G
GABI, in lat. Gabii. Località del Lazio tra Roma e Preneste, a sud di Tivoli, sulla riva sudoccidentale del lago di Castiglione; vi era venerata la dea Giunone, che ne ricavava l’epiteto di Gabina (Virgilio, Eneide, VII, 682). Quando Enea visita l’aldilà e incontra il fantasma del padre Anchise, recentemente scomparso, questi gli vaticina che la sua stirpe dominerà sulla città di Alba Longa e i suoi successori fonderanno numerose città, tra le quali Gabi (ibid., VI, 773). Il mito ne faceva in effetti una fondazione di Alba Longa. Secondo una versione della storia di Romolo e Remo i due gemelli vennero condotti in questa città per imparare «a leggere e scrivere e tutte le altre cose che è necessario che apprendano i figli di nobile famiglia» (Plutarco, Romolo, 6, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso, I, 84, 5); si diceva anche che furono allevati e nutriti a Gabi in segreto (Plutarco, De Romanorum fortuna, 320 E). Pare che ai tempi di Tarquinio Prisco la città avesse stretto con Roma un foedus, un patto il cui testo, scritto su uno scudo di cuoio, era conservato nel tempio di Semo Sancus, a Roma, sul Quirinale (Dionigi di Alicarnasso, IV, 58).
Gabi era stata protagonista di un celebre episodio che aveva al centro la figura di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Questi si era impadronito della città a tradimento, ricorrendo a un astuto trucco: aveva mandato il più giovane dei suoi figli nel campo nemico, con le spalle martoriate da vistose tracce di fustigazione e con l’ordine di dichiarare l’intento di abbandonare la patria perché il padre lo voleva morto. Gli abitanti di Gabi, ignari, caddero nel tranello, chiedendo al figlio di Tarquinio di restare a combattere con loro, e anzi affidandogli ben presto anche un ruolo di primo piano nella difesa della città. Il giovane si teneva in contatto con il padre mediante un ambasciatore fidato di quest’ultimo, e il luogo dove avvenivano gli scambi d’informazione era «un giardino di piante odorose mirabilmente coltivato, solcato da un ruscello di acque mormoranti» (Ovidio, Fasti, II, 703-704); qui, quando il figlio fece chiedere al padre come doveva comportarsi per annientare Gabi, Tarquinio rispose recidendo con un colpo di verga la sommità dei fiori di giglio che crescevano copiosi. Il figlio intese il significato del messaggio e capì che doveva decapitare i vertici della città, cioè ucciderne tutti i notabili. Dopo questo eccidio Gabi venne facilmente conquistata, ma un prodigio si manifestò improvvisamente: durante un sacrificio, un serpente sbucato in mezzo agli altari rubò le viscere della vittima sacrificale. Il dio Apollo, consultato, vaticinò misteriosamente che avrebbe vinto la guerra chi avesse per primo baciato la madre; e mentre tutti si affrettavano a baciare la propria madre, «credula turba che non aveva compreso il dio» (ibid., 716), Bruto, che, «saggio, si fingeva sciocco» per sfuggire alle insidie di Tarquinio il Superbo, si chinò a baciare la madre terra. Questo voleva appunto significare l’oracolo, e Gabi venne conquistata definitivamente (ibid., 717-720; l’episodio era raccontato nei dettagli da Livio, I, 53, 4 54, 10; v. anche DELFI). Da Gabi derivava il nome di famiglia dei Gabinii, molto importante a Roma.
GABII, PAESE DEI Regione menzionata in un passo della perduta tragedia di Eschilo Prometeo liberato. Il popolo dei Gabii (in gr. Gàbai, -òn) vi appare come il più giusto e il più ospitale di quanti abitano il mondo, e la loro regione è descritta come una specie di Isola dei Beati dove la terra produce da sola i suoi frutti senza che nessuno abbia bisogno di lavorarla.
GAETA, in gr. Kaiète, in lat. Caieta o Caiete. Città del Lazio in provincia di Latina, non lontana da Formia, della quale in età romana era il porto. La mitologia ne faceva una fondazione troiana: non è insolito che venga definita «la troiana Gaeta», come per esempio nel poeta latino Marziale (Epigrammi, X, 30, 8). La versione più accreditata del mito faceva risalire il nome della città a quello della nutrice di Enea, che si chiamava appunto Caieta (Dionigi di Alicarnasso, I, 53, 3); secondo altre fonti Caieta era stata nutrice di Ascanio, o ancora della sposa di Enea, Creusa. In ogni caso, essa era legata alla figura di Enea, che aveva seguito durante i suoi viaggi in Occidente dopo la caduta di Troia. Morta all’arrivo dell’eroe in Italia, ebbe sepoltura, per volere di questi, nei pressi della città che da lei prese il nome: «E ormai la nutrice di Enea, sepolta in un’urna di marmo, aveva un tumulo con un breve epitaffio: “Qui riposa Caieta: il mio figlioccio, noto per la sua pietà […] qui mi ha cremata”» (Ovidio, Metamorfosi, XIV, 441 ss.; cfr. Virgilio, Eneide, VII, 1 ss.). Il mito era estremamente noto: altrove (Ovidio, Metamorfosi, XV, 716) Gaeta è chiamata semplicemente «la città dove è sepolta la nutrice». Con questa definizione è menzionata tra quelle che vengono oltrepassate da una nave romana di ritorno da Epidauro, dove un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, tornò ad assumere le sue fattezze e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed EPIDAURO).
Una diversa narrazione (attestata per esempio da Diodoro Siculo, che dedica nel IV libro della sua Biblioteca storica un lungo racconto alla spedizione degli Argonauti) metteva il nome di Gaeta in rapporto con quello di Eeta, il mitico re della Colchide presso il quale era serbato il vello d’oro che Giasone riuscì a conquistare con l’aiuto della figlia del re, Medea: la vicinanza a Gaeta del promontorio Circeo, dove secondo la tradizione risiedeva la maga Circe, zia o sorella di Medea, confermava i legami di quest’area con i protagonisti del mito del vello d’oro (cfr. Licofrone, Alessandra, 1274). Non mancavano però altre spiegazioni del toponimo, che tralasciavano il mito per cercare motivazioni linguistiche: il golfo di Gaeta o Caieta, secondo Strabone, era stato chiamato così dai Lacedemoni, fondatori della vicina Formia, perché «i Lacedemoni chiamano caietai tutte le cose concave» (V, 233 = 3, 6). Nella regione di Gaeta poi alcune fonti localizzavano un celebre episodio, che Virgilio nell’Eneide colloca a Segesta e che ha per protagoniste le Troiane al seguito di Enea durante le sue peregrinazioni per il Mediterraneo dopo la guerra di Troia: stanche di tanto vagare, esse cercarono di appiccare fuoco alle navi (v. ERICE; FLEGRA; SEGESTA). In questo caso, la spiegazione del toponimo sarebbe da collegare secondo Servio con il verbo greco , «bruciare».
Ancora, sulla spiaggia di Gaeta avviene l’incontro tra Macareo, compagno di Ulisse, e Achemenide, anche lui greco, che, lasciato sulla spiaggia di Polifemo durante la sosta di Ulisse e dei suoi compagni nelle terre dei Ciclopi, ritroviamo a bordo della nave di Enea che sta facendo vela verso il Lazio. Achemenide, durante l’incontro con Macareo descritto da Ovidio nelle Metamorfosi (XIV, 159 ss.), racconta le proprie peripezie: Ulisse e i suoi compagni, per sfuggire a Polifemo dopo averlo accecato, abbandonano Achemenide tra i Ciclopi: in preda al terrore e continuamente esposto al rischio di venir catturato da Polifemo e di essere divorato come è toccato ad altri compagni prima di lui, Achemenide viene infine salvato da Enea e dai suoi: «la nave troiana prese a bordo un Greco». I dintorni di Gaeta presentavano anche altri richiami odissiaci, perché erano considerati patria dei Lestrigoni (per i particolari v. LESTRIGONI, PAESE DEI).
Quando, durante le guerre puniche, Annibale, sceso in Italia, si spinge sulle coste campane nei pressi di Gaeta con un’incursione via mare, il suo passaggio non è privo di ripercussioni tra le figure del mito: le Nereidi, Ninfe delle acque del luogo, sono colte dal panico e si nascondono dapprima tra i flutti, correndo poi dall’indovino Proteo, divinità che cambia continuamente forma e che in più sa predire il futuro, per chiedergli se quelle coste siano destinate a passare di mano e diventare proprietà di Cartagine. Con un lungo discorso, l’indovino racconta loro le origini remote dell’ostilità tra Romani e Punici e le rassicura sui destini futuri, saldamente romani, di quelle plaghe marine (Silio Italico, Guerra Punica, VII, 377-493).
GALLIA Il nome indicava in latino (con il corrispettivo Keltikè, ossia Celtica, in greco) l’area compresa fra l’Atlantico, il Reno e i Pirenei, corrispondente all’attuale Francia, con un’estensione a sud delle Alpi nell’Italia settentrionale (Gallia Cisalpina). Per la sua posizione relativamente remota dalla capitale, non mancò di apparire agli occhi dei Romani come un luogo misterioso e dalle consuetudini talvolta inquietanti, ma spesso seducenti e sempre capaci di alimentare racconti fantasiosi.
Territorio, usi e tradizioni tra mito e storia. A creare intorno alla Gallia un certo alone di mistero contribuivano in primo luogo alcune caratteristiche del territorio e alcuni fenomeni naturali intorno ai quali fiorirono molte leggende, sintetizzate, tra gli altri, da Diodoro Siculo nel V libro della Biblioteca. Spicca fra tali caratteristiche il fenomeno dei fortissimi venti, così impetuosi che riuscivano a far cadere da cavallo anche i più provetti cavalieri e a sollevare ciottoli e pietre dal terreno. A causa del clima particolarmente rigido di quelle regioni, poi, si diceva che non vi si potessero produrre né olio né vino, sostituito, quest’ultimo, da una bevanda a base d’orzo; mancanza che però non impediva agli abitanti di amare moltissimo il vino, che importavano e al quale si abbandonavano smodatamente quando ne avevano a disposizione, ubriacandosi fino a precipitare nel sonno o in una specie di delirio simile alla pazzia. È un carattere, questo, che insieme ad altri colpisce molti degli autori che scrivono dei Galli: «Quasi tutti i Galli sono di alta statura, hanno la pelle bianca e i capelli rossi; suscitano spavento per il loro sguardo selvaggio, hanno il gusto della discussione e sono straordinariamente presuntuosi […]; la loro voce è generalmente minacciosa e paurosa, che essi siano tranquilli o in collera […]. È una razza incline al vino […] dall’intelligenza affievolita da una continua ubriachezza» (Ammiano Marcellino, XV, 12, 1-4). E colpiva anche il fatto che i bambini nascessero con i capelli bianchi, e solo crescendo la loro capigliatura assumesse progressivamente il colore di quella dei genitori.
Le consuetudini dei popoli della Gallia, per molti aspetti diversissime da quelle del mondo romano, favorirono la diffusione di credenze e idee comuni sul loro conto, che ne mettevano in risalto per l’appunto la diversità, al limite dell’incredibile o del leggendario. Si diceva che i Galati o Galli fossero una razza «maniaca della guerra, collerica e sempre disposta a combattere, ma d’altra parte semplice e nient’affatto cattiva» (Strabone, IV, 4, 2); si notava che essi indossavano una specie di saio e delle lunghe brache e si facevano crescere i capelli, che dormivano sulla terra e mangiavano seduti su pagliericci, che costruivano case di forma circolare di assi e graticci coperti di canne, e che avevano molte altre consuetudini diverse da quelle dei Romani; ma al tempo stesso si rilevava che esistevano anche presso di loro addetti alle cose sacre (i Vati), poeti e compositori di inni (i Bardi), e i famosi Druidi, che si dedicavano alla scienza della natura e alla filosofia etica (ibid., IV, 4, 3-4). Tra le loro consuetudini che li facevano apparire quanto mai barbari agli occhi dei Greci e dei Romani spiccava quella di «appendere, al ritorno dalle battaglie, le teste dei nemici al collo dei cavalli, e attaccarle per ornamento ai portici delle case»; quanto alle «teste degli uomini illustri», queste, «conservate con l’olio di cedro», venivano mostrate agli ospiti (ibid., IV, 4, 5) in una sorta di raccapricciante ma venerabile salamoia. E anche se i Romani indussero i Galli a sospendere molte delle loro più barbariche consuetudini, continuavano a suscitare stupore alcune di esse, come «allestire e dare alle fiamme un gigante di paglia e legna dopo avervi gettato dentro tutti insieme ovini, bestie di ogni tipo e anche uomini» (ibid.). Le stesse fonti antiche che pure riferiscono di molti aspetti leggendari o stupefacenti della Gallia e della sua popolazione, ritengono invece credibile «il fatto che nella Celtica cresca un albero uguale al fico, il quale produce un frutto del tutto simile a un capitello corinzio: se lo si taglia ne esce un liquido mortale che viene usato per ungere le frecce» (ibid., IV, 4, 6): l’albero in questione potrebbe essere il datura. Fonti assolutamente affidabili riferivano poi che in Gallia un’intera popolazione fosse stata scacciata dalle sue sedi dalle rane (Plinio, Nat. Hist., VIII, 104).
