Andreas
Quando mio padre è morto, sono diventato il capo di una moltitudine di persone. Io che non sapevo badare nemmeno a me stesso.
Mi sono rimboccato le maniche e ora, dopo mesi, sembro essere riuscito a capirci qualcosa.
Devo dire però che non è stato tutto merito mio, perché il mio migliore amico Gaele mi è stato vicino in ogni momento e anzi, devo ammettere che, senza di lui, probabilmente adesso sarei un alcolizzato in preda a una crisi d’astinenza.
Non ne vado fiero.
Ero diventato un problema dopo la prematura morte di mio padre e ho preso tante decisioni di cui mi sono pentito.
Tranne di una…
Ma Gaele mi ha aiutato a capire che tipo d’uomo fossi e grazie a lui sono riuscito a rimboccarmi le maniche e a prendere l’impero di mio padre fra le mani.
Gli Hotel Pitti non hanno vacillato e sono rimasti fra i resort di lusso più famosi dell’ambiente.
E oggi ho una di quelle pallose riunioni in cui dovrò ricordare agli amministratori delegati chi comanda.
Quegli stronzi spesso dimenticano che io sono il capo e che, anche se sono giovane, ricordo benissimo tutti gli insegnamenti di mio padre.
Non si licenzia nessuno.
Non si vende.
Non si rimane indietro coi pagamenti.
E soprattutto: tutti hanno la stessa importanza.
Il mio cellulare squilla proprio mentre parcheggio la mia alfa romeo spider davanti alla sede centrale degli hotel Pitti al centro di Firenze.
Spengo l’auto e prendo il cellulare dal sedile accanto al mio. «Pronto?»
«Ehi, Andre’, buongiorno…»
«Ga’, come stai?»
«In realtà non lo so»
«Immagino sia così che si sente uno che sta per diventare padre, no?» gli domando, sistemandomi meglio sul sedile.
«Credo di sì. Sono su di giri, ma non è solo per quello…»
E a quel punto capisco. «La parassita».
Gaele sbuffa. «Andreas non chiamarla così! È la migliore amica di Alessia e non è in una bella situazione...»
«E come dovrei chiamarla? Quella vive a casa tua, mangia il tuo cibo e non paga l’affitto. Ergo, è una parassita»
«L’ho invitata io, Andreas. Vive qui perché sta male…»
«Comodo così…»
«Aspetta anche lei un bambino e non sa chi sia il padre…»
«Di bene in meglio»
«Ma che dici?» mi redarguisce proprio come immagino farà con suo figlio quando sarà ora. «Non stai dicendo quello che penso vero?»
«Che? Che è una cretina che si è fatta mettere incinta da uno che è sparito un attimo dopo?»
«Sei uno stronzo a volte, Andre’».
Ridacchio. «Lo so, ma non cambia i fatti: quella ragazza vive a scrocco da voi e fra un po’ ti chiederà di essere il padre putativo del suo bambino…»
«Su questo non ti sbagli, ma non me l’ha chiesto lei, gliel’ho proposto io».
«Perché sei un cuore tenero…»
«No, perché sono una brava persona e perché a differenza di Alessia, sta vivendo una gravidanza orribile!»
«Poveretta»
«Sei un cretino e mi sono pentito di averti chiamato…» sta per attaccare, lo percepisco nella sua voce, perciò lo fermo.
«Hai ragione, scusa. È che sono nervoso: sto per affrontare una massa d’imbecilli che vuole licenziare gente a caso…»
«Ah, di nuovo?» mi domanda tornando il Gaele di sempre. «E che vuoi fare?»
Sorrido anche se non può vedermi. «Quello che avrebbe fatto mio padre: parlare con loro
e dimostrargli che sbagliano…»
«E se non dovessero capire?»
«Oggi cadranno delle teste e non saranno quelle dei miei dipendenti…»
«Così mi piaci! Comunque, voglio vedere quando verrai a conoscere Alessia…»
«La conosco», ribatto e adesso è lui a ridacchiare.
