LVII.

Dopo qualche giorno, anche ottobre finí.

Bene o male aveva portato a termine il suo lavoro, traghettando il mondo dal caldo dell’estate al freddo umido dell’inverno che sarebbe arrivato; regalando alcune giornate di sole che contenevano la memoria del mare e della sabbia, delle canzoni stupide e del gusto di amarena e panna, e altre di tramontana, che avevano reso l’aria limpida e sincera, dolorosa e gravida di promesse di renne, trapunte e odore di legna bruciata.

Ottobre intermedio, ottobre indefinito. Ottobre tra un sorriso e una minaccia.

Ottobre da ricordare, ottobre da dimenticare.

Pisanelli arrivò con passo un po’ incerto da Samuele, il ciabattino. L’uomo continuò a estrarre chiodini dalla bocca e martellarli in una suola. Non alzò la testa, ma sorrise.

– Oh, Giorgio. Ci stiamo vedendo spesso, ultimamente. Tieni una scarpa rotta?

Il poliziotto non replicò niente, per un po’. Si sedette con un gemito sull’unica sedia della bottega, una vecchia sedia impagliata con una gamba che tendeva all’esterno e un po’ traballante.

Samuele lo sbirciò di lato, attraverso gli occhiali che aveva sulla punta del naso. Era pallido; rigirava tra le dita una penna di quelle da bambino, a tante cariche colorate e con un supereroe sopra. Pisanelli sospirò.

– Samue’, secondo te, se uno ha un amico, fino a dove si deve spingere per aiutarlo?

Il ciabattino diede un paio di martellate e si fermò meditabondo.

– Dipende, Giorgio. Amico quanto? Amico come? Gli sei grato per qualcosa? Allora nella stessa misura ti devi spingere. Bevete e mangiate insieme? Comportati nel limite di quello che credi giusto. È una parte di te? Puoi fare quello che faresti per te, giudicandolo come giudicheresti te stesso.

Pisanelli respirava pesante. Samuele si preoccupò; abbassò il martello.

– Pisane’, stai bene, sí? Che succede?

L’altro guardò fuori dalla porta il piccolo fiume d’acqua che correva in discesa nella strada verso un tombino.

– Quindi, se uno mente per sé stesso, deve mentire anche per l’amico. Ma se l’amico, amico assai, fa qualcosa di male? Di terribile?

Samuele scosse la testa e riprese a martellare.

– Il male, il bene. Chi li giudica, il male e il bene? La legge? Gli uomini? Uno deve seguire quello che gli dice il cuore, Pisane’. È sempre la cosa migliore.

L’anziano poliziotto si alzò a fatica, diede un colpetto sulla spalla curva del ciabattino e uscí nella pioggia.

Ottobre da perdonare, ottobre senza colpe.

Il generale Adolfo Di Nardo caricò la pistola e infilò le cuffie per proteggersi le orecchie. Tirò un respiro profondo, sistemò gli occhiali sul naso e si mise in posizione: le due mani impugnavano l’arma, salde.

Fermò il fiato al punto giusto e cominciò a sparare.

I colpi perforarono la sagoma all’altezza del petto e della testa; tre e tre, precisi. Il meccanismo gli portò il bersaglio davanti agli occhi, ma lui non controllò. Era già impegnato a ricaricare.

A chi spari, generale? A che serve tutta questa rabbia, questo inferno in corpo? Erano interrogativi che si poneva da parecchio tempo, nel segreto della sua anima, nella camera oscura interiore in fondo alla quale nemmeno uno spiffero entrava dall’esterno.

Sono le regole, no? Quelle stesse regole che non ti permettono di spingerti oltre un cenno del capo; mai una carezza, mai un bacio.

Le mura servono a non far entrare. La difesa, no? La difesa. In quanti sono disposti ad ammettere che le mura servono anche a non uscire?

Il generale sparò di nuovo, le braccia tese, gli occhi puntati sul nemico innocente, un pezzo di carta o un soldato, un rapinatore o una figlia. Le mura per non far entrare. Le mura per non uscire.

La maledetta paura che non lo aveva mai abbandonato, che teneva nascosta come una belva sudicia di cui vergognarsi. Quella paura che gli aveva fatto perdere il sorriso dell’unica persona che davvero amava al mondo.

Mentre esauriva i colpi, rivide una bambina che dormiva al buio. Lui rientrava da un campo, quattro mesi nel bosco coi suoi ragazzi: stelle e luna e pioggia e fiume. Era stato bene, stava sempre bene in quelle situazioni. E quella bambina, rannicchiata nel suo letto, una bambina sconosciuta, lo accusava proprio di questo: di stare bene lontano da lei.

