nome del fondatore. Ricordandone la fondazione per bocca dello stesso Enea, Virgilio nell’Eneide (III, 18 ss.) racconta che nei pressi di Eneade avvenne il famoso episodio di Polidoro. Enea stava allestendo grandi sacrifici per ottenere la protezione di sua madre Venere e di Giove sulla città appena fondata, e già un toro era pronto per essere offerto agli dèi, quando l’eroe troiano, avvicinatosi a un mirto (pianta che la mitologia voleva sacra a Venere) per strapparne alcuni rami onde addobbarne le are, si accorse di un orribile prodigio: «La prima pianta che dal suolo, allo spezzar delle radici, si svelle, questa di scuro sangue stilla le gocce e di veleno macchia la terra». Inorridito, Enea prova a spezzare un secondo ramo, e di nuovo il fenomeno agghiacciante si ripete. Al terzo tentativo, dalla pianta di mirto si leva una voce umana, straziante, che implora l’eroe di non lacerarlo e lo invita ad andarsene: «Via! fuggi da queste crudeli terre, fuggi da questa spiaggia avara; perché io sono Polidoro. Qui mi ha trafitto e coperto una messe di ferrei dardi, da cui crebbero questi giavellotti appuntiti». Nel racconto dell’Iliade Polidoro era figlio del re di Troia, Priamo, e di Laotoe, e venne ucciso da Achille dopo la morte di Patroclo (Iliade, XX, 407-418); ma il suo mito venne più volte rielaborato dai poeti successivi. Così Euripide, nella tragedia Ecuba, fa di Polidoro un figlio di Priamo e di Ecuba e racconta che egli, affidato da suo padre a Polimestore re dei Traci per metterlo in salvo quando ormai la fine di Troia era prossima, venne proditoriamente ucciso da Polimestore stesso per impadronirsi dei tesori che egli aveva portato con sé da Troia; il suo corpo venne gettato in mare e le onde lo respinsero sulle coste troiane, dove Ecuba lo trovò. La regina troiana si vendicò del re tracio traditore cavandogli gli occhi e uccidendo i suoi due figli (ibid., 698-701). Nell’Eneide Enea racconta che quando ormai era parso chiaro che la sorte di Troia era segnata, Priamo aveva tentato di salvare il proprio figlioletto più giovane, e «con gran carico d’oro» lo «aveva segretamente affidato alle cure del re di Tracia», che nella versione virgiliana rimane anonimo. Tuttavia poco tempo dopo «quel re, una volta infrante le forze dei Teucri e abbandonate dalla fortuna, alla causa di Agamennone e alle sue armi vittoriose si unisce, infrangendo ogni legge: sgozza Polidoro e dell’oro violentemente si appropria» (III, 49 ss.), gesto che suscita la celebre invettiva virgiliana: «A cosa i cuori mortali non induci, esecrabile fame dell’oro!» (Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames!, ibid, III, 56-57). Naturalmente Enea e i suoi lasciano immediatamente quella città sciagurata, non senza aver celebrato allo sventurato Polidoro un solenne funerale: «l’anima chiudiamo nel sepolcro e per l’ultima volta evochiamo il suo nome». Nella sostanza identica a quella virgiliana è la versione del mito che viene ripresa da Ovidio nelle Metamorfosi (XIII) e che sarà fatta propria da Dante. Il toponimo è ricordato anche nella forma «Eno», per esempio, da Plinio, che menziona «la città libera di Eno con il tumulo di Polidoro» (Nat. Hist., IV, 43). Nel IV secolo d.C. Ammiano Marcellino rievoca Eno come città che «Enea cominciò a edificare con auspici sfavorevoli, e che abbandonò prontamente per dirigersi verso l’antica Ausonia [l’Italia] sotto la guida degli dèi» (XXII, 8, 3; cfr. anche XXVII, 4, 13). In alcuni frammenti di Callimaco si raccontava poi l’origine del culto di Ermes che aveva un santuario nella città. Si diceva che all’origine della venerazione per il dio ci fosse la miracolosa pesca di una statua lignea di Ermes, che alcuni pescatori si trovarono nelle reti. Desiderando farne legna da ardere provarono a spaccarla, ma non riuscirono a produrre altro che una lieve scalfittura sulla superficie. Provarono a gettarla nel fuoco, ma essa non bruciò. La ributtarono allora in mare, ma quando se la ritrovarono una seconda volta nelle reti compresero che si trattava di un segnale divino e ne fecero oggetto di culto, erigendovi intorno un santuario. Si diceva che la statua fosse stata scolpita da Epeo, l’autore del mitico cavallo di Troia. Sulle spiagge di Eno avvenne anche un episodio del mito di Eracle: l’eroe vi uccise, con una freccia, Sarpedonte, figlio di Poseidone e fratello del re del luogo, Poltide (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 9).

Le fonti confondono talora Eno (Ainos) con Aenea nella penisola Calcidica, ricordata anche da Livio (XL, 4, 9): non lontana da Tessalonica, l’odierna Salonicco, anch’essa era stata fondata, secondo la tradizione, da Enea, che le aveva dato il proprio nome. Più tardi, ai tempi di Cassandro, la città sarebbe stata distrutta e gli abitanti trasferiti nella nuova fondazione di Tessalonica (Dionigi di Alicarnasso, I, 49, 4).

ENGIO, in gr. Eggimageion. Antica città della Sicilia, nell’area nordorientale dell’isola, a nord di Agimagerion (oggi AGIRA, v., in provincia di Enna); la sua identificazione attuale è discussa (secondo alcuni, forse Nicosia, Troina, oppure Gangi?) e la sua fondazione era collegata alla leggenda del soggiorno di Minosse in Sicilia. Nel racconto riassunto da Diodoro Siculo nel IV libro della Biblioteca storica, Minosse, re di Creta, era partito infatti alla volta della Sicilia per cercare di raggiungere Dedalo, che vi si era rifugiato. Dedalo aveva qualche conto in sospeso con lui: era un architetto di straordinaria abilità, ma l’aveva messa al servizio della causa sbagliata, favorendo gli amori contro natura di Pasifae (moglie di Minosse e regina di Creta) con un meraviglioso toro (per i particolari v. CRETA), e quando da quel connubio era nato il Minotauro aveva costruito una prigione, il labirinto, per nascondervelo. Dopo l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo, per eludere le ire di Minosse, Dedalo aveva successivamente costruito delle ingegnose ali di piume e cera ed era fuggito a volo verso l’Italia meridionale (perdendo tragicamente in quel viaggio il figlio Icaro, che, anche lui fornito della sua coppia di ali, aveva però voluto volare troppo in alto raggiungendo il calore del sole e precipitando perché la cera si era sciolta). Minosse aveva saputo che Dedalo si era rifugiato in Sicilia presso il re Cocalo e lo aveva inseguito, approdando a Minoa e chiedendo udienza al sovrano, che risiedeva nella vicina Camico, ma era stato ucciso a tradimento. I suoi seguaci, rimasti senza il loro capo, si erano divisi in due gruppi: uno era rimasto a Minoa e vi aveva fondato una città cretese, mentre un altro si era spinto verso l’entroterra e si era stabilito nella località di Engio. Qui i coloni cretesi avevano eretto un tempio dedicato alle dee madri: la leggenda narrava che al suo interno fossero stati deposti, come doni votivi, lance ed elmi offerti da Merione, eroe cretese che combatté a fianco di Idomeneo re di Creta nella guerra di Troia, e da Ulisse. Una tradizione (attestata da Licofrone, Alessandra, 710-711) voleva infatti che Ulisse avesse lasciato là il suo elmo di ritorno dal suo viaggio nel regno dei morti, consacrandolo a Persefone. Nella sintesi di Plutarco, la città era «non grande ma molto antica e celebrata per le apparizioni delle dee che chiamano Le Madri. Si dice che il tempio che lì si trova sia una costruzione dei Cretesi; vi si mostravano lance ed elmi di bronzo, alcuni dei quali con iscrizioni dedicatorie di Merione e altre di Ulisse» (Plutarco, Marcello, 20, 3).

In un contesto storico, ma non meno affascinante per i suoi contorni leggendari, si colloca la vicenda che a Engio ebbe per protagonista Nicia, uno dei suoi principali abitanti, desideroso, al tempo delle guerre di Roma contro Cartagine, di indurre i suoi concittadini a schierarsi dalla parte dei Romani, benché per tradizione essi fossero animosamente filocartaginesi. Poiché i suoi discorsi in pubblico a favore dei Romani erano molto convincenti e razionali e rischiavano di guadagnare adepti alla sua causa, il partito filocartaginese lo tenne sotto controllo meditando di catturarlo e consegnarlo ai Cartaginesi. Nicia, però, venuto a conoscenza della trama intessuta ai suoi danni, escogitò a sua volta un piano molto originale: si diede, in pubblico, a sparlare delle dee madri, in modo tale che i suoi nemici credevano di avere la strada spianata per il suo arresto; ma quando questo stava per essere mandato a compimento, durante un’assemblea Nicia, «mentre stava parlando al popolo ed esponeva le sue idee, all’improvviso si lasciò cadere a terra; di lì a poco (come è naturale si era fatto uno sbigottito silenzio) […] con voce profonda e tremante, progressivamente rinvigorendo il tono e portandolo su registri alti, quando vide che i presenti erano in preda al terrore e tacevano, buttato lontano da sé il mantello e strappatasi la tunica, balzò in piedi mezzo nudo e si diede a correre verso l’uscita del teatro gridando di essere perseguitato dalle Madri». Nessuno osò avvicinarsi a lui per timore di compiere un atto sacrilego, e Nicia poté in tal modo uscire indisturbato dalla città e raggiungere poi, con la moglie e i figli, i Romani di stanza a Siracusa (Plutarco, Marcello, 20).

ENIADE, in gr. Oiniàdai, -òn. Località greca dell’Acarnania, presso la foce del fiume Acheloo e dirimpetto alle isole Echinadi. La mitologia ricordava che vi si era stabilito Alcmeone, figlio dell’indovino Anfiarao e fratello di Anfiloco. Egli uccise la propria madre Erifile, colpevole di aver indotto il marito Anfiarao a partecipare alla spedizione dei Sette contro Tebe, dalla quale non avrebbe fatto ritorno, inghiottito nelle viscere della terra; dopo il matricidio compiuto per vendicare il padre, Alcmeone vagò a lungo nel territorio degli Eniadi, fino a che vi si stabilì, obbedendo a un oracolo di Apollo, il quale «gli disse di abitare quel luogo, dichiarando che non avrebbe ottenuto la liberazione dalle sue paure finché non avesse trovato, e vi si fosse stabilito, quel paese che quando aveva ucciso sua madre non era ancora stato visto dal sole e non era ancora terra; poiché il resto della terra era stato contagiato da lui», e quindi gli era precluso (Tucidide, II, 102, 5-6). L’unica terra che corrispondesse alla definizione dell’oracolo era quella che si era costituita a causa dell’accumulo del fango trasportato a valle dalla corrente impetuosa del fiume Acheloo, depositato a ridosso della barriera naturale costituita, a poca distanza dalla costa, dalle isole Echinadi. Lì Alcmeone si fermò: «dopo essersi stabilito nei luoghi vicino a Eniade fondò un dominio e lasciò alla regione il nome di suo figlio Acarnane» (ibid.), originando così il toponimo «Acarnania».

ENIPEO, in gr. Enipèus. Fiume della Tessaglia che compare a più riprese nei racconti del mito. La sua sorgente è visitata dal pastore Aristeo nel suo viaggio nel mondo subacqueo descritto da Virgilio nelle Georgiche (IV, 368), per la quale v. TEMPE. Nelle Metamorfosi di Ovidio, personificato, è ricordato tra i fiumi che si recano a consolare Peneo, il dio fluviale padre di Dafne, per la sorte toccata alla figlia, amata da Apollo ma trasformata in alloro per non cedere al suo amore (I, 579: «l’Enipeo irrequieto»; v. PENEO). Il dio fluviale corrispondente era amato dall’eroina Tiro; il dio Poseidone, a sua volta innamorato di Tiro, per sedurla si trasformò assumendo le sembianze dell’Enipeo e poté in tal modo avvicinarla. «Per poterla abbracciare all’asciutto, Enipeo ordinò all’acqua di tirarsi indietro: l’acqua accolse l’ordine e si ritirò» (Ovidio, Amores, III, 6, 43-44). Al mito allude anche Properzio, che ricorda come Nettuno prese la forma del fiume per abbracciare e «sottomettere con agevole forza d’amore la Salmonide», ossia appunto Tiro figlia di Salmoneo (I, 13, 21-22). Dai loro amori sarebbero nati due bambini, Pelia e Neleo, destinati a diventare figure di primo piano in molti racconti del mito (Apollodoro, Biblioteca, I, 9, 8). L’Enipeo è inoltre uno dei fiumi lungo le cui rive Medea si spinge, nottetempo, alla ricerca di erbe per le sue pozioni magiche (Ovidio, Metamorfosi, VII, 229); nel contesto della storia degli Argonauti è chiamato «Enipeo gonfio di pioggia» da Valerio Flacco (Argonautiche, I, 83).

Lo stesso nome indicava anche un fiume dell’Elide. C’era poi un promontorio Enipeo, che chiude il golfo di Salerno e che derivava il nome, secondo uno scoliasta di Licofrone (Alessandra, 722), da un epiteto con il quale era indicato Poseidone, dio del mare, presso i Milesii. Su questo promontorio, alla sua estremità denominata Punta Licosa, trovò la morte una delle Sirene, Leucosia (dalla quale deriva il nome del capo), scagliatavi con violenza e perita tra le rocce.

ENNA, in gr. Ènna, in lat. Henna. Città della Sicilia situata al centro dell’isola e definita dagli antichi umbilicus Siciliae; era un importante centro del culto di Demetra, come si può cogliere da un cenno di Callimaco (Inni, VI, 30) che la ricorda come una delle località più care alla dea. Proprio nei pressi della città, secondo diverse fonti, tra le quali Diodoro (V, 2), Silio Italico (Guerra Punica, VII, 689) e soprattutto Ovidio (Metamorfosi, V, 385 ss.), ha luogo il ratto di Proserpina da parte di Plutone, il greco Ade re degli Inferi, episodio che altre versioni collocano in una non meglio specificata località di Nisa. Secondo Ovidio, il ratto avvenne sulle rive di «un lago dalle acque profonde, che ha nome Pergo», dove numerosissimi cantano i cigni e sulle cui rive cresce un fitto bosco: «frescura dona il fogliame, fiori accesi l’umidità del suolo: una primavera eterna». Qui Proserpina «si divertiva a cogliere viole o candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e i lembi della veste», quando «in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì» (per altri particolari del mito v. NISA). L’ambientazione del ratto di Persefone nei pressi di Enna è ulteriormente precisata da Ovidio nei Fasti (IV, 422 ss.), dove sono descritti un’ombrosa valle, un corso d’acqua e una cascatella a fare da sfondo a una eccezionale fioritura. Proprio mentre sta raccogliendo quei fiori con le sue compagne la giovane Proserpina viene rapita dal dio degli Inferi; e proprio cercandola nei dintorni di Enna sua madre, Cerere, si imbatte nelle orme di un piede di fanciulla, che subito riconosce come suo, e dà inizio a una lunga peregrinazione alla ricerca della figlia. Sulla collocazione del ratto di Proserpina (chiamata anche Libera) in Sicilia si sofferma anche Cicerone, precisando che esso avvenne «nel bosco di Enna, che, posto com’è nel centro dell’isola, ha il nome di “ombelico della Sicilia”» (Cicerone, Actio in C. Verrem secunda, 48, 106). Secondo Cicerone è possibile stabilire un nesso tra quell’antica leggenda «di cui abbiamo sentito parlare fin da bambini» e la seduzione del luogo: «Ora Enna, il teatro degli avvenimenti leggendari di cui vi sto parlando, sorge in un luogo altissimo e dominante, sulla sommità del quale c’è una larga spianata, solcata da acque perenni e tagliata tutt’intorno a picco»; nei dintorni della città si trova un lago, circondato da una folta vegetazione di boschi e caratterizzato da splendide fioriture. Nei pressi si apre una caverna profondissima, dalla quale «secondo la tradizione uscì fuori all’improvviso il padre Dite», ossia il dio infernale, «con il suo cocchio, afferrò la fanciulla e se la portò via», sprofondando poi negli abissi sotterranei non lontano da Siracusa (ibid., 48, 107). L’identificazione di Enna come luogo d’origine del culto di Cerere sembra data per scontata da Valerio Massimo (I, 1, 1 a: «Enna, da dove si credeva che avesse avuto origine il suo culto»). La città è menzionata da Silio Italico (Guerra Punica, I, 214) con riferimento alla sua ricchezza di messi e per indicare la Sicilia tutta intera; e alla dea Proserpina si fa riferimento come alla «dea di Enna» (ibid., XIII, 430-431). Nei pressi della città, del resto, si apriva un accesso al mondo infernale anche secondo lo stesso Silio Italico: «là si trova la grotta che apre un’enorme voragine della terra: un passaggio oscuro conduce fino ai Mani per una discesa tenebrosa»: è là che il re dei morti rapisce la «vergine di Enna» (ibid., XIV, 239-245). A Proserpina come «dea di Enna» allude anche Licofrone (Alessandra, 152).

