AGOSTO

Mia moglie mi ha regalato un orologio di cui non conoscevo l’esistenza. Quando ci vedevo, il tempo era qualcosa che perdevo: la luce che cala, la sabbia di una clessidra, la lancetta che avanza. Sono tutti modi di misurare il tempo considerando sempre e solo ciò che perdiamo. I nostri orologi sono figli di questa paura di morire: qualcosa avanza e rintocca, inesorabile, la fine. Adesso ho scoperto che il tempo si può misurare con l’olfatto. In Cina, fino alla fine del 1800, esistevano gli orologi a incenso. Una tradizione antica che misurava il tempo con il profumo. I maestri artigiani costruivano eleganti scrigni forati dentro i quali, sopra uno strato sottile di brace, veniva applicato un sigillo di metallo, che imprimeva nella brace un solco con la forma di un disegno o di una lettera: dentro questo canale vuoto si versava l’incenso. Ne risultava una scultura in rilievo che per bruciare impiegava un tempo proporzionale alla sua lunghezza. Gli orologi più raffinati prevedevano varie essenze, così da scandire con odori diversi i segmenti di tempo. Il profumo accompagnava una conversazione, una lettura, un impegno quotidiano, segnandone non il perdersi, ma il compiersi. Non ci si preoccupava dello scorrere o del vuoto, ma di quello che doveva ancora venire, della sorpresa di un nuovo profumo. E alla fine del processo rimaneva una scultura di incenso vetrificato nella forma del sigillo iniziale, come uno stampo. Di frequente il segno utilizzato era fu, che significa “felicità”. Mia moglie mi ha regalato uno di questi orologi, perché non sopporto più la voce robotica che comunica le ore. Ora posso sentire non il tempo che scorre ma che profuma, ugualmente “brucia”, ma nel primo caso non resta nulla, nel secondo il disegno del gran lavoro fatto. Così l’amore ha sorpreso i nostri corpi in una fresca sera d’estate, inattesa e profumata, e dentro questo tempo siamo stati vivi. E mai dimenticherò, grazie a quel profumo, lento e multiforme – menta, gelsomino, zagara, mandorla –, di avere un corpo che si apre a un altro con fiducia e gioia totali, senza pretendere nulla e senza nulla tenere per sé, un corpo a cui viene restituito molto più di quello che può dare. Andiamo a caccia di una ragione per essere, e non ne troviamo mai una sufficiente, abbiamo paura che la nostra esistenza non sia giustificata e, pur di non subire il dolore dell’assenza di quella ragione, decidiamo di non essere. Quante energie sprecate a non essere, a fare finta, a nascondersi, a non vedere ciò che è sotto gli occhi, a usare una lente di rimpicciolimento anziché di ingrandimento, come fanno i poeti e gli scienziati per vedere tutto meglio, per non poterlo più ignorare. Essere richiede molto coraggio, e troppa libertà. Non essere è più comodo, perché l’unica ragione per essere non è una ragione, ma una scelta: è amare di più.

I ragazzi mi hanno invitato ad andare con loro al mare. Mi hanno portato in un posto indimenticabile, perché l’ho conosciuto attraverso le loro risposte: io faccio le domande e loro prestano attenzione a ciò che altrimenti non avrebbero notato. Loro vedono attraverso di me e io attraverso di loro. Ciascuno è maestro e discepolo al tempo stesso, come in ogni vera relazione. Serve sempre una domanda per vedere le cose, perché vediamo veramente solo ciò su cui fissiamo l’attenzione e la fissiamo solo su ciò che amiamo, e così lo chiamiamo a “presentarsi”, a diventare “presente”. Solo dando loro un nome le cose rispondono con la piena presenza. Alla fine ciò che conta non è se ci vedi, ma che cosa guardi. Non vedere mi ha costretto ad ascoltare il canto imprigionato nelle cose, che è la loro storia. Come quei carillon antichi che restano muti fino a che qualcuno non ha l’ardire di aprirli e guarirli dal loro silenzio.

Sento le urla, le risate, i giochi, il miracolo di dieci ragazzi che la vita mi ha fatto incrociare perché io smettessi di avere paura con l’unico antidoto che abbiamo contro la morte: l’amore.