Con la pistola in mano, ricordò che proprio quella bambina era stata la ragione per cui aveva rinunciato a un pezzo importante della sua carriera, e che lo aveva convinto cosí, assopita su un fianco, senza dire nulla. Non c’erano stati piú campi o addestramenti o missioni all’estero: aveva scambiato tutto con una scrivania, e con gli occhi neri di sua figlia. Con lei.

E adesso l’aveva persa, perché non era capace di accettare che fosse cresciuta, che fosse ciò che sperava di diventare, che fosse indipendente. Mura per non far entrare, mura per non uscire.

Se avesse avuto un’altra occasione, solo un’altra, le avrebbe detto di stare tranquilla. Le avrebbe chiesto se dormiva ancora sul fianco, ora che era una donna. Sarebbe andato a trovarla, a vedere come s’era sistemata. Le avrebbe domandato se aveva bisogno di aiuto, magari per inchiodare un quadro in alto, lei che era cosí piccola e cosí testarda.

Le avrebbe detto che l’amava e che se non gliel’aveva mai confessato prima era perché viveva dietro quelle mura.

Se avesse avuto un’altra occasione.

Si tolse le cuffie per massaggiarsi le orecchie.

Dietro di lui, Alex disse: Ciao, papà.

Ottobre per avvicinarsi, ottobre per allontanarsi.

Romano uscí di casa e salí in macchina col cuore in tumulto.

L’avvocato lo aveva avvertito che la data per l’incontro con la presidente del Tribunale dei minori era stata fissata per la fine di novembre. Aveva sorriso, l’avvocato, con quegli occhi verdi e quel naso un po’ lungo che rassicuravano. Gli aveva detto che non aveva dubbi, che lui e Giorgia sarebbero andati benissimo, e che comunque, prima di allora, li avrebbe ricevuti un paio di volte, ponendo loro le domande che, probabilmente, gli avrebbe rivolto la presidente.

Gli aveva detto, l’avvocato, che una sola cosa era importante: voler bene. Voler bene alla bambina, volersi bene fra loro. Se dimostravano questo, il piú era fatto.

Guidando, Romano risentí queste parole e sentí anche il calore della mano di Giorgia sulla sua, che lo accarezzava per confortarlo. Rammentò il sorriso dell’avvocato che notava questa manifestazione d’affetto. Appunto, aveva detto. E tutti e tre avevano riso.

La bambina, pensò Romano cercando un posto per l’auto, era di nuovo in salute. L’infezione era rientrata, la terapia antibiotica aveva funzionato. Giorgia gli era stata vicino per tutto il tempo, dandogli il cambio quando lui doveva andare al lavoro, prendendo permessi presso lo studio dove era impiegata.

Era una donna meravigliosa. Sarebbe stata una madre meravigliosa.

Aspettò un po’, sorridendo incantato perché, dopo tanto tempo, sentiva ancora quel vuoto nel cuore, quell’incanto dato dal sangue che scorreva nelle vene. La bellezza dell’attesa.

Lo sportello si aprí e sentí la sua voce dolcissima: Ciao, tesoro.

Ciao, rispose. E baciò la dottoressa Susy sulla bocca.

Ottobre per chiudere, ottobre per aprire.

Finita. La giornata è finita.

Questo diceva un tempo, Ottavia. Quando Riccardo era piccolo e non era poi cosí diverso dagli altri bambini. Quando Gaetano, il marito, era ancora capace di strapparle un sorriso con la sua impacciata tenerezza.

Adesso, invece, attendeva a occhi aperti la mattina, fissando il soffitto muto e immutabile che sovrastava i suoi dubbi e le sue incertezze. Riccardo stava diventando l’immenso, insuperabile problema che già sapevano sarebbe diventato: la voce che cominciava ad avere un tono cavernoso e quella cantilena, mamma, mamma, mamma e basta, pronunciata da un bambino stringeva il cuore, ma se era un adulto, a farlo, metteva paura. Anche Gaetano era diventato insopportabile. La sua silenziosa dedizione e il suo comportamento impeccabile suonavano come un’accusa.

Arresta il sistema, le disse il computer. E lei lo arrestò, sperando che l’indomani arrivasse prima possibile.

Le restava però da godersi l’ultimo piacere della giornata, quel saluto di un attimo tanto bello e fugace. Prese un respiro e si affacciò alla porta dell’altro ufficio, dicendo: Ciao, capo. A domani.

Lui alzò la testa con quegli adorabili capelli scompigliati, mostrando il nodo della cravatta perennemente allentato, le rughe meravigliose ai lati degli occhi che si accentuavano per un sorriso che era per lei, solo per lei. Ciao, Otta’. A domani.

Stava per chiudere la porta quando lo sentí dire: Amore mio. Si riaffacciò, il cuore che balzava in petto, gonfio di terrore e aspettativa: Hai detto qualcosa?

