MAGGIO

Maggio è un mese che non lascia scampo a un cieco. Il fermento di tutte le cose, che incanta gli occhi, è un frastuono entropico. All’inizio è un verso sottile e strisciante tra le tante voci del mondo, un sottofondo, una nota persistente, dissonante e sospesa come alla fine della nona sinfonia di Mahler, che mio padre amava tanto, un allarme lanciato dalle cose per non essere derubate della vita. Nell’esplosione della vitalità è contenuto il seme della decadenza. A poco a poco il suono cresce, penetra nelle strade, frusta le facciate dei palazzi, sferza l’asfalto, rimbalza sui tetti. Le cose in cui confidiamo perché ci sembrano stabili e fedeli stanno rovinando. Tutte le cose che abbiamo costruito si crepano. Il lavoro, i corpi, gli orari, le case, le carezze, i soldi, i libri, gli abbracci, i capelli, gli amplessi, i denti… tutto viene giù a velocità crescente, mostrando quanta realtà manca alla realtà. Ogni scorza di vita urla per esistere di più, tradendo in modo sfacciato la sua paura di non esistere ancora o la sua vergogna di non esistere abbastanza, perché la natura conosce solo una strada per resistere: affrettarsi sulla via della morte. In ogni bellezza c’è morte: una gemma su un ramo è una nuova crepa.

A maggio sento il fiato sprecato dalla natura, anche se sa di rose e lavanda, sento la mancanza di una vera soluzione alla morte, l’assenza di una consolazione al destino di tutte le cose. Per questo preferisco i mesi dell’attesa a quelli della nascita.

Mi perdo in pensieri senza parole, passeggiando nell’aria troppo ricca del parco vicino a casa, in attesa di Annamaria che vuole aggiornarmi sulla situazione della classe. Comincio a elencare i dieci libri più spacciati per essere stati letti senza averlo fatto: La Recherche, Guerra e Pace, Ulysses, Infinite Jest…

«Rischiano di non essere ammessi all’esame di maturità.»

«Perché?»

«Basta che abbiano il voto di comportamento sotto la sufficienza, e la nota disciplinare che hanno preso per ciò che è successo può bastare.»

«Sì, sì, so come funziona… Ma a che serve?»

«Il preside sa che se fa un passo indietro si crea un precedente. Non vuole perdere la faccia. E poi, lo sai, non c’è niente di peggio dell’orgoglio ferito per far smettere una persona di ragionare…»

«Ma è assurdo! In tantissime scuole sempre più insegnanti dedicano una parte della loro prima ora di lezione a formulare l’Appello. Persino il ministro ha cominciato a promettere aumenti di stipendio agli insegnanti, le solite umilianti polpette per tenere a bada il cane…»

«Sei diventato un rivoluzionario!»

«Mio malgrado. In realtà io credo solo in un certo tipo di rivoluzione.»

«Quale?»

«Quella dei pianeti: il loro moto attorno a un centro di gravità. La rivoluzione della Terra attorno al Sole, la rivoluzione della Luna attorno alla Terra. La rivoluzione dell’Appello non avviene contro nessuno, non distrugge ma crea, fa ruotare la scuola attorno al suo centro di gravità, senza però voler eliminare ogni tensione. È un movimento vitale: non rinuncia alla vita, che è proprio ciò a cui la scuola ha rinunciato. Non si saltano le lezioni, non si fanno scioperi, occupazioni o i loro succedanei post ideologici: autogestioni, cogestioni, didattica alternativa… Rimanere in classe significa confermare ciò che si sta facendo, ma rinnovandolo dal di dentro, proprio con quelle persone e non contro quelle persone. La nostra rivoluzione è un risveglio, non una guerra, è pro, non contro. È ciò che accade alla natura in questo periodo dell’anno: un risveglio che sembra esplodere all’improvviso ma è stato preparato lentamente.»

