Capitolo 24
Andreas
Non litigavo con Gaele da almeno dieci anni e farlo per colpa di una ragazza che nemmeno conosco mi fa imbestialire.
È passata una settimana e mezza da quando mi ha mandato a quel paese, che corrisponde anche al periodo più lungo da quando non sento Manuela.
E mi manca, cazzo.
Mi manca e non dovrei pensarci troppo, perché fondamentalmente è come la cotta per una star del cinema: la vedi da lontano e ti invaghisci, anche se nel mio caso non l’ho mai vista.
L’unica cosa che mi tiene attento e reattivo è il lavoro.
Mi sveglio, mi preparo, esco di casa e vengo in ufficio. Sempre in questo ordine. Sempre. Tutte le mattine.
Sono come una specie di zombie, come mi ricorda Violetta ogni volta che entra nel mio ufficio, proprio come fa in questo momento.
«Buongiorno, Andreas. Ti sei svegliato con voglia di cervelli umani anche oggi?» esclama posandomi un caffè davanti al naso. «Sei sfortunato però, non ne abbiamo di freschi, dovrai accontentarti di questi!»
«Divertente!»
«Oh lo so», ribatte sedendosi su una delle mie poltrone. «Ma non per questo smetterò di tormentarti!»
«Ricordami: perché non ti licenzio?»
Lei sorride proprio come sono sicuro farebbe un barracuda. «Perché sono la segretaria più in gamba che potrai mai avere e perché ero qui quando tuo padre ha iniziato, anche se non sembra perché mi porto in maniera davvero ottima tutti i miei anni!»
Mi ritrovo a sorridere anche io. «Certo, vero, ma potrei comunque diminuirti lo stipendio. Che ne dici?»
Lei ridacchia. «Oh sì, ci crederei se non sapessi quello che stai facendo per pagare tutti e non licenziare nessuno…» poi s’interrompe e batte un’unghia sulla mia scrivania, come per
attirare ancora di più la mia attenzione. «E infatti sono qui per dirti che la nostra nuova consulente marketing, Erika Ghirelli, ha delle novità per te! Vuole che la raggiungi nel suo ufficio».
Mi alzo immediatamente dalla mia poltrona, facendola cadere all’indietro, e giro attorno alla scrivania. «Quando ha chiamato?»
«Cinque secondi fa, sono venuta a dirtelo praticamente subito!»
«Allora, io vado da lei, mentre tu controlli che nel mio ufficio non entri nessuno!»
«Vuoi dire che non torni Afferti?» mi chiede con un’espressione schifata.
«Sì, anche perché dopo il discorso durante il nostro ultimo incontro, secondo cui sarei io ad intascarmi tutti i soldi, non vorrei che spargesse prove a favore di ciò che ha detto fra i miei documenti!»
«Non succederà! Ora vai da Erika e vedi cos’ha da dirti sulla faccenda».
Ed è proprio quello che faccio, esco dal mio ufficio con lei al seguito, chiudo la porta dietro di noi e dopo averla lasciata al suo posto, cammino all’interno del piano amministrativo del mio hotel, fino ad arrivare all’ascensore.
Entro nell’abitacolo e mentre la musichetta, che ho provveduto a far cambiare, mi porta al piano di sotto, mi torna in mente una delle ultime volte in cui ho preso un ascensore.
Era forse quattro o cinque mesi fa e senza dubbio mi sono divertito molto di più di quanto farò fra poco.
Le porte si spalancano e non perdo un attimo, saluto chi incontro lungo la strada, ma non mi fermo a chiacchierare, perché se lei mi ha chiamato qui, è per forza qualcosa di importante.
Ho capito fin dalla prima volta che si è presentata nel mio studio, coi capelli stretti in rasta coloratissimi e un completo nero molto simile a quello che indossano i Man In Black, e ha chiesto urlando dove fosse il suo ufficio, che fosse la persona giusta per la mia causa.
Quando apro la porta del suo ufficio senza bussare, la trovo seduta sulla poltrona con gli anfibi sulla scrivania intenta a bere un caffè dalla tazza termica che porta perennemente con sé.
«Mi fa piacere che ti rilassi», esclamo scontroso, prendendo posto sull’unica sedia libera. «Ma non ti pago per…»
«Un lavoro che ho finito!»
Mi blocco di colpo, felicemente stupito. «Cazzo, davvero?»
Erika sorride, mentre gira verso di me il suo super portatile. «Vedi?» e indica una serie di
numeri che io, sinceramente, non saprei decifrare nemmeno fra dieci anni.
«No, non ci capisco nulla, per me sono un mucchio di uno e zero…»
«Quello, amico mio, è un codice binario… Tutto il mondo virtuale è regolato da quelle stringhe di numeri e ogni cosa ne ha una precisa. Non ce n’è una uguale all’altra ed è proprio seguendo una di quelle che sono arrivata alla risoluzione del tuo problema…»
«E allora? Che aspetti? Dimmi chi è a derubarmi…»
«Dovrò partire dall’inizio, perché cazzo questi due sono bravi in quello che fanno!»
«Due? Io credevo che…»
«Fosse uno solo? All’inizio anche io, ma poi ho capito che c’erano troppi elementi da gestire per una persona sola e quindi ho allargato le ricerche…»
«Erika, giuro che se non cominci a spiegare tutto per filo e per segno, darò di matto e finirò in un centro d’igiene mentale a tirare in aria una pallina!»
Lei ridacchia. «Sì, come nella pubblicità… Mi piacerebbe vederlo!»
«Ti piacerebbe. Ora, per favore, parla».
