Alex Di Nardo attendeva nella stanzetta appena fuori dal complesso operatorio dell’ospedale Cardarelli. In quel luogo il personale non autorizzato non aveva libero accesso, ma lei si era qualificata a muso duro e l’avevano lasciata passare.
Nella vita di Alex episodi simili erano una costante. Per quanto andasse indietro con la memoria, ricordava da sempre la sensazione faticosa di dover dimostrare quanto l’apparenza contrastasse con la sostanza: una ragazza piccola, riservata, i grandi occhi spesso persi nel vuoto o rivolti verso il basso per evitare contatti diretti, per tentare di non essere notata. Il corpo sottile, gli abiti anonimi, le scarpe di foggia maschile. Nessuna concessione alle mode, niente tatuaggi o piercing; un trucco leggero e poco colorato. Un solo gioiello al collo, un ciondolo d’oro a forma di pistola appeso a una catenina.
Invece Alex era un poliziotto. Un poliziotto vero, di quelli spigolosi e intransigenti. Sapeva cavarsela in un corpo a corpo, sapeva dove colpire, sapeva come far male. Aveva un forte, innato senso della giustizia, che a volte prescindeva dalla legge. E questo non mancava di metterla nei guai, come il suo curriculum testimoniava. Aveva sempre desiderato essere un poliziotto, e lo era diventata.
L’odore di disinfettante pizzicava le narici, la luce al neon era forte e diffusa. Non c’erano punti nascosti, in quella stanza. Non c’era nulla che non fosse netto, stagliato sullo sfondo, immediatamente identificabile. Nulla fuori posto.
Tranne lei, pensò. Tranne la solita Alex Di Nardo, fuori posto ovunque. Solo in mezzo a quell’armata irregolare e disordinata che erano i Bastardi di Pizzofalcone si sentiva a suo agio; nel commissariato piú scalcinato della città, quello dietro al quale l’intero corpo della polizia di Stato aveva chiacchierato e riso per mesi e mesi, aspettandone la chiusura. Però erano ancora lí, pensò Alex. E nessuno rideva piú.
Perché certe volte, rifletté, il passato smette di assomigliare al presente. Non sempre, anzi, quasi mai: ma qualche volta sí.
Prese il cellulare e scorse le foto. Era riuscita a scattarne alcune da vicino alla vittima del pestaggio quando lo avevano liberato dal tubo che gli avevano messo in bocca per trasferirlo in sala operatoria attraverso un corridoio. Certo, c’erano i segni delle percosse e l’occhio sinistro era circondato da un profondo alone bluastro, ma Alex si augurava che fosse riconoscibile. Perciò aveva inviato le immagini a Ottavia. Sperava che, mentre lei restava in attesa di scoprire se stessero indagando su un omicidio o su una rapina aggravata o su chissà quale altro reato, i colleghi potessero cominciare a chiedere in giro se qualcuno l’avesse visto.
Il passato, si disse oziosamente. Il passato recente, il passato remoto. Chissà che cosa era successo a quel poveretto, chissà chi era. Nessun documento, niente telefono o anelli o orologio. Niente di niente. Una camicia a quadri, piuttosto brutta secondo Alex, un paio di jeans, una felpa col cappuccio. Tutto strappato, insanguinato, sporco di terriccio. Niente passato. Un presente di dolore, e forse niente futuro.
Magari, pensò rivolgendosi idealmente alla vittima, è proprio il passato che ti ha portato qui, sul dannato tavolo di una dannata sala operatoria. Il passato che non può essere cancellato di colpo. Le venne in mente una faccia austera e severissima: un militare dagli occhi di ghiaccio. Per un sorriso di quella faccia, per un cenno di rigida approvazione proveniente da quel mento, Alex era ciò che era. Anzi, non era ciò che era, a essere precisi.
Una porta di sicurezza si aprí con forza alle sue spalle e lei sobbalzò, girandosi e mettendosi istintivamente in posizione di difesa. L’uomo che era entrato, col camice verde, il cappellino colorato e la mascherina abbandonata sul collo, si stava asciugando le mani con una salvietta di carta. Al gesto della donna le portò in alto. La squadrò, curioso e un po’ inquieto.
– Salve. Lei è la poliziotta, vero? Io sono il dottor Caruso. Mi hanno detto che aspettava notizie, vengo in pace.
Alex si rilassò, imbarazzata.
