Capitolo 9
Manuela
«Eccoci arrivati, signorina!» esclama il tassista, guardandomi dallo specchietto retrovisore. «Quindi, vuole che io l’aspetti qui?»
Annuisco. «Sì, dato che la mia visita durerà giusto il tempo di qualche foto, non ci metterò molto».
Il tipo dà tre colpetti sul macchinario davanti a sé, poi esclama a gran voce: «Corra, signorina, il tassametro corre!»
Ed è dopo queste parole che si accende la radio e io capisco che devo scendere da questa macchina per iniziare la mia avventura di oggi.
Avrei preferito ci fosse anche Melissa con me, ma Enrico richiedeva la sua presenza in hotel, perciò stamattina l’ho lasciata lì con lui e io sono venuta fin qui da sola.
L’abbazia di San Galgano è davvero bellissima, anche se, effettivamente, mancano sia il tetto che le vetrate, ma non sono qui per la sua particolare condizione, sono qui per vedere dal vivo la spada.
Dopo il romance che ho scritto e che Alessia ha detto di aver iniziato a leggere, mi è venuta in mente una storia diversa, un urban fantasy tutto italiano legato alla favola della Spada nella Roccia. Ho cercato in lungo e in largo qualcosa, fino a quando non sono incappata in un sito in cui si parlava di questo posto e dell’esatta ubicazione della spada.
San Galgano, secondo le vite dei santi, infisse la spada al centro di una roccia che oggi si trova nel bel mezzo della cappella dell’abbazia. E io sono qui per vederla.
Cammino all’interno della chiesa, lasciandomi trasportare dalle mie emozioni, sentendo la trama vibrare dentro di me.
Vedo il mio protagonista maschile fare la stessa cosa, entrare nell’abbazia, cercare la spada che ha visto in sogno, per poi, finalmente, vederla dal vivo.
Ed eccola là, proprio dove la guida online diceva sarebbe stata.
La mancanza del tetto fa rilucere il poco metallo che esce dalla formazione rocciosa prima dell’elsa in quello che credo sia rame o bronzo.
È bellissima.
E vederla lì, mi fa pensare a Re Artù, ai cavalieri della tavola rotonda e al coraggio che dovrà avere il mio personaggio principale, che forse chiamerò Gabriele, per estrarla e affrontare tutte le forze oscure che vorranno rubargliela.
Sì, sarà perfetto.
Tiro fuori il cellulare e inizio a fare foto qua e là, perché voglio ricreare nel romanzo l’ambientazione.
Sto per riporlo nella borsetta che porto a tracolla, quando vedo comparire sull’icona delle email un numeretto e quando ci clicco sopra per poco non lancio un urlo.
Da: helloandreas@gmail.com
A: hellomanu@gmail.com
Oggetto: Scuse
Ciao Manuela,
lo so, non attendevi questa mail quasi quanto io non mi aspettavo di mandarla. Non è nel mio stile, però, parlare male di qualcuno che neanche conosco, nemmeno se quel qualcuno mi manda a quel paese. Perciò, eccomi qui a farti le mie scuse, anche se forse non le meriti, ma io, siccome sono una brava persona, te le faccio lo stesso.
So di averti giudicata male e di averlo fatto senza ascoltare la tua versione, ma nemmeno tu, in tutta sincerità, avevi il diritto di dirmi quelle cose al telefono senza farmi rispondere.
Perciò, immagino, siamo pari.
Ti saluto cordialmente,
Andreas.
P.S. Indirizzo mail fantasioso il tuo, complimenti.
P.P.S. Ho io il tuo manoscritto. Che devo aspettarmi dal romanzo?
Mi prendo un attimo, respiro e cammino fino a trovarmi fuori dall’abbazia di San Galgano.
Sto provando a stare calma, a non urlare, a non dare di matto, ma non posso, perché le parole della mail continuano a vorticare nella mia mente.
Che cazzo ho appena letto?
Mi domando, scorrendo di nuovo con gli occhi quelle che sembrano tutto tranne che scuse, sebbene l’oggetto sia quello.
In pratica, il deficiente, mi ha dato della stronza e ha farcito quest’offesa con tante belle
parole.
E oltretutto autodefinendosi “Brava persona” mi ha relegato fra i poco di buono
, come se avere un bambino da sola fosse un cazzo di crimine.