«Non ho mai creduto neanche io nelle rivoluzioni immediate. Tutto ciò che viene rivoluzionato all’improvviso è frutto di una maledizione e di un tradimento del passato, ma il passato è l’unica certezza che abbiamo, nel bene e nel male…»

«Persino la Luna ogni anno si allontana dalla Terra di 2,5 centimetri, ma nessuno se ne accorge. Noi abbiamo soltanto dato un’accelerata al processo, perché nelle vicende umane è la libertà a innescare ciò che nei processi naturali accade per una logica intrinseca.»

«Hai molta fiducia nella libertà. Forse troppa…»

«È veramente il più grande dono che ci ha fatto Dio, Anna. E infatti è il limite della sua onnipotenza.»

«Che intendi?»

«Che non crederei mai a un Dio che fa di me un burattino in un teatrino che chiamiamo storia. La storia è il rischio che Dio ha deciso di correre creando l’uomo. Nella Genesi, il primo compito che diede a Adamo fu attribuire un nome a tutte le cose.»

«Sì, mi ricordo, ma cosa c’entra?»

«È il rischio che Dio corre con ciascuno di noi. Dare i nomi alle cose vuol dire esserne responsabili. Dio si fida della nostra creatività, della nostra libertà, e lascia che la storia si modelli sulle nostre scelte… Mette il mondo nelle nostre mani.»

«Non mi sembra sia stata una grande trovata, se consideri come vanno le cose…»

«E questa è la conferma che la libertà è reale e non una finzione: la vita è veramente nelle nostre mani.»

«E che ci dovremmo fare con tutta questa libertà?»

«Non si può amare senza libertà, Anna. Amare è la scelta più rischiosa che ci sia.»

«Allora io ho fallito…»

«Perché lo dici?»

«Mio figlio.»

«Non lo hai amato?»

«Sì.»

«Allora hai fatto quello che potevi.»

Anna rimane in un silenzio che spezzo io dopo qualche secondo.

«Che tipo era?»

«Da bambino era incontenibile. Amava esplorare, domandare, ascoltare storie…»

Si interrompe, cercando le forze per ricordare per l’ennesima volta ciò che la lega a lui: il dolore.

«E poi si è trasformato. Proprio durante l’adolescenza, in quel modo misterioso che ti fa soffrire doppiamente perché non ne capisci la ragione. È diventato malinconico, si chiudeva spesso in un silenzio che non riuscivamo a scalfire… Non c’erano stati traumi… è come se fosse diventato incapace di gestire il suo entusiasmo per la vita, come se fosse rimasto deluso da quello che aveva scoperto. Non lo so. Sarà la mia croce finché campo. Gli saresti piaciuto. Amava moltissimo le scienze e da piccolo ripeteva sempre che voleva fare l’astronauta. Forse gli è mancato qualcuno come te.»

«Come me?»

«Qualcuno che gli facesse vedere che era necessario al mondo. Questo dovremmo fare noi per mestiere, farli sentire necessari. Ma è una pretesa assurda, non ci riusciamo neanche con i nostri figli…»

«Ma a noi è chiesto di amare, non di riuscire… Io sono sicuro che con tuo figlio l’hai fatto.»

«Chi lo sa…»

«Come va con Elisa?»

«Quella ragazza è una sorpresa continua.»

«Perché?»

«Ha divorato una quantità di libri inimmaginabile e in classe non ne aveva mai parlato. L’altro giorno siamo rimaste a discutere per un’ora di Cime tempestose

«E come sta?»

«Meglio.»

«Merito tuo.»

«Io non ho fatto nulla. Ho solo cercato di ascoltare.»

«Ti pare poco? Oggi, tra fretta e cellulari, prestare attenzione è diventato rivoluzionario…»

«Una volta eravamo al parco e mio figlio scorrazzava in bicicletta. Aveva appena imparato ad andare senza le rotelle. E continuava a ripetermi guarda, mamma, guarda come vado veloce!»

«Funziona così… se li guardi trovano il coraggio.»

