Ottobre, se volete, è sospeso nell’aria. Non si riesce a prenderlo tra le dita, ottobre.
Magari altrove, che la demarcazione tra estate e inverno è piú netta, che gli alberi sono tanti e diventano una danza di giallo e di rosso, ottobre ha una faccia definita e ti guarda austero e con sincerità.
Magari altrove, che ormai da tempo avete riposto tele e cotone e scarpe da piedi nudi, ottobre sa di primo freddo e di lana e naftalina, e porta la voglia di non lasciare letti e coperte e cuscini.
Magari altrove, che dell’estate resta solo un vago, lontanissimo ricordo, e il vento tagliente disegna lo spazio tra il portone e l’imbocco della metro, e anche sotto, quando l’odore di polvere nell’aria artificiale che ti viene incontro ha almeno il tepore della gente, ottobre ha il senso della voglia di piumoni e di latte caldo.
Ma qui, che c’è il mare a sussurrare tutte le avventure della spiaggia e del tempo appena passato che non vuole passare, che l’aria sa ancora di storie d’amore di un giorno e di tavolini e musica all’aperto, è difficile pretendere sincerità da ottobre. Qui che il vento è rimasto pieno di esotico profumo, qui che la sporadica pioggia continua a portare sabbia rossa del deserto, non si può pretendere che ottobre abbia il coraggio di guardarti in faccia.
Qui ottobre è sempre troppo carico di promesse non mantenute.
Ahmed non ha piú soldi. Nemmeno un centesimo. Ha speso l’ultimo euro per comprare mezzo litro di latte che gli hanno dato sottocosto, perché era scaduto da un giorno.
A letto, gli occhi spalancati in attesa dell’alba, ha ripassato ogni possibilità e non gli è venuta in mente alcuna soluzione. Ha provato di tutto. Prima il lecito: file interminabili alle porte dei cantieri, il retro di ristoranti e alberghi, garage aperti di notte. Poi l’illecito, quello piccolo e inoffensivo, sfidando tergicristalli in funzione, scope di portinai e caporali, scoprendo, negli occhi pieni di veleno e di fame degli altri come lui, che anche là, nella zona d’ombra appena oltre la soglia delle regole, i posti sono pochi e vince il piú feroce.
L’altro illecito, quello grosso, quello di sangue e polvere e siringhe sporche no, Ahmed non ce la fa. Non è per questo che ha perso un figlio piccolo, lasciato andare nelle onde quando ormai non respirava piú, mentre la moglie urlava come una sirena nella notte e l’uomo al timone ha cominciato: una, due, tre, mille bastonate finché lei ha smesso, perché c’erano gli altri due, la femminuccia e il piccolo attaccato al seno vuoto, che avevano ancora una speranza. Non è per portare morte in un paese nuovo, che è venuto.
E ora Ahmed fissa il soffitto aspettando un’alba che non arriva, steso su un materasso vecchio nel capannone abbandonato, lo stesso materasso dove riposano la femminuccia e il piccolo, che dorme sempre di piú, perché o dorme o mangia e di cibo non ce n’è. Ahmed ascolta i topi che corrono nella notte e intanto pensa alla moglie, che avrebbe fatto perfino la puttana, ma non aveva salute e se n’è andata da dieci giorni, in ospedale. Lui l’ha capito e l’ha salutata pochi minuti prima, altrimenti gli avrebbero chiesto dove portarlo, quel corpo distrutto da chissà quale assenza. La moglie: quella ragazza che gli teneva la mano, seduti a piedi scalzi davanti alla capanna a immaginare un paradiso che non esisteva, ma che loro avevano davanti agli occhi come fosse vero. La ragazza che non ha nemmeno visto morire.
Non è questo che voleva, Ahmed.
Ha combattuto per tutta l’estate, un po’ di pomodori raccolti, la schiena spezzata e qualcosa da mangiare; ma ora è ottobre, e ottobre, anche se ha ancora l’odore del caldo, promette il freddo, e un altro inverno insormontabile.
