— Ehi, Gus.
— Ehilà, Donnola.
— Che combini?
— Non molto.
Stavano andando a scuola una settimana più tardi, due dodicenni sfrontati.
E Mangusta aveva appena mentito. Combinava un sacco di cose. Così tante da avere le convulsioni, in pratica. Era finalmente riuscito a raggiungere l’inizio di Strano ma vero. Più volte aveva provato a leggerlo tutto di filato, ma era impossibile. Continuava a saltabeccare avanti e indietro e dappertutto. Proprio come gli succedeva con un gelato millegusti. Ogni parte era così invitante che, appena finito di assaggiarla, era già attratto da un’altra.
Era diverso, però, perché quando finiva un millegusti si sentiva scoppiare e la sola idea del cibo lo disgustava. Quel libro, invece… avrebbe potuto mandarlo giù a colazione e sentirsi affamato prima di pranzo. Dovunque andasse Strano ma vero, non si trattava del suo stomaco.
Altra differenza: i millegusti lo rendevano avido. Nessuna orsa aveva mai sorvegliato i suoi cuccioli più gelosamente di quanto Jamie Mangusta Hill sorvegliasse un millegusti. Ma con quel libro era diverso. Non avvertiva soltanto il bisogno di nutrire se stesso ma anche gli altri, di prendere e donare, di condividere. Il che aveva fatto per tutta la settimana con i genitori e il fratello maggiore… finché anche loro non furono pieni da scoppiare.
Però Donnola non abboccava.
E ora, in quella limpida fredda mattina di dicembre, la pazienza di Mangusta era al limite. Di scatto agguantò per un braccio il suo migliore amico e disse: — Ehi, Don, senti questa.
Donnola si accigliò. — Hai l’aria idiota.
Mangusta si sentiva idiota. — Non ci crederai.
— Non crederai al pugno che ti darò se non mi lasci andare.
Donnola liberò il braccio.
— Sai quell’insetto sull’albero, l’altra notte?
— Quello che ho spiaccicato?
— Sì. Be’, in realtà non era un insetto. Era soltanto il suo guscio, l’insetto ne era venuto fuori. E non è tutto. Si chiama cicada. Però lo chiamano anche locusta dei diciassette anni perché vive sottoterra per diciassette anni. Diciassette anni! E non è tutto. Quando va sotto terra non è un insetto… ma un verme piccolo così!
Donnola lo fissò con aria inespressiva.
Mangusta attese un commento. Non ce ne furono, così riprese: — Vuoi sapere qualcos’altro?
— Oggi non vado a scuola — annunciò Donnola.
— C’è un pesce che scala gli alberi!
— Me ne torno a letto.
— E un formichiere mangia trentamila formiche al giorno!
— Al massimo metterò la testa fuori dalla finestra.
— Trentamila!
— Per ridere dei babbuini che vanno a scuola.
Svoltarono l’angolo e il sole li investì, abbagliante. Erano quasi a scuola.
Donnola tirò l’amico per una manica e gli si piantò di fronte, eclissando il sole. — Vieni con me?
Mangusta batté le palpebre. — E c’è un insetto che puzza come una moffetta.
Entrarono a scuola.
Per tutto il giorno Mangusta aspettò l’occasione di restare a tu per tu con la signora Pocopson, ma non arrivava mai. Alla fine delle lezioni, in corridoio, disse a Donnola: — Ho scordato una cosa. Va’ avanti, ci vediamo fuori.
Donnola lo guardò in modo strano, ma obbedì.
La signora Pocopson stava pulendo la lavagna. Mangusta si fermò sulla soglia, incerto su come iniziare. Poi prese fiato e si tuffò.
— C’è un pesce che sale sugli alberi. E un verme lungo ventisette metri! E i colibrì respirano duecento e cinquanta volte al minuto! E ho trovato il guscio d’una cicada!
Il cancellino si fermò. L’insegnante si voltò lentamente. Lo fissò con occhi vuoti come quelli di Donnola, però, Mangusta ne era sicuro, aveva sentito le sue parole e ora le stava ruminando. Di colpo, sul viso della Pocopson comparve un sorriso più caldo, e a suo modo più accecante, del sole mattutino.
Mangusta girò sui tacchi e corse via.