Alla ricerca del tempo sprecato Diario di un professore cieco

Achille, il tuo nome suona ironico rispetto al tuo volto. Non quello indurito di un guerriero, ma quello di un bambino impaurito, nascosto dietro guance ancora imberbi. Gli occhiali sprofondati negli zigomi morbidi, i capelli attaccati con vigore alle radici, le orecchie piccole e la linea della mandibola persa nelle guance carnose. Mentre sfioravo il tuo viso tremavi per la timidezza, come chi vorrebbe ritrarsi al contatto improvviso con qualcosa di freddo. Hai tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo, perché non riesci a stare di fronte alla realtà senza uno schermo. Vorrei sussurrarti il segreto per tenere gli occhi aperti, per smetterla di aver paura che la realtà ti ferisca, dal momento che non ci sono alternative. L’ho imparato sulla mia pelle. Chi vede pensa che per sperimentare la cecità basti chiudere gli occhi e muoversi a tastoni, e invece dovrebbe provare a tenere le mani dietro la schiena e offrire la faccia e il petto a ciò che può capitare. Sono dovuto ridiventare come un bambino che muove i primi passi e non sa quanti spigoli abbia la vita e quanto il suo corpo sia reale, e così torna sempre tra le braccia della madre o del padre pieno di graffi e lividi procurati chissà come. È una fase della vita. Poi diventi più accorto, ma la vita continua a ferirti anche se non ne porti segni evidenti. E va bene così, perché la vita è imparare a camminarci dentro e cominciamo a vivere solo quando impariamo ad amare ciò che ci ostiniamo a nascondere per vergogna, e che, dietro una maschera, ci sembra più sopportabile. E solo chi ci ama ci strappa via la maschera. Ma di quanto amore abbiamo bisogno per avere un volto?

Un tempo per sapere chi ero mi guardavo allo specchio e spendevo ore e frustrazioni di fronte a quell’immagine di cui dovevo dire: quello, purtroppo, sono io. Viene un’età, per me è stato attorno ai 14 anni, in cui non solo si è brutti, ma ci si sente brutti. E non c’è consolazione. Lo specchio diventa il veicolo più impietoso della verità, ogni giorno qualcosa si trasforma in modo imprevisto e ciò che fino a 24 ore prima appariva simmetrico ha perso ogni ordine. Volevo mettere le mani dentro allo specchio e rimpastarmi il viso e il corpo, ma non potevo. Cominciai ad aggrapparmi alle cose che potevano rendermi amabile: la camicia fuori dai pantaloni, la maglietta colorata sotto la camicia aperta, le scarpe da tennis con la chiusura alta attorno alla caviglia, i capelli all’indietro, impastati di gel… Io, che fino al giorno prima ero un pallido adolescente con gli occhiali e il corpo smunto, cercavo di nascondermi dietro l’armatura scintillante che piace al mondo, e soprattutto alle ragazze. Almeno così pensavo. Al primo anno di superiori mi innamorai perdutamente di una ragazza di cui ripetevo il nome come fosse un’àncora di salvezza, la sua presenza era per me l’annunciazione dell’angelo a Maria, la venuta di Dio in terra, la speranza che ci fosse un po’ di luce anche per me. Abitavamo vicino e tornavamo a casa insieme. A un certo punto smettemmo anche di prendere l’autobus, che comunque non passava mai, per fare la strada a piedi e dilatare il tempo in cui avremmo potuto conversare. Io lo preferivo anche perché in autobus dovevamo guardarci negli occhi: perdevo sempre le parole e rimanevo in silenzio, tormentandomi le mani e il cervello per cercare cose intelligenti da dire. Camminando, invece, mi potevo difendere dagli sguardi diretti. Lei rideva e aveva quell’allegria che io non conoscevo, perché lo specchio se l’era mangiata tutta. Era lì ad aspettarmi, ogni volta che andavo in bagno, per ricordarmi la verità su me stesso, perché la cosa più terribile di quell’età è scoprire di essere, non solo di avere, il tuo corpo, e sgraziato com’è finisci per essere tu il disgraziato.

«Devo dirti una cosa.» Le parole mi uscirono dalla bocca come se non fossero mie. Camminavamo l'uno accanto all’altra e io guardavo per terra. Sentivo la mia voce venire da lontanissimo, come se non mi appartenesse, un’eco del coraggio che non ho mai avuto, sentivo la mia voce dirle che mi ero innamorato di lei. Si mise a ridere e io tremai di paura, ma lei aggiunse subito: «Quanto tempo ci hai messo!». Scappai per la gioia, e credo di averla delusa per la prima volta quel giorno stesso proprio con la mia fuga, perché c’era in ballo molto di più di una possibile, meravigliosa, indimenticabile storia d’amore… La posta in gioco era la mia esistenza, la possibilità di avere un posto nel mondo con quella faccia e con quel corpo. Arrivato a casa mi guardai allo specchio e ciò che vedevo era totalmente diverso, eppure era sempre la stessa faccia, lo stesso corpo smunto. Ora vedevo un viso meraviglioso e pieno di possibilità, mi batteva il futuro nel petto, ero amato. Ero amato. O almeno così mi sentivo. Quel giorno ho scoperto che oggettivo e soggettivo si toccano all’altezza dell’amore.

Qualcosa del genere è successo di nuovo quando sono diventato cieco. La mia immagine è sparita, il mio volto è sparito. Non mi posso riconoscere e verificare i cambiamenti che il tempo impone al viso e al corpo. Non mi vedrò invecchiare. Poi ho scoperto che il mio corpo dovevo riceverlo, e per questo ci volevano altre mani. E le mani che me lo hanno restituito e me lo restituiscono tutte le mattine e tutte le sere sono quelle di mia moglie. Solo lei sa come accarezzare il mio volto e come raccontarmelo. Maddalena ha percorso i miei tratti con pazienza, come una terra inesplorata e nuova: a lei è affidata la continuità dello scorrere del tempo su di me, solo attraverso le sue mani posso avanzare negli anni. È dal volto che ho ripreso ad avere un corpo. Le sue carezze e le sue parole mi hanno ricreato da capo. Così ho saputo di avere la barba meno ispida di quanto credessi, perché a lei piace passarci sopra le dita. Così ho saputo di avere il naso meno affilato di quanto credessi, perché a lei piace accarezzarlo. Così ho saputo di avere le orecchie meno piccole di quanto credessi, perché a lei piace giocarci. Così ho saputo di avere occhi più belli di quanto credessi, perché a lei piace baciarli… Ancora una volta ho scoperto che essere amati è l’unico modo di avere un volto, di avere un corpo, l’unico modo di accettare se stessi.

Come vorrei, Achille, che tu potessi ricevere il tuo volto da mani simili. Come vorrei che l’amore ti toccasse e ti facesse esistere, così come sei.