Rimaniamo in silenzio, mentre tanti suoni animano il parco: grida di bambini, corse di cani, biciclette leggere, conversazioni pacate… basta un ritaglio di bellezza per far crescere nel cuore di pietra della città il seme della vita.

«Mi hai fatto venire un’idea» sbotta Annamaria interrompendo il mio pensieroso silenzio, quasi stesse ascoltando le onde che il cervello emette quando riflette tra sé e sé.

«Che idea?»

«Per farli ammettere alla maturità.»

Il panico morde il petto e reagisco facendo l’elenco delle 10 gradazioni del mio ex colore preferito (di quando ci vedevo), che adesso è soltanto una serie di nomi nostalgici: Celeste, Turchese, Lapislazzuli, Marino… Achille posiziona lo schermo in modo che la telecamera centri il mio volto e quello di Annamaria. Quando sento la sua mano sulla mia finalmente mi tranquillizzo e lascio perdere il Cobalto e il Reale. Tutto è pronto per registrare il video che finirà sui profili dell’Appello.

«Pensieri Pericolosi. Azione! Quando volete…»

Trascorrono lunghissimi secondi di silenzio, mentre ripasso mentalmente i passaggi chiave della mia parte.

Poi la voce di Anna, ferma e infuocata, rompe gli indugi.

«Classe! Una parola che diamo troppo per scontata. Originariamente era la schiera di soldati radunati dall’appello di una tromba che era detta classicum, da un antico verbo che significava “chiamare”. La classe non è un mucchio di persone prese a caso, e non è un parallelepipedo in cui costringere i corpi di alcuni sventurati, ma è un esercito chiamato a combattere. Gli infanti, coloro che ancora non sono capaci di parlare, sono chiamati a diventare fanti, coloro che prendono la parola e si dispongono a combattere in prima persona. E questo è quello che stanno facendo i nostri studenti: hanno risposto all’appello, pronti a difendere la vita di tanti altri.»

Ora è il mio momento.

«“Per favore, fai più copie che puoi di questo volantino e distribuiscilo.” Così scrivevano i ragazzi della Rosa Bianca alla fine di ogni manifesto. Poche settimane dopo la loro esecuzione capitale, quei fogli piovevano sulle città tedesche e a lanciarli erano gli aerei inglesi. Era il 1943 e un gruppo di diciottenni, o poco più, aveva risvegliato migliaia di coscienze addormentate e complici, pagando con la vita. Qualcosa di simile sta succedendo ai nostri ragazzi. Le scuole del Paese sono in subbuglio. L’Appello si diffonde nelle classi, da nord a sud, semplicemente perché è giusto. Gli studenti ci stanno dicendo che è impossibile separare una testa da un corpo: nessuno può studiare un capitolo di storia se è in preda a un atroce mal di denti. E noi non possiamo più ignorare il mal di denti.»

Di nuovo Anna.

«Cronos divorava i figli per paura che il suo potere venisse rovesciato, nessuno aveva il coraggio di opporglisi. E anche noi continuiamo a divorare i nuovi. Ogni generazione teme di essere sostituita dalla successiva. Dovremmo invece imparare che una generazione ha bisogno dell’altra, come accade in classe: passato e futuro creano il presente, rendendolo reale attraverso la relazione tra noi e loro. E ve lo dice una che insegna da una vita e che per troppo tempo aveva smesso di farlo, pur entrando in classe a fare la sua lezione. Il passato entra nel futuro attraverso questo presente faticoso e imprevedibile che chiamiamo scuola. E questo incontro è l’incontro dei nostri corpi con i loro, delle nostre anime con le loro, perché ancora una volta il passato diventi futuro e il futuro diventi presente.»

A me.

