XXXI.

Il deposito la cui sorveglianza costituiva la prima missione segreta dell’agente speciale Aragona Marco non era un luogo epico. Consisteva in una saracinesca piena di ruggine alla fine di una salita, in una zona poco illuminata e deserta ma di facile accesso.

Marco aveva scelto la propria posizione in base a un attento studio, meditando ogni mossa per non essere scoperto. In realtà, essendo l’unico essere umano nei paraggi, l’atteggiamento noncurante lo rendeva ancor piú visibile. Ci fosse stato qualcuno interessato a sorvegliare i sorveglianti, non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere tutto fuorché un viandante occasionale in quel giovane dall’andatura lievemente western, con i capelli pettinati in modo da occultare l’incipiente calvizie sulla sommità del cranio, gli occhiali azzurrati e soprattutto una enorme sciarpa che portava nella trama ogni colore dello spettro percepibile dall’occhio umano.

Per fortuna, però, non c’era nessuno, e Aragona aveva individuato, tra un pilastro e un muro di fronte al magazzino, una nicchia ampia abbastanza da accoglierlo. Il pungente odore di urina e le numerose bottiglie vuote testimoniavano di altre e piú allegre permanenze in quel luogo; ma un agente speciale è conscio di non essere destinato a una vita confortevole. Inoltre lo schermo offerto alle narici dalla coltre spessa e policroma della famosa sciarpa di Hollander, l’abilissimo investigatore televisivo scandinavo, in vendita sui siti specializzati alla modica cifra di quattrocentoventi euro (be’? Era un indumento di scena garantito, utilizzato per almeno due prove della serie), si stava rivelando provvidenziale.

Palma gli aveva consigliato di passare di là, in maniera che sembrasse casuale, un paio di volte al giorno; e di registrare eventuali movimenti di carico o scarico merci. Come ampiamente illustrato nel Manuale del Giovane Investigatore, testo basilare acquistato e studiato a fondo due anni prima e ripassato a intervalli regolari, in frangenti simili risultava utile collocare sulla scena appositi oggetti, il cui spostamento avrebbe testimoniato il transito dei malintenzionati. Perciò, dopo essersi accertato che non ci fossero occhi indiscreti grazie a un appostamento silenzioso di due ore precise, il poliziotto aveva provveduto a sistemare con sapiente disordine, tra la soglia e gli stipiti della saracinesca, le seguenti cose:

una rivista pornografica apparentemente usata, divisa in quattro fascicoli;

una bambola rotta;

una vecchia giacca da donna di originario colore rosso diventata arancione sbiadito;

un berretto da baseball dei Los Angeles Dodgers, al quale aveva appositamente strappato, con doloroso sacrificio, il nastro di chiusura regolabile posteriore;

diciotto capelli personali, sacrificio ancora piú doloroso data la penuria degli stessi, che, secondo quanto prescritto dal suddetto Manuale, andavano inseriti nella chiusura della porta per poter concludere con certezza, in caso di assenza al successivo sopralluogo, che questa era stata aperta. In realtà il Manuale prescriveva che i capelli da utilizzare a tal fine fossero due, ma melius abundare quam deficere: non poteva commettere errori, nell’operazione.

Il tutto, per la verità, creava un certo effetto discarica: ciò nondimeno i segnali sarebbero stati inequivocabili.

Mentre rimirava la propria opera, controllando il respiro e limitando i gesti al minimo, il telefonino gli esplose in tasca con la sigla di Bonanza, la prima, mitica serie televisiva che aveva visto in vita sua. Terrorizzato, lo estrasse in fretta, facendolo cadere e aggiungendo il fragore dell’impatto a quello crescente della suoneria. Bestemmiò, raccolse il cellulare, bestemmiò ancora per la difficoltà di reperire il tasto giusto e disse:

– Mpof!

Spostò la sciarpa, lanciò un’occhiata piena di preoccupazione nel vicolo e riprovò:

– Pronto?

