Mi sembra di aspettare da ore su questo divano, nel silenzio della sala d’attesa. Sul tavolino c’è una pila di giornali, tutta roba di finanza e vecchie gazzette della Law Society di nessun interesse, almeno per me.
Mi hanno infilato nell’appuntamento tra l’una e le due, anche se avevo spiegato che sarei dovuta essere in teatro per la matinée, ma non c’erano alternative sull’agenda di Derek Wharton.
In tutta sincerità, non so cosa io stia facendo qui, né perché sia stata convocata, ma la segretaria – assistente, come ha specificato acida – non ha voluto spiegarmelo.
Spero che mamma e papà non siano stati denunciati dalla polizia doganale per le “erbe aromatiche” che hanno fatto arrivare dall’India.
Finalmente le massicce porte si aprono con uno scatto sordo della maniglia e ne esce Derek.
«Jemma, prego, accomodati», m’invita con fare caloroso.
Derek ha sempre dimostrato più anni della sua età e, da quando ha preso in mano lo studio del padre, questa sua caratteristica è ancora più evidente: cortese, gentile, sorridente, ma con l’aria di un quarantenne. Gli abiti taglio classico e le camicie regimental, poi, non aiutano ad alleggerirne la figura.
«Vorrei perdermi in chiacchiere e sapere come stai eccetera eccetera, ma tra poco più di un’ora gli attori vanno in scena e li devo ancora truccare. Adriana mi licenzia se tardo anche oggi, quindi via il dente via il dolore», taglio corto.
Oltre ad avere poco tempo, sono davvero in ansia, così cerco di andare dritta al punto. Voglio sapere perché sono qui, dato che, grazie a Dio, in venticinque anni non ho mai avuto bisogno di avvocati.
«Certo, immagino che tu sia curiosa. Per farla breve, ti ho convocato per una cosa che riguarda tua nonna Catriona».
«Derek, non so se lo sai, ma è morta un mese fa».
«Ne sono ben informato. Si tratta appunto di questo. A suo tempo, lei aveva nominato mio padre suo esecutore testamentario. Nel frattempo sono subentrato io e ho preso in carico tutti i suoi clienti», fa una breve pausa per assicurarsi la mia attenzione. «Tua nonna ha lasciato un testamento».
«Non ne avevo idea». Non ho visto mia nonna per anni, e quelle poche volte che è successo di certo non mi parlava di simili questioni.
«Sono fatti abbastanza riservati, tanto che spesso i beneficiari non ne sanno nulla».
«Beneficiari?».
Derek accenna un sorriso, sfilando un foglio da una cartellina lucida. «Per fare chiarezza: tua nonna aveva diseredato tua madre a causa della sua scelta di vita».
«Se la metti così, mia madre sembra una criminale. Ha solo voluto sposarsi per amore invece che con uno sconosciuto scelto dai miei nonni».
«Per tua nonna Catriona, da allora, è stata indegna del diritto di successione. Non avrebbe lasciato il suo patrimonio – perdonami, cito parole sue – “A una sbandata e a quel signor nessuno di suo marito”», poi mi mostra il foglio. «Vedi? È scritto proprio qui, di suo pugno».
Do uno sguardo alla grafia svolazzante. «Ho sempre pensato che mia nonna fosse una donna adorabile», commento ironica.
«Tuttavia, Catriona ha disposto che la sua eredità vada a te».
Spalanco la bocca dallo stupore. Il chewing-gum mi cade di bocca, ma lo recupero prontamente, riprendendo a masticarlo. «io?»
«Sì, ti designa come sua erede per i suoi beni mobili e immobili».
«Mobili? Accidenti!», io abito in un monolocale, dove diavolo li metto tutti i suoi mobili?
«Già, un ingente patrimonio! Quando avrai più tempo, avrò modo di farti l’inventario».
Solo a pensarci inizio ad agitarmi sulla poltrona come se fossi costretta a stare seduta.
«Ti ho dovuto convocare per chiederti se intendi accettare o rifiutare l’eredità».
«Mi hai preso per una pazza? Certo che accetto! Dove devo firmare?».
L’espressione di Derek si fa seria. «Sull’eredità c’è una clausola».
«Clausola?»
«Sì, un vincolo, una conditio sine qua non», continua lui.
«Non iniziare a parlare avvocatese…».
«Tua nonna ha vincolato l’eredità al tuo matrimonio. Finché non ti sposi, non puoi entrare in possesso dei beni».
«Così su due piedi? Subito? Ora?»
«No, Jemma. Hai tutto il tempo che vuoi».