Dio, io lo demolisco…
Arrivo al taxi, salgo e subito il tassista prova a dire qualcosa sul tassametro, ma io sbotto immediatamente: «Senta, stia zitto e mi riporti all’hotel».
L’uomo scuote la testa e poi parte, borbottando qualcosa che sembra “Voi ragazzi di oggi…”.
Ma di lui non mi frega nulla, perché ho un ragazzo da rimettere in riga.
Da: hellomanu@gmail.com
A: helloandreas@gmail.com
Oggetto: Re: Scuse
E tu credi che quelle fossero scuse? E su che pianeta?
Ah sì, ciao anche a te stronzo.
Ma chi credi di essere? Mi sembra tu ti sia autodefinito “brava persona” ma non credo che funzioni così, sai? Non puoi dire che lo sei, se poi ti comporti in modo diverso.
Ti domandi poi perché non ti ho lasciato parlare? Be’, meglio per me, perché viste le belle parole che hai usato nella tua fottutissima mail, ho fatto benissimo a parlare e ad attaccare subito dopo.
Ergo: fottiti.
Saluti cordiali un cazzo,
Manuela.
P.S. Se era così pessimo l’indirizzo mail, perché l’hai copiato?
P.P.S. PERCHÉ HAI TU IL MIO MANOSCRITTO?
Clicco invio e poi mi butto all’indietro con la testa, sorridendo come non mi capitava da tempo.
Sono fiera di me e di come gli ho risposto.
Se credeva di mettermi i piedi in testa, Andreas ha preso un grosso, gigantesco, abbaglio.
Un uomo piccolo, ecco che cos’è.
E la sua pochezza, mi fa subito ripensare al mio Azzurro. Lui mi avrebbe difesa, lui avrebbe preso questo stronzo a pugni.
Ma le mie sono solo favole, solo pensieri su un personaggio che forse esiste davvero solo nelle storie che ci raccontano da bambine.
Chiudo gli occhi e la realtà mi colpisce come un fulmine.
La verità è che così in tante cercano il principe azzurro e io sono stata così stupida da lasciar andare il mio, senza chiedergli il nome, senza dirgli il mio. E ora, lo cerco in ogni viso, in ogni uomo che incontro, senza aver mai la fortuna di ritrovarlo in nessuno di loro.
Cazzo…
«Siamo quasi arrivati…» esclama il tassista, facendomi scattare e tornare a sedere composta.
«Va bene» rispondo e poi allungo gli occhi al tassametro. «Quanto le devo?»
L’uomo ridacchia. «Quasi centonovanta euro, immagino che ci arriveremo quando fermerò davanti al suo hotel...»
«D’accordo» poi torno a pensare alla mia vita, a come sarà fra pochi mesi, a come cambierà, a com’è già cambiata in questi anni e a com’è destinata a diventare.
Sarebbe il momento per buttarmi giù, sarebbe facile, anche e soprattutto dopo quello che mi ha detto quell’Andreas, ma io non sono una che cede, sono sopravvissuta a cose ben peggiori di questa.
E la mia mente, da sola, come mi succede quando una nuova storia inizia a parlarmi, va da sola a quel giorno, a quello che ha segnato il mio passaggio all’età adulta, dritto spedito, bloccando la mia adolescenza.
La mia famiglia è strana, lo sanno tutti.
Mio padre è da qualche parte in America, ci ha lasciate quando io avevo tre anni.
Mia madre è una gran lavoratrice, ma purtroppo ha un problema con gli uomini.
Lei è una di quelle donne che si innamorano facilmente e molto spesso della persona sbagliata.
Fabrizio, però, il suo ultimo ragazzo, sembra essere uno di quelli buoni. Stanno insieme da cinque anni ormai e mi sono quasi abituata ad averlo per casa, anche se mamma non lo lascia vivere qui.
Cucina per noi, mi sorride spesso.
È come un principe, gli somiglia anche, con quei suoi capelli biondi e gli occhi azzurri.
Mamma mi lascia spesso a casa da sola, come oggi, ma non ho paura, d’altronde ho appena compiuto tredici anni.
Me la cavo abbastanza bene, anche se spesso mi manca stare con lei come succedeva prima.
Lavora tanto, vuole mandarmi in una scuola molto prestigiosa, una scuola a Milano: un liceo importante.
Sono emozionata per quello che mi aspetta, penso mentre tiro fuori la terrina di pasta da riscaldare al microonde, sempre troppa e sempre molto scondita.