Fra il rumore dei topi che corrono, Ahmed sparge sul materasso lercio la benzina che ha rubato. Pensa che i suoi bambini stanno sognando, che è bello sognare. Meglio adesso, pensa Ahmed. Meglio adesso.
Accende il fuoco, e si stende a sognare pure lui.
Perché ottobre è un fatto mentale, da queste parti. Non illudetevi di ritrovarlo nell’abbigliamento. Avete voglia di cambiarvi e ricambiarvi, sentirete sempre un po’ caldo per esservi coperti troppo; ottobre qui vuole lana sottile e cotone pesante, non i maglioni e le sciarpe.
Ottobre, da queste parti, finge di essere aspro e invece è dolce, come un vecchio insegnante di liceo. È il vero capodanno, ottobre, con le abitudini dell’inverno che stentano a riprendere e la voglia di riposare che fa da sottofondo al lavoro.
Ottobre è traditore.
Mario ha un sacco di soldi.
Li ha sempre avuti, è nato ricco. Una volta un suo amico notaio, che dalla mattina alla sera si occupa di donazioni e testamenti, gli ha detto che la ricchezza dura in media tre generazioni. La prima crea, la seconda consolida, la terza sperpera. Naturalmente, dice il suo amico, dipende dall’entità dei patrimoni: la terza generazione può diventare anche la quinta, se i soldi sono tanti. Ma quello che conta è la memoria della povertà: se uno ce l’ha, diretta o indiretta, perché raccontata dai genitori, allora ne ha paura e non spende troppo.
Mario appartiene alla terza generazione, ma siccome il patrimonio è davvero grosso, allora ci vorrà tempo a mangiarsi tutto. Molto tempo.
Si volta a guardare i figli che sta accompagnando a scuola. Due, un maschietto e una femminuccia, una coppia, tutto perfetto come logico per lui. Non li affida all’autista, li porta e li va a prendere, ci tiene moltissimo. La terza e la quinta classe alla scuola in lingua inglese, perché devono essere almeno trilingue; la baby-sitter spagnola col diploma a integrarne l’istruzione. Si addormentano sempre, in macchina, pensa Mario sorridendo; basta un po’ di musica a basso volume e loro dormono.
Osserva la grande strada libera e scorrevole, e ottobre, dai finestrini. La mente sfiora la ripresa dei mercati, i flussi finanziari e i movimenti dei titoli di Stato, ma non vi si sofferma. Va piuttosto all’estate appena terminata, alla bellezza profonda dell’Egeo dove sono stati in vacanza sulla lunga barca e al fatto che la moglie, la sua amata, dolce moglie gli ha detto che non vuole piú stare con lui. Mentre i bambini giocavano sul ponte, sotto la stretta sorveglianza della baby-sitter e di una signora di colore della Martinica assunta come supporto per le vacanze, mentre il sole mitigato dal vento provvedeva alla loro dorata e durevole abbronzatura, mentre Michael Bublé diffondeva ruffiane parole d’amore nell’aria rovente di agosto, la sua bella, giovane moglie gli confessava che intratteneva ormai da tre anni una relazione con un atletico commercialista incontrato in palestra. E che aveva deciso, con l’incipiente ottobre, di mettere fine all’ignobile farsa della loro vita in comune. Aveva usato proprio quelle parole: ignobile farsa.
Io non ho memoria della povertà, aveva pensato Mario, ricordando le parole del suo amico notaio. Forse, se ricordassi la povertà, troverei la forza di combattere. Perché se sei povero, se mangiare è il tuo problema, allora passa tutto in subordine. Anche l’amore. Anche ottobre con le sue promesse di solitudine. Anche ottobre, con la scia di felicità che trattiene.
Un commercialista. Io li ho sempre odiati, i commercialisti.
Mario sorride a ottobre, arrivato come una sentenza. E guidando la sua meravigliosa, potente auto accelera fino a duecento all’ora, puntando diritto al pilone del cavalcavia.
