LIV.

Gaspare Spasiano uscí dal portone tirando su la lampo della giacca di pelle. Ne era molto orgoglioso: i film con i cattivi che indossavano giubbotti lucidi e neri sopra anfibi lucidi e neri e che salivano su moto lucide e nere indossando caschi lucidi e neri gli procuravano ogni volta una scarica di adrenalina emulativa, facendolo sentire forte e bellissimo.

In realtà Gaspare non era particolarmente bello, coi capelli lunghi e stopposi che avevano da tempo lasciato libera una vasta zona sulla sommità del cranio; e anche la dentatura non reggeva la parte, scura e irregolare com’era. Per fortuna i baffi folti e spioventi bilanciavano la situazione, conferendogli l’aria minacciosa che sperava di trasmettere; e d’altra parte la corporatura massiccia e l’altezza, i fattori piú importanti, li possedeva, anche se la pancia prominente per eccesso di birra e vino doveva essere celata sotto un abbigliamento studiato ad arte.

L’aspetto estetico non era tuttavia la principale preoc­cupazione di Gaspare, al momento. Ciò che lo impensieriva era quel fetente di Quattrocchi, soprannome con cui lui e Carluccio chiamavano Nicola Picariello, il dottore. Si erano fatti scappare sua moglie sotto il naso, e sebbene dividessero la responsabilità con il portiere Dell’Aquila, con questo nessuno se la prendeva, come se la colpa fosse solo di Gaspare e di suo fratello Carlo. Era stata brava, la puttana, a filarsela proprio nei cinque minuti tra la chiusura della guardiola e il loro arrivo, con le moto, sotto casa del Quattrocchi. Mica potevano stare là ventiquattr’ore al giorno, no? E il giovane Sorbo, quando erano andati a dirglielo, terrorizzati dalla possibile reazione, aveva a stento alzato le spalle:

«Baffo’, futtetenne. Il dottore si è incazzato perché la moglie è gravida, si può capire, ma a noi non ci interessa di lei; anzi, se è sparita non ce l’hanno manco le guardie, quindi è meglio. L’importante è che lui continua a faticare, stai tranquillo. Voi tenetemelo d’occhio. Comunque ne parlo a papà».

Ora dovevano tornare alla villetta sul litorale dove svernava Quattrocchi, e sarebbero stati di nuovo costretti a mentire, dicendo che avevano buone speranze di trovarla, la puttana, mentre nemmeno la cercavano. La prospettiva non lo allettava affatto. Per di piú il fratello perdeva tempo in bagno come al solito, e cosí erano pure in ritardo.

Appena all’esterno si accorse con orrore di un vero e proprio atto di lesa maestà che si stava consumando nel vicolo: c’era un tizio in sella alla sua motocicletta, con le scarpe sul sedile di quella gemella di Carlo. Gaspare non si capacitava: tutti sapevano che era sacra, che nessuno poteva neanche immaginare di appoggiarvisi contro. E invece il tizio mandava messaggi col telefonino standoci comodamente seduto sopra; e dalla parte del cavalletto, a rischio di piegarlo.

Lí per lí a Gaspare non venne fuori nemmeno la voce, tanto era sconvolto dall’enormità dell’evento. Di sicuro era un turista, in ogni caso era il momento di spaccare un’altra testa.

– Oh! – urlò.

Carluccio, ritenendo che il richiamo fosse rivolto a lui, rispose dall’interno:

– Sto arrivando, Baffo’, eccomi!

Gaspare ripeté l’urlo, avvicinandosi al tizio, che però aveva le cuffiette nelle orecchie e seguiva un ritmo coi piedi. Non ebbe dubbi che il fratello, capace di uccidere per molto meno, gli avrebbe inghiottito il cuore.

Lo ghermí per un braccio, e quello alzò lo sguardo. Almeno a Gaspare parve cosí, perché gli occhi erano schermati da un orribile paio di occhiali azzurrati che probabilmente risalivano agli anni Settanta: e non era neppure l’indumento piú orrido, perché la parte inferiore della faccia era coperta da una terribile sciarpa colorata.

