Romano arrivò trafelato all’ingresso del reparto, dopo aver salito le scale tre gradini alla volta per non perdere tempo ad aspettare l’ascensore. Si guardò attorno nel corridoio, cercando una delle donne che si occupavano della piccola Giorgia nella casa famiglia, ma non trovò nessuno.
Era tardi, non c’era la solita dolente, piccola folla di genitori e parenti in attesa di una buona notizia. Si sentiva forte l’odore del disinfettante e del detersivo coi quali era stato pulito il linoleum del pavimento. Romano suonò il citofono della terapia intensiva, ma non ebbe risposta. Allora cominciò a bussare, producendo un sinistro rimbombo.
Il battente si aprí quasi subito di pochi centimetri, e l’occhio sospettoso di un infermiere si intravide dallo spiraglio.
– Ma chi siete? Come vi permettete di…
Romano con una spinta spalancò la porta, facendolo quasi cadere.
– Levati dalle palle!
L’uomo lo prese per un braccio. Era grande e grosso, e determinato a non lasciarsi sopraffare.
– Ho detto che non si può entrare, ci vuole un permesso.
Romano ruggí, disperato. Sulla sua mente stava calando il temutissimo velo rosso di rabbia che tanti problemi gli aveva causato. Prima che potesse accorgersene era sopra l’uomo, a terra, le mani strette al suo collo.
Qualcuno intervenne, sottovoce:
– Francesco. Francesco, ti prego. Ti prego.
Come per incanto la rabbia sbollí e Romano si rialzò ansimante. L’infermiere si mosse rapido, strisciando verso il muro per allontanarsi il piú in fretta possibile da quel pazzo furioso.
La voce che aveva evitato il peggio apparteneva a una donna piccola e sottile, con i capelli biondi e grandi occhi azzurri. Sul camice bianco spiccava la scritta: sono la dottoressa Susy, cucita con i colori dell’arcobaleno.
L’infermiere, tossendo:
– Questo pazzo, dottore’, ha fatto irruzione nel reparto, mi voleva ammazzare.
Con gli occhi ancora fissi su Romano, che stava regolarizzando il respiro e continuava ad aprire e chiudere i pugni lungo i fianchi, la dottoressa rispose calma:
– Caputo, non esageriamo. Qui nessuno ammazzava nessuno, stavate solo discutendo animatamente.
L’uomo insistette, stridulo:
– Dottore’, ma che state dicendo, io voglio sapere chi è questo energumeno.
Susy si voltò verso Caputo e gli sorrise, fredda.
– Caputo, voi qua non ci dovevate nemmeno stare. Il vostro reparto è un altro. Ma sono contenta di vedervi, cosí vi chiedo dov’è finito quello scatolone di antibiotici che non trovo piú. Forse voi c’entrate qualcosa, giacché uscivate dal nostro magazzino mezz’ora fa.
L’infermiere si massaggiava il collo e rivolgeva occhiate torve sia a Romano sia alla dottoressa.
– Va be’, dottore’, allora io qua non ci sono mai venuto. Vi faccio questo piacere.
Susy annuí.
– Magari per stavolta basta cosí. Ma la prossima avrò piú tempo per chiacchierare col direttore sanitario. Arrivederci, Caputo.
Appena l’uomo se ne fu andato, Romano parlò.
– Susy, io… Mi dispiace, mi sembrava di impazzire. Non so che cosa…
La dottoressa Penna, quello era il cognome della pediatra, gli si avvicinò preoccupata:
– Ti senti bene, France’? Non avevo mai visto… Non ti avevo mai visto cosí.
Si erano conosciuti nei giorni terribili seguiti al ritrovamento della piccola Giorgia, quando la bambina era stata sospesa tra la vita e la morte e Romano aveva scoperto dentro di sé un territorio sconosciuto di tenerezza e di paura. Nel rapporto di confidenza prima e di amicizia poi che avevano instaurato durante ore in cui tutto quello che si poteva fare era stato fatto e c’era solo da aspettare, il poliziotto si era gradualmente aperto e le aveva confessato di andare soggetto alla rabbia. Per lui era una malattia.
– Mi hai salvato, sai. Quella voce, quella calma… Io potevo anche strozzarlo. Davvero. Tu non sai quanto mi hai protetto, solo con la tua voce.
La dottoressa minimizzò:
– È la tecnica che usano i domatori. Dovresti portarmi dietro, in tasca. Sono piccola, io.
Romano riuscí a sorriderle a stento.
– Dimmi di lei, di Giorgia. Mi hanno contattato dalla casa famiglia, pare che abbia la febbre altissima.
Susy confermò con un cenno e assunse un’espressione grave.