ENO v. ENEIA o ENEADE o ENO.

ENOPE, in gr. Enòpe. Città greca della Laconia abitata da popolazioni messeniche, chiamata successivamente Gerenia. Secondo la tradizione vi era stato allevato Nestore, il vecchio e saggio re di Pilo che partecipa alla guerra di Troia e viene ricordato nell’Iliade. Altre tradizioni dicevano che Nestore non vi venne allevato, ma vi si rifugiò quando Pilo, la sua città, venne conquistata da Eracle (Pausania, III, 26, 8). Il legame di Nestore con la città giustifica l’epiteto «Gerenio» con il quale egli viene spesso indicato in Omero.

ENOTRIA, in gr. Oinotrìe, in lat. Oenotria. Il nome, che viene spesso usato nella poesia antica per indicare in generale l’Italia, ne designava in origine solo la parte più meridionale, corrispondente alle attuali Basilicata e Calabria (cfr. per esempio Erodoto, I, 167, 3); oppure, un poco più ampiamente, tutta la parte costiera meridionale compresa tra Taranto e Poseidonia, l’attuale Paestum (Dionigi di Alicarnasso, II, 2). Sui primi abitanti dell’area, gli Enotri, circolavano tradizioni difficilmente verificabili. «I cronisti dicono che uno degli abitanti dell’Enotria, un certo Italo, ne divenne re, che da lui gli abitanti del paese cambiarono il loro nome da quello di Enotri in quello di Itali, e che la penisola dell’Europa che è compresa tra il golfo Scilletino [il golfo di Squillace] e quello Lametico [il golfo di Sant’Eufemia], tra i quali c’è mezza giornata di cammino, ha preso il nome di Italia». Secondo la tradizione, «questo Italo trasformò gli Enotrii, che erano nomadi, in contadini, diede loro le leggi e istituì tra l’altro le mense comuni» (Aristotele, Politica, 1329 b). Era diffusa la convinzione che gli Enotri fossero stati in assoluto i primi abitanti dell’Esperia, ossia dell’Italia (Virgilio, Eneide, III, 165; v. anche ESPERIA). Il toponimo era fatto derivare dal termine greco che significa «vino», con riferimento all’abbondanza di vigneti della regione, oppure dal nome di Enotro, «il più giovane dei figli maschi di Licaone», re dell’Arcadia; Enotro, «dopo aver chiesto mezzi e uomini al fratello Nittimo, si recò con delle navi in Italia, e la regione Enotria prese il nome da Enotro che vi regnò». Si trattò della prima fondazione coloniale greca in assoluto: «sulla base di calcoli assai accurati è da pensare che nessuno, neppure tra i barbari, sia giunto in terra straniera prima di Enotro» (Pausania, VIII, 3, 5). Degli Enotri erano discendenti gli Aborigeni, «una banda di giovani che erano consacrati agli dèi e che furono mandati dai loro genitori a vivere nella terra che il cielo avesse loro assegnato»: i loro stanziamenti si trovavano nella parte centro-occidentale dell’Italia, lungo le coste del Tirreno e le rive del Tevere, e a essi si unirono gruppi di Pelasgi, provenienti dalla Tessaglia (ibid., II, 2-3). Per altri particolari su queste antichissime popolazioni e sui miti che le riguardavano v. anche ITALIA.

ENTELLA, in gr. Èntella. Città non lontana da Segesta, in Sicilia, fondata secondo la tradizione dagli Elimi, ossia dai Troiani che, dopo la caduta della loro città a opera dei Greci, presero il mare e si spinsero in Occidente, dove fondarono anche Segesta ed Erice e dove risultano saldamente attestati in epoca storica; l’eroe fondatore era ritenuto Egesto o Aceste. La città antica fu distrutta da Federico II nel XIII secolo, ma il toponimo è tuttora conservato in quello della località di Rocca d’Entella e la leggenda lo faceva risalire al nome dell’eroina Entella, moglie di Egesto (per quest’ultimo v. SEGESTA; cfr. Licofrone, Alessandra, 952). Un eroe di nome Entello è ricordato da Virgilio nell’Eneide (V, 387 ss.): era uno dei Troiani che fuggì dalla sua città in fiamme e si rifugiò in Sicilia, oppure un Siciliano originario della città di Entella. Partecipò ai giochi funebri in onore di Anchise allestiti da Enea a Drepano (v. TRAPANI ed ERICE) combattendo, con i cesti del pugilato, contro Darete.

EOLIA, ISOLA, in gr. Aiolìe nèsos. Con questo nome è indicata nell’Odissea (X, 1 ss.) l’isola dove vive Eolo Ippotade, re dei venti; vi approda Ulisse con i suoi compagni, restandovi a lungo come ospite del sovrano e dei suoi dodici figli, sei maschi e sei femmine, tutti sposati fra loro. Da Eolo Ulisse riceve in dono un recipiente che contiene tutti i venti del mondo, e che in teoria dovrebbe permettergli di navigare più agevolmente; a causa della curiosità dei compagni, che aprono l’otre per vederne il contenuto, però, i venti fuoriescono tutti insieme e si scatena una terribile tempesta. L’Eolia è descritta come «un’isola natante: tutta la cinge un muro di bronzo, indistruttibile, e liscia si erge la roccia»; essa ospita una città e la «casa magnifica» del sovrano. Il nome dell’isola, come quello del suo re, viene spiegato con il termine Greco image, «bufera». La collocazione dell’Eolia, che in Omero non è precisata, a partire dal V secolo a.C. venne posta in una delle Eolie o Lipari (Tucidide, III, 88), e precisamente a Stromboli: forse perché dalla direzione del fumo di quel vulcano era possibile definire quella dei venti, e il nesso con i venti stessi era quindi reso evidente («Dal fumo che sprigiona si dice che gli abitanti del luogo prevedano quali venti spireranno nei due giorni successivi; da questo fatto è nata la credenza che i venti obbedissero a Eolo»: Plinio, Nat. Hist., III, 94). L’isola è chiamata «Eolia» anche da Virgilio nell’Eneide: al principio del poema Giunone, desiderosa di ostacolare in tutti i modi il viaggio di Enea e dei suoi compagni, dal momento che sa che il sangue troiano è destinato a distruggere la sua amatissima Cartagine, si reca presso il signore dei venti: «Là in un vasto antro il re Eolo i venti ribelli e le tempeste sonore col suo potere reprime, e incatenati li trattiene in un carcere. Essi per sdegno, facendo risuonare di boati la montagna, intorno ai cancelli fremono; sulla cima assiso, Eolo, col suo scettro, ne doma gli spiriti e tempera le ire» (I, 52-57). Giunone ottiene – ricorrendo alla promessa di dargli in sposa una delle Ninfe più belle, Deiopea, in «matrimonio indissolubile» – che Eolo liberi i venti scatenandoli contro la flotta di Enea: «Rovesciato lo scettro, con la punta il monte scavato colpì nel fianco: i venti, quasi un plotone serrato, ove si apre una porta si lanciano, le terre turbinose radendo» e abbattendosi sul mare intorno ai Troiani atterriti, suscitando una spaventosa tempesta (ibid., I, 81 ss.).

«Eolia» era anche il nome di una regione costiera dell’Asia Minore.

EOLIE, ISOLE L’arcipelago del Mediterraneo che ha questo nome, al largo della costa nordorientale della Sicilia, comprendeva dieci isole, di cui solo sette abitate: i nomi attuali di Lipari, Alicudi, Filicudi, Panarea, Salina, Stromboli e Vulcano erano variamente riferiti in antico come Lipara o Meligunide, Strongile, Euonimo, Didima o Didime, Fenicusa, Ericusa o Erifusa, Iera, Efestia, Tripode e Sonora. L’arcipelago era abitato nei tempi mitici, secondo la tradizione, dal dio dei venti Eolo e dai suoi figli (v. EOLIA, ISOLA). Molto tempo più tardi, quando era ormai quasi spopolato, vi approdò un gruppo di Greci provenienti da Cnido e da Rodi, i quali, desiderando liberarsi dal giogo del re dell’Asia, erano partiti alla ricerca di una nuova patria. A capo della loro spedizione era Pentatlo, un eroe che, essendo figlio di Ippote, poteva vantarsi di discendere direttamente da Eracle, del quale Ippote era pronipote. Egli guidò la flotta verso il capo Lilibeo, in Sicilia, dove la spedizione trovò i Segestani e i Selinuntini in lotta tra loro. I nuovi arrivati si schierarono in battaglia a fianco degli abitanti di Selinunte, ma vennero sconfitti e Pentatlo cadde sul campo. I superstiti decisero allora di ritornare in patria, e si affidarono alla guida di tre parenti stretti del loro condottiero defunto, che si chiamavano Gorgo, Testore ed Epiterside. Durante il viaggio di ritorno fecero scalo all’isola di Lipari, nelle Eolie, nella quale trovarono soltanto gli ultimi discendenti di Eolo, in numero di cinquecento. Accolti da questi ultimi molto benevolmente, decisero di restare e vi si insediarono stabilmente: questa, per sommi capi, era la storia che gli antichi narravano a proposito del popolamento delle isole (Diodoro, V, 9).

Una tradizione collegava il nome dell’isola di Lipari a un eroe eponimo antichissimo, precedente allo stesso Eolo, di nome Liparo, figlio del re Ausone, che a sua volta era eponimo degli Ausoni, il popolo che aveva dato il suo nome all’Italia, chiamata dagli antichi Ausonia. Costretto dai suoi fratelli a lasciare l’Italia, Liparo prese il mare con un esercito al seguito e si stabilì nell’isola che da lui prese il nome. Liparo aveva una figlia di nome Ciane, che sposò l’Eolo signore dei venti ricordato nell’Odissea. Quando divenne troppo vecchio per continuare a regnare, Liparo cedette il trono proprio a Eolo, che lo aiutò a tornare in Italia, come da suo desiderio: stabilitosi nella regione di Sorrento, Liparo vi morì venerato come un eroe per i molti benefici che aveva arrecato ai suoi sudditi durante il suo lungo regno (Diodoro, V, 7-8; lo stesso autore riferisce i nomi delle isole, che nella sua lista sarebbero Strongile, Euonimo, Didima, Fenicusa, Ericusa, Iera e Lipara). Nella descrizione che delle isole Eolie ci ha lasciato Tucidide (III, 88, 1-3) le tre isole oggi chiamate Salina, Stromboli e Vulcano hanno nome Didime («Gemella»), Strongile («Rotonda») e Iera («Sacra»); «gli abitanti di quelle parti credono che Efesto abbia la sua fucina a Iera, perché di notte la si vede emettere molto fuoco, e di giorno, fumo». Che il dio del fuoco risiedesse nelle Eolie era un luogo comune nella poesia, e la descrizione della sua bottega di fabbro era un topos letterario al quale con una buona dose di ironia allude il poeta satirico latino Giovenale menzionando «l’antro di Vulcano prossimo alle rupi Eolie» (Satire, I, 8-9) e ricordando, in una vivace immagine, il dio che «dopo aver bevuto il nettare, si tergeva le braccia annerite nell’officina di Lipari» (ibid., XIII, 44-45). In relazione con l’officina di Efesto/Vulcano le isole Eolie sono lo scenario nel quale si svolge un episodio descritto da Callimaco nell’Inno ad Artemide: la dea Artemide, accompagnata dalle giovanissime Ninfe del suo seguito, si reca a Lipari («oggi Lipari, ma allora si chiamava Meligunide») dove i Ciclopi hanno la loro officina: essi «stavano alle incudini di Efesto intorno a una massa incandescente. Un gran lavoro urgeva: fabbricavano un abbeveratoio per i cavalli a Poseidone». Al «suono cupo dell’incudine», al «gran vento dai mantici soffiato» e al «pesante ansimare dei Ciclopi» una grande area tutt’intorno risuona e rimbomba: «ne risonava l’Etna, la Trinacria ne risonava, sede dei Sicani, ne risonava la vicina Italia e un gran rimbombo rimandava Cirno», la Corsica; dal fondo dell’antro dei Ciclopi emerge Ermes, «spalmato col nero della cenere», e la piccola Artemide chiede che quegli eccezionali artefici le fabbrichino arco, frecce e faretra (Callimaco, Inni, III, 46 ss.; per altre descrizioni dell’officina di Vulcano, in Virgilio e in altri autori, v. inoltre VULCANIA; a Lipari come dimora di Vulcano allude anche Valerio Flacco, Argonautiche, II, 96).

Alicudi, Filicudi e Panarea erano invece anticamente chiamate Ericusa, Fenicusa e Euonimo (Plinio, Nat. Hist., III, 94). Non lontano da Lipari si trovava poi un’isoletta deserta, Ossaria, così detta perché, come racconta Diodoro, durante la guerra tra Cartaginesi e Siracusani un gruppo di seimila soldati dell’esercito dei Cartaginesi si ammutinò per motivi economici: le autorità cartaginesi li segregarono allora sull’isola e ve li lasciarono morire di fame, e le loro ossa restarono a coprire il limitato territorio dell’isoletta che da quel sinistro evento prese il nome.

Nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 707) le isole Eolie sono menzionate – con l’espressione «i domini del figlio di Ippota» – tra le località oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, si mutò nuovamente in divinità e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO). In un altro racconto di Ovidio, l’isola di Didime viene attraversata da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 475; per i particolari del mito v. ENNA).

Non mancavano tradizioni che cercavano di razionalizzare i diversi elementi del mito relativi alle isole Eolie, riducendo Eolo a un personaggio reale e non divino, «che, come governatore di queste isole, prediceva la direzione dei venti attraverso l’osservazione delle nuvole e dei fumi che si levano da queste terre, ragion per cui si pensò, ingenuamente, che egli avesse in suo potere i venti stessi» (Isidoro, Etimologie, XIV, vi, 36). Secondo Isidoro le Eolie erano chiamate Lipari, Iera, Strongile, Didime, Erifusa, Efestia, Fenicusa, Euonimo, Tripode e Sonora (ibid., XIV, vi, 37). Ancora in età romana era opinione diffusa che gli abitanti delle Eolie, di Lipari in particolare, si dedicassero alla pirateria: i «pirati di Lipari» avrebbero rapito, secondo una tradizione, i messi inviati da Roma a Delfi a portare un cratere come offerta votiva al dio dopo le vittorie contro i Veienti e i Falisci a opera di Camillo (Livio, V, 28, 2).

EONE Isole di difficile identificazione, forse leggendarie, che si credevano collocate all’estremo Nord del mondo e i cui abitanti, stando a quanto riferisce Plinio, «vivono di biade e di uova d’uccello» (Nat. Hist., IV, 95). Il toponimo è probabilmente da mettere in relazione col termine greco che significa «uovo» (image).

