Transuranici. Mi ha sempre affascinato questa parola. Nella tavola periodica sono gli elementi più instabili, che decadono molto velocemente. Anche tu sei così, Mattia. La tua anima non vuole cristallizzarsi perché non ti basta resistere, tu vuoi esistere e questo comporta accettare la vita così com’è. Per te non c’è una posizione in aula, né nel mondo. Anche se hai le caratteristiche di un Panorama, tu sei il Transuranico, uno che nella vita ci sta sempre scomodo, la tua esistenza non ha persistenza né resistenza. Tu sei la dimostrazione fisica che la vita non basta, ma deve essere ricreata continuamente. L’ho sentito sul tuo volto nervoso e scavato. C’erano occhiaie con dentro nascoste notti insonni, la pelle macerata dall’inquietudine. I capelli lunghi e trascurati ti ricadono sul collo e sulle orecchie, come una bandiera di libertà. Me li immagino neri e negligenti, vessillo dell’uomo che si assoggetta all’unica regola vitale che conosce: il caos. Il tuo naso è affilato e dalla tua bocca sottile esce un alito trascurato, uno spirito che marcisce se non lo liberi con la forza. La fronte aggrottata è scavata da tensioni irrisolte o irrisolvibili. I tuoi occhi, in orbite grandi, non sono altro che la punta del cuore, obbligato a sentire di più di quanto mediamente si riesca. Sotto la tua pelle ho toccato la minaccia di un teschio. Ci sono volti in cui si sente il teschio sotto la cute: angoli spigolosi, pelle contratta, affamata da qualcosa che non si trova e tesa da una rabbia che finisce con il rivolgersi contro chi la prova. Volevo fermarti, volevo far rallentare la tua inquietudine, per questo ho indugiato più a lungo del dovuto con le mie dita sul tuo volto, per dirti che puoi sostare, che puoi portare il peso della tua solitudine, ma solo se lo trasformi in energia per gridare ciò che vedi e senti, così anche noi possiamo sentirci meno soli, grazie a te. Volevo tu capissi che avere il cuore di un poeta non è una condanna, ma un compito, ed è uno spreco di energia se questa fame di felicità non la usi per rassicurare quelli che la provano senza neanche saperlo. Tu appartieni alle profezie e, come le cose che hanno quella consistenza, sei costretto a svanire troppo spesso, perché ti convinci che sono solo illusioni, quando in realtà sono le urla di un mondo perduto o ancora da fare: da lì scaturiscono i sogni, i progetti, le ribellioni, le creazioni autentiche… marchiate a fuoco dalla verità della notte oscura da cui hanno avuto origine.
Ricordo il momento in cui ho deciso che avrei fatto l’insegnante e l’ho confidato ai miei amici. Ero felice, vedevo un futuro pieno di senso: continuare a studiare ciò che amavo e trasmettere quell’amore ad altri. Che cosa c’è di più grande? Eppure tutti mi dicevano parole che trasformavano il mio sogno in un’illusione: sarai un morto di fame, ai ragazzi non fregherà nulla, ripeterai sempre le stesse cose e ti ritroverai vecchio a 40 anni… Ma a me sembrava molto più reale il mio sogno che i loro discorsi basati sui soldi da accumulare e sul miraggio di certe carriere. Inoltre avevo l’esempio dei miei genitori: felici e realizzati nel fare i maestri di ciò che amavano. Così andai a parlare con loro. Mia madre mi disse che forse avevano ragione a sostenere che sarei stato un morto di fame, ma sbagliavano sulla parola “morto”. Sarei stato “vivo” dalla fame. Non capivo. E lei mi spiegò che da quando studiava e insegnava il greco e il latino non si era mai annoiata, si era sempre sentita aperta a una ricerca inesauribile. Quella fame la teneva viva e quella vita si trasmetteva agli altri. E questo è un grande sogno: non sopravvivere, ma essere vivi. Chi ha paura di morire cerca di resistere e si limita ad appropriarsi di energie già esistenti. Chi invece ha fame di vivere diventa un rivoluzionario, suo malgrado, perché crea nuove energie che prima non c’erano e le introduce nella vicenda umana dando slancio, forza, calore agli altri.
«Omero, vivere è cominciare. Chi smette di cominciare precipita nell’abitudine e nell’anonimato, chiunque potrebbe essere al posto suo: e così muore. Invece chi ha un fuoco che gli permette di cominciare ogni volta diventa insostituibile, ecco chi è sempre vivo.» Dopo queste parole, che ricordo a memoria, mia madre aveva preso la sua Odissea, piena di annotazioni e commenti, e mi aveva letto il passo in cui Ulisse dialoga con Calipso che vorrebbe trattenerlo sulla sua isola paradisiaca e gli dice che lei, che è molto più bella di Penelope, lo renderà immortale. Ulisse le risponde con queste parole: «O dea, non adirarti per questo con me. So bene anch’io che la saggia Penelope è a te inferiore nell’aspetto, nella figura: lei è mortale, tu immortale e giovane sempre. E tuttavia io desidero e voglio tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno. E se anche un dio vorrà perseguitarmi sul mare colore del vino, sopporterò: ho nel petto un cuore paziente. Molto ho già patito e sofferto in guerra e sul mare: sopporterò anche questo».
