Le dita tremanti, gli occhi fissi sull’uomo alla cassa, Mangusta arraffò la stecca di cioccolato e se l’infilò nella tasca del cappotto.
Aspettò che il fulmine lo colpisse. Che la mano di Dio lo friggesse sul posto. Che la terra si spalancasse per inghiottirlo. Minimo, che comparisse un poliziotto.
Niente a parte lui, piantato come un ebete davanti allo scaffale dei dolci. Quasi non riusciva a crederci.
— Basta che fai come se guardassi la merce — aveva detto Donnola. — Come se fossi incerto su che cosa vuoi comprare.
Così, eccolo qui, a grattarsi la testa, con un’aria scema da non-so-che-comprare stampata in faccia. E intanto sgraffignava una stecca di cioccolato.
Senza che succedesse niente. Il mondo neanche se ne accorse.
Così intascò anche una manciata di gomme da masticare. E un croccante alle mandorle.
— Mettiti il cappotto con le tasche più fonde che hai — aveva detto Donnola.
Un buon consiglio.
Una manciata di gelatine. Cioccolatini al rum.
Due corridoi più avanti, il berretto di lana rossa di Donnola si muoveva rapido dietro i pasticcini.
Merendine. Rotoli alla marmellata.
Ora il berretto rosso percorreva il corridoio, superava bibite e ciambelle, puntava verso la porta.
Tempo di filare.
Passarono insieme davanti al cassiere, calmi, indifferenti, senza guardarlo (— Non guardarlo — aveva ordinato Donnola) anche se Mangusta ne aveva una gran voglia.
Fuori, l’aria fredda di novembre li investì e Mangusta si rese conto di essere sudato. Raggiunsero l’angolo a passo tranquillo e appena svoltato, come per un segnale, si misero a correre, lasciando esplodere la tensione in risate ululanti.
Continuarono a correre fino al palazzo dove abitava Mangusta. Salirono di volata sei rampe di scale più una per raggiungere il loro posto preferito: il tetto.
Una volta lassù andarono avanti e indietro con aria da spacconi. Si avvicinarono al parapetto e abbassarono lo sguardo sulla città, agitando i pugni, trionfanti.
— È nostra! — esultò Donnola. — Tutta nostra!
A parte la torre dell’orologio della banca in Main Street, quel tetto era il punto più alto della città.
— Come sarebbe, nostra? — chiese Mangusta, voltandosi verso l’amico.
— Quello che ho detto. Se possiamo entrare nel minimarket e uscirne carichi di roba, possiamo fare qualsiasi cosa. Niente può fermarci. Non siamo più bambini! — gridò lui, rivolto ai tetti.
— Sì — sorrise Mangusta.
Donnola aveva ragione. Era tutta lì, l’importanza di quella sera, i nuovi nomi, ogni cosa: non erano più bambini. Avevano compiuto entrambi dodici anni in ottobre, ed entrambi avevano cominciato a notare la stessa cosa. Gli adulti si erano rimpiccioliti, o così pareva. L’insegnante, i genitori, i ragazzi più grandi, tutti… all’improvviso non costituivano più un pericolo. Le loro armi – punizioni, divieti di uscire, sgridate, regole, minacce – si erano spuntate.
Se n’erano accorti tutti e due, ciascuno per conto proprio, però non trovavano le parole per esprimere quella sensazione.
E poi un giorno, a scuola, l’insegnante di geografia aveva fatto a Donnola una domanda sul Messico, e lui aveva risposto: — Non lo so.
Donnola non era mai stato uno studente eccezionale e da sei anni (sette, contando l’asilo) continuava a dire «Non lo so» agli insegnanti. Senza mai dirlo realmente, però: si limitava a bofonchiare «Nnnnnnsss» con lo sguardo fisso sulle proprie scarpe. Lo bofonchiava, lo maciullava… «Nnnnnnsss», al punto che ogni nuovo insegnante ci metteva settimane per capire. I supplenti non ci arrivavano mai.
Ed eccolo là, a novembre, in sesta, fissare l’insegnante e dire la stessa cosa che diceva da una vita, però forte e chiaro come un annuncio alla tivù, un proclama: — Non lo so.
L’insegnante, la signora Pocopson, batté le palpebre e accennò un sorriso, forse sbigottita nel sentirgli uscire di bocca parole comprensibili. Di solito, dopo il consueto borbottio, passava a interrogare qualcun altro. Stavolta, invece, fece un passo avanti e disse: — Non lo sai?
— No. Non-lo-so — rispose Donnola scandendo ogni parola. Era come se avesse appena scoperto di saper parlare. — E non l’ho mai saputo.
Mangusta sentì ridacchiare. Il suo sguardo passò dalla Pocopson al suo migliore amico. Non l’aveva mai visto così sicuro di sé.
Le sopracciglia della signora Pocopson quasi sparirono in mezzo ai capelli. Batté di nuovo le palpebre. — Davvero?
— Già — disse Donnola — e probabilmente non lo saprò mai.
Sbuffi di risate si levarono qua e là.
“Sei spacciato” pensò Mangusta.
Ma Donnola non era spacciato, soltanto sospeso. La signora Pocopson lo spedì dal preside e, dopo avergli somministrato una tirata d’orecchi per la sua impertinenza, il preside lo spedì a casa per due giorni.
Fu come scaraventare Fratel Coniglietto nel cespuglio di rovi. Donnola andò a zonzo per la città lasciandosi dietro una scia di carte di caramelle e scoprendo un nuovo punto di vista: diventando Donnola. Il secondo giorno comparve nel cortile della scuola durante l’intervallo del mattino e fu subito circondato dagli altri ragazzi. Molti gli chiesero l’autografo.
Il giorno che Donnola tornò a scuola, Mangusta era presente quando spuntò un bimbetto, di terza o di quarta, che agitò un dito con aria di rimprovero e disse: — Oooh, Bobby… — Fino a quel momento, Donnola era Donnola soltanto per se stesso; per il resto del mondo era ancora soltanto Bobby Morgan. — Oooh, Bobby… ti sei messo nei guai. Sarà meglio che fai il bravo.
Donnola rise e allontanò il dito con uno schiaffetto. — Non devo fare un accidente. Non sono neanche qui.
Il ragazzino lo guardò storto. — Certo che ci sei.
Donnola scosse la testa e sogghignò.
— No… macché. Non più.
Aggirò il ragazzino ed entrò in classe, lasciandolo lì sconcertato.
Mangusta non era sconcertato. Capiva perché l’amico aveva risposto per le rime all’insegnante. Pur non avendo il coraggio di fare altrettanto, ne aveva voglia anche lui. Le cose erano cambiate, come se loro due si fossero trasferiti altrove. Non sapeva esattamente dove ma, come Donnola, sapeva che non erano più nello stesso posto di prima.
Quella sera si erano incontrati sul tetto. Avevano lanciato parole nel buio e, come fuochi d’artificio, le parole erano esplose annaffiando il futuro di luce. Avevano visto il minimarket. Avevano visto bombolette di vernice. Auto. Libertà.
E poiché si sentivano diversi e nuovi, si erano dati nomi nuovi. Bobby Morgan era diventato Donnola. Jamie Hill era diventato Mangusta.
— Perché hai scelto il nome d’un uccello? — aveva chiesto il nuovo Donnola.
— Non è un uccello — aveva risposto il vecchio Jamie Hill. — È un animale. Più svelto d’un cobra.
A Jamie Hill piaceva credersi un tipo svelto.