La metto nell’elettrodomestico e imposto il timer, poi comincio ad apparecchiare per me.
Un piatto.
Un bicchiere.
Un tovagliolo.
Una forchetta.
Il microonde trilla, proprio mentre qualcuno bussa alla porta di casa mia.
Non è strano succeda, abito in una palazzina a più piani nella periferia di Milano, vicino Porta Romana e spesso le nostre vicine di casa vengono per chiederci farina o magari un uovo.
Siamo in una brutta zona e aiutarci a vicenda è un modo per cercare di dimostrare a noi stessi che non siamo il nostro quartiere.
Siamo brave persone in un brutto posto, niente di più.
Apro lo sportellino del microonde, poi corro a vedere chi c’è al di là della porta.
«Ciao piccola, tua mamma c’è?» mi domanda Fabrizio, fermo sul pianerottolo.
«No, torna stasera!» rispondo, chiedendomi come faccia a non ricordare che il martedì rientra sempre tardi. «Vuoi entr…»
E lui, ancora prima che io finisca la parola, mi scansa e si precipita in cucina.
«Stavi per pranzare?»
Annuisco. «Sì. Tu hai mangiato?»
«Qualcosa, ma se vuoi ti faccio compagnia…»
Fabrizio mi sorride, ma il suo sorriso non è come quelli che mi regalava anni fa, è diverso e non so perché mi fa provare una strana sensazione sulla pelle.
«Va bene! Allora aggiungo un piatto…»
Mi volto verso la credenza, mi alzo sulle punte dei piedi per arrivare a prendere un altro piatto, sento la maglia alzarsi sulla schiena, sto per tirarla giù, quando due mani mi afferrano da dietro.
«Sei cresciuta così tanto, Manuela», sussurra alle mie orecchie Fabrizio, che deve essersi mosso mentre ero di spalle. «Sei diventata così bella».
Le sue mani si muovono fino alla mia pancia. «Manuela, Manuela… Sempre a cercare il mio sguardo, sempre a muoverti per casa indossando queste cose striminzite…»
«Fabrizio lasciami» mormoro, ma lui non mi ascolta, continua ad accarezzarmi, stringendomi a sé e facendomi sentire quant’è eccitato.
«Senti che cosa succede quando stuzzichi un uomo, Manuela? Ora ti voglio…»
«Ma stai con mia madre!» esclamo con una voce stridula che dà fastidio anche alle mie orecchie. «Sei come un padre per me…»
Fabrizio ridacchia. «Sì, sono il tuo paparino. Chiamami così mentre ti scopo…»
«Ti prego lasciami», urlo a questo punto, sperando rinsavisca. «Lasciami».
Fabrizio mi lecca il collo, mentre la sua mano scende alla lampo dei miei pantaloni, iniziando ad aprirla. «Ti piacerà! A tutte le puttanelle piace…»
«Lasciami! Non toccarmi! Aiuto!» ripeto gridando queste parole, quasi fino a quando non diventa un mantra disperato.
Lui mi volta, mi afferra il collo, so che sta per colpirmi per rendermi inoffensiva e approfittare di me.
Sto per arrendermi, ma proprio quando sento di non avere più nemmeno la forza per parlare, la porta di casa si spalanca e Laura, la mia vicina, irrompe in casa brandendo un mattarello.
«Lasciala, brutto porco!» urla e si scaglia contro Fabrizio, che finalmente si stacca da me, alzando le braccia in aria.
«Non le stavo facendo nulla che non volesse, diglielo anche tu, Manuela…»
«Si vede dalle lacrime sul suo viso che era felice!» asserisce lei sarcastica. «Vattene via, porco!»
«Che sta succedendo qui?» esclama mia madre entrando in casa. «Fabrizio? Manuela? Che è successo…»
«Mamma…» provo a dire, ma Fabrizio mi blocca. «Ci ha provato con me, ecco quello che è successo!»
Sia io che Laura strabuzziamo gli occhi. «Non è vero! Lui ha cercato di prendermi contro la mia volontà! Mi stava per…»
«Sta zitta ragazzina!» urla mia madre. «Lo vedevo come lo guardavi! Sei una poco di buono come tuo padre! Sei una piccola ingrata!»
«Ma, mamma…»
«Che cosa dici, Rita?» dice Laura, cercando di farla rinsavire. «Ma non vedi in che stato è? Se non fossi arrivata io, lui…»
«Fabrizio è il mio uomo e lei era infatuata di lui!»