La calata dei Galli in Italia. Anche la calata dei Galli in Italia era raccontata non senza far ricorso a elementi leggendari, che confinano spesso con i dati storici e vi si intersecano in un viluppo talora difficile da districare. «Sul passaggio dei Galli in Italia questo ci è stato tramandato. Quando regnava a Roma Tarquinio Prisco […] era re Ambigato, potentissimo per virtù e per fortuna sia personale che del suo popolo, e sotto il suo dominio la Gallia a tal punto sovrabbondava di messi e di uomini che sembrava difficile tenere a freno quell’eccessiva moltitudine.» Perciò, per ovviare al problema del sovrappopolamento, il re, ormai avanti negli anni, «manifestò l’intenzione di mandare i figli della sorella, Belloveso e Segoveso, giovani animosi, in quelle sedi che gli dèi avessero indicato con gli àuguri: prendessero con sé quanti uomini volevano, in modo che nessun popolo potesse opporsi alla loro venuta». Si interrogò il volere degli dèi, e «a Segoveso la sorte assegnò la regione della selva Ercinia [Germania meridionale]», mentre a Belloveso si aprì «un cammino ben più gradito, quello verso l’Italia». La meta desiderata si presentava però difficile da raggiungere a causa della barriera delle Alpi, che apparivano insuperabili, «non essendo ancora mai state valicate per alcuna via, fin dove almeno risale la tradizione storica, a meno che non si voglia prestar fede alle leggende intorno ad Ercole», che le avrebbe valicate durante il ritorno dalla sua spedizione in Occidente alla cattura dei buoi di Gerione, lasciando traccia del suo passaggio nel nome di Graie, ossia «greche», con cui erano indicate. «Essi passarono attraverso il territorio dei Taurini e le Alpi della valle della Dora, e disfatti in battaglia gli Etruschi non lungi dal fiume Ticino […] fondarono ivi una città che chiamarono Mediolano» (Livio, V, 34).
A sua volta, la Gallia fu testimone della calata di Annibale in Italia, che avvenne anche in parte attraverso il territorio celtico. Al passaggio di Annibale durante la prima guerra punica diversi eventi prodigiosi avvennero in diverse località: in un punto imprecisato della Gallia «un lupo prese dal fodero la spada a una sentinella e gliela portò via» (ibid., XXI, 62, 5); in un altro luogo altrettanto vagamente indicato, «laddove si affondava l’aratro, di sotto alle zolle sollevate erano venuti alla luce dei pesci», evento interpretato come una manifestazione divina (ibid., XLII, 2, 5), che trascinava quel territorio nella dimensione della leggenda. Dimensione che non sfuggì neppure a Cesare durante le sue campagne militari, benché il suo occhio si soffermi, nel De bello gallico, più sulle vicende di guerra che sui prodigi soprannaturali.
Mito e toponomastica. La leggenda aveva molto spazio, come spesso avviene, anche in relazione alla toponomastica. Il nome della Gallia, come si è detto, in greco era Celtica, e si faceva risalire a un eroe di nome Celto che ne fu re; un’altra tradizione diceva che dagli amori di Eracle e di Aterope, figlia di Atlante, fossero nati i due eroi Ibero e Celto, eponimi delle rispettive popolazioni ; si ipotizzava anche che la regione avesse preso il nome da un fiume Celto che nasceva dai Pirenei (Dionigi di Alicarnasso, XIV, 1). Secondo il racconto riferito da Diodoro Siculo nel V libro della Biblioteca storica, in Gallia viveva un tempo un nobile signore che aveva una bellissima figlia, di grande nobiltà e di statura fisica e morale superiore a tutte le altre donne. Quando Eracle, di ritorno dalla sua spedizione in Occidente per la cattura dei buoi di Gerione, attraversò la regione, la ragazza lo vide e se ne innamorò, ricambiata; dalla loro unione nacque Galate, destinato a diventare l’eroe eponimo della stessa Gallia, della popolazione dei Galati che la abitavano e della regione della Galizia (per un mito relativo al passaggio di Eracle nel territorio di Marsiglia v. LIGURIA e RODANO). Secondo Diodoro i popoli che abitano nell’entroterra di Marsiglia e presso le Alpi e i Pirenei sono chiamati Celti, mentre gli altri, che si estendono fino alla Scizia, hanno nome Galli. Le diverse aree della Gallia avevano poi denominazioni specifiche diverse anche secondo alcuni scrittori latini: la Gallia Cisalpina, ossia a sud delle Alpi, era chiamata anche togata, mentre quella Narbonese era detta bracata: entrambi gli appellativi erano legati al tipo di abbigliamento in uso nella regione, più vicino a quello romano (la toga) nella Cisalpina, caratterizzato da grandi brache decisamente poco usuali nel mondo romano nella Narbonese (Marziale, Epigrammi, III, 1, 2).
Affrontando il tema della storia dei Galli, Ammiano Marcellino, nel IV secolo, propone una spiegazione tradizionale dell’origine del nome dei Celti, osservando che il primo popolo che visse nella regione fu quello degli Aborigeni, chiamati Celti dal loro re Celto, particolarmente amato; il nome dato a quella popolazione dai Greci, ossia Galati, derivava invece dal nome della regina Galata, madre di Celto. Secondo Timeo, l’eponima dei Galati era figlia di Polifemo e Galatea: univa così miticamente la stirpe dei Galli con le leggende della Sicilia (FGrH, III B, 566, fr. 69). Priva di conseguenze sul piano degli etnonimi era invece la tradizione, ancora riferita da Ammiano, secondo la quale alcuni Dori, seguendo Ercole, si stabilirono «in località vicine all’Oceano». Ercole, in particolare, debellò un crudele tiranno che opprimeva la regione, e che si chiamava Taurisco: quando lo ebbe sconfitto, dalle molte relazioni che ebbe con donne del posto mise al mondo una folta progenie, e i suoi figli regnarono sull’area dando ciascuno il suo nome alle città che governava. Non mancava neppure, a proposito dell’origine del popolamento della regione, il parere dei Druidi: Ammiano riferisce che secondo questi ultimi una parte della popolazione era indigena, ma in parte era costituita da gruppi che affluirono in Gallia da isole lontane e da regioni situate al di là del Reno dove esse erano tormentate dalle inondazioni provocate dalle tempeste lungo le coste. Un ruolo importante nell’occupazione della Gallia e nella fondazione di città era riconosciuto poi dallo stesso Ammiano ai Greci che, di ritorno dalla guerra di Troia e dispersisi per i mari, «occuparono questi luoghi che erano allora deserti» (Ammiano Marcellino, XV, 9).
Più tardi anche Isidoro di Siviglia propone la sua etimologia per il nome dei Galli: esso deriverebbe dal greco gàla, che significa «latte» e indica il biancore della loro carnagione (Etimologie, IX, ii, 104 e XIV, iv, 25; la stessa origine avrebbe il nome dei Galleghi, IX, ii, 110). Quanto ai Galli Senoni, essi deriverebbero il loro appellativo dal greco xènos, «straniero» ma anche «ospite», che si riferirebbe all’ospitalità da essi offerta a Bacco (ibid., IX, ii, 106).
Per alcuni miti relativi a località specifiche della Gallia v. ALESIA; ARARI; GLANUM; MONACO; HYÈRES, ISOLE DI; LÉRINS, ISOLE DI; LOIRA; MARSIGLIA; MONACO; NARBONA; RODANO; SENNA; STECADI; VIENNE; per la calata dei Galli in Italia v. anche ROMA.
GALLIPOLI Cittadina della Puglia, in provincia di Lecce, di fondazione greca (Kallìpolis, «bella città») e nota in età romana con il nome di Anxa. Secondo una leggenda tramandata da Diodoro Siculo, suo fondatore sarebbe stato Leucippo. Per l’astuto accorgimento con il quale egli si impadronì del territorio sottraendolo agli abitanti del posto v. METAPONTO.
Per la penisola di Gallipoli, altro nome con il quale è indicato il Chersoneso tracio, v. CHERSONESO.
GALLO Nome di un fiume della Frigia che scorre presso la città di Pessinunte, tra il monte Cibelo e la cittadina di Celene, posta a sua volta presso le sorgenti del fiume Meandro. Le acque del fiume avevano fama di portare alla pazzia se bevute: «Tra il verde Cibelo e l’alta Celene scorre un fiume d’insana acqua: si chiama Gallo. Chi ne beve impazzisce: state lontano da lì voi che avete cura della vostra sanità mentale» (Ovidio, Fasti, IV, 363-366). Da questo fiume, che si diceva inducesse all’autoevirazione, derivavano il loro nome i Galli, ossia i sacerdoti della dea Cibele, la Grande Madre frigia, che praticavano l’evirazione a scopo rituale.
GANFASANTI, PAESE DEI Misteriosa regione africana, lontana dal mondo conosciuto, i cui abitanti, secondo Plinio, vivono «nudi e incapaci di combattere» e «rifiutano il contatto con gli estranei» (Nat. Hist., V, 45). Questi caratteri li accomunano ai GARAMANTI (v.).
GANGE, in gr. Gànges, in lat. Ganges. Il maggior fiume dell’India fu conosciuto nel mondo classico a partire dalle conquiste orientali di Alessandro Magno; era definito «il bel Gange» da Virgilio (Georgiche, II, 137), che ne ricorda anche il corso «profondo e silente», come «gonfiato da sette pacifici fiumi», con allusione a sette ipotetiche sorgenti (Eneide, IX, 30-31). Nelle Metamorfosi di Ovidio il Gange è menzionato tra i fiumi le cui rive e addirittura le cui acque s’incendiano a seguito dell’avventura di Fetonte, incapace di governare il carro del Sole (v. SOLE, REGGIA DEL ed ERIDANO per i particolari). Isidoro sottolinea invece l’identificazione del Gange con uno dei quattro fiumi che scaturiscono dal Paradiso terrestre: «Il Gange è il fiume che la Sacra Scrittura chiama Phison: esce dal Paradiso e si spinge sino alle regioni dell’India […]. Il nome Gange deriva da quello del re indiano Gangaro» (Etimologie, XIII, xxi, 8). Per Lucano il fiume è oggetto di venerazione e ha inoltre la caratteristica di essere «l’unico fiume al mondo che osi far sbucare le sue foci di fronte al sole nascente», ossia verso est (III, 230-232). Spesso il nome viene citato in metafore e similitudini: «così, nelle foreste del Gange, una tigre affamata esita tra due giovani tori, desiderando entrambe le prede…», scrive per esempio Seneca (Tieste, 708 ss.), descrivendo Atreo. Secondo una tradizione secondaria, il Gange, personificato, era figlio dell’Indo e di una Ninfa; per aver commesso incesto con la propria madre mentre era annebbiato dai fumi dell’alcool, si gettò disperato nelle acque del fiume che fino a quel momento si chiamava Cliaro e che da lui prese il nome di Gange (Pseudo-Plutarco, De fl., 4; Filostrato, Vita di Apollonio, III, 6).