EPIDAMNO, in gr. Epìdamnos. Città costiera dell’Adriatico, nell’Illiria meridionale, nel territorio dell’Albania attuale, fondata da un gruppo di Corciresi capeggiati da Falio, figlio di Eratoclide, uno dei discendenti di Eracle (Tucidide, I, 24, 1). La tradizione leggendaria delle origini della città risaliva però anche ad altri episodi del mito: dopo Eracle, sarebbero arrivati i Brigi, popolazione di origine frigia proveniente dall’Asia Minore dopo la caduta di Troia; i Brigi avevano combattuto contro i Tesproti capeggiati da Ulisse secondo la Telegonia di Eugammone. A nord di Epidamno, nell’entroterra, si trovava il territorio degli Enchelei, dove «Cadmo un tempo esercitava il suo potere» (Pseudo-Scimno, 438) e dove era venerata la tomba di Cadmo e di Armonia: i due eroi infatti, banditi da Tebe, si sarebbero trasferiti in Illiria, regnandovi fino alla loro metamorfosi. Cadmo era uno dei personaggi più importanti del mito classico: fratello di Europa, dopo che la sorella era stata rapita da Zeus, che l’aveva sedotta assumendo le sembianze di un toro e portandosela via in groppa, era stato mandato dal padre a cercarla. Stremato dalla lunga e infruttuosa ricerca, aveva ricevuto dall’oracolo di Delfi il suggerimento di fermarsi dove avesse visto stendersi a terra una vacca, e di fondarvi una città: così, in Beozia, egli aveva fondato Tebe, e aveva poi ricevuto in sposa Armonia. Tempo dopo, aveva lasciato il regno di Beozia a un nipote, Penteo, e con Armonia si era recato in Illiria, nel paese abitato dagli Enchelei, dove aveva regnato e aveva messo al mondo il suo ultimo figlio, chiamato Illirio. Infine, ormai anziani, Cadmo e Armonia furono trasformati in serpenti (Apollodoro, Biblioteca, III, 5, 4); sulla loro tomba era stata eretta una fortezza (Apollonio Rodio, IV, 516-518). Tutte queste leggende erano forse legate all’assiduità di contatti tra Beozia e Illiria testimoniati anche dai legami toponimici fra le due regioni.

A Epidamno è poi ambientata la commedia I Menecmi di Plauto: «La città che vedete è Epidamno, finché è in corso questa recita. Quando cambierà commedia, diventerà un’altra città. Allo stesso modo, del resto, sogliono trasformarsi gli attori: così ora uno fa il lenone, ora il giovanotto, ora il vecchio o il povero o il mendicante o il re o il parassita o l’indovino…» (Prologo, vv. 72-76).

In età romana Epidamno assunse il nome di Dyrrachion in greco, Dyrrachium in latino, dal quale deriva l’italiano Durazzo. Il toponimo era fatto risalire a un eroe di nome Durraco; di lui si narrava che avesse ricevuto aiuto da Eracle, di passaggio in quelle contrade, quando si trovò a dover combattere contro i propri fratelli. Il mito raccontava che durante i combattimenti Eracle, involontariamente, uccise il figlio di Durraco, Ionio: il corpo del giovane fu gettato in mare e diede il nome a quello specchio d’acqua (Appiano, Guerra civile, II, 39). «Altri sostengono che i Romani cambiarono il nome della località con quello di Dyrrachium» perché il precedente toponimo, Epidamno, «aveva il senso di “danno” nella lingua latina», cosa che lo rendeva di cattivo augurio (Dione Cassio, XLI, 49, 2-3). E di cattivo augurio sembrarono effettivamente i numerosi prodigi che, negli anni delle guerre civili tra Cesare e Pompeo, accolsero quest’ultimo quando sbarcò nella città: vi si moltiplicarono eventi di pessimo auspicio tanto per Pompeo stesso quanto per l’intera città di Roma. «Il fulmine aveva ucciso dei soldati nel corso della traversata, dei ragni si erano installati sulle insegne militari, e appena egli stesso sbarcò dalle navi dei serpenti si misero a seguire i suoi passi» (Dione Cassio, XLI, 14, 1). Indipendentemente dal suo nome ufficiale, Epidamno-Durazzo viene chiamata in modo assai poco lusinghiero «bettola dell’Adriatico» da Catullo (XXXVI).

EPIDAURO, in gr. Epìdauros. Città greca dell’Argolide, celebre in tutto il mondo antico come sede principale del culto del dio della medicina Asclepio (Esculapio per i Romani). È ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia; qui è definita «dai bei vigneti» (v. 561). Successivamente compare nel Catalogo delle donne di Esiodo (I, 31), dove si dice che vi nacque Asclepio.

Il dio Asclepio. Una tradizione assai diffusa raccontava che la madre di Asclepio, la ninfa Coronide, giunse nel territorio di Epidauro per partorire il figlio che aveva generato da Apollo; appena lo ebbe dato alla luce lo abbandonò esponendolo su un monte presso quello che sarebbe diventato il santuario di Asclepio di età storica, chiamato a quei tempi Mirzio e successivamente Tittio (letteralmente, «piccolo capezzolo»). Il bimbo venne nutrito dal latte di una capra e custodito dal cane che faceva la guardia al vicino gregge. Il pastore di quel gregge, Arestana, scoprì il bambino fra le sue capre e si avvide immediatamente, dal bagliore che emanava da lui, che si trattava di una creatura divina; e infatti ben presto si sparse la voce che Asclepio sapesse trovare il rimedio per qualsiasi malattia e addirittura resuscitasse i morti (Pausania, II, 26, 4-5). Le leggende sulla nascita di Asclepio erano però molteplici. Una diversa versione raccontava che Coronide, incinta di Asclepio, si unì a Ischi, figlio di Elato, e allora Artemide, per punirla dell’oltraggio che con il suo comportamento aveva arrecato a suo fratello Apollo, la fece morire; sulla pira, tuttavia, Apollo intervenne per salvare dalle fiamme il bambino non ancora nato, che era suo figlio e sarebbe per l’appunto diventato il dio Asclepio (ibid., II, 26, 6). Una terza versione, che godeva però di minor fortuna, attribuiva ad Asclepio, come madre, Arsinoe figlia di Leucippo, nativa di Messene (ibid., II, 26, 7). Sulla sua morte, invece, le versioni del mito sono univoche: Zeus, temendo che con la sua arte egli sconvolgesse l’ordine della natura, lo fulminò; a Epidauro si ammirava la sua tomba, ma dopo la morte il dio si trasformò nella costellazione del Serpentario.

Accanto ad Asclepio, si ricordava nella città il culto di altre due divinità, Damia e Auxesia, dee della fertilità, la cui venerazione aveva avuto origine da un episodio specifico. La terra di Epidauro un tempo non dava alcun frutto; gli abitanti della città interpellarono l’oracolo di Delfi, e la Pizia ordinò loro di erigere statue di culto a Damia e Auxesia, fabbricate in legno di olivo coltivato. Poiché a quei tempi solo ad Atene veniva coltivato l’olivo, e in particolare gli olivi della città erano considerati i più sacri di tutti, i cittadini di Epidauro chiesero agli Ateniesi di tagliarne qualcuno, e questi acconsentirono a condizione che Epidauro offrisse ogni anno sacrifici alle sue due divinità principali venerate sull’acropoli, Atena Poliade ed Eretteo. Qualche tempo dopo, però, a causa dei contrasti che contrapponevano Epidauro a Egina, gli Egineti rubarono le due statue e le portarono nella propria città; e quando gli Ateniesi, in virtù del fatto che erano statue realizzate con il legno dei loro olivi, le reclamarono, avvennero singolari prodigi. Gli Ateniesi infatti non riuscirono a divellere dai basamenti le statue in questione per portarle via, e quando, per riuscire a spostarle, le legarono con delle funi e si misero a tirare, si scatenarono insieme un tuono e un terremoto che terrorizzarono gli uomini e li fecero impazzire, inducendoli a uccidersi l’uno con l’altro. Altri dicevano che quando gli Ateniesi cercarono di portar via le statue queste miracolosamente si mossero da sole, cadendo in ginocchio (Erodoto, V, 82 ss.; cfr. Pausania, II, 30, 4). In tutto il lungo racconto di Erodoto si mescolano elementi meravigliosi (le statue che si muovono, i terremoti e i tuoni miracolosi) con dati storici. È possibile che effettivamente a Egina vi fossero statue dedicate alle due dee della fertilità menzionate nel racconto: un’iscrizione rinvenuta nell’isola (I.G., IV, 1588) reca l’inventario dei beni di un santuario dedicato a due divinità chiamate in modo assai simile, Mnia e Auzesia; e quanto al miracolo delle statue che si inginocchiano, il riferimento potrebbe essere alla posizione che spesso le donne assumevano per il parto e che le sculture forse riproducevano.

Altri personaggi mitici legati a Epidauro. Di Epidauro era nativa Beroe, nutrice di Semele, la madre di Bacco (Ovidio, Metamorfosi, III, 278), la cui nascita era narrata diffusamente da Ovidio: Semele era amata da Giove, e da lui aspettava un figlio; Giunone, come sempre gelosissima del consorte, assunse le sembianze di Beroe e indusse la giovane donna a chiedere a Giove di darle una prova del suo amore e della sua identità, apparendole con quello stesso aspetto con cui soleva presentarsi alla sua consorte divina, appunto Giunone. L’astuto inganno ordito da Giunone per distruggere la rivale produsse il suo effetto: Giove giurò solennemente a Semele di assecondare ogni suo desiderio, e la giovane donna gli chiese, sobillata dalla falsa Beroe, di presentarsi a lei nel fulgore della sua gloria divina. «Donna mortale non sopporta assalto celeste e quel dono la incenerì. Ancora in embrione il piccolo viene estratto dal ventre della madre e tenero com’è viene cucito, se devo crederlo, in una coscia del padre per compiere la gestazione. Di nascosto Ino, la zia materna, lo alleva nei primi mesi, quelli di culla, poi lo affida alle Ninfe di Nisa che lo nascondono nelle loro grotte, nutrendolo di latte» (Ovidio, Metamorfosi, III, 308-315).

Alla città di Epidauro era collegato il mito di Perifete, un terribile brigante, figlio di Efesto e di Anticlea, detto Corinete, cioè «portatore di clava», che terrorizzava i viandanti e li depredava e uccideva usando la sua temibile mazza di bronzo («poiché aveva le gambe deboli, portava questa clava di ferro con la quale uccideva quelli che passavano», dice Apollodoro, Biblioteca, 16, 1). Venne ucciso da Teseo, che compì in tal modo la prima delle sue mitiche imprese e gli sottrasse la clava (Plutarco, Teseo, 8, 1 ss.; cfr. Euripide, Le supplici, 714; Ovidio, Metamorfosi, VII, 436-437; Pausania, II, 1, 4). Tra gli eroi originari di Epidauro la tradizione ricordava inoltre Akesis, che a Pergamo veniva identificato con Telesforo.

Luoghi venerandi di Epidauro. Luogo sacro per eccellenza di Epidauro era il santuario di Asclepio, dove confluivano i fedeli da ogni parte della Grecia, in particolare quegli ammalati che, assistiti dai sacerdoti del dio, vi conducevano una complessa esperienza mistica (culminante nell’incubazione, il pernottamento presso il santuario durante il quale poteva avvenire l’incontro con la divinità) che portava in molti casi alla guarigione. Tra gli altri luoghi di Epidauro particolarmente venerati per i loro legami col mito si ricordava la tomba di Deifonte, antenato di Eracle (che tuttavia qualcuno voleva fosse sepolto ad Argo); un bosco di olivi selvatici, che cresceva nei pressi della città, era chiamato Irnetio in memoria di Irneto, che di Deifonte era stata la moglie. Il mito raccontava che i fratelli della bella Irneto, desiderando farla ritornare in patria, ad Argo, allontanandola dal marito Deifonte, si recarono da lei cercando di convincerla che Deifonte fosse una persona spregevole e assicurandole che ad Argo avrebbe trovato un partito assai migliore di lui. Alle rimostranze di Irneto, che vantava le qualità del marito, i fratelli risposero caricandola a viva forza su un cocchio e trascinandola via. Deifonte e gli abitanti di Epidauro cercarono di raggiungerla e di sottrarla ai rapitori, ma la veemenza con cui uno dei fratelli trascinò via la donna, che era incinta, ne causò la morte. Deifonte raccolse allora il corpo della sposa e lo seppellì nel bosco di olivi che da lei prese il nome (Pausania, II, 28, 3-6). Salendo sul monte Corifeo, poi, nei pressi del santuario, si poteva notare, lungo la strada, una pianta di olivo detta Strepte, propriamente «ritorta»: il nome era dovuto a una tradizione leggendaria, secondo la quale il suo tronco era stato attorcigliato da Eracle per segnare con esso il confine del territorio con quello della città argolica di Asine (Pausania, II, 28, 2).

Epidauro ed Esculapio nel mondo romano. Le sorti di Epidauro appaiono legate a quelle di Roma in un episodio che veniva raccontato a proposito del culto di Esculapio nell’Isola Tiberina della capitale. Nella ricostruzione di Ovidio (Metamorfosi, XV, 621-744), a Roma e nel Lazio imperversava una terribile pestilenza, e invano un’ambasceria romana era stata mandata a Delfi per interpellare l’oracolo di Apollo: il dio aveva riferito che non di lui c’era bisogno, bensì di suo figlio Esculapio. I Romani si erano perciò diretti a Epidauro, sede del culto del dio, e dopo lunghe trattative con le autorità locali, e grazie all’intervento prodigioso del dio stesso, apparso in sogno a un Romano in forma di serpente, avevano ottenuto di trasportarlo sulla propria nave fino a Roma. Il dio, sotto forma appunto di un grande serpente, era quindi stato portato all’Isola Tiberina, dove, riassunte le proprie sembianze divine, aveva risanato la città e da quel momento vi era diventato oggetto di culto. La venerazione per Esculapio era molto diffusa in tutto il mondo romano, e la località di Epidauro era ricordata dagli scrittori latini, per esempio da Livio, con grande ammirazione: «Insigne per il famoso santuario di Esculapio, distante cinquemila passi dalla città, ed ora ricco solo di rovine dei tesori manomessi, ma in quel tempo [ricco] dei doni offerti al dio dai malati in ricompensa dei rimedi elargiti per riavere la salute» (XLV, 28, 3). Talvolta Epidauro compariva come ambientazione di qualche opera letteraria: in una piazza nei pressi del tempio di Esculapio si svolge per esempio la vicenda della commedia Curculio («Gorgoglione») di Plauto.

Il toponimo. Il toponimo «Epidauro» era messo in relazione con un eroe dallo stesso nome, ritenuto ora figlio di Argo, a sua volta figlio di Zeus, ora di Apollo (Pausania, II, 26, 2). Il toponimo ricorre anche altrove: come ricordano alcune fonti (ibid., III, 23, 6), in Laconia sorge la località di Epidauro Limera, i cui abitanti dicono di essere non Laconi, ma discendenti della città di Epidauro dell’Argolide, «di essere approdati in questa zona della Laconia durante un loro viaggio a Cos, dove si recavano in missione ufficiale da Asclepio, e di essere rimasti ad abitare qui in seguito a visioni di sogni». Alle loro visioni notturne si aggiunse un prodigio: il serpente che avevano portato con sé dalla patria fuggì al loro controllo e sparì sotto terra vicino al mare, inducendoli a fondare proprio in quel punto altari di Asclepio (ibid., III, 23, 7).

EPIRO, in gr. Èpeiros. Regione della penisola balcanica che, nonostante la sua posizione limitrofa rispetto ai centri maggiori della cultura greca, e forse proprio per il mistero che sempre avvolge i luoghi periferici, era ritenuta patria di numerose popolazioni leggendarie e teatro di molteplici miti. Nei tempi più antichi vi regnava Fetonte, il figlio del Sole, che si recò nella regione con Pelasgo; successivamente, dopo la guerra di Troia, vi sarebbe arrivato Neottolemo, figlio di Achille, che «conquistò la regione e lasciò una dinastia di sovrani suoi discendenti, che furono chiamati Pirridi» (Plutarco, Pirro, 2; cfr. anche Isidoro, Etimologie, IX, ii, 79). Neottolemo era infatti chiamato anche Pirro, e da lui la regione avrebbe preso il nome (ibid., XIV, iv, 9), benché altri sostenessero che si trattasse di due persone diverse, un Neottolemo figlio di Achille e un Pirro figlio di Neottolemo. In ogni caso, Achille fu sempre particolarmente venerato nella regione, e nella sua descrizione della Grecia Pausania può affermare che i re d’Epiro avevano avuto origine da Peleo, padre di Achille (II, 29, 4); il nome di Pirro ricorre con frequenza nella dinastia dei sovrani d’Epiro fino ai tempi storici.