«Meno male! Dovrò convincere Alejandro. Sai, ci frequentiamo da quasi un mese, ma chissà! L’amore fa miracoli!». Sbircio l’orologio sul caminetto alle spalle di Derek. «Ora devo proprio scappare. Il direttore artistico sarà già all’ingresso dei camerini, per sbraitarmi addosso». Così dicendo mi alzo, infilandomi in fretta la giacca di ecopelle lilla.
«Scusa, Jemma, quest’Alejandro ha un titolo?»
«In che senso?». Non mi piace il suo tono indagatore.
«Tua nonna ti nomina erede solo nel caso in cui tu sposi un uomo di nobili origini, con tanto di titolo».
«Cosa?!», esclamo scioccata.
«Che sei libera di scegliere tuo marito tra i pari del Regno Unito…», poi Derek riprende a leggere il testamento: «…e Belgio e Danimarca. Non Francia, anche perché è una repubblica».
Derek deve essere impazzito. Almeno credo. Lui invece è serissimo.
«Quindi non sarò mai erede! E allora per cosa mi hai convocato? Questa è un’assurdità!».
«È mio dovere metterti a conoscenza di tutto. Il tuo rifiuto non è che il cinquanta per cento delle probabilità di risposta. Avresti anche potuto dirmi di sì».
«È ridicolo! Tanto valeva diseredare anche me! Anzi, non nominarmi per niente! Non si è sposata per calcolo mia madre, tantomeno lo farò io!».
«Tua nonna desiderava un futuro diverso per te».
«Al diavolo mia nonna e la sua fissa per i blasonati!».
Derek cerca di rassicurarmi mentre mi accompagna alla porta. «Il testamento resta valido finché non rinunci in via formale. Accetta il mio consiglio: riflettici su, a mente fresca, domani o dopodomani…».
Saluto distratta e penso a mia nonna: sono furibonda, non mi sarei mai aspettata una presa in giro simile!
Quando arrivo in teatro, gli attori sono già in agitazione per il mio ritardo di un’ora abbondante. Sì, perché dopo che sono uscita dallo studio di Derek, la metro si è bloccata senza motivo nel tunnel tra Embankment e Charing Cross. Londra all’ora di punta non perdona.
Cerco di sgattaiolare nei camerini ma Adriana mi aspetta appostata nel corridoio per darmi una bella strigliata. È il direttore artistico, viene da Milano e tutti la chiamiamo “Finta italiana”: priva di senso dell’umorismo, non mangia mai e lavora sempre.
«Grazie per averci degnato della tua presenza. Vorrei passare il prossimo quarto d’ora a farti sentire inadeguata e tristemente incompetente, ma lo spettacolo va in scena tra poco e hai tutta la compagnia da truccare. Muo-vi-ti. E inizia da Angelique prima che abbia una crisi di pianto e perda la voce».
«Scusa Adriana». Ma lei mi ha già voltato le spalle per andare da Oliver, il regista.
Attori isterici! Li ho truccati tutti e ventitré a tempo record, l’ultimo dieci secondi prima che si alzasse il sipario.
Prendo il kit e mi trasferisco dietro le quinte, pronta a ritoccarli nelle uscite. Ormai sono due anni che lavoro nella compagnia, con otto repliche la settimana, conosco il musical a memoria e so con esattezza quando e dove escono di scena gli interpreti. Il primo anno è stato il massimo, ci si divertiva, c’era molta complicità ed eravamo una grande squadra.
Oliver era ancora sposato con Medea, soprano e primadonna dello spettacolo; Michael, uno scozzese indiavolato con una pericolosa propensione all’alcol, era il direttore artistico e Sarah, la mia quasi migliore amica, era la costumista.
Poi Michael ha avuto un coma etilico, così Adriana l’ha sostituito in via definitiva; Oliver e Medea hanno divorziato; Medea ha cambiato compagnia e al suo posto è arrivata l’instabile ed emotiva Angelique; Oliver è caduto in depressione e, infine, Sarah ha deciso di tentare la fortuna a Broadway e se n’è andata a New York.
Io invece sono rimasta qui, a rammendare gli abiti di scena nel tempo libero, con una primadonna isterica, un direttore artistico sadico e un regista con attacchi di panico.
Credendo di aver acquisito abbastanza esperienza, anche se in una produzione secondaria, ho iniziato a consegnare il mio curriculum ai direttori artistici dei maggiori musical del West End: Mamma mia!, I miserabili, Il fantasma dell’Opera…
Sto ancora aspettando una risposta, mi hanno assicurato che mi faranno sapere. Non credo che abbia influito più di tanto la mia risposta: «Chi?», alla domanda: «Cosa ne pensi dello stile di Andrew Lloyd Webber?».
