Un poeta, povero e giovane, non aveva mai visto il mare, ne aveva solo letto nei versi stupiti e nelle righe commosse di altri scrittori. Finalmente un bel giorno riuscì a mettere insieme il denaro per intraprendere il lungo viaggio che lo avrebbe portato su un’isola del Mediterraneo. Non appena la raggiunse, si sedette a riva e rimase in silenzio a guardare. La sera tornò nel modesto albergo dove aveva preso alloggio e un altro ospite, a cui aveva raccontato perché era lì, vedendolo tornare dalla spiaggia gli chiese se era soddisfatto. Lui rispose: «Non l’ho visto», senza ulteriori spiegazioni e lasciando perplesso il suo interlocutore, che però sapeva di avere a che fare con una creatura bizzarra, come sono tutti i poeti. La stessa scena si ripeté per sei giorni, fino alla sera del settimo, quando il poeta inaspettatamente rispose: «L’ho visto!». L’altro, diventato ormai compagno di confidenze e silenzi, gli chiese come mai solo allora. Il poeta rispose che aveva visto tornare una barca, da cui erano scesi degli uomini e, «negli occhi dei marinai che fanno il mare e dal mare sono fatti», finalmente lo aveva visto.
Credo che lo stesso accada per la vita. È negli occhi di chi le è più esposto che possiamo vederla, dopo aver ascoltato troppe opinioni e idee. Così è accaduto e accade ogni giorno a me, con i miei studenti. I loro occhi sono come quelli dei marinai: lì ho imparato a guardare la vita, perché niente come l’adolescenza ne trabocca. La scuola è il luogo in cui credevo si insegnasse ai “recenti”, dagli occhi ancora chiusi, ad aprirli sulla realtà per poterla finalmente incontrare. Invece, proprio a scuola, in questi 20 anni di lavoro, ho imparato io ad aprire gli occhi. All’inizio credevo che il mio compito fosse trovare le parole migliori per il pubblico che avevo di fronte, poi, giorno dopo giorno, fallimento dopo fallimento, ho scoperto che il pubblico ero io. Lo spettatore di un miracolo, parola che significa semplicemente “ciò a cui la vista non può sottrarsi”. Loro non erano i “recenti” da rendere “adulti”, ma i “nuovi”: il mai visto, l’inedito, l’inatteso. Per accogliere il miracolo dovevo imparare ad ascoltare e avere fede in ciò che non mi ero scelto: loro, e per farlo dovevo diventare “nuovo” io, imparando a guardare attraverso i loro occhi che “fanno la vita e dalla vita sono fatti”. Un proverbio dice che chi sta con i giovani diventa giovane. Per me è così. In questi anni sono loro che mi hanno costretto, a volte in modo doloroso, a guardare dove io non sapevo o non volevo guardare, perché avevo le mie idee, le mie convinzioni, le mie ipocrisie. Mi hanno cambiato gli occhi, cambiandomi il cuore, perché per cambiare gli occhi devi prima cambiare il cuore. Lo hanno costretto a dilatarsi per entrarci tutti, anche quelli più difficili e spigolosi, facendomi scoprire che proprio questo mi fa crescere, mi ripara dalla noia e mi guarisce dalle assurdità del sistema scolastico così com’è oggi. Non sempre sono riuscito ad amarli come avrei voluto e a volte ho miseramente fallito, ma anche questo mi ha costretto ad aprire gli occhi sui miei limiti.
Ecco perché il primo grazie va a tutti gli studenti che ho avuto, dalle prime tremebonde supplenze del 2000 a oggi, perché tutti e ciascuno sono parte della mia nascita come maestro, come mi piace chiamare tutti gli insegnanti, e come uomo. I dieci ragazzi del romanzo sono un distillato della piccola moltitudine di “maestri” che ho incontrato tra i banchi in questi anni.
In secondo luogo grazie ai miei colleghi, soprattutto quelli che mi sono diventati compagni di viaggio, perché il segreto per farcela a scuola è avere una buona compagnia di caffè, di interessi e di fatiche. Loro mi aiutano a tenere gli occhi aperti quando sono stanco o quando non riesco più a vedere il porto: Barbara, Cristina, Andrea, Chiara, Matteo, Valentina, Claudio, Alberto, Massimo, Paolo, Marco…
Grazie a mia sorella Marta che ancora una volta, senza leggere una riga del libro, ha fatto la sua ricerca e ha creato l’immagine della copertina, sorprendendomi con i suoi occhi sempre nuovi e aperti: che cosa è la scuola se non un singolare e variopinto mazzo di fiori che, invece di finire costretti dentro un vaso per allietare i nostri occhi, vengono lanciati nel mondo, ognuno con il suo colore, forma, essenza, per ricordare al mondo qual è il suo destino, la sua novità, la sua gioia?
Grazie a Marilena Rossi, senza la quale anche questo mio libro non avrebbe visto la luce. A Francesco Anzelmo e Marco Bersanelli per le chiacchierate sull’universo con gli occhi del filosofo e dell’astrofisico. A Nadia Focile, Francesca Gariazzo, Giovanni Francesio, Rossana Frigeni, Jacopo Milesi e a mia sorella Paola per la loro costante vicinanza.
Grazie ai miei amici più cari, senza i quali sarei cieco su tante, troppe cose: Carlo, Federica, Gabriele, Simone, Marilena, Alessandro.
Grazie ai miei genitori, ai miei fratelli e sorelle, ai miei nipoti (Giulio e Beatrice della dedica), che sono presenti in ogni pagina. Ubi bene, ibi patria.
Caro lettore, chi crea non si limita a spostare forze già esistenti e destinate comunque a esaurirsi, ne inaugura di nuove. Spero che la gioiosa fatica di chiamare i personaggi dal nulla all’esistenza possa restituirti, moltiplicato, il tempo che hai dedicato loro; e che queste righe possano portarti nel silenzio buono, che la fretta e la disattenzione minacciano e di cui abbiamo tutti bisogno per vivere momenti di essere ed eternità di istanti. In quel silenzio sacro è nato questo libro, e solo in quello stesso silenzio può rinascere in te. A te il mio penultimo grazie.
L’ultimo è all’Amore che, ogni giorno, strappa il mio nome al nulla e lo dà alla luce.
15 settembre 2020