L’Epiro accolse Deucalione e Pirra, gli unici sopravvissuti al celebre grande diluvio che sommerse la terra, i quali, dopo aver fondato il santuario di Dodona, si stabilirono là fra i Molossi (Plutarco, Pirro, 1, 1); anche alla popolazione dei Molossi era riconosciuta un’origine mitica, e di essi si diceva «che furono un giorno condotti là da Pirro, figlio di Neottolemo» (Pseudo-Scimno, 447-450; cfr. Strabone, VII, 7, 8). Tra gli abitanti si ricordava poi la popolazione dei Caoni, dai quali la regione era indicata anche con il nome di Caonia (cfr. per esempio Virgilio, Eneide, III, 293; v. anche CAONIA e DODONA).

In Epiro si svolse, secondo la versione del mito offerta da Plutarco (Teseo, 31, 4-5), una delle imprese di Teseo: egli aveva stretto un accordo con l’amico Piritoo, promettendogli di aiutarlo a trovare moglie dopo che Piritoo aveva aiutato lui a catturare Elena (la futura Elena di Troia) per farne la sua sposa. Teseo non sarebbe poi riuscito a sposare Elena, che al momento del rapimento era ancora poco più che una bambina, ma quando intraprese la spedizione in Epiro al fianco di Piritoo non lo sapeva ancora; si era proposto invece di aiutare l’amico a rapire la figlia di Edoneo, re dei Molossi. La versione più diffusa del mito racconta in verità che Teseo si spinse addirittura negli Inferi al fianco di Piritoo, per rapire dall’Ade Core, la figlia di Demetra, e farne la moglie di Piritoo; ma nello sforzo di razionalizzare un racconto sentito evidentemente come eccessivo, Plutarco dà una spiegazione diversa, raccontando che Edoneo, re dei Molossi, aveva posto alla propria moglie il nome di Persefone, alla figlia quello di Core e al cane quello di Cerbero. L’avventura di Teseo si sposta così dal mondo dell’oltretomba al remoto ma reale Epiro, anche se con un epilogo tragico: Piritoo fu ucciso da Edoneo, mentre Teseo fu rinchiuso in prigione. La tradizione che invece collocava negli Inferi l’avventura di Teseo raccontava poi un particolare curioso: quando l’eroe fu liberato dal mondo dell’oltretomba grazie all’intervento di Eracle, una parte delle sue natiche rimase attaccata alla roccia sulla quale si era seduto, cosicché restò agli Ateniesi suoi sudditi e successori la caratteristica di avere le natiche piatte (scolio ad Aristofane, Cavalieri, 1368 a).

Nelle tradizioni mitiche relative all’Epiro ricorre anche il nome di Gerione, che correntemente era ricordato come un mostruoso essere tricorpore, talvolta alato, che risiedeva nel più remoto Occidente (nell’isola di Eritea, o forse a Tartesso?) e che possedeva ricchissime mandrie di bovini, che Eracle aveva dovuto razziare nel corso della decima delle sue dodici fatiche canoniche; in Epiro Gerione si presentava con caratteristiche diverse, apparendo quale sovrano indigeno.

Al popolamento dell’Epiro avevano contribuito genti diverse ed eroi molteplici che presentavano legami più o meno diretti con il mito. Ai «popoli affini di Epiro e di Esperia [l’Italia], accomunati da Dardano progenitore» fa cenno Virgilio nell’Eneide (III, 501-503): Dardano infatti era antenato dei Troiani e quindi anche di quegli esuli da Troia che in Epiro si erano stabiliti, giuntivi come prigionieri di guerra di Neottolemo figlio di Achille (per i particolari v. CAONIA). I legami tra l’Epiro e i Troiani furono poi rinsaldati dal passaggio in Epiro di Enea, esule da Troia, per il quale v. BUTRINTO. Tra le popolazioni dell’Epiro si menzionavano gli Encheli, «che ricordano con la loro antica denominazione la morte di Cadmo», trasformato in serpente (Lucano, III, 189): la tradizione raccontava infatti che Cadmo venne trasformato in serpente con la sposa Armonia, ed entrambi vennero trasferiti nei Campi Elisi. Il nome degli Encheli, secondo questa versione della leggenda, era messo in relazione con il greco image, «anguilla». Secondo una tradizione, poi, in Epiro Ulisse, unitosi a Evippe, ebbe un figlio di nome Eurialo che fu oggetto di una tragedia a lui intitolata da Sofocle di cui non restano che frammenti (cfr. Partenio, 3; per Ulisse in Epiro v. anche TESPROZIA). E tra gli abitanti dell’Epiro si ricordava in età storica una stirpe di Orestidi, che si riagganciavano al mito in quanto si dicevano discendenti di Oreste, l’eroe figlio di Agamennone che, dopo aver ucciso la madre Clitemnestra, era stato colpito dalla follia; liberatosi da quella terribile punizione delle Erinni, si recò in Epiro con la sposa Ermione, ebbe da lei un figlio che prese a sua volta il nome di Oreste e fondò una città chiamata Argo Orestica (Strabone, VII, 7, 8). E ancora, una tradizione leggendaria relativa alla popolazione dei Molossi ricordava la storia di Munico, loro re, che venne un giorno assalito dai predoni, i quali diedero fuoco al suo palazzo. Lui e i suoi figli si salvarono solo per intervento di Giove, che li trasformò in uccelli permettendo loro di fuggire in volo e mettersi al sicuro (Ovidio, Metamorfosi, XIII, 717-718). Non meno leggendaria era, come racconta ancora Ovidio, la popolazione degli Atamani, che avevano la consuetudine, nelle notti di luna nuova, di accendere dei fuochi con la legna fradicia (ibid., XV, 311-312): come ci riuscissero non viene spiegato, ma è uno dei segni delle insospettabili prerogative degli elementi naturali in quella regione. Che sono confermate da un’altra tradizione, riferita da Isidoro, secondo la quale in Epiro esiste una sorgente in cui le fiaccole accese si spengono e quelle spente si accendono (Etimologie, XIII, xiii, 10).

Quanto al famoso Pirro che si scontrò con i Romani, benché personaggio storico, presenta alcune caratteristiche avvolte dalla leggenda. A partire dal suo aspetto: «Il volto di Pirro mostrava una maestà regale che ispirava più timore che rispetto; non aveva molti denti, ma la sua mascella superiore formava un solo osso continuo, su cui le divisioni fra i denti erano indicate da leggere scalfitture. Si credeva che guarisse i malati di milza sacrificando un gallo bianco, facendo coricare supino il paziente e premendogli dolcemente l’organo malato con il piede destro […]. Si dice che l’alluce di quel piede avesse un potere divino, tanto che dopo la sua morte, quando il resto del corpo fu completamente bruciato, si trovò l’alluce indenne e illeso dal fuoco» (Plutarco, Pirro, 3, 6-9; l’alluce miracoloso era religiosamente conservato come preziosa reliquia nel santuario di Dodona: Plinio, Nat. Hist., VII, 17).

L’Epiro era terra di allevamento di cavalli: alle «cavalle vittoriose nell’Elide», cioè nei giochi olimpici, provenienti dall’Epiro, allude Virgilio (Georgiche, I, 59). Anche l’allevamento di cani, specialmente da guardia, era molto famoso nella regione, tanto che ancora oggi si è mantenuta la denominazione di «molossi», dal nome della popolazione epirota, per una razza di notissimi cani da guardia: «Mai, sotto la loro custodia, di notte alle stalle il ladro o gli assalti dei lupi […] dovrai temere», annota Virgilio (Georgiche, III, 406-408).

EPTAPORO, in gr. Eptàporos. Fiume della Troade, in Asia Minore, che scaturisce dal monte Ida ma che nacque, secondo la mitologia, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-341). L’idronimo significa letteralmente «dalle sette foci». Per il prodigioso ingrossamento delle acque del fiume ricordato nell’Iliade (XII, 19-21) v. IDA.

ERACLEA, in gr. Heràkleia. Il toponimo, molto diffuso nel mondo antico, indicava numerose città che condividevano il culto di Eracle. Una di esse, fondata sull’estremo lembo occidentale della Sicilia, al capo Drepanon (oggi Trapani), sorse intorno al 510 a.C. a opera di un discendente di Eracle, Dorieo, il quale, figlio del re di Sparta Anassandrida, aveva sulle prime deciso di andare a fondare una colonia in Libia per non essere costretto a sottostare al fratello Cleomene che aveva ereditato la corona. Egli tuttavia era partito per la spedizione senza consultare preventivamente l’oracolo, e ben presto – forse come conseguenza di tale suo comportamento – gli indigeni lo avevano costretto ad andarsene. Ritornato nel Peloponneso, seguì allora il vaticinio di Laio, che gli ordinò di andare a riconquistare le terre prese un tempo da Eracle nel territorio di Erice, in Sicilia: la Pizia, che questa volta venne regolarmente consultata, gli assicurò che la spedizione avrebbe avuto buon esito e che egli sarebbe diventato padrone di quelle terre. La missione tuttavia non ebbe successo: Dorieo, accompagnato dagli spartani Tessalo, Parebate, Celea ed Eurileonte, morì durante un combattimento e le sue truppe vennero sgominate da Fenici e Segestani (Erodoto, V, 42-46). Non è escluso, tuttavia, che nel frattempo Dorieo avesse avuto modo di fondare una città, che chiamò appunto Eraclea in memoria dei possedimenti conquistati nella regione dal suo antenato Eracle e che non va confusa con Eraclea Minoa, nuovo nome dato da Eurileonte (unico condottiero sopravvissuto della spedizione) alla città di Minoa che egli riuscì a occupare.

Quest’ultima derivava il suo nome più antico, secondo il mito, da Minosse: si diceva infatti che il re cretese fosse giunto in Sicilia mentre inseguiva Dedalo, l’architetto che aveva realizzato il labirinto di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro e che, ancor prima, aveva fabbricato la statua di vacca all’interno della quale la regina Pasifae, moglie di Minosse, si era celata per unirsi al meraviglioso toro del quale si era invaghita e dal quale aveva generato per l’appunto il Minotauro. Fuggito da Creta per non incorrere nelle ire di Minosse, Dedalo, dopo svariate avventure, si era rifugiato in Sicilia, ma il sovrano cretese si era messo sulle sue tracce e si era spinto fino all’isola, dove alla fine era caduto per mano del re locale Cocalo, non prima di aver fondato, si diceva, la città di Minoa sulla costa meridionale della Sicilia, presso la foce dell’Alico (le sue rovine sono oggi visibili alla foce del Platani, presso il Capo Bianco). Si raccontava che a Eraclea Minoa avesse soggiornato Merione, il più fedele compagno di Idomeneo durante la guerra di Troia.

Un’altra Eraclea, nota come Eraclea di Lucania, si trovava presso Policoro sul golfo di Taranto ed era una fondazione di Taranto e di Turi; derivava il suo nome dal culto locale, attestato a Taranto, dell’eroe (Strabone, VI, 1, 14). Diversa è anche la città di Eraclea sull’Oite dove si venerava la tomba di Eracle (del quale si ricordava però una sepoltura anche ad Argo: Pausania, II, 23, 5).

Nei pressi dell’Eraclea pontica, accanto agli altari dedicati a Zeus Stratios, crescevano due querce che si dicevano piantate da Eracle in persona (Plinio, Nat. Hist., XVI, 239). L’Eraclea pontica è tuttora visibile, in rovina, nell’odierna località turca di Ereimageli, che restituisce solo un pallido ricordo del fascino mitico della città antica, considerata una delle più belle e ricche d’Oriente. Per la sua posizione presso il fiume Lyco e la penisola Acherusiade, si contendeva con altre località l’onore di serbare il ricordo della discesa di Eracle agli Inferi per trarne Cerbero, discesa che sarebbe avvenuta proprio presso la città, sulla penisola dal nome evocatore di Acherusiade (Pomponio Mela, I, 19, 103). La bava di Cerbero trascinato fuori dalle profondità infernali, spargendosi sull’erba, avrebbe generato proprio in quel luogo la pianta dell’aconito (Plinio, Nat. Hist., XXVII, 4). Nell’Eraclea pontica si venerava un eroe locale di nome Agamestore (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 850), che da una Ninfa aveva generato un figlio, Cleito, sulle rive del vicino fiume Partenio, che scorre «calmo come l’olio prima di riversare nel Ponto Eusino le sue acque affascinanti» (Quinto Smirneo, VI, 464-467); nelle vicinanze si apriva la grotta che dava accesso agli Inferi (v. PAFLAGONIA per i particolari). Nel luogo si trovava inoltre la tomba di Idmone, un indovino figlio di Apollo e Asteria e antenato dell’indovino Calcante. Il suo ruolo di veggente era esplicitato dal suo «nome parlante», che significa «colui che sa». Aveva partecipato alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro pur sapendo che vi avrebbe trovato la morte: cosa che puntualmente si verificò quando venne ucciso da un cinghiale (Apollodoro, Biblioteca, I, 126; Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 815 ss.).

Ancora diversa era Eraclea sul Latmo, che sorgeva sulla costa ionica dell’Asia Minore ai piedi del monte Latmo; la sua celebrità nel mito era dovuta alla presenza nelle sue vicinanze di una caverna nella quale si diceva che Endimione avesse trascorso trent’anni immerso in un sonno profondo per volere di Giove, e che lì fosse stato sepolto. Il mito era uno dei più noti del mondo antico e narrava che Endimione, bellissimo giovane pastore, si era innamorato della Luna o Selene (o, più precisamente, Selene si era innamorata di lui); dall’unione dei due erano nate cinquanta figlie. Zeus aveva promesso a Endimione di realizzare un suo desiderio, qualunque esso fosse: il giovane aveva allora chiesto di poter dormire di un sonno eterno, restando eternamente giovane, e Zeus lo accontentò. La leggenda aveva ambientazioni diverse, che spaziavano dal Peloponneso all’Asia Minore.

Un’altra Eraclea era quella della Ftiotide, ai piedi dell’Eta, il monte sul quale Eracle si era dato la morte sul rogo: il rapporto con il mito di Eracle spiegava in modo evidente l’origine del toponimo. Il toponimo «Eraclea» venne attribuito infine alla città di Trachis quando essa venne ripopolata e ingrandita dagli Spartani nell’ultimo quarto del V secolo a.C. (v. TRACHIS).

ERACLEIO, in gr. Heràkleion. Piccolo ruscello della Beozia sulle rive del quale si scontrarono Pirecme, re dell’isola di Eubea, ed Eracle. Quest’ultimo ebbe la meglio sull’avversario, che venne ucciso e squartato dai cavalli; per questo si diceva che ogniqualvolta dei cavalli si abbeveravano nel piccolo corso d’acqua, ne uscisse un nitrito (Plutarco, Parall., 7).

ERASINO, in gr. Erasìnos. Fiume dell’Argolide. Alle divinità che «abitano presso l’antica corrente» del fiume dedicano il loro culto e le loro preghiere le Danaidi, figlie dell’eroe Danao, nella tragedia Le supplici di Eschilo (v. 1020). Nelle Metamorfosi Ovidio ricorda il suo corso parzialmente sotterraneo, menzionando «il grande Erasino che, risucchiato dal suolo, scorre impetuoso sotto terra e riappare poi nella piana di Argo» (XV, 275-276).

