Alla ricerca del tempo sprecato Diario di un professore cieco

Il tuo volto, Ettore, è un campo di battaglia. Diviso in due, come le vite che vi si contendono la vittoria, quella di tuo padre e quella di tua madre. Due flussi di sangue in lotta come due mari che si scontrano senza riuscire a mescolarsi, se non quando si scatena la tempesta. Le tue occhiaie pronunciate, la tristezza nelle orbite scavate dal peso di chi deve fare tutto da solo, e così gli angoli della bocca, stretti e incurvati, raccontano di un ragazzo che non si aspetta molto dal futuro, perché è troppo impegnato a guardarsi le spalle. Ho sentito sotto le mie dita le linee della rassegnazione, dell’umiliazione, della rinuncia. Ma ho anche percepito la tensione del combattente, di chi non ha abbandonato il campo, di chi ha un riscatto da conquistare proprio perché ha molto sofferto. L’amore ha fallito con te, Ettore, ma tu non vuoi fallire con l’amore. Spero tu possa farcela e non ti abbandoni all’alcol, il cui odore si nasconde nel tuo fiato sin dalle prime ore del mattino… A volte sono i figli a dover mettere al mondo i genitori, come è successo anche a me.

Ho avuto bisogno di mio figlio Pietro più di quanto lui avesse bisogno di me. Non potevo più aiutarlo nei compiti, leggergli le storie, andare a giocare a calcio con lui, mostrargli le costellazioni… Mi sembrava di non avere più i mezzi per affidargli il mondo che ogni padre vuole tramandare al figlio, come mio padre ha fatto con me. Poi un giorno camminavamo mano nella mano, tornando da scuola, quando si è messo a piovere. E ho cominciato a raccontargli come tutte le cose, un attimo prima mute e sole, erano diventate una sinfonia: ticchettare sulle macchine, picchiettare sulle foglie, rimbalzare sull’asfalto, tintinnare sulle tegole, scoppiettare sugli ombrelli, tamburellare sull’erba… Gli descrivevo gli effetti della pioggia in ogni angolo, come fossero i componenti di un’orchestra: ottoni, fiati, archi… Con una immaginaria bacchetta isolavamo un gruppo di strumenti e ascoltavamo il timbro che l’acqua si premurava di rivelare, poi li componevamo insieme. Gli raccontavo che il tuono è un appello alla terra, perché si apra alla pioggia, che disseta la città soffocata dall’asfalto.

È la linea in cui collochiamo il confine tra oggettivo e soggettivo che ci regala le cose: un tempo per me la pioggia era solo un ostacolo ai programmi, un fastidio da evitare. Ora la pioggia è acqua che rende nuova la terra. E così abbiamo ballato, perduti nell’istante, con cuore primitivo. Siamo tornati soltanto un’ora dopo, bagnati fradici e ridendo. La pioggia era diventata un dono, anche per lui. Qualche tempo dopo mi ha detto che, da quel giorno, tutte le volte che comincia a piovere chiude gli occhi e si ferma ad ascoltare.

«Tutti scappano quando piove, per loro la pioggia è una cosa brutta. Per me invece ha la tua voce.» Così mi ha detto.

C’è sempre qualcosa che un padre può donare a un figlio, fossero anche le sue mani vuote. E poi c’è tutto l’immenso panorama delle cose che un padre può ricevere da suo figlio, e spesso sono quelle che credeva di dovergli dare lui.