Sono ancora in contatto con Sarah e mi ha detto che se trova qualcosa di buono per me, là a New York, me lo farà sapere. Baratterei tutto ciò che ho per andare a lavorare a New York; Londra mi sta stretta, con tutta la sua nebbia, la sua serietà e la monarchia… Certo, per Sarah è facile, lei è di famiglia ricca, non è un problema vivere alla grande negli Stati Uniti… Io già tiro la cinghia qui.
Ho sempre vissuto con i miei genitori in una palazzina a Lewisham, uno dei quartieri del sud-est di Londra, e forse non con la migliore reputazione. Se è vero che a nessun londinese piace andare a sud del Tamigi, be’, io abito proprio all’estremo Sud. Quando ho ottenuto il mio primo incarico, ho fatto due conti e, non potendo permettermi un affitto in una zona più centrale, mamma e papà hanno concordato con il proprietario del condominio di sistemare il nostro seminterrato per farne un monolocale. Non è così male, ho anche una finestra! D’accordo, ogni tanto ci si addormenta davanti qualche barbone e non entra molta luce, però c’è.
Sarah viveva in un monolocale mozzafiato, uno vero però, nuovissimo, a Fulham, e spesso mi fermavo a dormire da lei, almeno fino a quando non si è fidanzata con Derek. Sì, Derek, l’avvocato. Erano vicini di casa e lui abitava al piano di sopra, così quando si sono fidanzati, sono andati a vivere insieme nel suo appartamento, che era molto più grande. È stato così che ho conosciuto Derek, anche se allora era solo un praticante nello studio di suo padre. Non eravamo molto in confidenza, ma quando Sarah se n’è andata a New York, spesso veniva in teatro, un po’ per abitudine, e andavamo a berci una birra. Andavamo anche allo stadio insieme la domenica per vedere l’Arsenal, poi è stato ammesso alla Law Society e non è più venuto alle partite per non farsi arrestare in qualche rissa. Ho scoperto che è l’avvocato di mia nonna solo oggi. Il mondo è piccolo davvero!
Mia nonna. Per strada vedo un sacco di nonnine amorevoli che portano a spasso i nipoti, li vanno a prendere a scuola, comprano loro un sacco di regali e schifezze da mangiare. Mia nonna Catriona ha sempre tenuto le distanze con me. Non una nonna, solo Catriona. Catriona e basta.
L’ho vista poco e ci ho parlato ancora meno. Mia madre me la faceva incontrare il minimo indispensabile e lei non si sforzava di stare insieme a me. Forse la persona con cui ha parlato meno che con me è stato mio padre.
Da Catriona mi arrivavano le buste per Natale e per il compleanno. Di solito contenevano un bigliettino in pergamena con un asettico “Auguri” e un assegno da cinquecento sterline. Mi ha pagato l’apparecchio per i denti e per tre anni l’ho odiata.
Ero così felice che i miei non potessero permettersi la parcella del dentista, che non m’importava di avere denti storti se potevo continuare a masticare chewing-gum e orsetti gommosi.
E non è finita qui: quando avevo sei anni, Catriona si è offerta di pagare la retta di una, a detta sua, “scuola per bene” e così l’ho frequentata per quattro mesi. Poco dopo Natale, i miei genitori hanno scoperto che il consiglio scolastico era composto da conservatori filotatcheriani, così mi hanno ritirata per mandarmi alla scuola pubblica, il tutto con grande disapprovazione di mia nonna.
In seguito l’ho vista forse una volta l’anno, per il mio “esame”: quanto ero cresciuta, se ero in salute, se andavo bene a scuola. Quasi sempre la lasciavo delusa e, ogni volta che aprivo bocca, lei alzava gli occhi al cielo.
Viveva in una di quelle case monumentali, vicino a Grosvenor Square. Se ci tornassi oggi, sicuramente busserei al portone sbagliato. È accaduto anche per la sua veglia funebre. Ho suonato a una casa identica, ma in una strada prima. Catriona non era vecchissima e nemmeno malata quando è morta. Ha avuto un infarto, da un giorno all’altro, almeno così ha detto la domestica.
Io non ho pianto. Ce l’ho messa tutta, so che si dovrebbe piangere quando muore una nonna, ma anche pensando alle cose più tristi, non sono riuscita a versare una lacrima. Mia madre invece sì. Ha pianto per giorni, forse perché sapeva che stavolta non ci sarebbe stata mai più occasione di fare pace. È restata alla veglia a lungo, io invece sono scappata in fretta e furia perché dovevo arrivare in tempo a teatro per la rappresentazione serale. Proprio come oggi.