– Aveva quasi quaranta. Per fortuna hanno chiamato il centodiciotto e c’era un ragazzo bravo, un mio amico. Le ha fatto un impacco freddo senza somministrarle farmaci. Lo sai che Giorgia ha una serie di allergie che avrebbero potuto ucciderla. Adesso la stiamo sottoponendo a delle analisi.
– Sí, ma cos’ha? Le hanno fatto qualcosa, le hanno dato qualcosa di sbagliato e…
Susy si alzò sulla punta dei piedi e gli accarezzò la guancia. Fu un gesto rapido, dopo il quale la donna ritrasse subito la mano, tanto da lasciargli il dubbio che fosse accaduto davvero.
– Povero Francesco, che ha bisogno per forza di dare la responsabilità a qualcuno per ogni male ci sia nel mondo. Sapessi quanti ne vedo, che la pensano come te. Che cercano in un’iniezione sbagliata, in una pillola di colore diverso da quello giusto, in una terapia non appropriata la colpa delle sconfitte. Non funziona cosí. La gente si ammala, soffre e muore. Anche i bambini. Non è colpa di nessuno.
Romano si sentí crollare l’universo addosso.
– Susy, ma che dici? Che Giorgia potrebbe… Che potrebbe… Dio mio, non riesco nemmeno a…
La dottoressa scosse il capo, spalancando gli occhi nella maniera infantile che le apparteneva.
– Non intendevo questo. Ma Giorgia, lo sai, è fragile. Le sue prime ore di vita sono state molto complicate. Ha delle carenze, cose che andranno a posto, però questo richiede tempo. E il nostro compito è tentare di fornirglielo, questo tempo.
Il poliziotto si accorse di piangere.
– Susy, Susy, ti prego, salvala. Io… C’è una parte di me che non avevo mai… Io le voglio bene. Le voglio bene da impazzire. Il pensiero della sua fragilità… Sto cercando di adottarla; siamo andati da un avvocato. Ho solo bisogno di mettere a posto le cose e poi ci sarò io a proteggerla.
Gli occhi della dottoressa si riempirono di tenerezza.
– Vorrei avere questo potere, France’. Lo vorrei avere ogni giorno e mille volte al giorno, ma non ce l’ho. Vieni, siediti qui e raccontami, tanto ora non possiamo fare niente. Hai detto che siete andati, quindi hai ripreso contatto con tua moglie? Come vanno le cose?
Romano crollò sulla panca di legno addossata al muro del corridoio.
– Sí, le ho parlato. Gliel’ho chiesto io. L’avvocato… una brava, bravissima… mi ha chiarito che da solo non avevo possibilità, perciò…
La dottoressa lo guardò in modo strano.
– Perché ho l’impressione che tu ti stia giustificando?
– Chi, io? No, scherzi? No. È solo che… C’era un motivo, no? Un motivo forte, fortissimo. E io dovevo tentare, almeno. Ed è quello che ho fatto, l’ho chiamata e lei è venuta e ha visto la bambina. Tu lo sai, Susy, com’è la piccola: basta che la tieni in braccio per un minuto e non te la togli piú dal cuore.
Susy annuí. Poi disse:
– Ho pensato spesso a te, quest’estate. Ci eravamo dati un termine io e mio marito; ti avevo spiegato che le cose tra noi non andavano piú bene. Siamo andati in vacanza insieme, in Grecia. Un posto dove eravamo stati altre volte, nei periodi felici. Speravamo che… Be’, è stato un disastro.
Romano mormorò:
– Mi dispiace, Susy. Ma perché hai pensato a me?
La dottoressa fece una smorfia.
– Perché anche tu ci hai provato, in fondo. Ci stai provando. E io ti auguro di riuscirci, naturalmente, per il bene tuo e per quello della piccola Giorgia. Eppure… io non lo so se una cosa rotta si può aggiustare davvero, quando si tratta di sentimenti. Non dovrei dirlo proprio io, che dalla mattina alla mattina dopo cerco di aggiustare quello che non funziona, ma…
Romano abbozzò un sorriso tirato.
– Ma ripeto, c’è un motivo fortissimo. Poi, magari, un po’ alla volta…
Susy rispose al sorriso, ma i suoi occhi erano privi di allegria.
– E allora perché non è qui con te? A vedere come sta Giorgia? Perché non è venuta?
Romano sbatté le palpebre e ammise:
– Non lo sa. Io… io non l’ho avvertita. Non ci ho pensato.
La dottoressa gli accarezzò di nuovo il viso.
– Vieni, France’. Vieni con me, andiamo da Giorgia. Vediamo se si è svegliata.