Il tizio tolse una delle cuffiette e disse, serafico:

– Mpf?

Gaspare lo sollevò di peso, ruggendo una bestemmia. Il tizio cominciò a muovere i piedi a mezz’aria, lamentandosi. A quel punto da dietro l’angolo sbucò un secondo tizio con il collo grosso. Nella nebbia della furia, Gaspare si chiese che fine avesse fatto Gigetto, il ragazzino di vedetta all’imbocco del vicolo, il cui fischio avrebbe dovuto avvisarli di presenze estranee. In realtà il ragazzino era lí che mugolava nel tentativo di liberarsi dalla ferrea presa di un determinato Pisanelli, che gli stringeva entrambe le orecchie tra le dita, torcendole.

Tizio due, quello col collo taurino, si avvicinò e, con gli occhi concentrati come se stesse ripassando una lezione, gli sferrò un colpo di taglio sulla spalla, in corrispondenza di un nervo. Il braccio di Gaspare si addormentò all’istante e tizio uno poté rimettere i piedi nel luogo a loro piú consono, cioè per terra.

La scena era durata meno di due secondi, poi fece il proprio ingresso sul palcoscenico Carluccio, che credeva di doversi difendere dalle rimostranze espresse per il suo ritardo. Gli bastò un’occhiata per capire che c’era un problema, anche perché tizio due continuava ad assestare pugni sullo sterno di Baffone, togliendogli il fiato e gran parte dell’aggressività.

Tutto si poteva dire di Carlo Spasiano, tranne che fosse privo di spirito d’iniziativa. Con un solo, fluido movimento, e superando in un decimo di secondo la sorpresa per l’anomala circostanza, estrasse la Glock 17 che portava nella cintura, reggendola come aveva visto fare mille volte in Tv dai criminali del Bronx, e cioè obliqua e alta rispetto al corpo.

– Tengo il ferro! – esclamò, per spiegare il concetto a eventuali spettatori non vedenti.

– Anch’io, – rispose una voce calma alle sue spalle. Con la coda dell’occhio scorse una ragazza sottile e ben vestita che impugnava una Beretta in posizione meno plastica della sua ma piú efficace: con due mani e a gambe larghe. A Carluccio era stato sempre chiaro un precetto della vita in strada, e cioè che si comprende dallo sguardo di chi ha la pistola se realmente sparerà o no. Quello della fanciulla con la Beretta era sicuro e diretto, comunicativo come un’Ave Maria. Lasciò cadere la semiautomatica.

Mai si sarebbe potuto dire, però, che i fratelli Spasiano, ancorché colti di sorpresa e in minoranza, avevano consentito a uno di ascoltare musica coi piedi sulla sella di una delle loro moto e restare vivo per raccontarlo. Pertanto, mentre l’attenzione di tutti era concentrata su Carlo, Gaspare estrasse un coltello a serramanico lungo quanto una notte d’inverno e alzò il braccio per sgozzare tizio due, che si era voltato per raccogliere la Glock.

Fu allora che spuntò a passo lungo un tizio tre, con i lineamenti da orientale e gli zigomi alti, che gli appoggiò sul collo la canna di un’ulteriore Beretta, recitando la seguente formula magica:

– Possesso di armi da fuoco, e non credo detenute con regolare permesso, dato il lungo elenco di precedenti a vostro carico; armi da taglio; resistenza a pubblico ufficiale; tentato omicidio plurimo. Ed è solo l’inizio di una lunga lista. Pertanto, cari fratelli Gaspare e Carlo Spasiano, salutate la luce del sole, perché mi sa che la rivedrete tra parecchio tempo.

Gaspare, a muso duro, e mentre tizio uno gli metteva le manette canticchiando una canzone dietro la sciarpa, ribatté:

– E del fatto che questo stronzo teneva i piedi sulla sella non vogliamo dire niente?