«A conoscerla di nuovo, ok? Pensi di riuscire prima del matrimonio o della nascita di mio figlio di cui, per inciso, sarai il padrino?»
Strabuzzo gli occhi. «Oddio, davvero?»
«A chi altro dovrei chiedere? Certo, mi hai lasciato prima della fine del quinto anno…»
«Oddio ancora con questa storia? Mio padre mi voleva accanto affinché imparassi da lui a gestire ciò che aveva creato con tanto sforzo…»
«Lo so», asserisce serio Gaele. «E oggi potrai renderlo orgoglioso: salva quella gente. Aspetto una tua chiamata per sapere com’è andata. A dopo e, a costo di sembrare sdolcinato, ti voglio bene amico!»
«Te ne voglio anche io».
Gaele attacca e io scendo dalla macchina rimettendo il cellulare nella tasca dei miei pantaloni grigi.
Ho abbandonato jeans e magliette da un po’ oramai, ma non mi dispiace, perché i completi eleganti mi stanno benissimo e mi fanno sentire papà più vicino.
Non c’è stata una volta in cui io l’abbia visto meno che elegante. Era sempre perfetto, sembrava appena uscito da una sfilata di moda e mia madre adora che io lo ricordi anche in questo modo.
Povera mamma…
mi ritrovo a pensare camminando verso l’hotel in cui avverrà la riunione. Viveva per papà e ora sembra quasi stia appassendo come una bella rosa lasciata al sole.
Vorrei tanto avere la capacità di riportarle il sorriso.
Ma non so cosa potrei fare per farle dimenticare, almeno per qualche ora, che l’amore della sua vita non c’è più.
Varco le porte di quello che è, a tutti gli effetti, il mio hotel, e vengo subito avvicinato da una delle ragazze della reception.
«Buongiorno, signor Pitti. Il consiglio si riunirà nella sala al terzo piano, ho ricevuto l’ordine
di portarla su dal signor Afferti», lei sorride, toccandomi un braccio, ma io non sono dell’umore giusto, perché ha nominato una delle persone che più odio sulla faccia della terra.
Michele Afferti, braccio destro di mio padre, l’uomo di cui lui si fidava ciecamente e che ora, solo dopo pochi mesi dalla sua morte, sta cercando di rendermi ridicolo davanti agli altri del consiglio e di estromettermi dai ruoli di comando.
Scuoto la testa, seguendo silenzioso la ragazza lungo il corridoio e poi nell’ascensore, perché anche se so che razza di bastardo è, dovrò fare, come al solio, una bella recita, perché Michele è la persona più falsa che conosco, perché quando mi parla, lo fa con gli occhi dell’amico di lunga data, quello che ha messo la sua mano sulla mia spalla durante il funerale, ma che in segreto sta cercando di prendere il comando.
Vuole ciò che aveva mio padre.
Da sempre.
E quando è morto, deve aver pensato fosse arrivato finalmente il suo momento, contrariamente il testamento ha smentito le sue idee, perché mio padre ha lasciato tutto a me.
Si fidava di me, del mio lavoro al suo fianco.
E devo capire perché in una lettera, a dire dell’avvocato, aggiunta poche settimane prima della sua morte, abbia scritto di stare attento a Afferti.
Lui che provava solo stima nei confronti del suo collega e amico.
Papà che cosa avevi scoperto?
Le porte dell’ascensore si spalancano e io mi stampo un sorriso in volto, giusto un attimo prima che Afferti mi venga incontro con un’espressione, temo, identica alla mia.
«Caro ragazzo, ti stavamo aspettando».
Annuisco. «Lo so, infatti, sono qui»
«Bene, allora», poi si volta e inizia a camminare verso la sala grande.
Non mi aspetta, cammina dritto davanti a sé e io lo seguo come un fedele cagnolino, anche se in realtà vorrei urlare.
Anche lui indossa un completo elegante, che a differenza del mio è nero. Come la sua anima.
Apre la porta e mi invita a entrare.
