La luna faceva la sua parte, enorme e ferma nello spazio a illuminare il silenzio della tarda sera di primavera.
Era di per sé uno spettacolo e avrebbe meritato tutta l’attenzione di un pubblico, anche perché gli alberi e la leggera brezza si impegnavano a fornirle una cornice degna della fama del luogo. E in effetti la ragazza che passeggiava lenta nel giardino in direzione del parapetto sembrava essere lí proprio per questo, per assistere alla rappresentazione della natura che inscenava il celebre viale d’argento sulla distesa scura, con un mormorio di foglie in sottofondo e una canzone appassionata in lontananza.
Forse, però, qualcosa non funzionava nello spettacolo diretto dalla luna, poiché la ragazza, invece di affacciarsi sospirando sul panorama mozzafiato, lanciò un rapida occhiata attorno a sé e s’incamminò svelta dal lato opposto, verso un piccolo fabbricato in muratura. La luna, e il mare che luccicava sotto, si guardarono perplessi e non dissero niente, attendendo gli eventi.
Avevo il cuore in gola. Te l’ho scritto mille volte, lo so, ma ciò che ricordo di quel momento sono il rumore del battito nelle orecchie e il respiro corto che mi portava la fragranza di tutti quei fiori.
La ragazza, dopo un ultimo sguardo dietro le spalle, aprí la porticina di legno e s’infilò all’interno. Un ambiente quadrato, la parete di fronte trovata a tentoni, la mano che tasta il muro in cerca di un pulsante. Il rumore sordo del macchinario che si mette in funzione.
Un fruscio all’esterno, il fiato che si blocca, gli occhi spalancati nel buio. Niente. Magari un gatto, un ramo che asseconda il vento. La ragazza contava i secondi. Poi il ronzio si fermò. Veloce, lei s’infilò nell’ascensore.
Mai. Non arrivavi mai. Mi chiedevo se saresti venuta, alla fine. Poteva essere successo di tutto, lui poteva averti fermata, potevi non essere riuscita a liberarti. Potevi semplicemente aver cambiato idea.
Nell’ascensore c’erano una lampadina impolverata, che emetteva una luce fioca, e uno specchio. La ragazza si guardò. I capelli rossi fiammeggiavano fluenti, il piccolo naso impertinente tirava appena in su il labbro superiore. Si intravedevano le minuscole lentiggini da bambina sulle guance. Gli occhi verdi ispezionarono gli abiti: la lunga gonna a pieghe, la cintura alta, la camicetta bianca. Slacciò un altro bottone, mostrando l’attaccatura del florido seno. Strinse le labbra, trasse un sospiro e, con un gesto rapido, alzò la gonna, si sfilò le mutandine e se le appallottolò in tasca.
Le cose, pensò, o si fanno o non si fanno. E poi, non c’è tempo.
Lo decisi in un attimo, davanti allo specchio dell’ascensore. Lo so, avrai pensato che ero una donna facile. Che ero la tipica straniera frivola che voleva divertirsi, chissà quante volte ti è capitato, prima e dopo. Invece no, non era cosí. Era solo che ti volevo, ti volevo tanto. E non c’era tempo.
Con un sussulto la cabina si fermò. Aprí la porta e si ritrovò in un tunnel scavato nella roccia; in fondo si intravedeva il chiarore della luna, che non aveva smesso di chiedersi dove fosse finita quella ragazzina sfacciata che non le aveva concesso attenzione. Si frugò nella tasca, prese un accendino e lo fece scattare, per illuminare il percorso.
Mi hai scritto che pensi che io ti abbia ritenuta una facile. E invece mai, mai ho pensato una cosa del genere. Io, dall’istante in cui ti ho vista al ristorante e prima che ti voltassi a guardarmi, e che mi facessi quel sorriso, ho pensato che eri una meraviglia della Terra, la rosa piú profumata del giardino del Paradiso, che mai avrei ammirato niente di piú bello di te. E cosí è stato. Quella cosa che dici, quel regalo meraviglioso, non contò nulla. Noi siamo stati nudi, io e te, dal momento in cui ci siamo incontrati.