Erika si siede sulla scrivania e poi, dopo aver aperto un file sul suo computer e uno su quello dell’hotel, comincia, finalmente, a illustrare ciò che ha scoperto.
«Quando mi hai chiamata qui, mi hai detto di seguire i movimenti sul conto principale dell’hotel e così ho iniziato a farlo», s’interrompe per un attimo e poi aggiunge: «Ma ho fatto di più, ho messo tutti i computer del Pitti sotto controllo!»
«Anche il mio?»
Annuisce. «Sì, perché dovevo essere sicura che non ti tenessero sotto controllo…» e mentre lei afferma ciò, io ripercorro tutti i siti che ho aperto in questi giorni, per capire se io debba vergognarmi o meno, Erika deve capirlo, perché continua dicendo: «E poi mi spiegherai perché hai googlato più volte il nome di una scrittrice di romanzi erotici, solo per chiudere la ricerca senza guardare i risultati…»
«No. Non te lo dirò mai, piuttosto arriva a ciò che mi interessa».
Dio deve avermi mandato Erika e Violetta solo con l’intento di tormentarmi, ne sono sicuro.
«Comunque, ho seguito il conto come mi hai detto e gli IP che si connettevano al server della banca per prelevare…»
«Santo cielo, pensi che arriverai mai alla fine del discorso?» sbotto e lei scoppia a ridere.
«Io ci provo, ma tu sei impaziente e mi interrompi per dirmi di sbrigarmi! Ti rendi conto che
se fossi stato in silenzio per un attimo, io avrei già finito di rivelarti l’identità del ladro e della sua subdola complice?»
«Ok, ok», concedo, poi faccio finta di cucirmi la bocca partendo dal neo che ho sul labbro. «Sto zitto. Scusami!»
«Perdonato, ma smettila di guardarmi come un cagnolino bastonato, perché sei troppo tenero e mi distrai! Sono una hacker dell’esercito in maternità, devo essere seria!»
«Prosegui», asserisco autorevole e facendole un gesto con la mano, proprio come avrebbe fatto mio padre.
«Ti dicevo: ho seguito i soldi, più precisamente l’IP del ladro e cavolo non sai che fatica rintracciarlo! È rimbalzato dappertutto, ad un certo punto non mi sarei stupita di vederlo su Marte! Si credeva furbo, ma io, per sua sfortuna, lo sono di più, perciò l’ho praticamente tallonato e dopo una piccola siesta in Spagna, più precisamente a Madrid, non ci crederai, ma è tornato qui, a Firenze!»
«Qui?»
Annuisce e poi apre un altro file. «E quando è arrivato qui, l’ho trovato, perché avrà avuto l’abilità di far saltare il segnale un po’ ovunque, ma l’idiota aveva una backdoor anche troppo facile da violare! Perciò sono entrata in casa sua, o meglio nel computer della sua deliziosa villa situata nel quartiere Bolognese di Firenze».
Ed è quando dice così che riesco ad unire tutti i puntini.
Le bugie della prima assemblea.
Le elucubrazioni sui conti.
Le bugie che ha detto sulla volontà di mio padre.
«Afferti», esclamo e lei annuisce. «Lo sapevo!»
«Ma non è da solo, e questo non potevi saperlo, perché quell’uomo non è solo astuto e senza scrupoli, è anche uno capace di vendere la propria figlia per far avere una talpa da usare a suo piacimento!»
«Figlia?» cado dalle nuvole. «Afferti non ha una figlia, Erika, lo saprei! Non ho assunto nessuno col suo cognome, a meno che»
«Non sia adottata!» conclude lei per me. «Infatti, da quello che ho scovato tramite un collega dell’anagrafe, la ragazza non ha mai preso il cognome altisonante del padre adottivo. È rimasta sempre col suo…»
«Chi è?»
«Elettra Paterno», asserisce con tranquillità, mentre nella mia testa è appena esplosa una bomba nucleare.
«Cosa?»
«La tipa che organizza eventi per l’hotel, lei è la figlia di Afferti. L’ha presa con sé quando lei aveva già sedici anni…»
«Assurdo!»
«E non sai il resto!»
«C’è di peggio?» le domando passandomi una mano sul viso, pensando a quando ci andavo a letto. «Forza, finisci!»
«Be’, inizio col dirti che il suo curriculum perfetto è stato creato appositamente per il Pitti, era impossibile che rinunciaste a lei…»
«Che cazzo!»
«Afferti voleva uno dei suoi dentro per controllarti, per avere modo di sapere tutto quello che facevi quando ne aveva bisogno. Elettra ha piazzato un worm nel software centrale, quello tramite il quale tu mandavi mail e estratti conto. Vedono tutto quello che vedi tu, leggono tutto ciò che scrivi… Credo sia lei l’hacker, non il padre…»
«Hai usato il presente: non hai bloccato il worm?»
Erika sorride. «Aspettavo te per farlo».
E quando lo dice un sorriso si apre anche sul mio volto, perché finalmente, avendo le prove sulla corruzione di Afferti, posso giocare la mia carta, che adesso grazie alla ragazza che mi sta di fronte, si è appena rivelata essere un asso.
«Allora non chiuderlo, perché mi è appena venuta un’idea…»
«Dio, non vedo l’ora di scoprire cos’hai in mente!»
«O vedrai: quest’anno la festa di metà stagione se la ricorderanno tutti…».
«Oh be’, ci conto. Nel frattempo, tieni questi…» esclama porgendomi alcuni fogli. «Credo che sarai felice di vedere che Afferti è l’unica pecora nera. Ho controllato tutti i suoi pari e nessuno è risultato coinvolto…»
«Grazie», asserisco sincero. «Ora, devo andare: ho una festa da organizzare!»