Dentro la stanza, quando faccio il mio ingresso, trovo già gli altri cinque membri del consiglio. Tutti già seduti. Tutti già con documenti davanti.
«Buongiorno a tutti», esclamo facendo un cenno con la mano e sedendomi in una delle sedie vuote. «Vogliamo iniziare?»
Terenzio Augusti, manager dell’hotel a Prato, è il primo a rivolgermi un cenno di saluto, poi ne ricevo uno anche da Giulio Presti, Francesco Zaffiro, Ernesto Pancrazio, Rubio Angoli e Angelo Materia.
Sono cresciuto ascoltandoli discutere con mio padre e oggi presiedere le nostre riunioni mi sembra quasi innaturale.
«Michele…» esordisce Zaffiro che gestisce con successo da anni l’hotel di Pisa. «Perché ci hai chiamati qui?»
Afferti si siede accanto a me, congiunge le mani sul tavolo e poi inizia a parlare: «Siamo, purtroppo, davanti a un grosso problema: gli hotel sono in perdita e ci troveremo ben presto a dover fare dei tagli…»
«Tagli? Perdita? Ma di cosa stai parlando?» domanda Pancrazio, rubandomi le parole di bocca.
Michele accenna una piccola smorfia, poi esclama: «Purtroppo, il cambio al vertice della società, il nuovo approccio di Andreas, ci sta portando via soldi e…»
E è a queste sue parole che io batto un pugno sul tavolo. «No, adesso basta», esclamo indignato, beccandomi occhiatacce da Afferti e sguardi quasi complici dagli altri. «Gli hotel stanno bene, ho controllato personalmente gli introiti di tutti, proprio due mattine fa… E non ho cambiato modalità di gestione, sto seguendo le regole che mio padre, il tuo socio, mi ha insegnato. Perciò, dicci qual è il vero motivo, Michele»
«Nessun vero motivo…» si difende lui, alzandosi in piedi. «Sono solo preoccupato per i nostri investimenti, per gli incassi!»
«Non preoccuparti, se e quando accadrà qualcosa degno di nota, sarai il primo a essere informato. Ma, ora, se non ci sono vere motivazioni, io avrei un appuntamento…»
Guardo le facce degli altri avventori e quando li vedo che scuotono le teste, mi alzo in piedi, mentre Michele Afferti mi osserva con gli occhi stretti in due fessure.
Se pensavi di avere davanti un ragazzino, stavi sbagliando di grosso… penso e poi esco dalla stanza, lasciandoli lì a parlottare fra loro.
Le porte dell’ascensore stanno per chiudersi, quando una valigetta le fermano.
Ernesto Pancrazio entra e l’ascensore inizia la sua discesa.
Sta per un secondo un silenzio, poi sbuffa e mi dice in un sussurro: «Non so perché, ma
penso che Michele voglia buttarti fuori»
«Dici?» gli chiedo, usando anch’io il tu. «Voleva mettermi in cattiva luce, e lo avrebbe fatto se non avessi preso in visione quei documenti di cui parlavo…»
«Sei stato attento e preciso, proprio come un presidente dovrebbe essere. Ma non credo che sia finita qui, Andreas, dovrai guardarti le scarpe. Io sono dalla tua parte ragazzino, ma non tutti la pensano come me. Io in te vedo tuo padre, perciò ti guarderò le spalle», poi scrolla le spalle e aggiunge: «Anche Terenzio è d’accordo con me»
«Ti ringrazio», asserisco, stringendogli la mano che mi porge. «Dico sul serio, Ernesto»
L’uomo annuisce, proprio mentre le porte dell’ascensore si spalancano.
«Il mio contatto ce l’hai, ora devo andare…» e poi mi lascia da solo, mentre il mio cellulare emette un suono, che mi ricorda dell’appuntamento che anche io ho oggi.
***
L’insegna del “Portes a’ Tattoo” compare davanti ai miei occhi e come al solito, il nome che il mio amico Alessandro Portes ha dato al suo studio mi fa scoppiare a ridere.