Quando arrivò al termine del tunnel spinse il cancelletto e lo trovò aperto. Quindi c’era. Quindi era venuto. Quindi non aveva sognato, stava accadendo davvero. Appoggiò la mano sulla roccia nuda, si tolse le scarpe e, tenendole per i cinturini, mise i piedi sulla sabbia.
Era fresca, umida. L’estate era solo una promessa, la sera sapeva ancora di incertezze, ma il mare mormorava piú forte e piú vicino, adesso. L’odore magico e misterioso di sale e di alghe e di scogli le invase le narici rendendola viva e felice.
Si avviò a sinistra, lasciandosi il faro alle spalle. Concentrata, silenziosa, nessuna esitazione nei piedi, nelle gambe toniche e nervose, appena un respiro ansioso a sollevarle il seno. Era buio, e la luna e il mare, i soli che avevano il privilegio di vederla, pensarono all’unisono che era bellissima.
Ma com’è possibile, secondo te, che una notte, una singola notte, si espanda per sempre? Che si allarghi e si allunghi come un velo invadendo l’intera vita di una persona? Come può un ricordo, un singolo ricordo, piantarsi in un’anima cosí in profondità che nessuna corrente, nessun evento successivo è piú in grado di scalfirlo?
Le aveva detto: la terza grotta. Quelle che usano i pescatori d’inverno per tirare in secca le barche, hai presente? Gliel’aveva detto in un soffio, e lei non era nemmeno sicura di aver capito bene. Ma aveva solo quella notte, anzi, quel pezzo di notte, perché poi non avrebbero girato piú senza di lei, e tutto sarebbe stato difficile, forse impossibile. A lei toccava all’alba, di lí a tre ore almeno; adesso erano tutti presi dalle bizze del protagonista, che voleva si vedessero i bicipiti al chiaro di luna.
Nessuno sarebbe venuto a cercarla.
Riposati, le avevano detto. Se dormi bene, domani il tuo viso sarà meraviglioso.
Contando le grotte, correndo in punta di piedi con le scarpe in mano, sorrise perfida.
Ma ti ricordi? La luna, quella notte, sembrava una scena di cartapesta, come quando si giravano i musical in studio e noi danzavamo e cantavamo fingendo di essere all’aperto. Una luna immensa, rotonda e luminosa, immobile nel cielo come la promessa di un altro mondo. Ne ho viste di lune, sai, dopo. Ma una cosí no, non l’ho vista mai piú. Mai piú.
La terza grotta. Eccola. Rallentò. All’improvviso aveva paura, le parve che il cuore si fermasse. Si domandò se ne valesse la pena. Aveva lottato, aveva lavorato tanto per arrivare dov’era arrivata: valeva la pena correre quel rischio per una fantasia? In fondo era assurdo. In fondo era un incontro casuale, di quelli di cui, a casa, le sue amiche discorrevano con noncuranza sul bordo di una piscina, in attesa del terzo drink del pomeriggio, infiorettando i racconti con dettagli che risiedevano solo nei loro sogni. Lei no, lei non era cosí. Lei aveva tanto da perdere. Aveva tutto da perdere.
Poi le tornò alla mente la supplica di quei meravigliosi occhi neri. La supplica, sí. Un desiderio cosí immenso da essere disperato. E la scoperta attonita di avere l’immagine riflessa di quel desiderio nella sua stessa anima, tale e quale come lo vedeva in lui.
Si rispose che sí, ne valeva la pena.
Ero sicuro che non saresti venuta, ora te lo posso confessare. Ci avevo riflettuto per tutto il giorno, mentre lavoravo, e per quella parte della notte. Mi ripetevo: penserà che io sia uno dei soliti italiani in cerca di un trofeo. Un altro bel ricordo, un’avventura di cui vantarsi al bar d’inverno, quando i locali sono chiusi e la città aspetta di tornare a vivere un’altra estate. Una di quelle che gli amici si mettono a ridere e non ti credono, poi tocca a loro raccontare e a te non credere, e via cosí fino all’alba. Io, invece, di te non ho raccontato niente; mi sono confidato solo con l’amico piú caro. Perché era ed è una cosa mia, mia e basta. Perché forse è stato un sogno, mi dicevo. Forse non è mai successo. Ero sicuro che non saresti venuta, poi sei apparsa, con le scarpe in mano. C’era la luna, ma tu eri bella come il sole.