GARAMANTI, PAESE DEI Regione costiera del Nord Africa dalla collocazione imprecisata, forse nell’attuale Fezzan, nella quale vive la popolazione semimitica dei Garamanti (in gr. Garàmantes). È ricordata, tra gli altri scrittori greci, da Erodoto, che la situa «oltre i Nasamoni, in direzione sud, nella regione delle bestie feroci», e dice dei Garamanti che «evitano ogni essere umano e ogni compagnia, non possiedono nessuna arma da guerra, né sanno difendersi» (IV, 174). Il loro nucleo più cospicuo abita su una «collina di sale, con una sorgente e molte palme da datteri», e per riuscire a coltivare il suolo la popolazione «accumula terra sopra il sale» (ibid., IV, 183, 1). Vi si trovano degli strani buoi che pascolano procedendo a ritroso. «Hanno le corna curve in avanti e perciò pascolano camminando all’indietro: non sono in grado di farlo camminando in avanti perché le corna si conficcherebbero nel terreno» (qualcosa di simile si narrava, in tutt’altre latitudini, degli alci dell’estremo Nord, che pascolavano all’indietro per non essere ostacolati dalle dimensioni del labbro superiore: v. ERCINIA, SELVA). I Garamanti sono in perenne lotta con un’altra popolazione dai contorni leggendari, quella dei Trogloditi (v. TROGLODITI, PAESE DEI). Nella letteratura latina la collocazione del Paese dei Garamanti è in imprecisate lontananze: Virgilio parla di «remoti Garamanti» (Bucoliche, VIII, 44: extremi Garamantes). Plinio invece si sofferma sui loro costumi osservando che «i Garamanti non praticano il matrimonio e passano da una donna all’altra» (Nat. Hist., V, 45). Secondo Isidoro di Siviglia (Etimologie, XIII, xiii, 10), in quei territori «esiste una sorgente la cui acqua è così gelata di giorno da non potersi bere e così ardente di notte da non potersi toccare».
Per Isidoro i Garamanti derivano il nome dal loro re Garamanto, che fondò nella regione una città fortificata e la chiamò Garama (ibid., IX, ii, 125). Secondo Apollonio Rodio il nome derivava invece da quello di Garamante, un eroe nato da Acacallide e Apollo. Acacallide era una bellissima giovinetta, figlia di Minosse re di Creta, della quale si innamorò Apollo. Il padre, scopertala, la esiliò in Libia, «incinta del dio, e al dio essa diede un figlio glorioso, chiamato Amfitemide, o Garamante» (Argonautiche, IV, 1493-1494). Da Garamante, unitosi a una Ninfa, sarebbero nati Nasamone, l’eroe eponimo del popolo dei Nasamoni (che però secondo Plinio i Greci chiamavano Mesammoni, perché abitavano in mezzo alla sabbia del deserto, da mèsos, «in mezzo», e àmmos, «sabbia»: Plinio, Nat. Hist., V, 33); e Cafauro, che uccise uno degli Argonauti di nome Canto (secondo Igino, Favole, 14 l’uccisore di Canto si chiamava Cefalione e l’episodio era ambientato, genericamente, in Libia). Tutte le fonti concordano nel ricordare che la città più famosa del territorio era Garama («la famosissima Garama, capitale dei Garamanti»: Plinio, Nat. Hist., V, 36).
GARDA, LAGO DI v. BENACO.
GARGAFIA, in gr. Gargaphìa. Vallata della Beozia nella quale è ambientata la vicenda mitica di Atteone. Come ricorda Ovidio nelle Metamorfosi (III, 155-252) «c’era una valle coperta di pini e sottili cipressi, chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte, nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro incontaminato dall’uomo: la natura col suo estro l’aveva reso simile a un’opera d’arte». Da una parte si ergeva infatti un arco naturale di tufo e pomice leggerissima, mentre dall’altra uno specchio d’acqua «frusciava in mille riflessi col taglio della sua fessura incorniciato di margini erbosi». Era il luogo preferito della dea Diana, che vi si rifugiava per riposare dalle fatiche della caccia con le vergini cacciatrici del suo seguito e vi prendeva il bagno. E proprio mentre la dea si sta bagnando, assistita dalle Ninfe, un giorno il bell’Atteone, giovane nipote di Cadmo, re di Tebe, ignaro, entra nell’antro e la scopre. L’ira di Diana non si fa attendere: immediatamente la dea lo spruzza con l’acqua della fonte, e «senza altre minacce sul suo capo impose corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie», e dopo avergli mutato le braccia in zampe «gli ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli infuse in più la timidezza». Così trasformato, l’infelice eroe cade poco dopo vittima della sua stessa muta di cani da caccia, che non lo riconoscono e dopo un lungo inseguimento lo dilaniano e «in corpo gli conficcano i denti» fino a che «per le innumerevoli ferite non finì la sua vita».
Il nome «Gargafia» indicava anche una sorgente nei pressi di Platea.
GARGANO Promontorio della Puglia settentrionale, in provincia di Foggia, nella regione anticamente chiamata Daunia. Come tutta l’area fu interessato dalla colonizzazione di Diomede, che vi approdò durante le sue peregrinazioni successive alla fine della guerra di Troia e vi fondò città. Vi erano radicati i culti di due figure mitologiche di indovini, Calcante e Podalirio, alle quali si attribuivano virtù taumaturgiche e poteri soprannaturali. Il culto di Calcante era praticato su un’altura chiamata Drion, sulla cui sommità i fedeli, dopo aver sacrificato un montone, si avvolgevano nella pelle dell’animale e attendevano il vaticinio del dio. Nel santuario di Podalirio, invece, i fedeli attendevano la guarigione offerta dalle acque di un ruscello delle vicinanze (Strabone, VI, 284; per altri particolari sul loro culto e il loro mito v. DAUNIA). V. anche ARPI; MONTE SANT’ANGELO; VIESTE.
GARGARENI o GARGAREI,PAESE DEI Regione caucasica dove secondo il mito risiedeva una popolazione alla quale le Amazzoni, che vivevano in una comunità priva di uomini, si univano temporaneamente per assicurare la continuità della stirpe. Se dall’unione nascevano figli maschi, essi venivano allevati nel paese dei Gargarei; se invece venivano al mondo delle femmine, venivano portate nella patria delle Amazzoni, che le educavano secondo i propri costumi. Una città di nome Gargara o Gargaris era collocata sulle pendici occidentali del monte Ida nella Troade ed era abitata, secondo la tradizione, dalla popolazione dei Lelegi (v. GARGARO). V. anche AMAZZONIA.
GARGARO Ha questo nome (in gr., al plurale, tà Gàrgara) la vetta meridionale del monte Ida, nella Troade, del quale costituiva la cima più alta. Fu teatro di diversi avvenimenti mitologici: vi avvenne il ratto di Ganimede e sulla sua vetta si unirono in amplesso amoroso Zeus ed Era (per entrambi i miti v. IDA; per Ganimede v. anche OLIMPO). Sulle sue pendici si lanciano in una sfrenata corsa le cavalle di Glauco, rese pazze dall’amore che le porterà a sbranare il loro padrone (v. BEOZIA). Le foreste che ammantano la vetta sono ricordate da Ovidio nelle Eroidi (XVI, 109), dove viene rievocata la costruzione delle navi che dovranno portare Paride presso Elena di Troia: «I pini di Troia cadono sotto la scure frigia, cade ogni albero che sia utilizzabile nell’acqua marina; il Gargaro scosceso è spogliato dei fitti boschi e l’alto Ida offre travi senza numero». Nei pressi del monte si trovava una città dal nome simile (Gargara), che doveva essere nota per la sua fertilità, se nel parlar comune per indicare qualcosa di abbondante si diceva «quante spighe ha Gargara, tanto…» (Ovidio, Ars amatoria, I, 57). Al monte e alla città fa riferimento Macrobio nei Saturnali (V, 20, 10-16), disquisendo altresì del significato del toponimo «Gargara» come «abbondanza»; anche l’espressione usata da Seneca nelle Fenicie (v. 608), «il Gargaro caro a Cerere», allude alla fertilità di quelle terre.
GAULO e GALATA Isole del Mediterraneo, poste non lontano dall’Africa e da Lampedusa. Sono ricordate da Plinio (Nat. Hist., V, 42) per una leggendaria particolarità della loro terra, che «uccide gli scorpioni, i più crudeli animali che infestano l’Africa». Un’altra isola con le stesse caratteristiche, secondo Plinio, aveva nome Clupea. un’isola di Gauloe, forse identificabile con questa, è citata da Isidoro di Siviglia, che la colloca presso l’Etiopia: ha la caratteristica che non vi nasce né vi vive alcun serpente (Etimologie, IX, II, 124).
GAZA Antica città della Palestina, già ricca capitale di uno Stato filisteo, di grande importanza commerciale per la sua posizione lungo l’itinerario che dalla Fenicia andava in Egitto; era l’ultimo centro abitato prima che si aprissero le immense estensioni del deserto. Fu teatro delle leggendarie imprese di Sansone narrate nella Bibbia. Nella tradizione classica era legata a un racconto relativo ad Alessandro Magno i cui contorni sfumano nella leggenda. Circondata da un baluardo di terra e da un muro possente, era molto difficilmente conquistabile, e quando Alessandro si accinse a stringerla d’assedio dovette escogitare la costruzione di un terrapieno intorno alle mura, in modo che le macchine da guerra, issate su di esso, potessero trovarsi a livello dei bastioni. Quando l’imponente opera ingegneristica fu conclusa, «mentre Alessandro celebrava un sacrificio e, incoronato, stava per sacrificare la prima vittima secondo il rito, un uccello rapace volando sopra l’altare fece cadere sulla sua testa una pietra che teneva tra gli artigli». Alessandro, turbato dal prodigio, interpellò un indovino, che gli rispose: «O re, tu conquisterai la città, ma oggi abbi cura della tua persona». Il condottiero per un poco rispettò il vaticinio, ma alla vista di una ritirata macedone si gettò nei combattimenti, riportandone una grave ferita a una spalla: cosa che, paradossalmente, lo rese felice, perché era chiaro che l’indovino aveva detto il vero e che quindi egli avrebbe anche conquistato la città (Arriano, Anabasi di Alessandro, II, 26-27). Il racconto di quel prodigio si legge, con qualche differenza, anche in Curzio Rufo, il quale narra che «per caso un corvo, passando a volo, lasciò cadere improvvisamente una zolla di terra che teneva fra gli artigli, e questa, caduta sulla testa del re, si sparse, mentre l’uccello andò a posarsi sulla torre più vicina. La torre era spalmata di bitume e di zolfo, in cui le ali rimasero impigliate, così che il corvo, tentando vanamente di sollevarsi, fu catturato dai presenti» (Storie di Alessandro Magno, IV, 6, 11).
Secondo alcuni studiosi Gaza sarebbe stata chiamata anticamente Ione e sarebbe da collegare al mito di Io, la figlia di Inaco amata da Zeus, che appare raffigurata su alcune monete della città.
GAZABA Regione asiatica della Sogdiana nella quale Alessandro Magno fu protagonista con il suo esercito di un’avventura entrata nella leggenda e nell’agiografia del condottiero. Vi si scatenò infatti un giorno una tempesta che, se di per sé era un evento naturale, venne però descritta dalle fonti come qualcosa di fuori dell’ordinario, con straordinari lampi che «gettavano il terrore non solo negli occhi, ma anche nell’animo dell’esercito in marcia», con «un tuono pressoché continuo», con fulmini che cadevano ovunque e con una successiva violentissima pioggia mista a grandine. La temperatura si era abbassata bruscamente, e al gelo e alla pioggia si era sommato lo spavento provocato dalle tenebre più fitte, cosicché i soldati, sbandando e rompendo le righe, si abbandonavano alla furia degli elementi, morendo di freddo e di stenti. Alla fine di quella tragedia si contarono duemila vittime; «è stato tramandato che alcuni furono trovati appoggiati ai tronchi degli alberi, e non solo somiglianti a persone vive, ma addirittura in atto di parlare fra loro, poiché ancora durava l’atteggiamento in cui la morte aveva sorpreso ciascuno» (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, VIII, 4, 14). Si raccontava anche che un soldato semplice, che si trascinava con immensa fatica nella bufera, reggendosi a malapena in piedi, fosse riuscito a stento a raggiungere il campo che nel frattempo in qualche modo era stato approntato, e lì Alessandro, che si era battuto fino a quel momento per tenere saldi i suoi e aveva appena cominciato a riscaldarsi presso il fuoco, lo vide: immediatamente si alzò dal proprio posto accanto al tepore delle fiamme, aiutò il soldato intontito e sfinito a liberarsi delle armi e lo fece accomodare al proprio posto. Quando finalmente il poveretto, recuperando poco per volta le forze e la lucidità, si rese conto di trovarsi al cospetto del sovrano, balzò in piedi atterrito, ma Alessandro gli disse: «Capisci, o soldato, quanto sia migliore la condizione in cui vivete di quella dei Persiani sotto il loro re? Per loro, infatti, l’essersi seduti sulla sedia del re costituirebbe un delitto capitale, per te è stato la salvezza» (ibid., VIII, 4, 15-17).