«Mamma, ti prego, cosa stai dicendo…»
«No!» urla e poi alza una mano per colpirmi. «Vattene da qui!»
«Mamma…»
«Vattene! Io e Fabrizio non vogliamo avere più niente a che fare con te! Eri una zavorra e ora, senza di te, staremo meglio…»
Laura mi prende per mano e mi trascina via, ma prima di uscire di casa, afferma con astio: «Pensavo fossi una brava persona, Rita, ma in realtà sei solo brava a fingere di essere chi non sei e a cacciare di casa l’unica cosa bella che ti era rimasta!»
«Eccoci arrivati!» esclama il tassista e io torno al presente, lasciando quei giorni confusi che mi hanno portata poi a vivere prima con Laura e poi con mia nonna.
L’auto si ferma davanti al Retaillon Hotel e l’uomo ribadisce quant’è costata la corsa, perciò lo pago e scendo dalla macchina con la testa fra le nuvole, come mi accade sempre quando ripenso a quel momento.
Cammino spedita verso l’interno dell’hotel, non guardo nessuno e non mi fermerei nemmeno, se solo non sentissi una voce chiamare il mio nome a gran voce.
Cerco qua e là con gli occhi, fino a quando non vedo Vittoria, la mia agente, e suo marito Flavio dall’altra parte della sala.
«Ehi, e voi cosa ci fate qui?» domando curiosa, mentre mi raggiungono sorridenti, mano nella mano.
«Sapevo dove fossi, perché me l’ha detto la casa editrice e quando l’ho detto a Flavio, abbiamo pensato di raggiungerti, anche perché volevamo sapere come stavi…»
Sorrido, perché anche loro, da quando hanno scoperto che aspetto un bambino, si sono autoproclamati zii. «Sto bene… Stiamo bene!» e mi porto una mano sul ventre che resterà poco prominente ancora per poco.
«Davvero? Perché avevi una faccia quando sei entrata…» dice Flavio, leggendomi come al solito come si fa con un libro aperto.
«Non era per il bambino, ho ripensato a cose vecchie, a quelle che mi hanno fatto decidere, fra l’altro, di proseguire nella gravidanza!»
Vittoria deve capire dalle mie parole e dalla mia espressione ciò a cui stavo pensando, perciò, scansa Flavio, e mi abbraccia, mormorando alle mie orecchie: «Sei una donna forte, vincerai anche questa volta. E poi, Manu non sei sola oggi, come non lo eri in passato...»
«Lo so, ma ciò che mi sta succedendo, mi fa ripensare alla mia famiglia e la cosa mi fa perdere la testa, cazzo!»
Vittoria mi guarda, mi accarezza dolcemente il viso e poi esclama: «Quella donna non è la tua famiglia, Manu. Tua nonna, tua zia, Alessia e Gaele, io e Flavio, noi siamo la tua famiglia»
«Stai dimenticando qualcuno», asserisce con calma Flavio, che fino a questo momento ci ha ascoltate soltanto, forse perché Vittoria non gli ha raccontato la mia storia.
Lei lo guarda, scuotendo la testa. «No, sono sicura».
E a quel punto, Flavio posa una mano sul mio ventre e sorride. «Avrà anche un piccolino che farà per sempre parte della sua, della nostra famiglia!»
«Hai ragione!» dichiara Vittoria colpendosi la fronte. «Sono una scema»
«Non preoccuparti, è che ancora non si vede nulla! Certe mattine anche io mi domando se ci sia davvero, poi inizio a correre a fare la pipì ogni dieci minuti e mi rendo conto che esiste davvero…»
«Allora», esclama Flavio, prendendoci sotto braccio. «Ho fatto preparare un tavolo per quattro nel ristorante del Retaillon, che dite: andiamo?»
«Quattro? Hai pensato anche a Melissa?» gli domando e quando lui annuisce, continuo: «Sempre che tu riesca a staccarla da Enrico».
E mentre racconto loro dell’avventura senese della mia amica, mi lascio trascinare al ristorante e finalmente smetto di rimuginare sul casino che è stata la mia adolescenza, ma che se non fosse stata altrettanto incasinata, probabilmente, non mi avrebbe portata né a Alessia
né a inventare storie in cui faccio vivere ogni tipo d’amore.