«Dopo quanto è successo con il ministro, io sono stato sospeso per ragioni che mi risultano tuttora incomprensibili, ma per ragioni ancora più assurde adesso i miei ragazzi rischiano di essere esclusi dall’esame di maturità. Allo stesso tempo sono stati raggiunti da tv, giornali, radio… intervistati in lungo e in largo, trasformati in star da bruciare sull’altare del Momento. La scuola li respinge, lo spettacolo li divora: è questo il mondo a rovescio che abbiamo creato per loro. Il mondo degli adulti da un lato li respinge e dall’altro li schiaccia. I cruenti sacrifici umani di giovani che le culture hanno sempre praticato non sono venuti meno. Le vite giovani sono sempre state immolate per preservare il mondo al rovescio costruito da chi in quel mondo ce le ha messe: questo deve finire! L’eutanasia culturale del nostro tempo deve finire. I nostri studenti stanno lottando per non essere divorati. Non hanno fatto niente di male. Meritano di tornare a scuola, perché è la scuola che hanno difeso.»

Anna.

«Per questo vi invitiamo a essere parte di un cambiamento della scuola da dentro. Resistete senza violenza a uno stato di cose che ignora l’unicità delle persone e il fatto che ciascuno è necessario a realizzare un mondo nuovo. Pretendete una scuola in cui tutto quello che vi viene insegnato sia non solo di qualità, ma coerente con la vita vostra e di chi lo insegna: il sapere serve a vivere meglio o non è sapere. Non possiamo più sopportare scuole brutte e cadenti. Non possiamo più sopportare indifferenza e ignoranza. Non possiamo più sopportare che i nomi non contino nulla in una relazione umana che comincia tutte le mattine con un appello. Non possiamo più permettere che anche uno solo di questi ragazzi si perda o si convinca che la sua vita sia inutile, tanto da decidere di sbarazzarsene. Come scrive Euripide: “Come può essere salda una città / quando si strappano via i giovani coraggiosi / come spighe nei campi a primavera?”.»

Il gran finale è mio.

«La responsabilità per ciò che è successo è mia e solo mia, e non capisco perché debbano pagarla loro. Sono cieco, e ho inventato questo modo di fare l’appello perché non ho altre possibilità per vederli. Vi chiedo di ripetere i loro nomi prima dell’inizio della vostra giornata scolastica, prima del vostro appello, perché tutti sappiano che ai miei studenti viene impedito di mostrare la loro maturità. Fateli tornare a scuola.

Scandite i loro nomi: Achille, Elisa, Ettore, Aurora, Oscar, Mattia, Caterina, Cesare, Stella, Elena. È venuto il momento di dare le pietre in pasto a Cronos, e non le vite. E questo dipende da voi. La scuola non serve solo a trasmettere conoscenze ai ragazzi e a prepararli per affrontare esami, ma a far sì che ci siano uomini e donne veramente liberi. Solo così la città potrà rimanere salda!»

Taccio.

«E… stop! Buona questa! Che bomba! Avevate il fuoco nelle parole. Professoressa, non sembrava lei! Cioè volevo dire… Insomma, vabbè… Avete capito… Non mi sono spiegato.»

Anna e io scoppiamo a ridere.

Non potevamo lasciare da soli i ragazzi. Ripenso a quello che mi ha detto mia moglie: non concentrarti su ciò che hai perduto, ma su quello che puoi guadagnare. Ho una sola vita e negli ultimi istanti voglio che a passarmi davanti agli occhi sia una sequenza di volti: chi ho amato e le cose che abbiamo costruito insieme. Solo così me ne andrò veramente in pace, potendo dire che nulla è andato sprecato, potendo dire di non aver distrutto più di quanto abbia costruito.

«Sei in tv!» urla Pietro. Sono bastate 24 ore.

Veniamo catapultati nelle case di milioni di persone. Mi vergogno della mia voce, ma credo che questo sia un Appello anche per noi.

«Chi è quest’uomo pazzesco?» mi sussurra mia moglie all’orecchio, mentre mi abbraccia alla vita, avendo avvertito il mio imbarazzo.

«Papà, papà, che ci fai nella televisione?» chiede Penelope.

«Una rivoluzione.»

«Che cos’è?»

«Una cosa bella.»

«Bella come?»

«Tipo un girotondo.»

«Bello il girotondo, quant’è bello il mondo, gira la Terra, tutti giù pe’ terra!» parte Penelope con i suoi automatismi lessicali e canori.