GAZOS Località dell’Oriente, forse in Sogdiana, ricordata da Nonno di Panopoli nelle sue Dionisiache (XXVI, 56 ss.) come luogo leggendario per la sua peculiare cinta muraria: «coloro che hanno fortificato Gazos» l’hanno circondata «di una muraglia di lino fatta di blocchi di lino tessuto, cittadella inespugnabile contro Ares – mai alcun nemico ha potuto, col bronzo, infrangere la cinta dei suoi bastioni dalla tunica di lino – infrangibile, solidamente costruita su filari abilmente intessuti».
GEDROSIA, in gr. Gedrosìa. Provincia dell’antico Impero persiano, corrispondente all’odierno Belucistan, affacciata sull’Oceano Indiano e caratterizzata da un entroterra sabbioso e desertico. Si favoleggiava che i suoi abitanti, incontrati da Alessandro Magno durante le sue spedizioni in Asia, conducessero un’esistenza selvaggia e addirittura animalesca: «popolazione inospitale che viveva come le bestie» la definisce Diodoro Siculo (XVII, 105, 3), che prosegue descrivendone le inusuali abitudini: «dalla nascita alla vecchiaia gli abitanti di questo paese si lasciano crescere le unghie e tengono i capelli arruffati; hanno la carnagione abbronzata dall’ardore del sole e si coprono di pelli di animali. Per nutrirsi divorano la carne delle balene rigettate dalle onde sulle spiagge»; di ossa di balena erano fatte anche le impalcature che sorreggevano le loro precarie dimore coperte di pelli squamose (ibid., XVII, 105, 4-5). Sulle coste di quella regione abitavano gli ITTIOFAGI (v.). Il nome della regione è indicato come «Cedrosis» in Pomponio Mela.
GELA Città della Sicilia occidentale, in provincia di Caltanissetta, fondata secondo la tradizione da un gruppo di coloni provenienti da Rodi e da Creta. Ai due ecisti o fondatori Antifemo ed Entimo (Tucidide, VI, 4, 3), secondo altre fonti si aggiunge Gelone, antenato dell’omonimo tiranno (Erodoto, VII, 153); essi ricevettero dalla Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Delfi, l’ordine di dare alla città il nome del fiume Gela, nei pressi del quale dovevano insediarsi (Diodoro, VIII, fr. 23). Una variante di questo racconto (attestata da Aristeneto, in Stefano di Bisanzio, e dall’Etymologicum Magnum, 225, 1) ricorda che Antifemo era andato a consultare la Pizia con suo fratello Lacio; la sacerdotessa ordinò loro di far vela l’uno (Lacio) verso levante, l’altro (Antifemo) verso ponente e fondarvi ciascuno una città. Lacio fondò FASELIDE (v.), in Asia Minore, mentre Antifemo fu l’ecista di Gela, che venne così chiamata, secondo questa versione del racconto, perché egli era scoppiato a ridere nel sentirsi dare una risposta così diversa da quel che si aspettava (in greco «ridere» si dice , da cui «Gela»). Antifemo ebbe parecchi grattacapi con i popoli vicini e dovette venire alle armi con i Sicani della vicina e non ben identificata città sicana di Onface, che debellò, distruggendone la roccaforte e portandosi via una statua lì conservata, che la tradizione attribuiva al mitico scultore Dedalo (Pausania, VIII, 46, 2 e IX, 40, 4). I due ecisti, secondo un aneddoto che ci è noto da una fonte di età imperiale romana (Zenobio, I, 54), sarebbero poi morti miseramente perché non tennero nel dovuto conto un suggerimento dell’oracolo, che aveva loro raccomandato di guardarsi da «quello con quattro orecchi»: ossia, secondo la definizione divenuta proverbiale all’epoca, da un pirata fenicio.
Il nome della città sarebbe derivato secondo Tucidide (loc. cit.) da quello dell’omonimo fiume già ricordato che scorreva in quel punto, mentre «il luogo in cui ora si trova l’acropoli e che fu il primo a esser munito di mura, si chiama Lindi», con evidente riferimento alla città di Lindo che sorge nella madrepatria Rodi. Il fiume Gela godeva fama di avere acque particolarmente vorticose, tanto che Ovidio lo definisce inavvicinabile (Fasti, IV, 470) e Virgilio ricorda, tra i luoghi toccati da Enea nel corso della sua navigazione verso l’Italia, «Gela, così dal nome del mostruoso fiume chiamata» (Eneide, III, 701-702). Il toponimo si presta – per la sua assonanza con il verbo , «ridere» – a un gioco di parole che si legge nella commedia Acarnesi di Aristofane, dove alla città reale di Gela viene affiancata una città immaginaria chiamata Catagela, da
«schernire» (v. 606). Un altro gioco di parole era attribuito a Eschilo e solo approssimativamente si può tradurre in italiano: «A forza di gelare mi troverò presto a Gela» (Plutarco, Aristophanis et Menandri comparatio, 853 C), dove il greco si basa sulla radice di
, che ovviamente in traduzione italiana («a forza di ridere mi troverò presto a Gela») non dà lo stesso effetto comico. Nella città era sepolto, secondo la tradizione, il poeta tragico Eschilo, che vi aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita. E dalla città partirono, nel 582 a.C., alcuni abitanti che, sotto la guida di Aristone e Pistilo, fondarono la città di Akragas, ossia Agrigento (Tucidide, VI, 4, 4).
GELONO, in gr. Gelonòs. Città di difficile identificazione, fondata secondo lo scrittore greco Erodoto (IV, 108) nel territorio dei Budini da coloni greci. Per i particolari v. BUDINI, PAESE DEI.
GERANI, in gr. Geràneia o Geranìa. Catena montuosa della Megaride, fra Atene e Corinto. Dalla sua cima si getta in volo l’«uomo sopra le nubi» del dialogo Icaromenippo o l’uomo sopra le nubi di Luciano di Samosata (46 [24], 10-11), che riesce a volare con l’aiuto di ali che si è fabbricato tagliandole a un’aquila e a un avvoltoio e ponendosele sulle spalle. Per altri miti v. MEGARA.
GEREIA, in gr. Gèreia. Località difficilmente individuabile dell’India, menzionata da Nonno di Panopoli nelle Dionisiache (XXVI, 52), dove, probabilmente per l’assimilazione di un toponimo locale a un termine greco, essa diventa «l’isola rotonda delle Graie», o Forcidi: creature mostruose, sorelle delle Gorgoni, rappresentate in forma di tre vecchie donne che avevano in comune solo un occhio e un dente, che si passavano l’una con l’altra e usavano a turno. In questo luogo «i bambini, invece di essere allattati dalle madri, come è consuetudine, prendono il seno maschile del padre, pieno di latte» (ibid., XXVI, 52-54). Il toponimo richiama in greco l’idea della vecchiaia ().
GERENIA o GERENO, in gr., variamente, Gèrenos, Gèrenon, Gerenìa e tà Gèrena. Città greca della Laconia dove Nestore, famoso condottiero di Pilo durante la guerra troiana, «venne allevato, ovvero fu mandato in esilio». Per questo Nestore viene chiamato «il cavaliere Gerenio» (Esiodo, Catalogo delle donne, I, 24 a), anche se il soprannome potrebbe essere in realtà un patronimico, o significare «anziano», «venerabile», «saggio» e trovare una spiegazione nell’età avanzata che conferiva a Nestore un primato tra gli eroi greci, nonché il riconoscimento di una venerata saggezza. La città si chiamava anticamente ENOPE (v.).
GERMANIA Nome con il quale in età romana si indicava il territorio a nord delle Alpi e a est del Reno, abitato dalle popolazioni dei Germani: un territorio agli occhi degli autori classici aspro, selvaggio, difficilmente praticabile per le fittissime foreste e l’abbondanza di paludi. La maggiore ricchezza delle popolazioni locali erano le mandrie di bovini, ma «neppure questi hanno la loro particolare bellezza, né le corna che ornano la fronte». E quanto alle ricchezze del sottosuolo, «gli dèi, non si sa se in segno di favore o di ostilità, privarono i Germani dell’argento e dell’oro» (Tacito, Germania, V). I Germani erano ritenuti strettamente affini ai Celti: «essi sono più alti e più biondi ma assomigliano loro per tutto il resto […]; mi sembra che i Romani, dando loro questo nome, abbiano voluto significare che essi erano degli autentici Galli: nella lingua dei Romani, infatti, germani vuol dire “autentici”» (Strabone, VII, 1, 2). Alcuni dei luoghi comuni che circolavano sui Germani ai tempi dell’Impero sono ricordati in un accenno di Giovenale: «Chi si meraviglia degli occhi azzurri dei Germani, della bionda capigliatura dai ricci impomatati e attorcigliati in forma di corna?» (Satire, XIII, 164-165). Alcune delle consuetudini dei Germani suscitavano nell’osservatore latino la massima curiosità: se, infatti, alcuni dei loro culti apparivano riconoscibili anche a chi aveva dimestichezza con gli dèi della Grecia e di Roma (i Germani veneravano, secondo Tacito, Mercurio, Ercole, Marte e persino Iside: Germania, IX), le loro usanze apparivano spesso assolutamente remote da quelle romane: «quando non vanno in guerra trascorrono il tempo più nell’ozio che nella caccia, occupati a dormire e a mangiare, mentre i più forti e i più bellicosi se ne stanno senza far nulla, affidando alle donne, ai vecchi e ai più deboli tutte le faccende della casa e della famiglia, nonché la coltivazione dei campi» (ibid., XV); e «per nessuno di loro è vergognoso passare il giorno e la notte a bere» (ibid., XXII).
Si diceva che i progenitori della stirpe dei Germani fossero il dio Tuistone, nato dalla Terra, e suo figlio Manno; quest’ultimo avrebbe avuto tre figli, dai quali si facevano discendere le popolazioni degli Ingevoni, degli Erminoni e degli Istevoni (Tacito, Germania, II). Tra i personaggi del mito classico che fecero la loro apparizione nelle terre dei Germani non poteva mancare Ercole: «Qualcuno narra che anche Ercole sia venuto presso i Germani e che questi, pronti per il combattimento, usino innalzare canti alla gloria del primo fra gli eroi» (ibid., III). Né poteva mancare Ulisse: «Altri, poi, credono che anche Ulisse, sbattuto da quel suo lungo leggendario peregrinare, sia giunto a questo oceano e abbia toccato le terre germaniche, e che abbia fondato una città che chiamò Asciburgio [oggi Asberg], posta sulla sponda del Reno e ancor oggi abitata». Quasi a conferma di questa tradizione mitica, «una volta fu ritrovato là un altare consacrato da Ulisse, dove era anche scolpito il nome del padre di lui, Laerte; monumenti sepolcrali con iscrizioni in lettere greche pare che esistano ancora nella zona confinante tra la Germania e la Rezia. […] ciascuno ci creda o non ci creda, come gli piace» (ibid., III). Il toponimo «Asciburgio», secondo l’etimologia greca, significava «città dell’otre» e si riferiva all’otre che il dio del vento, Eolo, donò ad Ulisse: secondo il racconto dell’Odissea i compagni di Ulisse aprirono imprudentemente il recipiente e i venti ne uscirono alla rinfusa causando una gran tempesta.