ERCINIA, SELVA, in lat. Hercynia silva. In Germania, regione montuosa e coperta di boschi situata a nord del Danubio fra gli attuali Württenberg e alta Baviera, in corrispondenza della Foresta Nera. Non avendo un’idea precisa dei suoi confini, gli antichi – soprattutto i Romani – la consideravano un luogo selvaggio e terribile, popolato di genti e animali spaventosi e immensamente esteso. Come osserva Cesare nel De bello gallico (VI, 25-26), «non v’è alcun abitante della germania occidentale che possa dire di aver raggiunto il limite di questa selva, pur avendo marciato per sessanta giorni, o che sappia da qual luogo ha principio». A diffondere tra i Romani la sua fama terrificante contribuirono anche alcuni eventi drammatici, come la sconfitta di Varo nel 9 d.C., che ebbe luogo nella selva di Teutoburgo, situata all’interno della selva Ercinia, sulla cui precisa identificazione sussistono tuttavia molti dubbi (l’unica fonte che indica con il nome di selva di Teutoburgo la foresta che fu teatro della strage di Varo è Tacito, Annali, I, 60, 3). Il toponimo antico «Ercinia» significava, dal celtico, «alto». Tra gli animali leggendari che la popolano, Cesare (loc. cit.) ricorda «un bue dalla figura di cervo che ha in mezzo alla fronte tra le orecchie un corno parecchio più alto e più dritto di quelle corna che ci sono note; dalla sommità di esso si dipartono dei rami che allargandosi prendono forma di palma»; quanto alle alci, «per l’aspetto e per la varietà delle pelli sono simili a capre, ma le superano un poco in grandezza; hanno corna mozze e gambe senza nodi e articolazioni; non si sdraiano per riposare e se per qualche caso cadono a terra non possono più rimettersi in piedi o risollevarsi dal suolo». Per catturarle i cacciatori germani, sapendo che esse per riposare si appoggiano agli alberi, «in quel luogo scalzano dalle radici tutti gli alberi o li tagliano in modo che abbiano l’apparenza di alberi dritti. Quando esse, come d’abitudine, vi si appoggiano, col loro peso fanno precipitare gli alberi già tagliati e così anch’esse cadono», diventando perciò una facile preda. Qualcosa di simile si diceva anche a proposito di un tipo di alce che viveva in un’isola chiamata Scandinavia, ma di difficile identificazione; oltre a dormire appoggiandosi a un albero, questo animale, avendo il labbro superiore molto sviluppato, deve necessariamente brucare procedendo a ritroso, per non trovare in esso un ostacolo (Plinio, Nat. Hist., VIII, 39).

Straordinari erano nella selva Ercinia anche degli strani uccelli dalle piume luminose e fosforescenti, menzionati da Plinio (ibid., X, 132), che avrebbero ispirato gli scrittori medievali. Le dimensioni delle querce che popolavano la selva Ercinia erano ritenute straordinarie: «risulta effettivamente che le radici, arrivando a far forza l’una contro l’altra e spingendosi indietro, sollevano delle colline; oppure, se il terreno non le segue spostandosi, si incurvano fino all’altezza dei rami e formano degli archi a contrasto come portali spalancati, tanto da lasciare il passaggio a degli squadroni di cavalleria» (ibid., XVI, 6).

Probabilmente nel territorio della selva Ercinia andrà collocata quella «rupe Ercinia» incontrata dagli Argonauti durante il loro avventuroso viaggio di ritorno dalla Colchide dopo la conquista del vello d’oro: penetrati nel territorio dei Celti risalendo diversi fiumi, essi stanno per entrare nel corso di uno di essi che li porterebbe, con grave pericolo, nelle acque dell’Oceano, ma dalla rupe Ercinia la dea Era, con un grido possente e terribile, li fa ritornare indietro e li orienta nella giusta direzione (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 640-644).

ERCINNA, in gr. Herkimagena o Herkimagenna. Fiume mitico della Beozia, a Lebadea, il cui nome corrispondeva a quello di un’eroina compagna di Core, la figlia di Demetra. Un giorno, secondo il racconto, Core ed Ercinna giocavano insieme, dilettandosi con una bellissima oca di proprietà di quest’ultima (che non era una ragazza qualunque, ma era figlia di Trofonio, divinità oracolare di Lebadea); l’oca, a un tratto, si allontanò e si nascose alla vista delle due giovani, celandosi dietro una roccia. Fu Demetra a ritrovarla e a restituirla alla proprietaria, mentre dalla pietra dove l’animale si era nascosto scaturivano una sorgente e un fiume che prese il nome di Ercinna; nei pressi venne poi edificato un tempio dedicato a Ercinna stessa (Pausania, IX, 39, 2-3). «Ercinna» divenne poi un epiteto della dea Persefone o Core (Licofrone, Alessandra, 153).

ERCOLANO, in lat. Herculaneum. La città ai piedi del Vesuvio, celebre per i suoi resti archeologici, serbatisi sotto l’eruzione vulcanica del 79 d.C. al pari di quelli di Pompei, secondo la leggenda doveva il suo nome all’eroe Eracle che si diceva ne fosse stato il fondatore (Dionigi di Alicarnasso, I, 44, 1; Ovidio, Metamorfosi, XV, 711: «la città di Ercole»): l’eroe, di ritorno dalla spedizione nel remoto Occidente alla ricerca della mandria di buoi di Gerione, vi fece una sosta, ancorando le navi nel suo porto. Accanto a questo mito, a Ercolano godeva di grande popolarità anche un aneddoto non mitologico ma legato alla storia: si raccontava che l’imperatore Caligola «fece distruggere a Ercolano una bellissima villa perché un giorno sua madre vi era stata tenuta prigioniera, e così la consacrò alla fama, perché, quando essa era intatta, tutti le passavano davanti senza notarla, mentre ora ci si informa delle cause della sua distruzione» (Seneca, De ira, III, 21, 5).

EREBO È uno dei molti nomi con i quali gli antichi indicavano l’oltretomba, e più precisamente le tenebre del mondo infernale: il termine èrebos in greco significa infatti propriamente «oscurità», «tenebra». Personificato, nel racconto di Esiodo (Teogonia, 123) Erebo è un figlio del Caos, che dalla propria sorella, la Notte, genera il Giorno e l’Etere; in Omero è invece un luogo menzionato nella descrizione del viaggio di Ulisse nel regno dei morti: l’eroe offre sacrifici ai defunti, e «allora fuori dall’Erebo si adunarono le anime dei morti» (Odissea, XI, 35-37). Nel suo commento dell’Eneide virgiliana Servio presenta l’Erebo come il luogo di raccolta delle anime dei beati che devono recarsi nei Campi Elisi. Virgilio parla di un luogo sprofondato negli abissi («Il troiano Enea, insigne di pietà e di guerre, al suo genitore discende fra le ombre negli abissi dell’Erebo», Eneide, VI, 403-404) e degli «immensi fiumi dell’Erebo» (ibid., 671). Secoli dopo Isidoro, nelle sue Etimologie, spiega che l’Erebo è il nome della profonda cavità infernale (XIV, ix, 6). Nella letteratura latina il termine spesso ha lo stesso significato di AVERNO (v.). V. anche ADE.

EREMBI, PAESE DEGLI Secondo la tradizione gli Erembi (in gr. Erembòi) sarebbero da identificare con le popolazioni dell’Arabia: così già in Omero, che con questo termine «designa verosimilmente gli Arabi Trogloditi» (Strabone, I, 1, 3; I, 2, 34). Nelle loro terre passò Menelao durante le sue peregrinazioni, durate otto anni, prima di riuscire a far ritorno a Sparta dopo la guerra di Troia (Odissea, IV, 84); le ingenti ricchezze che vi raccolse colpirono Telemaco, figlio di Ulisse, quando si recò presso di lui a chiedere notizie del padre. Più tardi il nome degli Erembi fu sostituito «per maggior chiarezza» da quello di Trogloditi, termine che si riferisce «agli Arabi installati sulle coste del golfo arabico pertinenti all’Egitto e all’Etiopia» (Strabone, I, 2, 3). L’etimologia dell’etnonimo era messa in relazione con l’espressione greca che indicava l’idea di «scendere nelle viscere della terra» (image). V. anche TROGLODITI, PAESE DEI.

ERETO, in lat. Eretum. Antica città della Sabina a una trentina di chilometri da Roma lungo la Via Salaria, distrutta dai Romani e annessa alla vicina Nomento. La mitologia la ricorda tra le località che si contrappongono a Enea e ai Troiani quando essi, dopo le lunghe peregrinazioni che li hanno portati lontano da Troia distrutta, approdano sulle coste dell’Italia per cercarvi una nuova patria (Virgilio, Eneide, VII, 711).

ERETRIA v. EUBEA.

ERGINO, in gr. Ergìnos. Fiume di difficile identificazione, forse «ai remoti confini della gelida Tracia» (Apollonio Rodio, Argonautiche I, 213 ss.); fu teatro del ratto di Orizia, figlia del re ateniese Eretteo, a opera di Borea, il dio del vento del Nord. Dalla loro unione sarebbero nati i due gemelli Zete e Calais: Borea «nel luogo che chiamano Roccia di Sarpedonte, vicino alle correnti del fiume Ergino, la possedette, avvolta tutta da nuvole oscure».

ERIBIANO Nome di un colle da identificare probabilmente con il passo che, sulla Via Latina, congiunge Calvi e Teano. È ricordato da Polibio (III, 92-94) perché, per cogliere di sorpresa l’esercito romano e uscire indenne dall’impervio passaggio, il condottiero cartaginese Annibale ricorse a un astuto stratagemma nel cui ricordo si confondono elementi storici e aneddotici: fece raccogliere ingenti quantità di legname secco dai vicini boschi, e radunare, tra le prede catturate nei giorni precedenti come bottino di guerra, circa duemila dei più robusti buoi da lavoro; nel cuore della notte, fatte legare le fascine alle corna dei buoi, ordinò che vi venisse appiccato il fuoco e che gli animali venissero sospinti verso la sommità di un’altura, in modo che i Romani, accampati più in basso, potessero vederli. E infatti «i Romani di guardia presso la gola, visto che i fuochi si avvicinavano all’altura, pensarono che Annibale marciasse da quella parte», e «si immaginavano qualcosa di più grande e terribile di quanto non avvenisse in realtà». Dirigendosi in direzione dei fuochi, lasciarono allora sgombro il transito, dove Annibale poté passare indisturbato: «in questo modo dunque Annibale uscì dalla pianura di Falerno». Lo stratagemma ne ricorda uno molto simile descritto da Pausania, per il quale v. IPERESIA.

ERICE, in gr. Èryx. Città della Sicilia in provincia di Trapani, in vetta all’odierno monte San Giuliano, principale roccaforte degli Elimi, ossia dei popoli che la tradizione diceva discendenti dai Troiani fuggiti in Occidente dopo la caduta della loro città a opera dei Greci. In alcune fonti antiche compare con il nome di «Elima». Secondo una tradizione sarebbe stata fondata da Enea, giunto nell’isola con il troiano Elimo (Strabone, XIII, 608 = 1, 53; v. anche TRAPANI); altre fonti ne facevano una fondazione di un eroe di nome Egesto, o Aceste (presentati ora come personaggi diversi, ora come figura unica). Sul monte di Erice era radicato il culto di Afrodite, che ne deriva l’appellativo di «Ericina» con il quale è particolarmente nota soprattutto in Sicilia e nel mondo romano. «Signora, che ami […] l’alta Erice», scrive Teocrito invocando la dea nei Carmi bucolici (XV, 100-101); e più tardi Ovidio ricorda Venere come «quella dea che l’alta Erice ospita sotto l’ombra di un colle» (Ars amatoria, II, 419-420). Ricordando la topografia di Erice, anche Polibio (I, 55) descrive «il santuario di Afrodite Ericina, il più illustre, come tutti sanno, fra i santuari della Sicilia». Il mitico architetto Dedalo, durante il suo soggiorno in Sicilia alla corte del re Cocalo (v. CAMICO), aveva compiuto degli interventi per rinforzare e ampliare la rupe sulla quale poté poi sorgere il tempio, e vi aveva dedicato come dono votivo un favo d’oro. All’Afrodite di Erice aveva portato doni e offerte anche lo stesso Enea (Diodoro, IV, 83, 4).

Il toponimo era fatto derivare dal nome di un eroe eponimo, Erice, figlio di Afrodite e di Poseidone o di Bute. La genealogia di tutti i personaggi coinvolti nella storia di Erice è piuttosto complessa e variamente riferita dalle fonti. Bute, capostipite della famiglia degli Eteobutadi, secondo una versione del mito fu amante di Afrodite e ne ebbe quindi sempre la protezione, che trasmise anche a suo figlio Erice, nato da lei. Bute era figlio di Teleonte e faceva parte del gruppo degli Argonauti che avevano seguito Giasone nella remota Colchide alla conquista del vello d’oro; durante il viaggio di ritorno, mentre la nave Argo navigava in prossimità dell’isola delle Sirene, egli non seppe resistere al fascino meraviglioso del loro canto: «fu lesto a saltare in acqua dal banco, preso dalla voce soave delle Sirene, e nuotava attraverso le onde agitate per giungere a riva, infelice! Subito le Sirene gli avrebbero tolto il ritorno, ma Afrodite, la dea protettrice di Erice, ebbe pietà: gli venne incontro benigna, lo salvò strappandolo ai gorghi, e gli assegnò il promontorio Lilibeo per dimora» (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 912-919). Probabilmente in questa versione del mito Apollonio contamina tradizioni relative a due personaggi diversi di nome Bute; in ogni caso il re degli Elimi, Erice figlio di Bute, sarebbe stato l’artefice dell’introduzione del culto di Afrodite in Sicilia e il costruttore del celebre tempio della dea. Ciò non lo salvò dalla morte per mano di Eracle, che lo uccise di ritorno dalla cattura dei buoi di Gerione, poiché Erice aveva tentato di rubargli un animale. Il suo corpo venne seppellito sul monte che da lui prese il nome. Una versione più articolata del mito raccontava che Erice avesse sfidato Eracle nella lotta o nel pugilato: la posta in gioco nella contesa era, da parte di Erice, il suo regno, e da parte di Eracle la mandria catturata a Gerione. Eracle riportò la vittoria e avrebbe vinto il regno per sé, ma lo lasciò agli abitanti, predicendo loro che un giorno un suo erede sarebbe venuto a riprenderselo: cosa che capitò puntualmente, secondo le fonti, quando lo spartano Dorieo suo discendente si recò in quelle regioni per fondare una colonia (Diodoro, IV, 23; cfr. anche Erodoto, V, 43, Igino, Favole, 260 e Pausania, III, 16, 4-5). Una variante del mito raccontava che lo scontro tra Erice ed Eracle era nato a causa di un toro delle mandrie di Gerione, che durante il viaggio di ritorno dell’eroe dal remoto Occidente, dove era avvenuta la cattura, si era disperso e aveva attraversato a nuoto lo stretto di Messina (v. REGGIO CALABRIA). Di Erice si ricordava anche la figlia Psofide, che si sarebbe unita a Eracle dandogli due figli, Promaco ed Echefrone. Erice era ricordato come dio da Virgilio (Eneide, V, 391), che rievoca il suo combattimento con Eracle: «un paio di cesti dallo smisurato peso», che venivano usati dall’eroe per la lotta, quando «nel duro cuoio avvolgeva le braccia», si conservava ancora a Erice, e se ne mostravano le macchie di sangue e «gli spruzzi dei cervelli» come sacra e assai raccapricciante reliquia (ibid., V, 401-403 e 413).