Insomma, giocare sul concetto di Prêt-à-porter per i tatuaggi, chi ci avrebbe mai pensato?
Alessandro però non è mai stato uno convenzionale, a partire dal suo aspetto: un tatuatore senza tatuaggi? Assurdo.
Eppure è il migliore sulla piazza e non farei fare a nessun altro il tatuaggio che ho in mente.
Mi fido di lui.
Mi fido della sua arte.
Ed è per questo che l’ho chiamato e ho fermato quest’appuntamento.
Scendo dalla mia macchina, la chiudo e cammino spedito verso la porta del negozio che, spinta, fa suonare il campanello posto sopra di essa, avvisando Alessandro del mio arrivo.
«Andreas? Sei tu?» e alla mia risposta affermativa, aggiunge: «Dammi un attimo e arrivo».
Nel frattempo mi do uno sguardo attorno, notando quanto sia colorato questo posto.
La scrivania al centro della stanza è in legno, ne sono certo, anche se la superficie è totalmente decorata da disegni che, credo, rappresentino tatuaggi che Ale ha fatto in passato.
I muri, dipinti di un bellissimo blu elettrico, ospitano qua e là cornici contenenti i disegni più belli e i numerosi attestati che il mio amico ha ottenuto in questi ultimi anni.
La poltrona sulla quale sono seduto, che è identica ad altre due presenti qui dentro, è
comodissima e di un azzurro intenso.
Davanti a me, coperta da una tenda in velluto blu, c’è la sedia sulla quale anche io fra poco mi siederò per farmi tatuare.
Sto per afferrare una delle riviste sul basso tavolinetto in vetro, quando Alessandro, vestito totalmente in pelle e coi capelli mezzi azzurri sparati per aria, esce dal retro del negozio con diverse ampolle fra le mani.
«Eccomi, scusa il ritardo, ma il disegno che vuoi necessitava di colori particolari…»
«Bene».
Alessandro fa un cenno verso la sedia. «Allora forza, facciamolo»
Annuisco e lo precedo, sedendomi e togliendo prima la giacca poi la camicia. «Lo voglio qui».
Ale si avvicina, portando con sé un carrelletto con sopra la pistola per i tatuaggi e i colori. «Sei sicuro, Andreas? Sicuro di volere proprio questo sul braccio?»
«Sicurissimo. È per una persona importante»
«Se va bene per te, io non farò obiezioni. Stringi i denti, allora! Iniziamo…»
Ed è così che meno di un’ora dopo, mi ritrovo col primo tatuaggio della mia vita e un sordo dolore al braccio.
«Ecco qua: è come lo volevi?» mi domanda Alessandro, pulendo il tatuaggio con una schiuma che dice mi aiuterà col rossore.
Guardo le linee precise e i dettagli del disegno. «Sì, proprio come me l’ero immaginato. Grazie»
«Sono felice ti piaccia…»
«Sarà un modo per ricordare ciò che è successo e chi adesso mi manca terribilmente».
Lui mi guarda, sorride appena e mi posa una mano sulla spalla, stringe appena e poi mi lascia. «Sono d’accordo, in fin dei conti un tatuaggio serve a fissare ricordi, momenti passati…»
«Perché tu non ne hai nessuno?» gli domando poi, partendo dalla sua affermazione e dal fatto che lui addosso non ne ha.
Alessandro sorride. «Perché non mi è accaduto nulla che valga la pena disegnarmi addosso»
«Ma ne farai mai uno?»
«Forse. Prima o poi…»
«Va bene. Ale ora devo andare. Devo controllare alcuni documenti in sede, ma prima che vada: quanto ti devo?»
Alessandro si toglie i guanti, li butta nel cestino e poi cammina verso di me. «Cinquanta euro, ma solo perché sei tu»
«Grazie» e dopo averlo pagato, esco dallo studio, perché non ho mentito, devo tornare in ufficio e scoprire perché Afferti ha detto quelle bugie sull’azienda.
E lo capirò, fosse l’ultima cosa che faccio.