Di un’aura di mistero era poi ammantato il tradizionale culto di una dea madre venerata con il nome di Nerto da numerose popolazioni germaniche, convinte che essa intervenisse nelle vicende umane trascorrendo da una regione all’altra su un cocchio. «Vi è in un’isola dell’oceano un bosco sacro e in esso un carro votivo, ricoperto di un drappo: solo al sacerdote è concesso toccarlo. Costui comprende quando la dea è presente nella parte più profonda del bosco e la segue con molta devozione, mentre è trasportata da giovenche». La dea visita i diversi popoli che la venerano e al suo ritorno «lo stesso sacerdote riconduce al tempio la dea, ormai sazia della compagnia degli uomini». Successivamente il carro con i suoi ornamenti «e, se vuoi crederlo, la stessa divinità vengono immersi per un lavacro in un lago nascosto. Quest’operazione è affidata ad alcuni schiavi che lo stesso lago subito inghiotte» (Tacito, Germania, XL). Queste, e molte altre abitudini dei Germani che vengono descritte per lo più nelle pagine di Tacito, si pongono ai confini tra osservazione storica e aneddoto leggendario e contribuivano a conferire alle popolazioni nordiche un alone di mistero e di differenza che le rendeva insieme attraenti e temibili: «Tutto il resto che si narra è fantastico»: per esempio di alcune popolazioni, chiamate Hellusii, si racconta che «hanno faccia d’uomini e corpo di fiere; circostanze», scrive Tacito, «sulle quali non mi pronuncio, in quanto incerte» (ibid., XLVI): forse l’aspetto animalesco che si attribuiva agli Hellusii derivava da una suggestione etimologica, dal greco o
che significa «cerbiatto». L’etimo del nome «Germania», invece, era curiosamente interpretato da Isidoro, secondo cui era «dovuto alla sua capacità di generare popoli» (Etimologie, XIV, iv, 4). Prima di lui, Tacito aveva spiegato che «l’appellativo di Germani è di recente attribuzione, poiché coloro che per primi, passato il Reno, scacciarono i Galli […] in quel tempo si chiamavano Germani; così il nome di una tribù […] a poco a poco prevalse, in modo che tutti si chiamarono Germani, per incutere quella paura che, suscitata dapprima dal vincitore, fu in seguito provocata da loro stessi, una volta che ne ebbero assunto il nome» (Tacito, Germania, II).
Lontana, selvaggia e «diversa», la Germania partecipa tuttavia degli eventi prodigiosi che si produssero, anche in luoghi molto remoti da Roma, alla morte di Cesare: «Strepito d’armi per tutto il cielo la Germania udì» (Virgilio, Georgiche, I, 474-475).
V. anche ERCINIA, SELVA e RENO; per la collocazione in Germania di altri luoghi mitici v. inoltre COLONNE D’ERCOLE; ORECCHIE, ISOLE DELLE; TULE.
GERUSALEMME, in gr. Hierosòlyma, in lat. Hierosolyma, Hierusalem, Ierusalem, Solyma; dopo la ricostruzione di Adriano Aelia Capitolina. La città è interessante dal punto di vista della mitologia classica soprattutto a proposito delle sue leggende di fondazione. Tra le numerose fonti greche e romane che ne ricostruiscono l’origine, alcune sembrano particolarmente inclini a raccogliere gli indizi e i racconti più favolosi. Così per esempio Tacito, secondo il quale «i Giudei, fuggiaschi dall’isola di Creta, si sarebbero stanziati all’estremo limite della Libia [ossia nel territorio della Palestina] nel tempo in cui Saturno, cacciato dalla prepotenza di Giove, se ne andò dai suoi dominii». L’allusione è ai tempi remoti in cui Cibele (la greca Rea), dopo aver dato alla luce l’ultimogenito Giove (il greco Zeus), lo nascose in una grotta del monte Ida a Creta per evitare che il padre Saturno (il Crono dei Greci), che temeva di essere spodestato dai suoi discendenti, lo divorasse come aveva fatto con gli altri suoi figli. Quando poi Giove, salvato dall’uccisione da parte del padre, lo spodestò, Saturno, secondo questa versione del racconto, se ne sarebbe andato da Creta e si sarebbe stabilito sulle coste nordafricane (la Libia di cui parla Tacito). A cercare conferma di questo mito, Tacito si sofferma su alcune considerazioni onomastiche: «Ciò si argomenta dal nome: in Creta v’è un monte celebre di nome Ida, e gli abitanti vicini, detti Idei, furono poi chiamati comunemente Giudei». I Giudei sarebbero dunque gli antichi abitanti cretesi della regione dell’Ida.
C’erano anche altre ipotesi sull’origine di Gerusalemme e dei suoi abitanti: «Alcuni dicono che sotto il regno di Iside la popolazione sovrabbondante in Egitto si sia riversata nelle terre vicine, sotto la guida di Ierosolimo e di Giuda; i più li credono discendenza degli Etiopi, che ai tempi del re Cefeo [padre dell’eroina Andromeda salvata da Perseo] furono spinti da paura e da odio a mutar di sede». Non mancava neppure un’ipotesi secondo la quale «i Giudei ebbero origini illustri: i Solimi [mitici discendenti di Zeus e di Calcedonia], gente celebrata nei carmi di Omero, avrebbero fondato una città e le avrebbero dato il nome di Gerusalemme, derivato dal proprio» (Tacito, Storie, V, 2). Le ipotesi etimologiche formulate da Tacito per il nome di Gerusalemme e per quello dei Giudei sono non meno fantasiose dei racconti mitici sull’origine della città e dei suoi abitanti.
GHIREE o GIREE, RUPI, in gr. Gyrài, -òn o Gyràie pètre. Gruppo di scogli del mar Egeo, forse collocati nei pressi dell’isola di Mykonos. Di difficile identificazione, sono descritti nell’Odissea in relazione con la fine dell’eroe greco Aiace locrese: «Aiace con le navi lunghi remi è perito: prima alle rupi Ghiree l’accostò Poseidone, rupi immani, e l’aveva salvato dal mare. E sfuggiva alla Chera […] se non diceva superba parola: molto fu cieco. Disse d’aver sfuggito a dispetto dei numi l’abisso grande del mare». Poseidone lo udì «e subito allora afferrando il tridente con mano gagliarda colpì la rupe Ghirea e la spezzò in due». La rupe si divise: una parte rimase al suo posto, l’altra, dove si trovava Aiace, precipitò in mare, trascinandolo con sé nell’abisso (Odissea, IV, 500 ss.). Il nome significa letteralmente «scogli rotondi».
GIAFFA Città costiera della Giudea, chiamata dai Latini Iope (Ioppe). La tradizione semitica ne faceva una fondazione di Jafet, figlio di Noè; quella greca diceva che a fondarla fosse stata una figlia di Eolo. Secondo Plinio vantava origini antichissime e già esisteva prima del grande diluvio che sommerse il mondo e dal quale si salvarono solo Deucalione e Pirra. Al suo territorio erano collegati alcuni miti molto noti del mondo greco. Una leggenda raccontava che sulla città regnò un tempo Cefeo, cosa che appariva confermata dal fatto che sul posto numerosi altari recavano inscritto il suo nome e quello del fratello di lui Fineo (Pomponio Mela, Corografia, I, 64). Cefeo era il padre di Andromeda, la bellissima eroina che venne salvata da un mostro marino grazie all’intervento di Perseo; si diceva che lo scheletro del mostro al quale la ragazza era stata esposta fosse stato trovato proprio a Giaffa e fosse poi stato portato a Roma dall’edile M. Scauro (Plinio, Nat. Hist., IX, 11). Su una rupe di fronte alla città, dicono le stesse fonti, erano ancora visibili i resti delle catene che tennero legata Andromeda quando venne liberata da Perseo (per i particolari di questo mito, che era variamente ambientato dalle fonti antiche, v. ETIOPIA). A Giaffa sgorga una sorgente di color rosso, la cui acqua non si distingue in nulla dal colore del sangue: si diceva che avesse assunto quel colore dal sangue della Chimera, che Perseo si lavò via dalle mani e dal corpo dopo averla uccisa (Pausania, IV, 35, 9). Nella stessa città esisteva secondo Plinio anche un culto molto radicato di una dea orientale, Ceto, figlia del mare e della Terra, sorella di Forco e madre di diverse creature mostruose, come le Graie, le Gorgoni e il mostro che custodiva i pomi delle Esperidi; il nome della dea, in greco, era lo stesso della «balena» (Plinio, Nat. Hist., V, 69). Forse nelle vicinanze, o in un altro luogo imprecisato della Giudea, scorreva un torrente che aveva la caratteristica di prosciugarsi ogni sabato (ibid., XXXI, 18).
GIAMBULO, ISOLA DI Isola d’incerta identificazione e collocazione, collegata alla figura di Giambulo (Iàmboulos), un mercante di età ellenistica, forse di origini nabatee, che secondo Diodoro Siculo (II, 56-60) fu anche narratore e raccontò di un suo favoloso viaggio in una remotissima isola dell’Oceano Australe. Dal suo racconto, difficilmente databile con precisione (ma scritto probabilmente tra I e III secolo d.C.), si apprende che egli, dapprima catturato in Arabia da alcuni predoni, passò poi nelle mani degli Etiopi, i quali lo gettarono in mare. Gli Etiopi avevano infatti una consuetudine religiosa particolare: ogni venti generazioni, o ogni seicento anni, secondo un oracolo divino dovevano compiere un rito di purificazione, che consisteva nell’abbandonare sulle onde, su una piccola imbarcazione provvista di generi di prima necessità per una durata di sei mesi, due uomini: essi dovevano fare rotta verso sud e affidarsi alla sorte. Giambulo fu uno di questi due uomini; dopo una lunga navigazione e molte avventure approdò infine a un’isola della quale non ci viene detto il nome, che si è cercato di identificare ora con Ceylon, ora con Bali o Giava, o ancora con Sumatra, abitata dagli Eliopoliti adoratori del Sole e chiamata anche Isola del Sole o Isola Incognita. L’organizzazione dell’isola, basata su concezioni filosofiche cinico-stoiche, prevedeva un regime di tipo comunistico e gerontocratico; la popolazione era suddivisa in gruppi di 400 persone, guidati dagli anziani del gruppo. La comunanza di beni, di figli, di sposi e di affetti scongiurava il pericolo di reciproche rivalità, gelosie e guerre intestine; i bambini erano educati al di fuori della famiglia, in comunità; gli adulti, dal corpo armonioso e dalle membra straordinariamente elastiche e flessibili, dotati di una voce melodiosa che sapeva imitare il canto di tutti gli uccelli e di una lingua divisa in due che permetteva loro di tenere due conversazioni o due discorsi simultaneamente, sopravvivevano a lungo, fino a centocinquanta anni, senza conoscere le malattie, ma quando diventavano non autosufficienti, o se subivano per qualsiasi ragione una qualsivoglia menomazione fisica, erano tenuti a darsi la morte con le loro stesse mani. La durata della loro vita poteva essere definita in anticipo, e quando il loro tempo era scaduto essi si suicidavano in un modo singolare, sdraiandosi su un tappeto di un’erba particolare che cresceva nelle loro terre, che li faceva dolcemente addormentare trapassando insensibilmente dal sonno alla morte. I bambini, poi, erano sottoposti a una dura selezione che, sotto forma di una sorta di rito di iniziazione, lasciava sopravvivere solo quelli più robusti. Si diceva che se gli uomini mandati dagli Etiopi fossero riusciti a raggiungere l’isola, gli Etiopi stessi avrebbero potuto godere di un periodo di seicento anni di pace e di prosperità. Se invece gli inviati, spaventati dall’immensità del mare, avessero fatto ritorno in preda alla paura, le più terribili punizioni si sarebbero abbattute su di loro. Dopo essere vissuti per sette anni in quell’isola meravigliosa e remota, e averne conosciute le usanze, le bellezze, gli incredibili e misteriosi animali e la singolare popolazione, Giambulo e il suo compagno furono però scacciati contro la loro volontà, «come dei malfattori allevati nel vizio» (Diodoro, II, 60,1), e dopo una nuova avventurosa navigazione approdarono in India, dove solo Giambulo sopravvisse e fu ospitato dal re indiano a Palibothra (Patna), la capitale di quel regno.