Perché quello che ha ottobre, e che non hanno gli altri mesi, è la sospensione tra passato e futuro.
Ottobre, piú di ogni altro periodo dell’anno, porta la rassegnazione per la fine di un momento e la certezza che il seguente è già cominciato. Non è settembre, che conserva le domeniche soffocanti e affollate, col sole che brilla sulle lamiere e tra i pontili, settembre che sa ancora di zuppa di cozze e di crema solare; e non è il novembre delle piogge sottili e delle strade lucide, il novembre delle matite temperate e delle mostre d’arte.
Ottobre ti spiega che non è piú il tempo di ricordare, che bisogna prepararsi a ciò che viene. E se non capisci, peggio per te.
Barbara pensa: la luce, in ottobre, funziona a modo suo. Declina le ore in maniera diversa, quasi avesse una nuova fretta disperata. Ottobre non ha pazienza, pensa Barbara. Forse perché tra una decina di giorni passerà il testimone a un novembre che sa di morte e di silenzio. Barbara pensa che ha paura di novembre e che ottobre in fondo, con la sua fretta, è da preferire.
Lo pensa guardandolo scorrere dietro la finestra della stanza a letto singolo dove il padre, a bocca spalancata, dorme gli interminabili ultimi giorni della sua vita. Ottobre muore fuori, il padre muore dentro. Barbara è circondata dalla morte.
Secondo il dottore può durare ancora mesi. Ché purtroppo, ha detto proprio cosí, purtroppo, il cuore è robusto e il quadro clinico generale, a parte il cancro, è molto buono. A parte il cancro, come fosse poco. Come fosse niente vedere ridotto cosí un uomo che rideva tanto forte da smuovere la terra, un uomo che la sollevava in aria e le toglieva il fiato, che le raccontava le piú belle favole del mondo, favole che mai piú ha sentito e che erano piú incantevoli delle Mille e una notte.
Barbara osserva il torace smagrito che si alza e si abbassa sotto il lenzuolo con un movimento ritmico e affaticato. Il tubicino alimenta di urine la sacca, piena a metà. Il tempo passa, l’orologio sul comodino scandisce i secondi con una vecchia lancetta, nessun display, nessun numero rosso in campo nero. La cara sveglia di papà. L’ha chiesta con uno degli ultimi soffi, con tracce di antica allegria nella voce. Ho letto là sopra tutte le mie ore, ha detto. Leggerò anche queste.
E invece non leggi piú niente, papà. C’è solo da aspettare. Ottobre è il mese dell’attesa.
Solo che il tuo ottobre è troppo lungo, papà. Senza piú favole da raccontare, senza piú sogni da vivere, senza piú speranze da coltivare. Troppo lungo, quest’ottobre di silente dolore e di lotta contro un cuore che resiste.
Barbara si alza dalla poltrona dove ha trascorso l’ennesima notte. Tic, tac: la sveglia dice che c’è ancora un’ora prima del giro dell’infermiera che cambierà la sacca e la flebo. Ottobre, nelle strade, sta per iniziare la sua annuale agonia.
Troppo tempo, papà. Troppi costi, questa clinica. Troppa fretta, i creditori. Troppo fermi nelle tue mani morte, i nostri soldi. Troppo ottobre ancora, prima che sia novembre.
Il cuscino sulla faccia. Ci vuole tanto, perché il maledetto cuore è troppo robusto. Troppo ottobre ancora.
Tic, tac, fa la sveglia. Barbara osserva con attenzione gli ultimi attimi. Chi l’avrebbe detto, papà, che avresti fatto prima tu di ottobre a finire. Tic, tac.
E ottobre scorre piano, tra promesse e disillusioni, tra passato e futuro. Niente come ottobre, per far ritornare il tempo che non c’è piú. Niente come ottobre, per riproporre un antico souvenir.
Nessun souvenir vale un ottobre. Perché è ottobre stesso, un souvenir.
Tic. Tac.