Erice, dunque, aveva introdotto il culto di Afrodite in Sicilia, le aveva eretto un tempio sul monte Erice e vi era stato lui stesso sepolto. Sul monte, secondo la tradizione, era stato sepolto anche Anchise, padre di Enea, morto a TRAPANI (v.): in suo onore vengono celebrati solenni riti e giochi funebri quando Enea, dopo la sosta a Cartagine presso la regina Didone, vi si reca ospite del re locale Aceste (Virgilio, Eneide, V, 72 ss.). Proprio durante la sosta per tali giochi funebri le donne di Troia, stanche per le lunghissime peregrinazioni sul mare che si protraggono già da sette anni dalla caduta della città, implorano di restare e fondare lì una nuova patria: «Chi vieta di fondare le mura e di dare ai cittadini una città?» (ibid., V, 631). Persino i segni divini, nella forma di un’apparizione in sogno della profetessa Cassandra alla troiana Beroe, sembrano invitare a porre fine in quel luogo alle peregrinazioni delle Troadi: «Qui cercate Troia, qui è la dimora a voi destinata» (ibid., V, 637-638). Beroe, seguita dalle altre donne troiane, appicca fuoco alle navi nella speranza di impedire la ripresa della navigazione, ed Enea, non senza dubbi e tormenti interiori, acconsente allora a lasciare in quel luogo le donne e quanti non lo vogliono più seguire, stanchi di peregrinare per il mare: «la città delimita con l’aratro e a sorte assegna le dimore; questa sia Ilio, questi luoghi Troia, comanda». La città così fondata sarà capeggiata da Aceste, e nei suoi pressi, oltre al sepolcro per Anchise, sorgerà il santuario di Venere «vicino agli astri sulla vetta ericina» (ibid., V, 755-761). Non sfugge una certa ambiguità nelle fonti a proposito del luogo preciso in cui avviene l’incendio delle navi e in cui viene fondata la nuova città per le donne di Troia, che potrebbe anche essere SEGESTA (v.): molteplici varianti del mito riguardano del resto la fondazione di tutte le città elime di Sicilia, la loro cronologia nonché la storia dei loro eroi fondatori, le cui vicende spesso risultano strettamente intrecciate se non proprio confuse o parzialmente sovrapposte. In ogni caso, il riferimento al monte di Erice è poi efficacemente usato come sinonimo di grandezza anche altrove nel poema virgiliano (XII, 701), insieme all’Athos e all’Appennino.

Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Erice è menzionato tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari); la sua funzione di dimora di Venere è espressamente citata (Metamorfosi, V, 363-364) e non manca neppure un accenno al viaggio di Enea, del quale, nel rispetto della tradizione mitica, si ricorda che dopo l’avventura con Didone a Cartagine fece tappa proprio a Erice, presso il fedele Aceste (che secondo alcune fonti, come accennato all’inizio, sarebbe stato il fondatore della città: Licofrone, Alessandra, 961-964); Enea vi celebrò un sacrificio in onore del padre Anchise, per onorare la sua tomba che lì appunto si trovava (Metamorfosi, XIV, 83-84). Nel racconto di Ovidio, la città, «sempre aperta alla brezza di Zefiro», viene attraversata da Cerere, madre di Proserpina, durante la sua disperata peregrinazione alla ricerca della figlia, rapita dal dio degli Inferi nelle campagne vicino a Enna (Fasti, IV, 478; per i particolari del mito v. ENNA).

ERIDANO, in gr. Eridanòs, in lat. Eridanus. Fiume di incerta collocazione, personificato nella figura di un dio figlio di Oceano e di Teti; era tradizionalmente identificato con il Po, anche se originariamente si riteneva che scorresse nelle regioni più settentrionali dell’Europa, da dove proveniva l’ambra, che nel mito appare strettamente legata al fiume (da qui l’altra identificazione talvolta presente negli scrittori antichi, quella con il Rodano). La leggenda più nota relativa all’Eridano narrava infatti che Fetonte, figlio del Sole, guidando il cocchio paterno che non era in grado di dominare, precipitò nelle acque del fiume, colpito dal fulmine di Zeus; le Eliadi, sue sorelle, piansero la sua morte presso le rive, e le loro lacrime si trasformarono in ambra o elettro, mentre le fanciulle si mutavano in pioppi. Il mito fu raccontato da molti poeti con grande varietà di dettagli ma con una certa uniformità generale. Secondo Apollonio Rodio, per esempio (Argonautiche, IV, 600-603), a seguito della caduta di Fetonte l’acqua del fiume, «ancor oggi, esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore: nessun uccello può sorvolare quelle acque spiegando le ali leggere, ma spezza il suo volo e piomba in mezzo alle fiamme». Si raccontava infatti che quando Zeus colpì Fetonte con il suo fulmine, tutto intorno a lui prese fuoco; e il re degli dèi, che cercava un pretesto per sterminare il genere umano, con la scusa di spegnere il fuoco fece straripare tutti i fiumi e provocò il diluvio universale, dal quale si salvarono solo Deucalione e Pirra nonché le Eliadi (Igino, Favole, 152 A). Nell’Eridano Apollonio Rodio immaginava che gli Argonauti, i mitici eroi che a bordo della nave Argo parteciparono alla spedizione nella Colchide con Giasone alla ricerca del vello d’oro, si fossero immessi con le loro navi di ritorno dall’impresa, risalendolo fino a entrare nel Rodano e poi a sfociare nel mar Tirreno (cfr. Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 592-658): itinerario che pone naturalmente qualche problema circa l’identificazione del fiume. Apollonio Rodio ricorda il disagio provato dagli Argonauti, che, penetrati profondamente nel corso d’acqua, «durante il giorno giacevano affranti, sfiniti dall’odore cattivo che mandavano le correnti dell’Eridano dal corpo riarso di Fetonte, intollerabile; e poi la notte sentivano i gemiti acuti, il triste lamento delle Eliadi» (ibid., IV, 620-625). Lo stesso poeta raccontava anche una leggenda probabilmente di sua invenzione che metteva in relazione la nascita dell’ambra, oltre che con l’Eridano, anche con il dio Apollo: «I Celti hanno inventato una storia, che sono le lacrime del dio Apollo, il figlio di Leto, a formare i vortici», quando il dio fu scacciato fino al paese degli Iperborei da Zeus suo padre, irato per gli amori di Apollo con la ninfa Coronide, dai quali era nato Asclepio, il dio della medicina. Anche il poeta latino Lucano non manca di rievocare il mito di Fetonte: «È tradizione che questo fiume sia stato il primo a far ombra alle rive con una corona di pioppi e che abbia avuto onde in grado di sopportare i raggi del sole, allorché Fetonte, mentre conduceva precipitosamente il carro del Sole attraverso un’orbita obliqua, infiammò il cielo con briglie infuocate, arroventando la terra che era rimasta senz’acqua» (ibid., II, 410-415). E il mito del carro del Sole continuerà ad affascinare i poeti fino al tramonto della civiltà classica, quando nelle sue Dionisiache Nonno di Panopoli ancora ricordava che «le Eliadi, gemendo presso i flutti dell’Eridano, furono mutate in alberi e, alberi dalle belle foglie, versano nelle acque lacrime lucenti» (Dionisiache, XXXVIII, 94-95); e anche altrove si soffermava sull’«Eridano ricco delle lacrime delle Eliadi» (ibid., XI, 32-33; XLIII, 414-416; cfr. Isidoro, Etimologie, XVI, viii, 6). Ma è nelle Metamorfosi di Ovidio (II, 324) che l’epilogo dell’avventura di Fetonte era rievocato nella forma probabilmente più nota e nella maniera forse più magistrale: «lo accoglie l’immenso Eridano, che gli deterge il viso fumante»; il suo corpo, pietosamente raccolto dalle Naiadi, viene seppellito sotto una lapide dove esse incidono questi versi: «Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e se non seppe guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa» (ibid., II, 327-328). Ovidio riserva particolare attenzione alla metamorfosi delle fanciulle divine in alberi: «Mentre allibiscono, una corteccia avvolge gli inguini e a poco a poco fascia il ventre, il petto, le spalle e le mani; solo la bocca che invoca la madre resta viva in loro […] e la corteccia soffoca le ultime parole. Ne colano lacrime, ambra che stilla dai nuovi rami e che, rassodata al sole, dal fiume limpido è raccolta» (ibid., II, 353-365).

Benché Ovidio accenni al Lazio in relazione al fiume, il collegamento con l’ambra, e quindi con le regioni settentrionali dell’Europa, specie quelle intorno al Baltico, fece sì che l’Eridano potesse essere chiamato a rappresentare simbolicamente uno degli estremi confini del mondo: Esiodo per esempio lo ricorda per definire le aree nelle quali i figli di Borea, Calais e Zete, si spinsero nel corso del loro inseguimento delle Arpie, le mostruose creature che perseguitavano l’indovino Fineo (Catalogo delle donne, III-IV, 71). Ancor prima di Ovidio, tentando di identificare il fiume mitico con un corso d’acqua noto, si pensò al Reno, al Rodano (con Eschilo) o al Po (con Euripide), e quest’ultima ipotesi finì col prevalere: «sul marino flutto della costa di Adria e sull’acqua dell’Eridano dove stillano nelle onde purpuree le infelici fanciulle, per pietà di Fetonte, lucenti lacrime d’ambra», scrive Euripide (Ippolito vv. 735-741; il passo è echeggiato nello Pseudo-Scimno, 390 ss., che non esita a collegare il fiume con l’Adriatico e che segnala come, in ricordo della luttuosa vicenda di Fetonte, gli indigeni si vestano di nero e portino abiti funebri; a tale usanza allude anche Polibio, II, 16; non diversamente altre fonti spiegano gli abiti scuri dei Dauni come una memoria del lutto per la morte di Diomede, che finì i suoi giorni da quelle parti). L’identificazione con il Po è da Polibio pienamente accettata: «il fiume Po, celebrato dai poeti come Eridano…», scrive nelle Storie (II, 16). Così l’assimilazione Po-Eridano finì col prevalere negli autori latini (per esempio in Virgilio, Georgiche IV, 366-73) e in svariati mitografi (Igino, Favole, 154: «il fiume Po, quello che i Greci chiamano Eridano»). Ciò non impedisce peraltro a Virgilio di immaginare, nell’Eneide, che l’Eridano abbia la sua sorgente nei Campi Elisi e che le sue acque scorrano dagli Inferi fino alla superficie terrestre («in su, ricchissimo, l’Eridano muove per la selva il suo corso», VI, 658-59). Ma ormai, e ancor di più nei secoli successivi, l’identificazione dell’Eridano con il Po appariva scontata: nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia per esempio si legge: «Il Po è chiamato dai Greci Eridano, con riferimento ad Eridano, figlio del Sole, noto come Fetonte, il quale, colpito da un fulmine, cadde e morì in questo fiume» (XIII, xxi, 26: dove, curiosamente, Eridano e Fetonte sono due nomi per lo stesso personaggio). E a fronte di questa identificazione non mancarono mai neppure le interpretazioni ironiche o scherzose, come quella fornita già da Luciano nel dialogo L’ambra o i cigni (56 [7], 1 ss.), dove il poeta immagina di trovarsi a traghettare attraverso il fiume e di raccontare il mito di Fetonte ai battellieri, che lo deridono per quella storia inventata e inverosimile: «Che razza d’imbroglione e di bugiardo, dicevano, ti ha raccontato questo? Noi non vedemmo cadere nessun guidatore di carro né abbiamo i pioppi che dici tu. Se ci fosse qualcosa del genere pensi che noi per due oboli remeremmo o traineremmo le navi controcorrente, avendo la possibilità di arricchirci raccogliendo le lacrime dei pioppi?». Dove è evidente che a venir messa in dubbio è la storia di Fetonte, ma non l’identificazione del fiume mitico con quello reale. Il mito era raccontato da Luciano, nella forma di un dialogo fra Zeus ed Elio, anche nei Dialoghi degli dèi (8 [79], 25 [24]): «[Fetonte] sia sepolto dalle sorelle presso l’Eridano, là dove cadde sbalzato dal carro, e queste piangano su di lui lacrime d’ambra e per il dolore si trasformino in pioppi».

Al braccio più meridionale del delta del Po, chiamato Padusia, accenna Virgilio nell’Eneide (XI, 457), ricordando i cigni che, «sulla sua pescosa corrente, emettono un suono rauco attraverso gli stagni». Alla sorgente dell’Eridano, tripartita, accenna invece Isidoro di Siviglia (XIII, xxi, 26). Stabilmente identificato con il Po, e collegato con la storia reale di quest’ultimo, l’Eridano appare in Lucano come il fiume «che ingoia più terre di ogni altro e che trascina in mare boschi divelti, prosciugando di acque l’Esperia», ossia l’intera Italia (Guerra civile, II, 409-410). Quando qualche evento particolarmente importante si produceva nel mondo romano, anche l’Eridano poteva venire chiamato in causa: come in occasione di una rovinosa piena del Po ai tempi della fine della Repubblica, a seguito della quale l’acqua «si ritirò all’improvviso e lasciò sul terreno, una volta asciugato, una grande quantità di serpenti» (Dione Cassio, XLV, 17, 7); alla morte di Cesare Virgilio fa risalire una spaventosa piena dell’Eridano/Po, che viene considerata un segno divino: «Proruppe, travolgendo le foreste nella sua furiosa piena, il re dei fiumi Eridano, ovunque trascinando sui campi insieme alle stalle gli armenti» (Georgiche, I, 481-483).

Il nome «Eridano» è di origini greche, come osservava già Erodoto: «personalmente non ritengo credibile che dei barbari chiamino Eridano un fiume che sfocerebbe nel mare settentrionale, dal quale si dice che provenga l’ambra […] il nome stesso “Eridano” si rivela come un nome greco e non barbaro, coniato da qualche poeta» (III, 115, 1-2).

Si diceva che il dio fluviale avesse una figlia di nome Zeuxippe, che fu tra l’altro madre di Procne, Filomela ed Eretteo, personaggi assai noti del mito.

Da non confondersi con questo Eridano era un altro piccolo fiume dallo stesso nome, che scorreva nell’Attica (cfr. Platone, Crizia, 112 a).

ERIMANTO, in gr. Erimagemanthos. Massiccio montuoso della Grecia collocato tra l’Arcadia e l’Elide. Era uno dei luoghi prediletti da Artemide per le sue battute di caccia (Odissea, VI, 102), ma divenne famoso soprattutto perché secondo il mito vi risiedeva un cinghiale mostruoso, catturato da Eracle durante una delle sue dodici fatiche canoniche (cfr. Sofocle, Trachinie, 1097). Il cinghiale si aggirava nelle valli di Lampea, presso la palude Erimanzia (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 126-127); l’eroe aveva avuto ordine dal re Euristeo di portargli vivo il gigantesco animale, ed egli riuscì a fiaccarne la resistenza inseguendolo a lungo nella neve alta della montagna; se ne impadronì catturandolo con le reti e così legato lo portò a Euristeo. L’animale era di mole così imponente e spaventosa che quando lo vide Euristeo, terrorizzato, scappò a nascondersi entro una botte di bronzo (Diodoro Siculo, IV, 7; la scena appare più volte rappresentata sulla ceramica greca). Secondo una tradizione le zanne dell’animale vennero consacrate come ex voto a Cuma, in Campania, nel tempio di Apollo (ma, dice Pausania, VIII, 24, 5, questa affermazione «non ha un minimo di verosimiglianza»; v. CUMA). Secondo versioni diverse del mito, peraltro, la cattura del cinghiale avvenne non sull’Erimanto bensì in Tessaglia; e altre tradizioni ancora collegavano all’impresa della cattura del cinghiale anche un episodio secondario ma non meno cruento, la Centauromachia di Eracle. Inseguendo il cinghiale, infatti, l’eroe raggiunse la dimora del centauro Folo, che aveva appena ricevuto da Dioniso una botte di vino eccellente. Contrariamente a quanto Folo gli chiese, Eracle aprì la botte, e il delizioso profumo che se ne sprigionò si diffuse all’intorno, attirando una frotta di altri Centauri che pur di mettere le mani su quel liquido divino assaltarono la grotta di Folo. Eracle riuscì a respingerli, ma nella violenza degli scontri colpì involontariamente con le sue frecce, uccidendoli, due Centauri ai quali era legato, lo stesso Folo e il buon Chirone, che era stato suo grande amico. La morte di Chirone fu particolarmente dolorosa, perché il Centauro era immortale e poté lasciare questo mondo solo quando Prometeo si offrì di diventare immortale al suo posto, consentendogli così di por fine alle sue sofferenze (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 4; v. anche FOLOE). Un accenno all’impresa di Eracle che «sull’Erimanto pacificò le foreste» si legge nell’Eneide di Virgilio (VI, 802-803).