Questo per mia madre significava essere vivi: scegliere la vita con i suoi limiti e amare a tal punto da rendere infinite le cose mortali. E non il contrario.
Mio padre, propenso a far parlare le cose più che i testi, non disse una parola, ma quella sera mi portò all’osservatorio della città. Guardavamo le stelle senza telescopio e mi chiese che cosa vedessi. Io gli descrissi alcune stelle, uno o due pianeti. Era una notte senza Luna. Poi guardammo quello stesso cielo attraverso il telescopio. E mio padre mi ripeté la domanda. E io non sapevo cosa scegliere, tante erano le galassie, le nebulose, le stelle che erano apparse.
«Figlio mio, per fare una rivoluzione bisogna credere nella realtà. Ci sono persone che si illudono di fare le rivoluzioni solo con le loro idee, con l’immaginazione. Si convincono di una idea e poi cercano di applicarla alla realtà, fino a farle violenza, purché i loro conti tornino. Ma la realtà non si piega. E così quelle persone rimangono deluse della vita e si deprimono, perché non è andata come si erano immaginate. Invece chi vede veramente la realtà non può non amarla, perché è lei che a poco a poco ti si svela. E l’unico modo di lasciarsi sorprendere dalla realtà è seguire il proprio sogno, perché i sogni sono come questo telescopio. Le cose erano già lì, eri tu che non le vedevi ancora, ma quella lente, la lente dell’amore, te le ha rese visibili. Il telescopio è nel cuore, non nel cervello. Il cuore fa le rivoluzioni, non la mente, perché il primo si apre alla vita, la seconda la vuole dominare.»
Ricordo questi due dialoghi come fosse oggi. E vorrei che anche tu, Mattia, non avessi paura di portare nel mondo quel cuore che ti condanna a vedere le cose in un modo che a quasi nessuno sembra interessare, perché tutti costruiscono la realtà con le loro illusioni. Tu invece hai quel telescopio sempre aperto e quando racconti ciò che vedi nessuno ti crede – è il destino dei profeti. Ma è proprio questa solitudine il prezzo da pagare. Questa è la rivoluzione che devi fare, quella silenziosa e paziente di chi racconta ciò che vede e che ama, e lo difende al prezzo del proprio dolore, perché non esistono un nuovo conoscere, un nuovo amare, che non passino dal soffrire per ciò che si vuole conoscere e amare: le vere rivoluzioni sono creative, non distruttive. Troppi si propongono di fare la rivoluzione non per cambiare il mondo, ma perché hanno bisogno della frenesia del movimento pur di non affrontare se stessi. Preferiscono abbattere i nemici che loro stessi creano piuttosto che difendere ciò che amano, perché non amano nulla, neanche se stessi. Sguazzano negli eterni preparativi, nell’inquietudine delle novità, nella cieca fede nel progresso. L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita. Queste rivoluzioni non hanno mai rivoluzionato nulla, perché il cuore dell’uomo è rimasto lo stesso: non si è mosso di un millimetro. Le vere rivoluzioni sono lunghe e silenziose, come il lievito fanno crescere la pasta del mondo.
Da quando sono cieco ho sognato spesso di camminare in un tunnel infinito, la luce non era davanti a me ma dietro, e io potevo solo avanzare perché alle mie spalle si apriva passo dopo passo un baratro. A un tratto il corridoio faceva una curva brusca, girare significava precipitare nel buio definitivo. Non mi risolvevo a svoltare, perché avrei perso del tutto la luce. Da quel buio proveniva un suono attraente e spaventoso insieme, garanzia che qualcosa doveva pur esservi in quel fondo di tenebra, magari un tesoro, ma tutti i tesori hanno un drago a custodirli e probabilmente quelli erano i rantoli nel sonno di quella creatura. Dovevo andare avanti e abbandonare la luce. Quel sogno era la promessa che dietro la curva della cecità non c’è il buio totale, ma qualcosa a cui potersi ancora aggrappare. E infatti a quel sogno mi sono aggrappato come lo scienziato alla certezza oscura della sua ricerca, come il poeta alla luminosa tenebra della sua intuizione. Ecco cosa abbiamo in comune, Mattia, per questo non ti lascerò solo, ora che sei a quella svolta. Perché quelli come te mi ricordano che la mancanza di una vita normale si può trasformare in un dono. Da quando sono cieco sono costretto a vedere di più. Lo stesso vale per le anime senza pace come la tua, Mattia. La pace viene loro tolta per cambiare il mondo così com’è, perché così com’è non basta. Sono anime che hanno sete di un mondo ancora da fare, e che va fatto. I loro sogni chiedono alla realtà di mostrarsi, e il loro dolore è nostalgia di casa, come per Ulisse: amore infinito per la vita finita. Ma a loro è chiesta la sofferenza dell’attesa, del dubbio, della nostalgia. Loro versano le lacrime degli eroi. La loro sofferenza è la credenziale con cui ricordano agli altri che tutta la vita è un ritorno a casa.