L’immaginario Stato visitato da Giambulo fu tenuto presente da Moro e da Campanella nell’elaborazione delle loro utopie. La storia della navigazione di Giambulo contenuta nel testo di Diodoro Siculo fu letta da Giovanni Battista Ramusio, forse in un manoscritto greco della Biblioteca Marciana di Venezia, verosimilmente tenendo presente anche la traduzione latina di Poggio Bracciolini, e inserita nelle Navigazioni e viaggi con il titolo La navigazione di Iambolo mercatante, dai libri di Diodoro Siculo, tradotta di lingua greca nella Toscana. Nella traduzione del Ramusio, l’isola era di forma «ritonda, di cinquemila stadi di circuito»; gli abitanti «nella grandezza avanzano i nostri quattro cubiti. Le loro ossa si piegano alquanto e poi ritornano, a similitudine dei luoghi nervosi; hanno i corpi molli oltra misura […], belli e graziosi». Essi «abitano nei prati, producendo la terra da se stessa, senza esser coltivata, gran copia di frutti per il vivere». E l’isola è ricca di acque termali, «di molto giovamento alla sanità». Nel commento che segue alla descrizione della navigazione di Giambulo compresa nell’opera del Ramusio si legge la proposta di identificazione dell’isola con Sumatra, «la qual veramente è la Taprobane, discoperta a’ giorni nostri», isola di grandi dimensioni ricordata tra gli altri da Strabone (Geografia XV, 1,15) e Plinio (Nat. Hist., VI, 22; più spesso Taprobane è identificata con Ceylon).
GIANNUTRI Isolotto del mar Tirreno di fronte a Cosa, in Etruria, in provincia di Grosseto. Per la sua forma di mezzaluna era chiamata dai Greci Artemisia, o isola di Artemide, dea identificata con la luna, e dai Romani Dianium (dal nome latino di Artemide, Diana).
GIARDINI NAXOS v. NASSO.
GIARO, in gr. Garos. Isola greca delle Cicladi che secondo la mitologia contribuì, insieme con Mykonos, a fissare in una posizione stabile, per intervento di Apollo, l’isola di Delo, sacra al dio, che in precedenza era invece mobile e in perenne fluttuare sulle acque (per i particolari v. DELO). Giaro è menzionata inoltre come punto di riferimento di un viaggio di Atena da Serifo all’Elicona (Ovidio, Metamorfosi, V, 252). L’isoletta è ricordata dallo stesso Ovidio anche come uno dei regni dei quali Minosse si vuole assicurare l’appoggio per scendere in guerra contro Atene dopo che suo figlio Androgeo proprio ad Atene ha trovato la morte (ibid., VII, 470); essa rifiuta però di allearsi con il re cretese. Si diceva che un tempo la popolazione di Giaro fosse stata cacciata dall’isola dai topi (Plinio, Nat. Hist., VIII, 104): i roditori misero in fuga gli abitanti e distrussero ogni cosa, rosicchiando anche il ferro (ibid., VIII, 222).
GIBILTERRA v. CALPE.
GIGEA, PALUDE Palude situata nella Lidia settentrionale, che deriva il suo nome dal mitico sovrano Gige (per il quale v. LIDIA e SARDI). Si riteneva che vi abitasse Tifone (Licofrone, Alessandra, 1353) ed era chiamata «bagno di Onfale» (Properzio, III, 11, 17) con riferimento alla regina lidia di questo nome, presso la quale Eracle soggiornò a lungo come schiavo, abbandonandosi alla mollezza e, si diceva, vestendosi da donna e tessendo al posto suo, mentre Onfale portava la pelle di leone e la clava dell’eroe.
GINDE, in gr. Gndes. Fiume dell’Asia antica corrispondente all’odierno Dijali, affluente del fiume Tigri della Mesopotamia. Sulle sue rive è ambientato un episodio probabilmente arricchito di elementi leggendari che viene raccontato da Erodoto. Ciro, re dei Persiani, durante la sua spedizione contro Babilonia tentò un giorno di attraversare il fiume con il suo esercito e il suo seguito, di cui facevano parte dei cavalli bianchi considerati sacri, alcuni dei quali trainavano un carro vuoto consacrato al dio che Erodoto chiama Zeus. Uno di questi cavalli venne travolto dalla corrente del fiume; Ciro allora, sdegnandosi «contro il fiume che aveva commesso questo oltraggio», lo minacciò «di renderlo così debole che in futuro perfino le donne avrebbero potuto guadarlo facilmente senza bagnarsi le ginocchia». Proferita questa minaccia, «fece segnare, mediante funi tese, il tracciato di centottanta canali, rivolti in ogni direzione, su ciascuna sponda del Ginde; poi dispose opportunamente i soldati e ordinò loro di scavare». In tal modo la corrente del fiume, diluita in quell’innumerevole serie di bracci secondari, perse la sua forza (I, 189). Seneca riprende il racconto precisando che i canali scavati furono trecentosessanta e lasciarono il fiume «in secco al defluire dell’acqua nelle varie direzioni»; ma così facendo il sovrano «fiaccò con una fatica inutile l’ardore dei soldati e perdette l’occasione di assalire impreparati i nemici, e tutto ciò per combattere contro un fiume la guerra che aveva dichiarato al nemico» (De ira, III, 21).
GIORDANO, in lat. Iordanes o Iordanis. Fiume della Palestina che sfocia nel Mar Morto dopo aver percorso una delle depressioni più profonde della crosta terrestre. Citato a più riprese nella Bibbia, che vi ambienta numerosi episodi, tra i quali il battesimo di Gesù, è ricordato talora anche dalle fonti classiche in relazione con la mitologia. Secondo Flavio Giuseppe (Guerra giudaica, III, 10, 7 e I, 21, 3) la sorgente del fiume, situata nella valle della Bekaa, in Libano, era chiamata Fiale, ossia, in greco, «coppa», a cagione della sua forma. Benché l’identificazione con il fiume Giordano sia tutt’altro che certa, e anzi susciti non poche discussioni tra gli studiosi, è suggestivo il fatto che Nonno di Panopoli (Dionisiache, XIX, 300-301) colleghi a una coppa il mito del fiume Sileno, un corso d’acqua non precisamente identificato ma che alcuni hanno voluto individuare appunto nel Giordano, il quale sarebbe nato dalla metamorfosi di Sileno, trasformato per intervento di Dioniso in corso d’acqua. Durante i giochi funebri che vengono organizzati, in Cilicia, in onore di Stafilo, il re locale appena defunto, Sileno intreccia infatti danze e pantomime che si concludono con la sua metamorfosi: «egli si trasforma in fiume: il suo corpo fa scaturire l’acqua in ruscelli spontanei, mentre la sua fronte si altera e dai suoi corni zampillano dei getti ricurvi […], il suo ventre s’incava riempiendosi di pesci […], la sua capigliatura si trasforma in canneto», e nelle sue acque viene gettato un cratere d’argento, premio riportato da Sileno (Nonno, XIX, 287-301), dal quale deriva la denominazione di «cratere» o «coppa» che viene data al luogo.
Per altri aspetti e miti relativi al fiume Giordano v. anche ASFALTIDE.
GIOÙHTAS Monte dell’isola di Creta, a una ventina di chilometri dalla capitale Heraklion. Con i suoi ottocento metri circa di altezza e il suo tipico profilo, che può ricordare, con un po’ di fantasia, quello di un uomo addormentato, esso ha favorito la nascita della leggenda secondo la quale qui si troverebbe la tomba di Zeus: addirittura, il monte sarebbe il dio stesso che giace defunto. La tradizione si spiega con la ricchezza di legami che l’isola di Creta ha con il dio Zeus, che qui avrebbe avuto i natali, sul monte Ida o nell’antro Ditteo, che qui sarebbe giunto dopo aver rapito Europa e che qui avrebbe generato Minosse, Radamanto e Sarpedonte (v. CRETA).
GIRTONE, in gr. Gyrtòne. Località della Grecia, nella Pelasgiotide tessala ma di difficile identificazione (forse Salambria?), ricordata nell’Iliade tra quelle che parteciparono alla guerra di Troia: nel Catalogo delle navi si dice che le sue truppe erano capeggiate da Polipete e da Leonteo. Definita da Apollonio Rodio nelle Argonautiche «la ricca Girtone» (I, 57), era la patria di Ceneo, che era originariamente una donna, ma che Poseidone trasformò in uomo invulnerabile; durante la guerra che contrappose il suo popolo (i Lapiti) ai Centauri egli venne conficcato nella terra dai Centauri stessi: «scese in seno alla terra, violentemente percosso da pini robusti» (ibid., I, 63-64). Da Girtone proveniva anche Corono, figlio di Ceneo, che prese parte alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro. La storia di Ceneo, prima donna e poi uomo, viene raccontata con maggiori dettagli da Ovidio nelle Metamorfosi (XII, 189 ss.; al v. 479 Ceneo è detto originario di Fille, città della Tessaglia): figlia di Elato e in origine chiamata Ceni, era la più bella fanciulla della Tessaglia, e naturalmente aveva frotte di pretendenti. Ceni in verità non voleva sposare nessuno, ma un giorno, mentre passeggiava su una spiaggia, fu vista dal dio del mare, Nettuno, e da lui aggredita. Invaghitosi di lei, Nettuno le assicurò che le avrebbe concesso tutto ciò che avesse desiderato, e Ceni formulò una richiesta precisa: «L’oltraggio che ho patito mi fa scegliere il massimo: che mai più debba subire un tale affronto. Fa’ che io non sia più femmina e mi avrai dato tutto». Così la bellissima Ceni si trasformò nel possente Ceneo, che trovò la sua fine durante la Centauromachia: su di lui vengono scaraventate rocce e tronchi d’albero, intere montagne vengono private delle loro foreste per seppellirlo («in pochi istanti l’Otri si trovò privo di piante e il Pelio non ebbe più un filo d’ombra», ibid., XII, 512-513) ma l’esito del combattimento resta incerto: Ceneo è sì sepolto sotto un cumulo di massi e di tronchi, e forse è sprofondato nel Tartaro, ma alcuni dicono di aver visto uscire da quella catasta immensa un uccello, ultima metamorfosi dell’eroe.
Tra i sovrani mitici della città si ricordavano Piritoo e Issione (Strabone, VII, fr. 14 e 15a): il primo, re dei Lapiti e vincitore dei Centauri, era figlio del secondo, che per aver tentato di violare Era venne condannato a un’inestinguibile pena negli Inferi.
GIUTURNA, in lat. Iuturna. Con questo nome, che veniva fatto derivare da «giovane» (Servio) e che indicava una Ninfa associata ai Dioscuri, veniva indicata una sorgente che si trovava presso il NUMICO (v.). Un’altra fonte con lo stesso nome sgorgava nel Foro Romano, presso il tempio dedicato a Vesta, e secondo la leggenda i due Dioscuri, Castore e Polluce, dopo la battaglia del Lago Regillo vi furono visti mentre vi abbeveravano i cavalli (Ovidio, Fasti, I, 707 ss.; Plutarco, Coriolano, 3, 4; Dionigi di Alicarnasso, II, 13; Properzio, III, 22, 26; v. anche REGILLO, LAGO). Nell’Eneide (XII, 138 ss.), personificata, la ninfa Giuturna, «la dea che protegge gli stagni e i fiumi sonori», è la sorella di Turno, il re dei Rutuli ostile a Enea, e combatte attivamente al fianco del fratello.