La voce nella mente di Palma ripeteva: Sí, ho detto amore mio. Ma dalla sua bocca uscí solo un nuovo sorriso, triste: No, Otta’. Niente. A domani.

Ottobre per il passato, ottobre per il futuro.

La musica veniva fuori dolce dalle casse. Musica classica, una passione segreta. Un’altra.

Lojacono era convinto che il passato meritasse una chance, nei gusti come nella vita. Bisognava essere obiettivi, magari qualcosa poteva essere bello, anche se si riteneva di averlo superato, di averlo archiviato. Aveva la sindrome dell’usato sicuro, insomma.

Marinella, che ultimamente lo prendeva per i fondelli come le figlie adolescenti devono fare per statuto, gli contestava di aver cominciato a dire: Ai miei tempi. E di manifestare una curiosa ostinazione nei confronti della tecnologia: non fotografava col cellulare, non usava nuovi metodi di comunicazione. Magari aveva ragione lei. Magari non voleva invecchiare perciò tentava di fermare il tempo. E magari, facendo cosí, sembrava vecchio, invece.

Era felice di come si era conclusa la vicenda Wood. Aveva seguito la giustizia superando la legge. Non si era comportato in maniera ortodossa, ma gli obiettivi erano stati raggiunti. E aveva pure avuto l’occasione di guardare dentro di sé, di ricomporre le priorità.

Marinella veniva prima di tutto. I figli sono il souvenir piú prezioso, stanno lí per ribadirti chi eri e chi sei, per rimettere sempre in discussione i tuoi comportamenti.

Ed era meravigliosa pure la consapevolezza di aver ricominciato a fare il proprio lavoro, quello per cui era nato, e aver compreso che era bello farlo da soli, ma che in squadra era meglio. I Bastardi di Pizzofalcone erano la squadra migliore in cui avesse mai giocato.

Tutti valori fondamentali, sí. Però, e questo l’aveva capito con altrettanta chiarezza, aveva anche un altro importante dovere da assolvere. Un obbligo immenso verso qualcuno al quale occorreva rendere conto per forza.

Qualcuno che gli compariva nello specchio ogni mattina.

Rimpianti e rimorsi, insomma, avevano lo stesso giudice che non concedeva appelli né dimostrava magnanimità: lui stesso.

La vita passa, ripeteva Pisanelli con la malinconia nella voce. E loro, i colleghi, sapevano che aveva in mente la sua Carmen, e quante cose avrebbe potuto ancora fare e dire e vivere con lei, se non l’avesse perduta.

Era per questo, pensò Lojacono mentre sorseggiava il suo bicchiere di vino rosso ascoltando Gershwin, che la vita, al netto di tutto, andava vissuta, e nel modo migliore possibile. Era per questo che, un paio di giorni dopo aver arrestato gli Spasiano, aveva trovato il coraggio di ripresentarsi in un certo bar, dove di nuovo due di un gruppo di tre amici erano usciti subito ridacchiando.

Era per questo che adesso, bevendo nudo il suo vino, poteva sentire il calore del corpo altrettanto nudo della dottoressa Laura Piras accoccolata al suo fianco. Vino. Gershwin. Laura. Aveva assolto agli obblighi che aveva nei confronti di Lojacono Giuseppe, il suo personale magistrato.

Il cellulare vibrò sul tavolino accanto a lui. Fu tentato di infischiarsene, non voleva che nulla inquinasse il momento perfetto; poi ricordò che Marinella era andata al compleanno di quella sua amica scombinata, e rispose. Laura brontolò nel sonno.

La voce all’altro capo telefono disse: «Peppuccio, ciao. Io sono. Ti ambientasti bene nella città nuova?»

Lo stomaco di Lojacono si strinse in un pugno.

Ottobre per finire, ottobre per ricominciare.

Holly cantava una canzone.

La cantava in un soffio, per rispettare gli altri pazienti, anche se quasi nessuno tra loro poteva udirla. Era un vecchio pezzo che parlava di estate. Gershwin.

C’era stato un tempo in cui aveva sognato di percorrere la stessa strada della madre, la via che aveva portato Charlotte dal ghetto alla cima del mondo. Non possedeva la raffinata bellezza di lei, ma in compenso la natura, attraverso i geni di quel folle padre biologico, l’aveva dotata di una voce meravigliosa. Aveva anche studiato, poi aveva capito che non desiderava trovarsi al centro dell’attenzione, che i riflettori le incutevano paura.

E allora se l’era tenuta per sé, la voce. La usava quand’era sola, per accennare i motivi che avevano segnato le epoche della sua vita. Ora le serviva per far capire a Ethan che non voleva che se ne andasse, che doveva tornare.