Al video seguono interviste a ragazzi, insegnanti e genitori. C’è chi è entusiasta, chi è perplesso, chi è disgustato… Come accade sempre nella finta democrazia televisiva, in cui lo spettacolo delle emozioni elimina ogni ragionamento sulla realtà. Ma la realtà sa come farsi strada, e il tempo è il suo miglior alleato.

«Ro-me-o! Ro-me-o! Ro-me-o!» scandisce qualcuno nel servizio televisivo.

Mi metto a ridere, perché sono solo un cieco che va a tentoni, uno che per non inciampare dappertutto ha bisogno di un bastone.

«Lo voglio ministro!»

Rido fragorosamente.

«Te le immagini le interviste? E lei, ministro Romeo, come vede questo problema? Qual è il suo punto di vista? Che prospettive ha?» mi prende in giro Maddalena.

Mentre ridiamo insieme, dentro di me ho paura. Comincio a tremare, e prima che io trovi dieci cose da mettere in ordine, mia moglie mi stringe più forte e so che qualsiasi cosa succeda andrà tutto bene, perché ciò che conta non si è spostato di un millimetro, anzi ha messo radici più profonde.

I giorni passano, e gli uomini tessono le loro trame. Per non perdere ulteriore consenso, il ministro è dovuto intervenire perché la sanzione disciplinare dei ragazzi venisse riconsiderata. Il preside dal canto suo ha collezionato l’ennesima memorabile figuraccia facendo marcia indietro sulla decisione precedente. Non ha osato mettersi contro Annamaria, che ha lasciato tutti i professori della scuola di stucco. I ragazzi potranno affrontare la maturità. Il video ha dato un’ulteriore spinta all’Appello e i nomi dei miei dieci campioni sono risuonati nelle aule di tutto il Paese. Sono in tanti a chiedere che io venga reintegrato nel mio ruolo. Nel frattempo noi andiamo avanti con le nostre lezioni clandestine, che hanno ormai superato il numero di ore settimanale che avevo con loro in classe: la verità è che di scuola, a scuola, non ce n’è troppa, ma troppo poca…

Dobbiamo concentrarci sull’ultima parte del programma.

«“Grande cosa è certamente alla immensa moltitudine delle stelle fisse che fino a oggi si potevano scorgere con la facoltà naturale, aggiungerne e far manifeste all’occhio umano altre innumeri, prima non mai vedute e che il numero delle antiche e note superano più di dieci volte.” Chi è?»

«Il solito Einstein?» chiede Cesare.

«No. Sono parole di Galileo. Nella sua opera Sidereus Nuncius descrive il frutto delle sue osservazioni del 1610, con l’utilizzo del nuovo telescopio. Il cielo sembrava già ben affollato, ma è bastato potenziare con delle lenti la nostra capacità oculare e la volta celeste si è popolata di una luce dieci volte maggiore. Voglio partire da qui oggi, ragazzi, per dirvi che ogni vita a guardarla da vicino fa più paura, ma è l’unico modo di cogliere la realtà. E scoprire che ciò che sembrava buio è altra luce. Ci era invisibile semplicemente perché ci eravamo accontentati o eravamo stati superficiali, non avevamo la lente giusta. Galileo non inventò il telescopio o le lenti, ma li mise al servizio della sua curiosità per il cielo e gli oggetti che lo popolano, soprattutto la Luna. Poche pagine di prosa sono così belle come quelle in cui la descrive, come un innamorato parlerebbe del viso della sua amata. Come sempre è l’amore che guida e amplia la conoscenza, perché rende un tutt’uno con ciò che si ama. Per questo vorrei che oggi mi raccontaste come va con la luce, la vostra luce, quale forma ha preso, dove è incastrata, dove sta brillando… puntate il telescopio sull’anima e, come dice Galileo, scoprirete di essere dieci volte più luminosi di quanto credete, proprio frugando in quello che sembra essere il vostro buio.»