GIZAH Nella letteratura greca e latina, la celebre località dell’Egitto dove si trovano le piramidi più famose del mondo non è, in senso stretto, teatro di eventi mitici, poiché tutto, di quelle costruzioni straordinarie, appartiene alla storia e non alla leggenda; tuttavia proprio la straordinarietà di quegli edifici alimentò nel tempo dicerie e fantasie sul loro conto, in particolare suscitate dal fatto che già in antico non si riusciva a rendersi conto di come simili imponenti montagne di pietra avessero potuto essere erette e si fossero conservate nel tempo. La meraviglia con cui si guardava alle piramidi egizie è ben sintetizzata nelle parole di Diodoro Siculo: «Per le loro dimensioni e la qualità della loro architettura colpiscono lo spettatore riempiendolo di stupore e di ammirazione». Esse sono costruite «di pietra dura, difficilissima da lavorare, ma che dura per l’eternità. Infatti, benché siano passati non meno di mille anni, a quanto si dice, fino a oggi, e addirittura, secondo alcuni autori, più di tremilaquattrocento anni, le pietre conservano integralmente fino ai nostri giorni la loro disposizione primitiva e la loro sistemazione senza la minima alterazione». La meraviglia coinvolgeva non soltanto la conservazione perfetta, ma anche le tecniche di costruzione: «Si dice che questa pietra sia stata portata dall’Arabia per una grande distanza e che sia stata messa in opera mediante delle terrazze, perché a quell’epoca non erano ancora state inventate le macchine adatte all’uopo. E la cosa più straordinaria è che, malgrado l’enormità della costruzione e il fatto che i dintorni siano coperti di sabbia, non sussiste alcuna traccia né della terrazza né del taglio delle pietre, tanto che questa costruzione sembra non già dovuta a un lungo lavoro umano, bensì messa in opera in un solo colpo da una qualche divinità in mezzo alle sabbie circostanti» (Diodoro Siculo, I, 63, 3-9). Così, a parte a un accenno all’opera degli dèi, le piramidi troneggiano tutto sommato nel deserto come monumento alla grandezza dell’uomo più che come spunto per straordinari racconti del mito; anche se non mancarono fin dall’antichità ipotesi fantasiose circa la loro destinazione, come quella secondo la quale la più piccola delle piramidi di Gizah sarebbe stata eretta in onore della cortigiana Rodope dai numerosi sovrani e funzionari che ne furono gli amanti (ibid., I, 64, 14); ipotesi che tuttavia Erodoto smentisce vigorosamente. Nel racconto erodoteo gli immensi costi e la grande quantità di tempo necessari per costruire la piramide maggiore di Gizah sarebbero una conferma della crudeltà del faraone Cheope, il quale sottopose i suoi sudditi ad angherie indicibili e inoltre, per raccogliere la somma necessaria, non esitò a far prostituire la figlia; quest’ultima, in sovrappiù, ai suoi amanti chiedeva anche che le portassero una pietra per poter edificare a sua volta una piccola piramide per sé (Erodoto, II, 124-126). Anche la piramide di Chefren, che succedette a Cheope, sarebbe stata secondo Erodoto frutto di soprusi sulla popolazione; mentre una maggior saggezza caratterizzò il terzo dei sovrani sepolti nelle piramidi di Gizah, Micerino. Alle piramidi riserva qualche accenno anche Tacito: «innalzate a gara dalla opulenza dei re, quasi montagne, fra sabbie disgregate ed a stento praticabili» (Annali, II, 61). E Plinio sembra citarle quasi con rammarico, ricordando che le loro sommità sono visibili anche dal mare e proponendo una singolare spiegazione delle ragioni della loro edificazione: «È necessario parlar di passaggio anche delle piramidi egiziane, vana e stolta ostentazione di ricchezza di quei re, in quanto la causa della loro costruzione fu, come da molti si racconta, di non voler serbare il denaro agli eredi, o agli invidiosi rivali, oppure di non lasciare il popolo ozioso» (Nat. Hist., XXVI, Appendice, 75).
GIZIO, in gr. Gýtheion, in lat. Gythium. Località della Laconia posta sulla riva del mare e porto di Sparta, fondata secondo la leggenda da Eracle e Apollo. L’eroe e il dio erano venuti a contesa a Delfi, dove Eracle si era recato per interpellare l’oracolo a proposito di una malattia che lo aveva colpito; la Pizia non volle esprimere il responso, e allora Eracle si accinse a devastare il santuario, cominciando col sottrarre il tripode che simboleggiava le virtù oracolari del dio e della sua sacerdotessa (la Pizia pronunciava i vaticini seduta proprio sul tripode, per il quale v. anche DELFI). Apollo in persona intervenne, e ne nacque una contesa placata soltanto dall’intervento di Zeus, che scagliò il suo fulmine. Per celebrare la rappacificazione i due contendenti fondarono Gizio (Pausania, III, 21, 8). Non lontano dalla città si trovava una pietra sulla quale Oreste, sedutosi, venne liberato dalla sua pazzia: per questo la pietra era chiamata Zeus Cappota, che con vocabolo dorico significherebbe secondo alcune fonti «Zeus che fa cessare», in questo caso, appunto, la pazzia (ibid., III, 22, 1). Il termine viene però più comunemente messo in relazione con la radice pipt-, che significa «cadere», e potrebbe riferirsi a una pietra «caduta» dal cielo, cioè un meteorite che veniva venerato come simbolo divino.
GLANUM Oggi St. Rémy de Provence, era una città della Gallia Narbonense, sita nell’area occupata dalla popolazione dei Salluvii. Il mito ricordava che nei pressi si trovava una sorgente sacra e vi sorgeva un santuario dedicato alle Matrone, divinità femminili assai venerate nel mondo celtico, e a Glan, una divinità locale della quale poco si sa.
GLESARIA, in lat. Glaesaria. Isola dell’Oceano settentrionale che si riteneva ricca di ambra; il suo nome era collegabile al germanico glaesum, che indicava appunto l’ambra. Secondo Plinio (Nat. Hist., IV, 97) era «così chiamata dai soldati [romani] per la sua ambra, ma nota tra i barbari come Austeravia o anche Actania». Per i miti relativi all’ambra v. ERIDANO.
GLISANTE, in gr. Glìsas, -antos. Località della Beozia dove Egialeo, figlio di Adrasto, cadde durante il primo scontro che contrappose Argivi e Tebani durante la mitica guerra dei Sette contro Tebe (Pausania, I, 44, 4).
GOLFO NERO, in gr. Mèlas pòntos. Golfo del mar Egeo situato a sud della Tracia, attraverso le cui «acque profonde» (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 922) passa la nave Argo per condurre gli Argonauti, capeggiati da Giasone, alla ricerca del vello d’oro nella remota Colchide.
GONOESSA, in gr. Gonòessa. Città della Grecia ricordata per la prima volta in un’opera letteraria nel Catalogo delle navi dell’Iliade (II, 573), che elenca gli eserciti schierati dai Greci nella guerra di Troia. Fa parte dei possedimenti di Agamennone.
GORDIO, in gr. Gòrdion. Città dell’Asia Minore, capitale della Frigia, situata sulle rive del fiume Sangario lungo la strada che congiungeva Pessinunte con Ancyra, Ankara. Derivava il nome da un eroe eponimo, Gordio, che fu il primo re della Frigia e vi pose la propria residenza; si diceva che fosse stata anche la sede del mitico re Mida, suo figlio (per il quale v. FRIGIA). Quando, durante la sua spedizione in Asia contro il regno di Persia, Alessandro Magno giunse a Gordio (nel 333 a.C.), gli venne mostrato un celebre cocchio, custodito nel tempio di Zeus sull’acropoli della città, che secondo la tradizione era lo stesso carro sul quale Mida era entrato a Gordio quando era stato scelto dai Frigi come loro re. Il cocchio era legato da una corteccia di corniolo mediante un nodo divenuto poi proverbiale, e Alessandro «fu informato della tradizione diffusa tra i barbari secondo la quale chi ne avesse sciolto il nodo sarebbe diventato il re del mondo». Anche se qualcuno dice che sciogliere il nodo di Gordio – cosa che naturalmente Alessandro si accinse immediatamente a fare – fu facile, perché egli sfilò per prima cosa dal timone del carro quella parte che si chiama spina e che teneva stretto il giogo, la maggior parte degli storici racconta invece che Alessandro, non riuscendo dopo svariati tentativi nell’impresa, lo recise seccamente con un colpo di spada (Plutarco, Alessandro, 18, 2-4). E anche se forse non era stato il modo più ortodosso per assecondare la tradizione, i tuoni e i fulmini che durante la notte si scatenarono nel cielo sembrarono confermare l’assenso divino all’operato di Alessandro (Arriano, Anabasi di Alessandro, II, 3, 7-8).
A proposito dell’origine del carro, esistevano tradizioni diverse. Una di queste raccontava che esso apparteneva a Gordio, un povero abitante della Frigia, che con quel carro e due coppie di buoi arava i suoi campi. Un giorno, mentre arava, un’aquila si era posata sul giogo e vi era rimasta fino all’ora di sciogliere i buoi. Gordio, impressionato, aveva voluto consultare su quel singolare evento gli abitanti della località di Telmesso, che godevano fama di essere abili indovini, e mentre si recava in un villaggio dei Telmessi aveva rivelato la sua esperienza a una giovane donna che stava andando ad attingere l’acqua al pozzo e che, come tutti i suoi concittadini, aveva virtù profetiche. La ragazza gli aveva consigliato di tornare nel medesimo punto dove il prodigio si era verificato e di offrire lì un sacrificio a Zeus re; e poiché Gordio desiderava avere maggiori delucidazioni sulle modalità del sacrificio, i due si recarono insieme sul posto. Gordio aveva poi sposato la ragazza e ne aveva avuto un figlio, il futuro re Mida. Anche le modalità per cui Mida era divenuto re di Frigia avevano del prodigioso: egli si era trovato a entrare in città proprio nel momento in cui gli abitanti della regione, dilaniati dalle guerre civili, discutevano su come trovare una soluzione ai problemi interni, e in particolare su come interpretare un oracolo secondo cui un carro avrebbe portato loro un re capace di sedare ogni controversia. L’apparizione improvvisa di Mida davanti all’assemblea, ritto sul suo carro, sembrò l’avverarsi dell’oracolo, e Mida fu proclamato re; egli collocò allora il carro del padre sull’acropoli, come ringraziamento in onore di Zeus (Arriano, Anabasi di Alessandro, II, 3, 3-6). Quando Alessandro lo vide, «tale carro non differiva nell’aspetto da quelli di minor prezzo e di uso comune; quel che era invece degno di nota era il giogo, legato con molti nodi avviluppati fra loro così strettamente da nascondere i capi dell’intreccio» (Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, III, 1, 14-15).
GORGADI Isole sulle quali vivevano le Gorgoni, creature mostruose con il capo coperto, anziché di capelli, di orribili serpenti. Secondo le Etimologie di Isidoro di Siviglia, che riprende fonti più antiche tra le quali Plinio (Nat. Hist., VI, 200), le Gorgadi sono «isole dell’Oceano situate di fronte al promontorio chiamato Hespèrou Kèras, ossia Corno Occidentale», e «distano dal continente due giorni di navigazione» (ibid., XIV, VI, 9). L’Oceano al quale Isidoro fa riferimento è il mitico fiume che circonda l’intera terra e che delimita i confini del mondo. La stranezza degli abitanti delle isole è ricordata da Plinio, secondo il quale il generale cartaginese Annone, che si spinse su quei lidi, notò che «i corpi delle loro donne erano ricoperti da una fitta peluria; gli uomini invece erano riusciti a fuggire grazie alla loro velocità». Per suscitare la curiosità dei suoi concittadini Annone depose nel tempio di Giunone a Cartagine le pelli di due indigene delle Gorgadi, che vi rimasero esposte fino a che la città non fu presa dai Romani (Plinio, Nat. Hist., VI, 200). Per Plinio le donne irsute erano da assimilare alle Gorgoni mitiche a tutti gli effetti. La tradizione è ricordata anche da altre fonti, tra le quali Pomponio Mela, che riferisce come le donne dell’isola, «senza unirsi a uomini, diventino da se stesse feconde», e come la loro indole sia estremamente selvaggia (III, 9, 93). Lo stesso autore trascrive il nome delle isole come Dorcadi. Si diceva anche che le donne fossero chiamate Gorillai, verosimilmente una trascrizione dalla versione greca di «Gorgadi».
GORGONA La più piccola e la più settentrionale delle isole dell’Arcipelago Toscano. Gli antichi la chiamavano variamente: compare con il nome di «Urgo» in Plinio (Nat. Hist., III, 81), di «Orgon» in Pomponio Mela, in altre fonti come «Gorgona», con riferimento al mito della Gorgone i cui occhi pietrificano chi la guarda. La Gorgone, con il capo coperto di serpenti, secondo la mitologia era stata uccisa da Perseo che ne aveva poi fatto dono ad Atena; la dea la portava al centro del proprio scudo. Rutilio Namaziano, nel suo poema De reditu suo, menziona l’isola alludendo alla mitica Gorgone e ricorda che vi abita un ignoto monaco, immerso nella più completa solitudine, contro il quale il poeta lancia i suoi strali (I, 515-528).