Tra i boschi dell’Erimanto poi Ovidio colloca un episodio famoso del mito di Arcade e di Callisto: quest’ultima, bellissima vergine votata al culto di Diana, viene sedotta da Giove, innamorato perdutamente di lei, e dà alla luce Arcade, eroe eponimo dell’Arcadia; Giunone, però, notoriamente gelosissima, la punisce trasformandola in un’orsa. In tali sembianze essa, aggirandosi nelle foreste che coprono le pendici dell’Erimanto, incontra suo figlio, impegnato in una battuta di caccia: Arcade ovviamente non la riconosce e si appresta a trafiggerla. «Ma l’Onnipotente l’impedì: rimovendoli entrambi […] e sollevatili in aria con un turbine di vento, li pose nel cielo facendone due costellazioni contigue», l’Orsa Maggiore e Boote (Metamorfosi, II, 496-507; cfr. anche Tristia, I, 4, 1). Ovidio cita inoltre il monte in relazione con il mito di Aretusa e Alfeo tra le località che Aretusa stessa oltrepassa per sfuggire alle insidie di Alfeo che si è innamorato di lei (per i particolari v. ALFEO, ARETUSA e SIRACUSA). Dalla cima dell’Erimanto, poi, si getta in volo l’«uomo sopra le nubi» del dialogo Icaromenippo o l’uomo sopra le nubi di Luciano di Samosata (46 [24], 10-11), che riesce a volare con l’aiuto di ali che si è fabbricato tagliandole a un’aquila e a un avvoltoio e ponendosele sulle spalle.

Lo stesso nome indicava anche un fiume che nasceva dall’omonimo massiccio e che scorreva tra Arcadia ed Elide. Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Erimanto è menzionato tra i fiumi le cui rive e addirittura le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Al fiume Erimanto era legato il mito di Filonome, una giovane cacciatrice che faceva parte del corteggio di Artemide. Un giorno Ares la vide e si invaghì di lei; dalla loro unione nacquero due gemelli, ma poiché la giovane temeva la collera del padre (che era Nittimo, re d’Arcadia), li abbandonò nelle acque del fiume Erimanto. Qui essi sopravvissero miracolosamente, furono allattati da una lupa e infine adottati da un pastore di nome Tilifo, che li trovò e li allevò come figli propri, chiamandoli Licasto e Parrasio; essi erano destinati a succedere al trono d’Arcadia (Plutarco, Parall., 314 E-F). La storia aveva evidentemente molti paralleli con quella di Romolo e Remo.

V. anche OLENIA, RUPE.

ERINEO, in gr. Erineòs. Località presso Eleusi dove secondo la tradizione risiedeva il terribile Procuste o Procruste (v. MEGARIDE per i particolari).

ERITEA o ERIZIA o ERITIA, in gr. Erimagetheia. Aveva questo nome un’isola mitica abitata dal mostro tricorpore Gerione, proprietario delle mandrie che Eracle gli sottrasse nel corso di una delle sue dodici fatiche. L’isola aveva tale nome, che in greco significa «la rossa», perché era posta nel remoto Occidente e illuminata dal sole al tramonto. Plinio spiegava che l’etimologia del nome è da mettere in relazione con gli iniziali colonizzatori, i Tirii, che provenivano dalle regioni del Mar Rosso (Nat. Hist., IV, 120). Per la sua identificazione nella geografia reale furono formulate già dagli antichi varie ipotesi; alcuni (Ecateo e lo Pseudo-Scilace) la ponevano al largo della costa dell’Epiro, altri ipotizzavano una collocazione nel golfo di Gades o la riconoscevano in una delle isole Baleari. L’identificazione con località così diverse come l’Epiro e le Colonne d’Ercole si può spiegare tenendo conto del fatto che in entrambi i luoghi si ipotizzava la presenza di un accesso al mondo dell’oltretomba (cfr. Les Géographes grecs, p. 160). Secondo l’opinione prevalente, comunque, Gerione «aveva la sua dimora […] di fronte a Gadara [Cadice], al di là delle Colonne d’Ercole, nell’Oceano» (Erodoto, III, 8, 2). È la posizione alla quale pensa la maggior parte delle fonti (cfr. Pseudo-Scimno, vv. 152 ss.); e Strabone, citando un passo del poeta Stesicoro, scrive: «Sembra che gli antichi chiamassero […] Gadeira [Gades], con tutte le isole vicine, Erizia» (III, 2, 11); Erizia «si chiamava “Isola fortunata”» (ibid.). L’incerta posizione di Erizia, del resto, rientra nella vaghezza che caratterizza tutta la geografia dell’impresa di Eracle presso Gerione.

Sull’isola le mandrie di Gerione, costituite da «vacche dal manto rossastro» (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 10), erano custodite dal gigante Eurizione e dal cane a due teste Ortro, «nato da Echidna e da Tifone», che Eracle dovette catturare. Per raggiungere l’isola, che anche secondo Apollodoro «era situata vicino all’Oceano, e ora ha nome Cadice», Eracle attraversò dapprima l’Europa, giunse in Libia e poi alla località semimitica di Tartesso, «dove collocò, a memoria del suo passaggio, due colonne, una di fronte all’altra, ai confini dell’Europa e della Libia»: le Colonne d’Ercole (ibid.). Giunto nell’isola, prosegue lo stesso Apollodoro, Eracle si accampò sul monte Abante, dove ebbe ragione tanto di Ortro quanto del custode delle mandrie Eurizione, mentre lo scontro con Gerione avvenne al fiume Antemone (ibid.). Al «bovaro tricorporeo di Erizia», cioè a Gerione, mostro con tre corpi uniti insieme, allude anche Euripide ricordando le fatiche di Eracle nella tragedia omonima (Eracle, 423-424). Luciano di Samosata, nei suoi dialoghi, propone a sua volta una lettura originale e non priva di ironia del viaggio di Eracle al ritorno dalla cattura dei buoi di Gerione: immagina che presso i Celti, dove l’eroe passò con le mandrie al seguito, fosse conservato uno strano dipinto raffigurante Eracle, che gli indigeni chiamano Ogmio, con un aspetto decisamente insolito: «Per loro è all’estremo della vecchiezza, calvo sopra la fronte, tutto bianco nei capelli che gli rimangono, rugoso di pelle e bruciato fino al nero più nero come i lavoratori del mare quando sono vecchi […]. Tuttavia, pur con simili tratti, ha l’abbigliamento di Eracle […]. Quel vecchio Eracle tira, legati tutti per le orecchie, numerosissimi uomini», incatenati alla lingua dell’eroe da sottili catene d’oro e d’ambra, simili a collane (Luciano, Eracle: un prologo, 55 [5], 1-3). Gli uomini si sostituiscono qui ai buoi del mito per simboleggiare il fascino della virtù oratoria che tiene avvinti gli ascoltatori. Apollodoro, nella Biblioteca (I, 6, 1), riporta la tradizione secondo la quale le vacche di Erizia furono sottratte a opera di Alcioneo, uno dei Giganti, che venne poi sconfitto da Eracle.

ERITINI, in gr. Erythìnoi. Città della costa della Paflagonia ricordata nel Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, dove sono elencate le località da cui provengono gli eroi greci e troiani che si fronteggiano nella guerra di Troia. Eritini è città schierata dalla parte dei Troiani. È inoltre menzionata tra i luoghi oltrepassati dagli Argonauti durante la loro navigazione verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro (Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 941: «gli scoscesi Eritini»).

ERITRE, in gr. Erythrài, -òn. Città costiera dell’Asia Minore, nell’odierna Turchia, identificata nel villaggio di Ildiri presso Çesme. Si diceva che i suoi fondatori fossero Cretesi giunti in una spedizione capeggiata da Eritro, figlio di Radamanto, e che da Eritro l’insediamento avesse preso il nome. Vanto della città era un grande e importante santuario di Eracle dove si venerava una statua antichissima del dio, che si diceva fosse giunta per mare su una zattera. La zattera approdò al promontorio chiamato Mesate, che si trova esattamente a metà strada fra Chio ed Eritre; gli abitanti di entrambe le città si contesero quindi il possesso della meravigliosa scultura, e per dirimere la controversia intervenne un pescatore di Eritre di nome Formione. Costui aveva perso la vista in seguito a una malattia ma, cosa non infrequente nel mito presso chi aveva perso la possibilità di vedere le cose del mondo, aveva acquisito in cambio una sorta di capacità divinatoria. «Questo pescatore ebbe in sogno una visione secondo la quale le donne degli Eritrei avrebbero dovuto tagliarsi le chiome e in questo modo gli uomini, dopo aver fabbricato una fune con i loro capelli intrecciati, avrebbero condotto la zattera presso di loro.» Le donne di Eritre rifiutarono di assecondare la visione, ma le donne di stirpe tracia che vivevano nella città, tanto le libere quanto le schiave, offrirono le loro chiome e si poté fare così come il sogno aveva ordinato: la statua di Eracle fu condotta nel santuario e resa oggetto di grande venerazione, mentre solo alle donne tracie era consentito l’accesso all’area sacra, preclusa a tutte le altre; la fune intrecciata con i loro capelli si conservava come preziosa reliquia, e per di più il pescatore visionario recuperò la vista (Pausania, VII, 5, 6-7).

A un’isola dello stesso nome allude Isidoro di Siviglia dicendo che una delle Sibille, ossia delle profetesse che vaticinavano il futuro e che risiedevano in diverse località del mondo antico, avesse lasciato proprio a Eritre i testi scritti dei propri responsi, e per questo venne chiamata Sibilla Eritrea (Etimologie, VIII, viii, 4; v. anche BABILONIA). Il nome di Eritre, poi, compare sovente nel poema di Nonno di Panopoli, le Dionisiache, per indicare in generale l’India (per esempio XXXV, 82, 131 e 190); e proprio con riferimento all’India il poeta parla di un «giardino di Eritre» nel quale una delle Grazie, con passo leggero, si sofferma cogliendo garbatamente fior da fiore per preparare un’essenza profumata; occupazione leggiadra che non le impedisce di vedere da lontano l’infuriare della battaglia tra gli Indiani e il dio Dioniso che sta conducendo una campagna di conquista dell’India, né di piangere per il crudele destino che colpisce suo padre Lieo preda della furia delle Erinni (ibid., XXXIII, 4 ss.).

Una diversa città di Eritre si trovava in Beozia, presso Platea; ricordata nel Catalogo delle navi dell’Iliade, era stata fondata da Eritra, figlio di Leucone, a sua volta figlio di Atamante, o da Eritro figlio di Radamanto re di Creta, ed era già distrutta ai tempi di Pausania.

ERITRO Così gli antichi chiamavano il Mar Rosso (Erythrà thàlassa). «Sacra corrente del mare Eritreo dalla rossa distesa» lo definisce (TrGF 192 N, 323 M). Eschilo nella perduta tragedia Prometeo liberato. Il nome era messo in relazione con Eritra, re mitico di origini egizie la cui tomba si mostrava su un’isola chiamata Ogiri (Plinio, Nat. Hist., VI, 153); razionalizzando il mito, Plinio spiega invece che il nome deriverebbe «dal riverbero del sole» che fa assumere al mare una colorazione rosseggiante; o anche dall’effetto della sabbia dei fondali, che conferisce una particolare sfumatura all’acqua; o dalla natura particolare dell’acqua stessa (ibid., VI, 107). Nell’antichità il nome era esteso anche all’Oceano Indiano. Alle «perle che raccoglie sulle rive del Mar Rosso il nero Indiano» fa riferimento Tibullo (VIII [= IV, 2], 19-20); le «gemme del Mar Rosso» sono evocate da Properzio (I, 14, 12). Sulle rive del Mar Rosso si potrebbe trovare, secondo la commedia Gli uccelli di Aristofane (v. 145), la città ideale che i due protagonisti della commedia, Evelpide e Pisetero, stanno cercando per vivere felici (e che naturalmente non troveranno, decidendo quindi di fondarla essi stessi: v. NEFELOCOCCIGIA).

ERITTO, SELVA DI È la cupa e spaventosa foresta della Tessaglia dove viveva Eritto (in lat. Erichtho), una maga dagli oscuri poteri. Nella descrizione del poeta latino Lucano, essa abitava «sotto l’alta rupe di una montagna incavata, che aveva consacrato ai suoi riti sinistri», circondata da una fittissima selva: «Non lontano dagli oscuri antri di Dite, la terra si abbassa e sprofonda: in quel punto una livida selva inclina verso il basso i suoi rami e un fitto e impraticabile bosco di tassi – in cui non giunge la luce del sole e dalle cui cime non si riesce a scorgere il cielo – getta le sue ombre» (Guerra civile o Farsaglia, VI, 639-645). Lì, in quelle «tenebre putride» e tra quelle «muffe livide», la maga compie i suoi sinistri rituali.

ERMIONE, in gr. Hermiòne. Località della Grecia ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 484 ss.). Situata non lontano da TREZENE (v.), nell’Argolide, aveva un bosco sacro alla dea Core, e una tradizione locale diceva che qui la dea Demetra fosse stata informata del ratto di sua figlia Persefone o Core da parte del re degli Inferi Aidoneo o Ade; nel bosco si apriva una fenditura che si diceva costituisse uno degli accessi all’oltretomba (Pausania, II, 35, 10). «È fama comune che a Ermione la discesa all’Ade sia la più corta ed è per questo che non mettono l’obolo per il traghetto nella bocca dei morti», spiega Strabone (VIII, 6, 12; di solito in bocca al defunto veniva posta una moneta che si diceva servisse per pagare il pedaggio del traghetto di Caronte). Attraverso quel passaggio, secondo la tradizione, l’eroe attico Teseo, in compagnia di Piritoo, era penetrato nell’oltretomba per rapire Persefone, o Core, la dea del mondo dei morti. A Ermione, «nel bosco sacro di Core», era tenuto Cerbero, la «belva dalle tre teste» che Eracle, nel corso di una delle sue celebri fatiche, aveva rapito dall’aldilà portandolo nel mondo dei vivi (Euripide, Eracle, 615 e 611). Il toponimo era messo in relazione con un eroe di nome Ermione, che fondò la città e che era figlio di Europe, a sua volta figlio di Foroneo. Il porto di Ermione si chiamava Masete e si trovava in una baia del Golfo Argolico, nei pressi della località odierna di Kampos.

ERMO Fiume della Lidia, in Asia Minore (anticamente Hèrmos, odierno Gediz), nato, secondo la mitologia, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-343). Per la presenza nelle sue acque di sabbie aurifere Virgilio lo definisce «l’Ermo torbido d’oro» (Georgiche, II, 137). Alle «spighe della pianura dell’Ermo» allude invece nell’Eneide (VII, 721). Le acque dell’Ermo interrompono il loro corso tumultuoso e si arrestano davanti al dolore sconsolato di Dioniso che segue alla morte del suo amato Ampelos (Nonno di Panopoli, Dionisiache, XII, 124-126; per questa leggenda v. PATTOLO).

ESARO, in gr. Àisaros. Fiume dell’Italia meridionale, di incerta identificazione, che scorre presso Crotone. La mitologia lo ricorda perché presso la sua foce si trovava un tumulo che celava le spoglie di Crotone, eroe eponimo della città (Ovidio, Metamorfosi, XV, 54). Per i particolari del racconto mitico v. CROTONE. Presso il fiume si ergeva una montagna, di difficile identificazione, ricordata da Teocrito (Carmi bucolici, IV, 19) come l’«ombroso Latimno» dove il pastore Coridone porta al pascolo una delle sue vitelle.