AURORA

Quando sono stata in ospedale per l’alimentazione forzata ho trovato ciò che non riuscivo a vedere. Un giorno mi sono messa a girare per i corridoi dell’ospedale: il camice da malata mi dava accesso a zone proibite e, senza rendermene conto, ho varcato la soglia di una di queste, forse incuriosita dai colori vivaci delle pareti. Il reparto di oncologia pediatrica. Ho visto bambini e bambine torturati dal dolore, alcuni riposare con un po’ di pace in viso, altri ancora giocare come se nulla fosse. Molti di loro senza capelli, bambini invecchiati. Sono rimasta a guardare in silenzio quando d’un tratto Irene, una bambina di 7 anni completamente calva, che danzava come un elfo dei boschi col sottofondo di una melodia allegra, si è fermata e mi ha chiesto chi sei, una fata? E io le ho raccontato chi sono e perché ero lì. E lei mi ha chiesto e perché non mangi? E io ho provato a raccontarle il perché. E lei mi ha detto a me piace mangiare, ma spesso vomito le cose o non sento il sapore, per le medicine che mi danno. Non sapevo cosa risponderle… Lei mi ha sorriso e poi mi ha chiesto come facevo ad avere capelli così belli e così lunghi e così biondi. Le ho risposto che sono i capelli della mia mamma. Anche io li voglio come te, da grande – così mi ha detto –, se ci riesco a diventare grande. Le ho accarezzato la testa. Li avrai, le ho assicurato. Me lo prometti? Te lo prometto. Irene è andata via con un sorriso e ha ricominciato a ballare, con la gioia di chi ha ricevuto una magia inattesa.

E così ho capito che cosa voglio fare: far ridere i bambini. Io ho riso troppo poco da bambina, perché avevo sempre paura di sbagliare. Per Irene io dovevo mangiare, come succedeva quando da piccoli ci convincevano a prendere un boccone in più: e questo è per… è per Irene, e per tutto il dolore che posso curare con il mio. Se non fossi finita in ospedale non avrei visto, non avrei capito. Non pensavo che il dolore potesse aiutarmi a mettere a fuoco la vita. Nella tenebra di quel reparto ho trovato la luce di cui avevo bisogno.

CESARE

Hai ragione, Aurora, bisogna crederci alla vita, anche se ti ferisce, anche se è in salita. Io avevo perso Luce perché la volevo solo per me, poi abbiamo fatto pace e mi ha spiegato che ci si ama in tanti modi. Certo che la vita è una strana cosa, devi sciogliere un casino di nodi per capirci qualcosa. A lei piace la nostra rivoluzione, perché non è violenta, da quando lavora con quelli come me, non ha mai visto cambiare nessuno con la violenza, mi ha detto che ci vuole tempo, le cose non cambiano mai in un momento, perché quando una cosa è vera è come un seme, ci mette anni a dare frutto. Quando invece vuoi subito tutto, usi la forza, rompi la scorza, usi la violenza, e rompi anche l’essenza. Io la ascolto come le sue lezioni, professore, con gli occhi aperti, con il cuore. Ed è come un telescopio vedere con i suoi occhi, si vedono molte più cose, molte più di quelle che tocchi. Io adesso voglio dedicarvi una canzone, la sto scrivendo e un verso dice: … a te non lo nascondo, quello di cui mi vergogno… E quando ci penso c’è un sacco di luce, prof, anche dentro, dove l’anima si scuce e fa male che non ci devi pensare. E per questo devi cantare. Ma forse ora mi posso fermare, almeno un pochino, sono stanco di scappare da tutto questo casino. È ora di crescere, non sono più un bambino.