GORTINA, in gr. Gòrtyna. Il nome indica diverse località della Grecia. La più nota era una città dell’isola di Creta, che la storia conosce per i suoi resti archeologici e per le sue importantissime leggi, conservate in una grande iscrizione scoperta nel 1884; per la mitologia Gortina era famosa perché vi si ammirava, presso una fonte, un platano grandoso, che aveva la particolarità di non perdere mai le foglie neppure in inverno; per questo motivo si riteneva che la sua natura fosse diversa da quella di tutte le altre piante della stessa specie e che sotto le sue fronde si fosse riparato Zeus quando rapì, assumendo le sembianze di un toro, la bella Europa, trasportandosela in groppa fino ai piedi di quella pianta (Plinio, Nat. Hist., XII, 11). Dall’unione di Zeus e di Europa, lì avvenuta, sarebbe nato Radamanto, che a sua volta generò Gortys, l’eroe che diede il suo nome alla città (e che altre fonti volevano invece di origine arcade e fratello di Cidone, il fondatore di Cidonia). A Gortina si mostrava anche la fonte alla quale Europa si era fermata e aveva fatto il bagno (Pausania, IX, 5, 8).
Si raccontava poi che, durante il viaggio di ritorno degli eroi greci dalla guerra di Troia, una parte della flotta di Menelao vi fu sbattuta tra le rocce a seguito di una tempesta scoppiata per volere di Zeus in prossimità del capo Maleo (Odissea, III, 294). Nella descrizione di Omero, all’imboccatura del porto di Gortina si trovava una rupe alta e liscia, su cui si fracassarono le navi di Menelao. Solo cinque imbarcazioni scamparono alla burrasca e furono sospinte dalle onde fino all’Egitto. Tra i compagni di Menelao non ci furono vittime, anche se gran parte delle navi andarono perdute; e gli eroi vagarono a lungo tra quelle terre straniere, a Creta e in Egitto, non senza accumulare ori e tesori.
Un altro mito raccontava che originaria di Gortina era Britomarti, una Ninfa figlia di Zeus, che Artemide aveva particolarmente cara e che venne da questa trasformata in una stella. Di lei, «cacciatrice di buona mira», si innamorò un giorno follemente Minosse, che per nove mesi si pose sulle sue tracce, «girando tra costoni e rupi, e non sospese mai l’inseguimento, finché, quasi raggiunta, ella nel mare balzò da un alto scoglio e nelle reti dei pescatori andò a cadere in salvo» (Callimaco, Inni, III, 189 ss.). Il monte dal quale Britomarti si era gettata venne chiamato Ditteo, e Dittinna fu l’epiteto con il quale venne indicata la Ninfa: il toponimo e l’epiteto erano spiegati con riferimento alla rete dei pescatori che in greco si chiama dìktyon; l’epiteto di «Dittinna» era attribuito indifferentemente a Britomarti o ad Artemide, anche se in origine rappresentava verosimilmente il nome di una divinità locale indipendente da entrambe (v. anche CRETA). forse in relazione con il culto di Artemide cacciatrice, le «frecce di Gortina» godevano di grande fama (Virgilio, Eneide, XI, 773) e sono rievocate da Silio Italico (Guerra Punica, II, 90-91).
Una diversa Gortina si trovava presso Megalopoli, in Arcadia, ed era sede di un oracolo di Apollo (Antonino Liberale, Metamorfosi, XXV).
GRAN BRETAGNA v. BRITANNIA.
GRANICO, in gr. Grànikos o Grènikos. Fiume della Troade, che scaturisce dal monte Ida ma che la mitologia riteneva nato dall’unione di Oceano, il fiume che circondava con le sue acque l’intera terra, e Teti, figlia di Urano e Gea (Esiodo, Teogonia, 337-342). Per il prodigioso ingrossamento delle acque del fiume ricordato nell’Iliade (XII, 19-21) v. IDA. Dal dio fluviale Granico sarebbe nata Alessiroe, eroina che dal re di Troia Priamo generò Esaco; questo giovane principe troiano amava poco la vita cittadina e trascorreva gran parte del suo tempo «lontano dallo sfarzo della reggia, sui monti, in campagne senza pretese, e solo di rado veniva a Troia per qualche assemblea». Nonostante il suo isolamento, Esaco era però tutt’altro che rozzo, e molto sensibile all’amore. Innamoratosi, infatti, della ninfa Esperia, cercò di sedurla, ma durante un inseguimento nel quale tentava di sfuggirgli, la bellissima giovane venne punta al piede da un serpente e morì. La disperazione colse allora Esaco, che, sentendosi responsabile dell’accaduto, non volle più vivere: «da una rupe, corrosa ai piedi dallo scrosciare dei flutti», cercò la morte gettandosi in mare. La ninfa marina Teti ebbe pietà di lui e lo soccorse al volo, trasformandolo in un uccello; «così la morte tanto sospirata non gli fu concessa». Con le nuove ali spuntategli sulle spalle, allora, Esaco cercò nuovamente di togliersi la vita alzandosi in volo e gettandosi a capofitto in mare: ma era diventato uno smergo, un uccello che ha appunto la caratteristica di tuffarsi in profondità nelle acque, «e il suo nome, smergo, è tale perché vi si immerge». Il mito è raccontato da Ovidio (Metamorfosi, XI, 762-795). Presso le acque del Granico era nato, secondo un’altra tradizione, un eroe di nome Atimnio, figlio di una Ninfa e di Emazio, che fu ucciso durante la guerra di Troia per mano di Ulisse (Quinto Smirneo, III, 300-302). La maggior fama del Granico è legata però non alla mitologia, bensì alla vittoria che sulle sue sponde, nei pressi dell’attuale Bigha, Alessandro riportò sui Persiani nel 334 a.C., dando inizio alla sua gloriosa campagna d’Oriente.
GRAVINA DI PUGLIA v. SILVIO.
GRAVISCA Antica città dell’Etruria, oggi in Lazio, nel territorio di Tarquinia, che la mitologia ricorda perché si schierò dalla parte di Enea quando questi, sbarcato in Italia, dovette affrontare in guerra i popoli latini locali (Virgilio, Eneide, X, 184). Il toponimo era variamente interpretato, ma sempre messo in relazione con il clima ritenuto insalubre della città, sul quale si soffermano Virgilio (che parla della «malsana Gravisca»), Rutilio Namaziano (I, 281 ss.) e Servio; per quest’ultimo il nome si spiegherebbe appunto per l’insalubrità dell’aria (quod gravem aerem sustinet, da cui Gravisca).
GRECIA La regione, che in greco era chiamata Hellàs, si estendeva nell’antichità sul territorio della penisola balcanica meridionale con le isole dell’Egeo e Creta (ossia sull’area corrispondente all’odierno Stato greco), e sulle coste occidentali dell’Asia Minore (oggi in Turchia); a seconda dei periodi, di questo territorio venne talvolta considerata parte anche la Macedonia, mentre abbastanza concordemente si riteneva che il cuore del paese fosse rappresentato, almeno nelle epoche più remote, dal Peloponneso (Strabone definiva il Peloponneso «acropoli della Grecia»). Nei tempi più antichi però mancava una netta percezione dei confini nel senso che oggi diamo al termine; e Hellàs nei poemi omerici indicava esclusivamente la patria degli Achei, gli eroi che partirono per Troia, dai limiti incerti e corrispondente forse a una porzione della Grecia centrale. Più tardi, con la colonizzazione greca, l’Italia meridionale grecizzata venne definita Megàle Hellàs, in latino Magna Graecia (espressione che poteva includere o escludere, a seconda degli autori, la Sicilia). Di questa «Ellade discontinua», come la definisce lo Pseudo-Scilace per distinguerla dal territorio della Grecia propria, facevano parte tutte le colonie fondate dai Greci non solo nel Mediterraneo, ma anche nel Mar Nero. Questo mondo, inteso tanto nella sua accezione più ristretta, quanto in quella più estesa o «discontinua», trovava nella mitologia i fondamenti della propria unità originaria. I Greci, che si ritenevano autoctoni, sostenevano infatti di discendere tutti da un unico capostipite, l’eroe eponimo Elleno, figlio di quel Deucalione che era stato l’unico a salvarsi dal diluvio universale. Elleno ebbe tre figli: Eolo, Doro e Xuto (quest’ultimo era ritenuto un’ipostasi di Apollo); Xuto, a sua volta, generò Ione e Acheo. Attraverso questa ricostruzione genealogico-mitica Eolo, Doro, Ione e Acheo erano presentati dunque come gli antenati dai quali deriva- vano le quattro stirpi greche, unite da una discendenza comune da Elleno. L’identità dei Greci derivava dall’avere in comune, oltre alla lingua, le istituzioni, le consuetudini e anche il sangue, come discendenti di un unico capostipite (Erodoto, VIII, 144).
Il nome Graeci, usato in latino, derivava a sua volta secondo la leggenda da un eroe eponimo, Graikos, che era ritenuto figlio di una sorella di Elleno (Esiodo, Catalogo, 5). Altre fonti ne facevano un figlio di Tessalo. Altri ancora dicevano che era figlio di Zeus e di Pandora, o fratello di Latino, che era a sua volta ritenuto figlio di Circe. Per l’origine del toponimo «Grecia» v. anche OROPO.
Per una sintesi dei miti relativi alle diverse regioni della Grecia v. ACAIA; ACARNANIA; ARCADIA; ARGO E ARGOLIDE; ATTICA; BEOZIA; CALCIDICA; CHERSONESO; DORIDE; ELIDE; EPIRO; ETOLIA; EUBEA; FOCIDE; FTIA E FTIOTIDE; LACONIA; LOCRIDE; MACEDONIA; MAGNESIA; MALIDE; MEGARIDE; MESSENIA; PELOPONNESO; PIERIA; TESSAGLIA; TRACIA e le altre voci alle quali in ciascuna di esse si rinvia. Per le isole v. CICLADI e SPORADI con i relativi rimandi, e inoltre CEFALONIA; CITERA; CORFÙ; CRETA; ITACA; LEUCADE; RODI; SAMOTRACIA; ZACINTO.
GRIFONI, PAESE DEI Imprecisata regione del Nord dell’Europa nella quale si trova celata una grande quantità di oro. Di tali tesori sono custodi creature mitiche e favolose, i grifoni, che li sorvegliano e li proteggono dalle incursioni degli ARIMASPI (v. a quest’ultima voce per i particolari).
GRINIO, in gr. tà Grneia plur., Gr
neia sing., Grynèion, Gr
nion. Città dell’Eolia, a sud di Troia che deriva il nome da quello del fondatore, Grino. Nei pressi della città si trovava una selva sacra ad Apollo: «bosco non vi è di cui più si vanti Apollo» (Virgilio, Bucoliche, VI, 72-73). Proprio in quella selva sarebbe avvenuta, secondo quanto ci riferisce Servio, la morte di Calcante. Il celebre indovino vi stava piantando alcune viti, quando un suo vicino, anche lui capace di prevedere il futuro, gli vaticinò che non sarebbe mai arrivato a gustare i frutti delle sue piante. Calcante rise di quella profezia, ma quando una sera invitò a cena lo stesso vicino e altri amici, e offrì a tutti da bere proprio il vino da lui prodotto, il vicino ribadì la sua sinistra previsione: l’indovino, già con la coppa in mano, ne rise così tanto da morire soffocato (per una diversa versione della morte di Calcante v. COLOfONE). A un vaticinio di Apollo Grineo che avrebbe ordinato a Enea di raggiungere l’Italia per fondarvi una nuova patria dopo la caduta di Troia accenna Virgilio (Eneide, IV, 345) senza ulteriori precisazioni.
GRUMENTO, in lat. Grumentum. Città della Lucania, sul sito dell’odierna Grumento Nova; durante la guerra sociale (91-88 a.C.) vi si svolsero aspri combattimenti che portarono alla sua distruzione. Si raccontava a questo proposito un episodio che sconfinava nella leggenda: alcuni schiavi appartenenti a una dama di Grumento abbandonarono la loro padrona e passarono al nemico. Quando poi la città fu presa, essi diedero l’assalto alla casa della loro ex signora, facendola prigioniera e dichiarando che non avrebbero perso quell’occasione per vendicarsi di una padrona crudele. «La protessero invece con grandissimo ossequio, mentre l’avevano rapita come per condurla al supplizio»: in tal modo riuscirono a salvarla dalla furia della soldataglia che avrebbe certamente avuto meno riguardi. L’episodio era citato a riprova di come «tra gli schiavi si possa riscontrare non solo la fedeltà, ma anche un ingegno fecondo di brillanti trovate» (Macrobio, Saturnali, I, 11, 23).