– Mi scusi, dottore. Sono l’agente Di Nardo del commissariato di Pizzofalcone, ero soprappensiero.
L’altro sorrise. Aveva circa quarant’anni e un viso simpatico.
– Si figuri, questo è un posto pericoloso, io l’ho sempre sostenuto. Meglio stare in guardia. Faccio parte della squadra che sta operando l’uomo che avete trovato. Il primario mi ha mandato a riferirle com’è la situazione al momento.
Alex estrasse dalla tasca un taccuino e una penna.
– La ascolto.
– Allora: le dico subito che è conciato male. Presenta escoriazioni ed ecchimosi un po’ ovunque. Abbiamo eseguito una Tac total body e per fortuna la milza è intatta e non ci sono emorragie interne gravi. Diverse costole sono fratturate, la quarta, la quinta, la sesta e la settima a destra, la terza a sinistra. Tibia e perone a destra, il terzo medio distale, senza scomposizione in frammenti. Tutta roba seria, ma nulla di irrimediabile.
– E allora?
Il dottore fece una smorfia.
– Il problema piú grosso emerso dagli accertamenti, quello contro cui combatteremo per alcune ore e che non ha un esito scontato è il motivo per cui il paziente è arrivato in ospedale già in coma. C’è un voluminoso ematoma extradurale sinistro, con frattura temporo-parietale e un piccolo focolaio contusivo.
Alex sbatté le palpebre, la penna sospesa sul foglio.
– Che significa, dottore?
Caruso sospirò, triste.
– Che gli hanno rotto la testa, e che un piccolo frammento di osso ha provocato una lacerazione del parenchima cerebrale, la materia di cui è fatto il cervello.
Il dottore accompagnava le parole muovendo le mani, mimando un modello tridimensionale dell’organo. A un certo punto le prese con delicatezza taccuino e penna.
– Posso, vero? Cosí è piú chiaro.
Iniziò a disegnare con tratti rapidi. Alex osservava attenta.
– La lacerazione ha provocato un’emorragia. L’ematoma comprime l’encefalo da questa parte, – tracciò una freccia, – e sposta la linea mediana lateralmente.
Alex chiese, a bassa voce:
– Quindi?
– Quindi dobbiamo aprire, e i miei colleghi lo stanno facendo adesso, con un’incisione cutanea sul sito, poi eseguiremo una craniotomia sottostante rimuovendo il frammento osseo, evacuando l’ematoma ed emostatizzando i punti di sanguinamento; chiudendo cioè i vasi lacerati.
– Ah.
– Poi completeremo la sintesi della frattura apponendo delle placchette in titanio. Qui, e qui.
Riconsegnò la penna e il taccuino ad Alex, sorridendo soddisfatto come se l’intervento fosse già stato completato con successo.
La Di Nardo domandò, timidamente:
– Dunque ci sono buone possibilità che si riprenda, ho capito bene?
Caruso spalancò gli occhi.
– No, evidentemente non mi sono spiegato. L’operazione è difficile, molto difficile. Non so prevedere se il paziente ce la farà, se si sveglierà e se riporterà danni permanenti. Questo non dipende da noi, purtroppo.
– E da chi dipende?
Il medico si strinse nelle spalle.
– Dal Padreterno, per chi ci crede. Dalla fortuna. Piú probabilmente dal caso. Chi lo sa. Certo di botte gliene hanno date, a quel disgraziato. Avete idea di chi sia stato?
Alex scosse il capo.
– Ancora no. Ma lo prenderemo.
Caruso si grattò il mento.
– Li prenderete, vuole dire.
– Perché?
Di nuovo il sospiro triste.
– Perché le percosse sono tante, e da entrambi i lati. Pugni e calci. Io non sono un medico legale, ma a occhio e croce non sono stati usati corpi contundenti o armi da taglio; però i colpi sono troppi per essere stati inferti da una persona sola. Secondo me erano almeno in due. Ora mi scusi. Devo tornare di là.
Alex fissò il cervello della vittima disegnato sul taccuino.
– Un’ultima cosa, dottore. Quanto crede che durerà l’intervento? Mi conviene aspettare o vengo piú tardi?
Con la mano sulla maniglia della porta che dava alle sale operatorie, Caruso rispose:
– Può andare. Qua ne abbiamo per un po’. Ammesso e non concesso che sopravviva.