ESEPO, in gr. Aìsepos. Fiume della Troade, che scaturisce dal monte Ida ma che secondo la mitologia era nato, come tutti i corsi d’acqua, dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-342). Per il prodigioso ingrossamento delle acque del fiume ricordato nell’Iliade (XII, 19-21) v. IDA. Sulle sue rive la tradizione collocava la tomba di Memnone, figlio dell’Aurora, Eos, e sovrano degli Etiopi, che aveva partecipato alla guerra di Troia a fianco dei Troiani assediati ed era stato sconfitto e ucciso in duello da Achille: «I Venti infaticabili, con sordi gemiti, deposero infine il cadavere di Memnone, esperto di duelli, sulle rive dell’Esepo, il fiume dal corso profondo, là dove oggi si trova il boschetto delle Ninfe dalle belle trecce: è un bosco magnifico che le figlie dell’Esepo hanno piantato più tardi intorno al grande sepolcro, dove si mescolano le essenze più varie» (Quinto Smirneo, II, 585-591). Poiché «i neri Etiopi», suoi sudditi, dopo averlo seppellito non cessavano di piangere sulla sua tomba, essi vennero per volere divino trasformati in uccelli, chiamati memnoni, neri e simili a corvi, e continuarono a piangere sulla tomba del loro re, a cospargerla di sabbia e a combattere tra loro in duelli in suo onore (ibid., II, 642-650). Nei pressi della tomba di Memnone si trovava un piccolo villaggio che aveva preso il nome dell’eroe. Secondo Eliano (Hist. An., V, 1) quello dell’Esepo era però un cenotafio, un monumento funebre vuoto, mentre la vera tomba di Memnone si trovava a Susa. Altri luoghi che si contendevano l’onore di ospitare le spoglie di Memnone erano in Siria e in Fenicia; e non mancava neppure qualche scettico, come Filostrato (Imag., I, 7) secondo il quale la tomba non era mai esistita in nessun luogo del mondo. Per il Colosso di Memnone v. TEBE D’EGITTO.

ESINO, in lat. Aesis. Nome del fiume che divideva il territorio dei Piceni da quello degli Umbri, nell’Italia centrale. Il nome era messo in relazione con quello di un re eponimo, chiamato anch’egli Aesis (Silio Italico, Guerra Punica, VIII, 444), dal quale derivava anche il nome del popolo degli Asili.

ESONIDE, in gr. Aisonìs. Città della Grecia, in Tessaglia, posta tra PAGASE e IOLCO (v.), così chiamata dal nome del suo sovrano e fondatore, Esone, padre dell’eroe Giasone (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 411-412). È probabilmente una località di fantasia, a meno che la si possa identificare con Sesklo o Dimini, località reali che hanno restituito antichissime testimonianze archeologiche.

ESPERIA Il nome Hesperìa, letteralmente «terra situata in Occidente», era in uso nella letteratura greca dell’età classica per indicare tutti i paesi a ovest della Grecia, ed era usato soprattutto per alludere all’Italia. Così, per esempio, l’Italia è indicata nella Tabula Iliaca; e Stesicoro (fr. 205 Page) racconta che in Esperia giunse Enea con il padre, il figlio e i Penati, subito dopo la caduta di Troia. Nella stessa accezione il termine compare in numerosi altri autori di lingua greca (cfr. per esempio Dionigi di Alicarnasso, I, 35, 3). Anche nell’Eneide virgiliana il toponimo è usato spesso come sinonimo di Italia (v. per esempio III, 418); quando Enea incontra per la prima volta Didone a Cartagine, nel tempio della dea Giunone, il più anziano dei Troiani, Ilioneo, rassicura la regina cartaginese delle buone e pacifiche intenzioni del suo popolo con una esplicita menzione della meta alla quale tendono Enea e i suoi: «C’è un paese – Esperia la chiamano i Greci –, terra antica, potente per armi e per fertili zolle; gli Enotri l’abitarono; ora è fama che i loro nipoti chiamarono Italia dal nome di un loro condottiero quella nazione» (ibid., I, 530-533 = III, 163-167). A lui risponde Didone menzionando «la grande Esperia e gli arabili campi di Saturno» (ibid., I, 569). A confidare in un futuro nella terra di Esperia Enea era stato invitato, nelle tragiche circostanze della caduta di Troia, da un’apparizione di sua moglie Creusa: quando la città era ormai ridotta a rovine fumanti, l’eroe, cercando disperatamente fra le macerie la sposa, era stato colpito dalla vista del suo simulacro, che gli era apparso predicendogli in modo circostanziato quello che lo attendeva: «Alla terra di Esperia giungerai […]. Là una sorte felice e un regno e una sposa regale sono pronti per te» (ibid., II, 781-784). Una descrizione della terra che lo attende appare in sogno a Enea quando egli, già insediatosi a Creta a causa dell’errata interpretazione di un oracolo di Apollo, è afflitto dalla terribile pestilenza che ha colpito la città che ha appena fondato, PERGAMEA (v.): la visione notturna gli annuncia che è l’Esperia il paese che lo attende (ibid., III, 163-167). E Anchise, quando Enea gli racconta il sogno, ricorda che anche la profetessa Cassandra, a Troia, vaticinando sulle sorti della stirpe troiana, «spesso l’Esperia, spesso i regni d’Italia citava. Ma che alle spiagge di Esperia sarebbero giunti i Teucri, chi l’avrebbe creduto?» (ibid., III, 185-187).

Nelle Metamorfosi Ovidio ci informa che «sotto il cielo d’Esperia sono i pascoli dei cavalli del Sole», che vi trovano «ambrosia, non erba» (IV, 214-215). V. anche ITALIA.

Talvolta (per esempio in Ovidio, Metamorfosi, IV, 628) con «Esperia» si intende il luogo ove si trova il giardino delle Esperidi (v. ESPERIDI, ISOLE e GIARDINO DELLE). Con la specificazione «ultima», il nome indica invece la Spagna (Suda, s. v. Hispania).

ESPERIDI, ISOLE e GIARDINO DELLE Luogo mitico nel quale risiedevano le Esperidi, propriamente «figlie del tramonto», che la mitologia ricordava come figure femminili, figlie della Notte, o di Zeus e Temi, o ancora di Atlante; in numero di tre, quattro o talvolta sette, esse erano incaricate di sorvegliare con l’aiuto del drago Ladone i meravigliosi pomi d’oro che Gea, la dea della Terra, aveva donato a Era per le sue nozze con Zeus. La loro conquista era stata una delle imprese di Eracle. La patria delle Esperidi e dei pomi, che crescevano su isole imprecisate in uno splendido giardino, si trovava sulle rive dell’Oceano, nell’estremo Occidente, vicino alle Isole dei Beati, ma anche, secondo altre fonti, alle pendici del monte Atlante, o ancora in Libia, o nel Paese degli Iperborei. L’Africa era uno dei luoghi più frequentemente citati: qui, per esempio, nei pressi del monte Atlante (v. ATLANTI, PAESE DEGLI), o non lontano dalla città di BERENICE (v.; v. anche TROGLODITI, PAESE DEI), il giardino era collocato da Plinio, che ricordava come nella sua impresa Eracle fosse stato aiutato dai Farusi, «che un tempo erano Persiani» (Nat. Hist., V, 46). Presso la Palude Tritonia si trovava il giardino secondo Lucano (IX, 358). In quello stesso giardino poi Zeus ed Era si erano uniti nella celebrazione delle loro nozze.

Le Isole delle Esperidi sono ricordate in numerosissimi testi della letteratura antica. Nei versi del poeta Mimnermo sono il luogo dove il Sole alla fine del suo viaggio attraverso il cielo ogni sera si addormenta, per poi essere rapito nottetempo e portato fino al paese degli Etiopi, da dove ricomincerà la mattina dopo il suo percorso celeste (5 GP., 10 D.). Una suggestiva descrizione si legge nella tragedia Ippolito di Euripide: «Vorrei giungere alla terra ricca di meli delle Esperidi dal canto soave […]. Divine acque sorgive scorrono nel luogo delle nozze di Zeus, dove ricca di doni la sacra terra accresce la felicità degli dèi» (vv. 741-751). La cattura dei pomi da parte di Eracle era dettagliatamente descritta da Apollodoro (Biblioteca, II, 5, 11), secondo il quale «queste mele non si trovano in Libia, come dicono alcuni, ma presso Atlante, nel paese degli Iperborei»; a loro custodia si ergeva un serpente immortale, figlio di Tifone e di Echidna e capace di emettere suoni di ogni genere. Lungo il complicato percorso che lo porta a raggiungere il mitico giardino, Eracle compie una serie di altre imprese, finché, giunto in prossimità della meta, Prometeo gli suggerisce di non andare di persona a cogliere i frutti, bensì di mandarci Atlante, il Titano che sorreggeva sulle sue spalle la volta celeste. Offrendosi dunque di sostituirlo nel gravoso impegno di sostenere il cielo, Eracle invia Atlante a raccogliere i frutti dopo aver ucciso il mostruoso serpente che li custodisce; e ad Atlante che vorrebbe anche portarli a Euristeo, Eracle finge di rispondere affermativamente, ma con un inganno gli restituisce sulle spalle la volta del cielo, andandosene poi alla chetichella con i frutti. Questi ultimi, infine, dopo essere stati offerti a Euristeo, tornano a Eracle, che li presenta ad Atena, la quale a sua volta li riporta da dove provengono, giacché «non era lecito che fossero collocati in un luogo qualsiasi» (ibid.; per altri particolari v. anche ATLANTI, PAESE DEGLI).

Tra gli eroi che visitarono il Giardino delle Esperidi la mitologia ricordava gli Argonauti, che vi giunsero dopo che Ladone era stato ucciso da Eracle e i frutti d’oro erano stati raccolti: essi furono testimoni della miracolosa trasformazione delle Esperidi che, implorate da Orfeo, compirono una straordinaria metamorfosi: «per prima cosa fecero crescere erba dal suolo, e al di sopra dell’erba fiorirono verso l’alto lunghi virgulti, ed infine alberi fioriti si levarono ritti sopra la terra» (Apollonio Rodio, IV, 1423-26); indi esse stesse (che in questa versione del mito erano tre) si trasformarono in un pioppo, un olmo e un salice, tornando infine alla loro primitiva natura.

Al Giardino delle Esperidi, e alla misteriosa sacerdotessa e maga che sorveglia i pomi sacri, allude anche Virgilio nell’Eneide, in relazione col mito di Didone (v. ETIOPIA). Al viaggio di Perseo verso il territorio di Esperia e il regno di Atlante dedica invece un suggestivo racconto Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 621 ss.; v. anche ATLANTI, PAESE DEGLI). Nella sua narrazione l’Esperia, governata dal figlio di Giapeto, Atlante, un essere di dimensioni gigantesche, ospita al suo interno alberi dalle «fronde smaglianti per lo sfavillio dell’oro» che copre i loro frutti. Quando Perseo, nato da Danae e da Giove che l’ha raggiunta sotto forma di pioggia d’oro, si reca verso l’Occidente estremo, fa sosta presso il regno di Atlante, ma il Gigante nel vederlo si ricorda che una profezia gli aveva predetto che i suoi alberi sarebbero stati spogliati un giorno da un figlio di Giove; facendosi minaccioso, intima a Perseo di allontanarsi, ma questi gli mostra la testa di Medusa, appena recisa, che ha la facoltà di pietrificare coloro che la fissano. Atlante è così mutato nella montagna che da lui prende il nome.

C’era anche chi cercava di razionalizzare le storie meravigliose relative a quel luogo incantato e ai suoi abitanti. Diodoro Siculo, nel quarto libro della sua Biblioteca storica, cerca di far ordine nelle numerose e talora contraddittorie notizie relative alla terra delle Esperidi, raccontando che esse derivavano il loro nome da Espero, fratello di Atlante, il quale possedeva greggi meravigliose dal vello dorato. Poiché, prosegue Diodoro, i Greci chiamavano con lo stesso termine le greggi e i pomi, i famosi pomi delle Esperidi potevano altrettanto bene alludere a tali greggi straordinarie. Atlante aveva avuto in moglie la figlia di Espero, Esperide, dalla quale più precisamente derivava il nome il paese. Dall’unione di Atlante e di Esperide erano nate sette bellissime fanciulle, le Esperidi, delle quali si era invaghito Busiride, re dell’Egitto; egli mandò una nave di corsari a rapirle, ma mal gliene incolse, perché venne punito da Eracle, che debellò i pirati uccidendoli tutti, e restituì le fanciulle al genitore. In segno di riconoscenza Atlante gli insegnò i segreti dell’astronomia; e poiché nei suoi studi astronomici Atlante aveva inventato una sfera che raffigurava i moti delle stelle, si era diffusa l’opinione che egli portasse sulle proprie spalle il mondo (Diodoro, IV, 13).

Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie (XIV, vi, 10), spiega che il nome delle Esperidi deriva da quello di Esperide, una città posta ai confini della Mauritania; e aggiunge una spiegazione razionale del mito del drago Ladone: «in realtà, a quanto dicono, in quei luoghi esiste una laguna, estuario o braccio di mare di forma talmente tortuosa da dare, a chi guarda da lontano, l’impressione di un serpente».

ETA, in gr. Oìte, in lat. Oeta. Catena montuosa della Grecia, in Tessaglia, collocata tra il Pindo e il Parnaso, in fondo alla valle del fiume Spercheo. La catena si estende fino alle coste meridionali del Golfo Maliaco; nel punto più stretto compreso tra le montagne e il mare si trovavano le Termopili, ossia «porte calde», così chiamate per la presenza di numerose sorgenti termali naturali (cfr. Catullo, LXVIII, 53-54). Nei dintorni dell’Eta viveva la popolazione dei Driopi, installata anche sulle pendici del Parnaso; la tradizione voleva che il loro capostipite, Driope, fosse figlio di Apollo (v. ANFISSA), e la loro terra era chiamata Driopia, o «paese delle querce»; uno dei loro re fu Teodamante, padre di Ila, un giovinetto bellissimo del quale si era innamorato Eracle, che lo portò con sé nella spedizione degli Argonauti; proprio durante quella spedizione, durante una sosta fu rapito dalle Ninfe mentre attingeva acqua a una fonte.

L’Eta era legato al mito di Eracle per molti aspetti: l’eroe, «acceso dalla celeste Ebe [la giovinezza], provò sui monti Etei le prime gioie» d’amore (Properzio, I, 13, 23-24); e sull’Eta egli morì, dopo che, a causa di Deianira, era rimasto avvelenato dal sangue del centauro Nesso. Alla vicenda mitica erano dedicate diverse opere tragiche, tra le quali le Trachinie di Sofocle e una tragedia in condizioni estremamente frammentarie di Eschilo, Gli Eraclidi, della quale si è però conservata l’allusione al monte. Poiché per motivi religiosi le montagne dell’Eta, sacre a Zeus, non erano coltivate, nelle Trachinie Deianira può definire quei pendii «vergini campi dell’Eta» (v. 200); e la stessa Deianira invoca Zeus come colui «che scaglia le sue folgori sulle vette dell’Eta» (ibid., 435-436). Dalle pendici occidentali dell’Eta nasceva il fiume Eveno, sulle cui acque faceva da traghettatore il centauro Nesso (per la vicenda della camicia di Nesso, che portò Eracle alla morte, v. EVENO); e sulla vetta dell’Eta venne eretta la pira sulla quale fu deposto lo stesso Eracle e avvenne la sua apoteosi (v. anche EUBEA): «Tu, illustre virgulto di Giove», lo ricorda Ovidio (Metamorfosi, IX, 229-238), «tagliati gli alberi dei quali s’ammantava in vetta l’Eta, per costruire il rogo […] ordini di appiccare il fuoco. E mentre le fiamme inghiottono la pira, sulla sua cima tu stendi la pelle del leone di Nemea e, appoggiato il capo sulla clava, ti sdrai supino, con lo stesso volto che avresti se ti adagiassi a banchetto tra coppe colme di vino e inghirlandato di fiori». Una nube appare all’improvviso sotto il corpo di Eracle e tra rombi di tuono lo porta in cielo, conferendogli l’immortalità (Apollodoro, Biblioteca, II, 7, 7; cfr. Seneca, Ercole sull’Eta).

Sull’Eta secondo Servio si amarono Espero e Imeneo, rispettivamente personificazione della sera e delle nozze (cfr. Virgilio, Bucoliche, VIII, 30; Catullo, LXII, 7). Nelle Metamorfosi di Ovidio l’Eta è poi menzionato tra le montagne che s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari).