Sul tuo volto, Cesare, più che su qualsiasi altro ho sentito le doglie di un parto. Dietro quei tratti nervosi e tesi sentivo una vita schietta e pura che spinge nei versi, nelle rime e nei battiti per opporsi al caos. Quell’anello sul sopracciglio è parte di una corazza con cui cerchi di proteggerti da altri colpi, è un aculeo per difenderti dagli attacchi dei predatori, è un promemoria fisso del dolore. Le tue guance con la barba ancora incerta tradiscono un candore selvaggio, un intrico restio a qualsiasi mappa, a qualsiasi regola. Sarebbe come chiedere a una cascata o al vento le ragioni della loro imprevedibilità. Nel tuo volto ho sentito spingere forte per dare alla luce, per darti alla luce. E i tuoi versi non sono altro che l’urlo di un parto: chi mai sopporterebbe di ascoltarli se non chi è consapevole che sono necessari a dare vita? E quell’urlo verso chi è scagliato se non verso la vita stessa, a cui chiedi conto di tutto ciò che ti ha tolto?
Quando ascolto le canzoni che amavo da ragazzo, quell’età mi viene restituita. La musica è la dimostrazione che il tempo si fa e si disfa secondo il ritmo che gli diamo. Mai come da adolescente ho ascoltato a ripetizione la stessa canzone, come se nascondesse un segreto da decodificare o come se avesse sostituito le favole che da bambino volevo ascoltare una volta e un’altra ancora. Le canzoni che amiamo a 18 anni sono una specie di oracolo su chi siamo, su chi diventeremo, su chi non smetteremo mai di essere. Avevo una audiocassetta fatta da un compagno di scuola, il mio migliore amico: era il tempo in cui chi aveva un costoso e nuovo lettore cd poteva doppiare le canzoni su un’audiocassetta. E lui me la regalò per il mio compleanno: valeva più del cd originale, perché l’aveva fatta lui per me, e aveva scritto i titoli delle canzoni a mano. L’ultimo anno delle superiori suonammo al concerto della scuola in un teatro che ci sembrò immenso: lui alla chitarra e io al basso. Suonammo e cantammo una delle canzoni di quella cassetta: la musica era necessaria a raccontare qualcosa che altrimenti sarebbe stato impossibile dire, e poi ci faceva sentire come i miti appesi alle pareti delle nostre camere. L’esito fu modesto, ma per noi grandioso e indimenticabile. E quel nastro sentito decine e decine di volte, con i titoli delle canzoni scritti a mano in strettissimi spazi rettangolari, era un tesoro inesauribile, tanto che quando la bobina si spezzò non esitai un istante a ripararla con precisione certosina. Conservo ancora l’audiocassetta e ogni tanto la riascolto, ritrovando quel mondo intatto dentro di me, fatto di ricordi pieni di paura e di coraggio, i due sentimenti dominanti della mia adolescenza.
Quando abbiamo bisogno di tirarci su, col mio vecchio amico ci troviamo per bere un buon bicchiere di vino e ascoltiamo proprio quella cassetta, con un vecchio “mangianastri”, come lo chiamavamo un tempo. Così fermiamo la tristezza, il tempo e persino la morte, perché quella cassetta è la garanzia che la nostra amicizia durerà per sempre. Quel rock di fine anni Ottanta mi ha permesso di trasformare la paura in coraggio di vivere e mi ricorda quel palco che nessuno di noi due avrebbe voluto e potuto affrontare da solo. Ogni genitore, ogni insegnante dovrebbe conoscere le tre canzoni preferite di un adolescente, perché ne potrebbe ricavare il pentagramma del presente e del futuro. Ogni vita ha un timbro, un ritmo, una melodia, un suono inconfondibili, come la tua, Cesare, come quella di mia figlia.
La notte in cui è nata Penelope io ero in sala parto. Di quella festa ho sentito solo le urla. Prima quelle di mia moglie che cercava di spingerla nella luce, poi quelle di Penelope che nella luce si era appena tuffata come in un mare troppo grande per chi non ha mai nuotato. Mi sentivo così inutile che sarei voluto scappare. Hanno poggiato Penelope sul cuore di Maddalena, e io le ho detto che la nostra bambina era bellissima. Lei, con un filo di voce, mi ha chiesto come facessi a saperlo.
«Ha preso da te.»
«Perché?»
«Non senti come si lamenta?»
«Non ti mando a quel paese solo perché non ho le forze di farlo come si deve…»
Le ho accarezzato il viso stremato e il sorriso nascosto dietro la stanchezza. Che lavoro è strappare alla natura il corpo di una creatura. Quanta vita bisogna dare per fare la vita. Ma poi quell’energia, apparentemente perduta, si moltiplicherà. Penelope si era già addormentata. Un giorno darà nomi nuovi alle cose del mondo, e la bellezza ancora una volta sarà riconosciuta, custodita e moltiplicata.