Si videro. Due sagome nel buio, lei con la luna addosso, lui un contorno piú scuro all’entrata della grotta. Si videro. Lei si fermò, simile a un animale della foresta sorpreso dallo sguardo di un predatore. Lui si fermò, un pellegrino sorpreso da un improvviso incanto, un viaggiatore davanti a un meraviglioso, inatteso panorama.
Un attimo dopo erano una nelle braccia dell’altro, impazziti, le mani che vagavano sui corpi per controllare se tutto era vero, se tutto era reale.
Non ho mai capito dove si era nascosto. Ho percorso la spiaggia mille volte, puoi immaginare, ma non ho mai trovato l’angolazione precisa. È stato abile, bisogna ammetterlo: e la tentazione di andare a prenderlo per fargli una faccia di schiaffi e farlo pentire di essersi scelto quel mestiere da vigliacco l’ho avuta ogni giorno, da allora. Ma sarebbe servito soltanto a tirare di nuovo fuori la storia. A farti avere nuovi problemi, a farti subire nuove umiliazioni. Cosí non ci sono andato, ma avrei voluto. Avrei voluto. Al pensiero mi prudono ancora le mani.
Lui aveva preparato una coperta, l’aveva presa in prestito dallo stabilimento. Era a quadri gialli e azzurri come le cabine; la signora Cinzia, la proprietaria, le aveva fatte fare nella speranza di restare aperta anche quando gli altri chiudevano, alla fine dell’estate. Dalla grotta veniva un sentore di umido e muffa, di escrementi e di acqua stagnante, perciò l’aveva distesa sulla spiaggia, davanti all’entrata. Aveva pensato che a quell’ora, di notte, non ci sarebbe stato nessuno. Invece qualcuno c’era.
Ci perseguitavano, allora. Non è colpa tua, non devi avere questo peso sulla coscienza. Sono sicura che è stata Jobeth, la costumista, a vendersi la notizia. Eravamo amiche, ero cosí giovane e ingenua, le avevo detto che forse sarei andata a prendere un po’ d’aria, se non riuscivo ad addormentarmi, di prepararmi le scarpe leggere, quelle che non si sporcavano con la sabbia. Fu lei a dirlo al paparazzo, ne sono certa. La sabbia, la spiaggia, la notte. E le altre grotte erano occupate dalle barche, no? C’era solo quella. Non è colpa di nessuno.
Quando il lampo scattò nel buio, una volta, non ci fecero caso; lo scambiarono per la lampara di uno dei pescherecci che solcavano l’acqua quasi ferma. L’uomo, appostato da ore dietro una delle cabine, intirizzito dall’umidità, poté smontare con calma la macchina dal treppiede, e rimettere tutto nella valigia per risalire sul sandolino e tornarsene al suo non lontano approdo, remando con attenzione e in silenzio.
Aveva il suo malloppo.
Amore mio, che meraviglia. Che magia. Tutto fu perfetto, la luna, il mare, i nostri sogni e la pelle. Tutto fu perfetto. E lo è ancora.
Fecero l’amore con furia, con la disperazione della loro età, con la paura che arrivasse qualcosa a interrompere l’incanto. Poi si sorrisero, in silenzio, accarezzandosi. E lo rifecero con calma e consapevolezza, quasi si fossero ritrovati dopo chissà quanta strada e chissà quanti anni, quasi non fossero cosí giovani.
Credettero che fosse per sempre, mentre era l’ultima volta.
Amore mio. Tutti questi anni insieme. Tutta la vita insieme, ci pensi? Amore mio.
La luna guardò il mare come a dirgli: vedi? Te l’avevo detto che questa era una notte d’amore. Lo sapevo.
Il mare, scintillando gonfio di primavera, sospirò al pensiero dell’autunno che sarebbe arrivato.