Aveva sentito Angela quel pomeriggio, tenendo conto del fuso orario. Si era sistemata, stava vicino a Charlotte; il ginecologo le aveva confermato che tutto procedeva bene. Non vedeva l’ora che lei arrivasse, aveva voglia di rendersi utile, di dimostrare che non avevano sbagliato, che poteva diventare una della famiglia.

Noi, Ethan, le diremo che non deve dimostrare proprio niente. Che nella nostra famiglia c’era bisogno di lei e di suo figlio. Che nostra madre portò te, da qui, come souvenir, e lei invece ha portato il senso di noi tutti, il souvenir che ci ricorderà di non aver vissuto invano.

Però devi esserci anche tu, Ethan, fratello mio dolcissimo. Lei ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Mamma, nel suo mondo sospeso, ha bisogno di te. Torna, fratello mio. Summertime, and the livin’ is easy1. Anche se piove.

Le palpebre di Ethan vibrarono e si schiusero.

Piangendo, Holly proseguí a cantare.

Ottobre per il coraggio, ottobre per la paura.

Aragona decise di cenare in hotel, da solo. Si sentiva inquieto.

Aveva dovuto sostenere un lungo, penoso colloquio con il padre. L’uomo era isterico, non voleva ascoltare ragioni. Con una calma e una capacità dialettica che ignorava di possedere, Marco gli aveva spiegato un po’ alla volta che non aveva colpa se un collega anziano, passando proprio di là a quell’ora, aveva visto un movimento strano e aveva scattato delle foto. E non era certo responsabilità sua se non era riuscito a impedire la successiva retata, con conseguente sequestro della merce. Per non parlare della ricostruzione effettuata dalla Guardia di Finanza, che aveva portato alla chiusura di negozi un po’ dovunque nella regione.

Alla fine il padre gli aveva dato un minimo di credito, e la petulanza della madre aveva fatto il resto. Il beneficio del bonifico mensile era stato prorogato con riserva, ma il rischio di una revoca gli pendeva sulla testa.

Non era pentito, per carità. Lui era un poliziotto serio, e Pisanelli aveva solo dato voce alla sua coscienza. Inoltre non poteva continuare con questa esistenza precaria, e non voleva piú dipendere dai suoi. Prima o poi doveva lasciarlo, l’hotel Mediterraneo, anche se il solo pensiero lo distruggeva.

Mentre fissava la pioggia cadere al di là delle vetrate sul magnifico roof garden, rifletté che una soluzione sarebbe stata quella di parlare a Irina. Trovare il coraggio di chiederle di uscire, almeno.

Una voce dolce, dietro di lui, disse: Il signore ha deciso?

Non ebbe necessità di voltarsi per sapere che era lei, e le indirizzò il suo miglior sorriso; senza alcun esito perché la bocca era integralmente celata dalla sciarpa del detective Hollander. Spostò l’indumento, eliminò con un veloce movimento delle dita il quantitativo di lana multicolore tenacemente aggrappato ai denti e ordinò.

Prima di allontanarsi la ragazza mormorò: Scusi se mi permetto, signore, ma è un peccato questa sciarpa, mi ricorda il gelo del mio Paese. Invece il sorriso del signore è cosí caldo.

Marco, bisognava riconoscerlo, era uno che sapeva adattarsi alle circostanze. In un lampo esclamò: Ah, questa? È un regalo di mia madre: diventa insopportabile se non la indosso. Non vedevo l’ora di sbarazzarmene. Anzi, Irina, mi faccia un piacere, me la butta lei? Grazie.

La ragazza sorrise e lui, mentre l’osservava andar via tenendo la sciarpa con due dita, concluse che la perdita secca di quattrocentoventi euro era un prezzo basso per quello spettacolo.

Finita la cena prese una decisione: voleva raccontare l’intera storia a Pisanelli. Glielo doveva, gli aveva salvato il sedere due volte, ed era pure la cosa piú vicina a un amico che avesse. Magari aveva qualche consiglio da dargli su come corteggiare Irina, dopotutto quella città era cosí arretrata che forse funzionava ancora come all’epoca del Presidente, cioè nel secolo, anzi, nel millennio passato.

Arrivò fischiettando a casa di Giorgio, salí le scale, di nuovo allegro dopo lo scontro col padre, pensando che sarebbe stato bello essere figlio del vicecommissario, e che se non fosse stato un duro gli avrebbe confessato che gli voleva bene.

Arrivato sul pianerottolo scivolò su qualcosa. Abbassò gli occhi e vide che era sangue. A terra, raggomitolato davanti alla porta, c’era il corpo di Pisanelli.

E Aragona Marco, il duro agente speciale che avrebbe voluto essere chiamato Serpico, cominciò a piangere cercando il cellulare.

Ottobre.

Ottobre che finisce.

1. I versi sono tratti dalla canzone Summertime. Testo di DuBose Heyward e Ira Gershwin e musica di George Gershwin (1935).