ELENA

Quando ero piccola non riuscivo a addormentarmi senza tenere la luce accesa. Tenevo gli occhi aperti fino a perdere i sensi, e se per caso mi risvegliavo li riaprivo subito, per assicurarmi di essere ancora viva e che nessuno fosse entrato. Quella luce mi aiutava a addormentarmi perché allentava l’angoscia. L’angoscia, l’ho capito con il tempo, è diversa dalla paura. Si ha paura di qualcosa, l’angoscia invece è una paura senza nemico, è paura di tutto. Con il tempo ho imparato ad avere paura solo del buio e ad affrontarlo. Ma da quando ho abortito sono tornata a provare angoscia, e da quel giorno ho bisogno di tenere la luce accesa per potermi addormentare. Per me la luce è sempre stata un modo di arginare l’angoscia. Ci sono notti in cui ci vuole più di un’ora prima che io mi addormenti, e finisco con l’odiare i dettagli su cui la mia attenzione si posa ossessivamente o i pensieri che si intrecciano l’uno con l’altro, come i corridoi di un labirinto. Non so quando ricomincerò ad avere soltanto paura. Pace mai. Ha ragione quel poeta che abbiamo studiato: la morte si sconta vivendo… e la vita non ti fa sconti su nulla.

STELLA

Il bambino della storia che sto scrivendo ha chiesto un telescopio ai genitori, perché tutte le sere vuole vedere più da vicino il pianeta dove il suo robot è tornato. E così grazie al suo dolore scopre il cielo stellato, il movimento degli astri che escono dall’oculare perché la Terra gira, il colore differente delle stelle e il loro modo unico di pulsare. Prima sembravano tutte uguali e immobili. Il mio bambino vuole diventare un esploratore di stelle. E così racconta al suo robot tutte le scoperte che sta facendo, e riduce la distanza tra lui e il suo amico. Sta succedendo anche a me, a furia di puntare la lente sull’assenza di mio padre sto scoprendo moltissime cose che non mi sarei aspettata. Le sue lettere a mia madre per corteggiarla, che lei ha conservato in una scatola. In una le dice che grazie a lei ha scoperto che cosa significa sentirsi amati: “Mi sento a casa dovunque ci sia tu”. E poi: “Tutto ciò che vedo senza di te lo conservo per potertelo raccontare, e solo in quel momento diventa veramente mio”. Mio padre parlava molto poco di sé e forse per questo aveva bisogno di scrivere, ma sto scoprendo di lui più cose adesso di quando ce lo avevo accanto. E la cosa sorprendente è che sento di averlo accanto. C’è una strana luce nel buio della perdita, come un bambino che scopre in una scopa un magnifico destriero, proprio perché non ha altro che quel bastone per giocare. L’unico modo per affrontare qualcosa è attraversarla, e in questa terra che mio padre mi sta costringendo ad attraversare ogni ombra ha una luce corrispondente. Non c’è l’una senza l’altra.

ACHILLE

Ragazzi, noi ci stiamo dimenticando perché siamo qui. L’Appello! Arrivano richieste di persone da tutto il mondo. Stanno nascendo profili nelle altre lingue e mi arrivano i video degli Appelli da Tokyo a Parigi, da Ottawa a Buenos Aires. Mi ha contattato una rivista pazzesca di informatica e tecnologia, una di quelle in cui intervistano gli inventori del futuro. Volevano sapere come ho messo a punto la struttura informatica della app – AppEal (che genio!) – che ho inventato per unificare e identificare tutti gli Appelli del mondo: una bandierina spunta sulla mappa e puoi trovare e incontrare le persone degli Appelli vicini a te. C’è una mia foto a tutta pagina, e sembro quasi normale. I miei genitori erano fieri di me. Per la prima volta mi sono sentito Achille. Per la prima volta sono stato all’altezza del mio nome.

OSCAR

Cazzo, Achille, non ti riconosco più, ti si è sballato il cervello. Non ti ferma più nessuno. Anche io ho capito una cosa: voglio fare come Rocky. L’ho rivisto un’altra volta, secondo me ho superato le 100. Lui non vuole fare il pugile, lui vuole dare un’altra vita a Adriana, perché la ama. La vuole tirare fuori dal negozio di animali dove lavora, le vuole comprare una bella casa, la vuole rendere una regina. Senza di lei non potrebbe fare niente. Infatti alla fine glielo dice all’intervistatore, a lui non gliene frega niente dell’incontro e cerca Adriana, perché è rimasto in piedi fino alla fine solo per lei. Solo per amore si può rimanere in piedi sino all’ultima ripresa, anche quando non ci vedi più perché ti hanno gonfiato la faccia. Per questo diventerò anche io un grande pugile. Questo voglio fare. Questo io so fare.

