Due giorni dopo, quando si incontrarono di nuovo sul tetto alla fine delle lezioni, avevano portato le bombolette di vernice. Le avevano comprate coi soldi ricavati dalla vendita del bottino ai compagni di scuola. Ne avevano due ciascuno, una per fare pratica, una da usare per davvero. Si esercitarono, scrivendo in ginocchio sulla superficie del tetto.
— Ehi, Gus, vieni a vedere — chiamò Donnola, rialzandosi.
Mangusta andò. Studiò le alte, elaborate lettere rosse e annuì. — Bell’effetto.
— Ottimo, vorrai dire.
— Però hai sbagliato a scrivere il tuo nome.
Donnola abbassò lo sguardo. — Sul serio?
— Non è D-O-N-O-L-A. Devi metterci due N e non una sola.
Donnola lo guardò storto. — Davvero? Come lo sai?
— Non so come lo so. Lo so e basta.
— Perché dovrei crederti?
— Allora non credermi — fece Mangusta alzando le spalle.
— Non ti credo.
— Fa’ pure. — Mangusta tornò a perfezionare la propria firma, ma dopo un po’ disse: — Così dai del bugiardo al dizionario.
La mano di Donnola si bloccò. — Eh?
— È nel dizionario che ci sono tutti i nomi scritti come si deve.
— Hai visto il mio nome nel dizionario?
— No, però c’è. Ci sono tutte le parole, là dentro.
Parlò in tono deciso, ma Donnola rimase scettico.
Fissò Mangusta con aria d’accusa. — Hai un dizionario?
— No, però ne ho sentito parlare. Una volta ne ho visto uno a scuola. Se pensi che abbia detto una bugia, va’ a controllare.
Donnola sbuffò, stupefatto dall’idea. — Io non guardo in nessun dizzi-onario. — Fissò affettuosamente il nome. — Dovranno cambiarlo, perché questo resta così. — Un sibilo sottile annunciò che aveva esaurito la bomboletta. La scaraventò al capo opposto del tetto. — Vado a casa per cena. Ci vediamo più tardi. Sta’ in campana.
Se ne andò.
La vernice di Mangusta era blu. L’avrebbe voluta bianca, come la Jag, ma Donnola aveva detto: — E se volessi verniciare un muro bianco? Non si vedrebbe niente. — Così aveva scelto il blu. Si esercitò sulla M finché la bomboletta non fu vuota.
L’allontanò con un calcio e andò ad affacciarsi al parapetto. Non ricordava d’essersi mai trovato lassù da solo. Sotto di lui si stendeva la città, il suo mondo. E com’era bello guardarlo dall’alto, dopo una vita – bimbetto, marmocchio, bambino – passata guardandolo dal basso. Avvertì il potere degli anni a venire, il proprio potere. Respirò a fondo. Aveva l’impressione che i suoi polmoni potessero espandersi all’infinito, come se potesse ingoiare tutta l’aria della città a sorsate e restituirla a piacere.
Qualcosa in basso catturò il suo sguardo. Un piccolo rettangolo blu sui gradini del palazzo. Sembrava la tessera che Donnola aveva gettato di sotto. La tessera della biblioteca.
Tornò a casa per cena.