La voce della madre, sommessa come d’abitudine, gli perforò il timpano. La signora Aragona non aveva mai compreso appieno il funzionamento delle comunicazioni via etere, per cui riteneva necessario tarare il tono sulla lontananza fisica dell’interlocutore. E lei era nella provincia di Avellino.

– Marcu’, stai bene a mammà? Hai mangiato?

Quella della nutrizione tempestiva e soddisfacente del figliolo era la principale angustia della donna, e si traduceva in quattro appelli giornalieri.

– Sí, sí, mamma, tutto bene, – rispose l’agente scelto con i peli della sciarpa in bocca. La madre, sentendolo masticare, sorrise contenta; Marco lo capí anche distanza: era l’unica persona al mondo, per quanto gli risultasse, in grado di sorridere urlando.

– Bravo, bravo a mammà. Lo sento che stai mangiando.

L’agente scelto preferí tacerle che sul momento ingurgitava pezzi di lana. Chiese piuttosto il perché di quella chiamata.

– No, è per tuo padre. Dice che ti deve parlare, ma di persona. Quindi passerà nel pomeriggio in albergo. Fatti trovare là verso le sei.

Marco abbozzò una protesta, ma con scarso successo: la ricezione del telefono della madre non era efficace quanto la trasmissione.

Riuscí a domandare, tenendo la voce bassa:

– Ma che vuole? Io sono impegnato, ho una missione, devo lavorare, non ho tempo da perdere!

La madre, senza abbassare il tono della voce:

– E che ne so io di quello che vuole? Sta sempre nervoso, risponde male, si incazza. Io non posso proprio chiedergli niente.

Marco sogghignò all’interno della sciarpa. Conosceva l’antica tattica del padre che, per sfuggire alla petulanza della moglie, fingeva di dover fronteggiare gravissimi problemi cosí da ricavarsi una zona franca in cui sopravvivere.

L’altra continuò, mantenendo inalterato il livello dei decibel:

– Comunque deve tenere qualche pensiero, perché mi sono accorta che si è messo a contare gli assegni dal blocchetto mio. Secondo me sospetta che ti integro la paghetta.

La cosa mise Aragona in allarme. Non accettava che la madre definisse ancora in quei termini mortificanti la munifica elargizione mensile che gli permetteva di risiedere, con grande comodità, presso l’hotel Mediterraneo, però non era disposto a rinunciarvi; soprattutto adesso che tale sistemazione gli consentiva di incontrare la bella Irina, cameriera originaria del Montenegro che occupava gran parte delle sue piú prosaiche fantasie, e che attualmente si trovava chissà dove e con chissà chi.

Il rischio di un taglio delle risorse faceva ascendere il problema rubricabile come «genitore in transito» in cima alla scala delle priorità.

– Va bene, mamma. Digli che lo riceverò.

La madre scoppiò a ridere.

– Perché, secondo te si è posto il problema che tu non lo ricevevi? Mi ha detto di avvertirti per non sprecare tempo. Punto e basta.

Aragona rifletté alla luce del suo naturale ottimismo. Magari si trattava di una paterna indagine sul suo benessere. Magari il vecchio aveva voglia di scambiare due chiacchiere da uomo a uomo con il figlio, sorvolando per un momento sull’affronto personale che questo gli aveva recato assecondando la propria vocazione di entrare in polizia anziché dedicarsi alla fabbricazione e alla vendita di mobili e suppellettili nell’azienda di famiglia.

Ma l’agente scelto Marco Aragona, detto (ne era sicuro) Serpico negli ambienti criminali in cui si favoleggiava della sua abilità, non avrebbe potuto che fare il poliziotto, pensò riponendo il cellulare, stavolta silenziato, nella tasca dei jeans di marca. Era nato per quello.

Si affacciò cauto dal suo nascondiglio, provocando lo spavento e la fuga dell’unico altro essere che si muoveva nel vicolo: uno spelacchiato gatto grigio.

Fin quasi alle sei, Serpico avrebbe vegliato sulla città difendendola dal crimine. Si poteva starne certi.

Poi, solo poi, avrebbe affrontato il padre.