CATERINA

Da un lato tutti ci ripetono che dobbiamo trovare la nostra vita, la nostra unicità, la nostra vocazione, ma poi quando si arriva al dunque ne hanno paura e ti invitano a ritornare nel conformismo. Io voglio essere sempre innamorata. Solo questo. Ho capito che il senso di tutto è qui. Non è la felicità, ma l’amore, perché l’amore ti aiuta ad affrontare anche l’infelicità. E i momenti di infelicità sono inevitabili, neanche Dio li ha potuti eliminare quando si è fatto uomo. Però aveva l’amore, l’amore che risorge sempre. Ed è quello che voglio io. Se dici che ami Dio e vuoi vivere con lui e per lui, tutti ti rispondono che sei pazza, che è pura immaginazione. Sono stufa di un mondo in cui il denaro esiste più di Dio, e tutti gli aspetti fondamentali della vita sono ridotti a questioni economiche. La luce fortissima di Dio viene continuamente soffocata dagli uomini che poi, dopo averlo fatto, lo incolpano di essersi dimenticato di loro. Non permetterò che questo fuoco si spenga, non permetterò a nessuno di togliermelo. Continuiamo a costruire a partire dal tetto e le nostre case non stanno in piedi, semplicemente perché abbiamo rinunciato alle fondamenta della vita. E io voglio costruire da qui, dall’Amore. Non voglio più perdere tempo. Dio non è più una delle cose più o meno importanti della mia vita, ma è quella per cui tutte le altre hanno senso, perché senza amore io non so che farmene del resto…

ETTORE

Quando mia madre ha visto mio padre ridotto com’è lo ha chiamato per nome, a bassa voce, come se in lei si fosse risvegliata la tenerezza. Mio padre quando l’ha vista dopo tanto tempo le ha detto stai bene con questo vestito a fiori. Ti è sempre piaciuto. Anche a me. E ha pianto. Per un attimo in quella stanza ho sentito di nuovo il fuoco, ma è stato solo un istante. Mi sono sentito vivo e non colpevole. La luce di quel fuoco ci salverà, ma nessuno di noi sa come farlo durare. Come dice quella canzone: Amore che vieni, amore che vai… E questo è crudele. Ho paura, una fottuta paura che sia solo un inganno, un’illusione, un miraggio. Nel buio ho visto questa luce, e anche se era tanto piccola bastava a vincere il buio, perché non si poteva non vederla in mezzo a tutta quella oscurità.

ELISA

Troppo dolore c’è invece quando la luce illumina tutto quello che hai nascosto e che non è cresciuto in te, perché avevi paura che facesse schifo. C’è un dolore infinito nella luce, una crudeltà estrema, che non lascia scampo a tutti i rimpianti di quelle vite che hanno un titolo comune: Come sarebbe dovuta andare. Proprio come il racconto del papà di Stella. Non hai la forza di alzarti dal letto: l’immaginazione, prima così capace di difenderti dalla realtà, è paralizzata. La sua luce artificiale non può vincere quella del dolore, è come una lampadina accesa a mezzogiorno in agosto. Vorrei tornare al buio e non posso più, perché ho parlato e i miei, la psicologa, voi non mi mollate più. C’è troppa luce nel dolore, c’è troppo dolore nella luce. Mi sento come una bambina che sta imparando a camminare e preferisce gattonare, piuttosto che continuare a cadere e farsi male. Vorrei tornare indietro ma non posso, perché preferisco essere infelice piuttosto che rimanere piccola, soffrire piuttosto che essere preda della paura. Non lasciatemi sola sotto questa luce amara.