CAPITOLO DECIMO

Alla fine delle lezioni, Donnola corse fuori dalla scuola e vagabondò tutto solo per le strade, tentando di chiarirsi le idee.

Che cosa stava succedendo? Dove prima non c’erano mai stati problemi, ecco che adesso c’erano. Era coinvolto in una battaglia incomprensibile, senza armi, contro un nemico sconosciuto. E stava perdendo.

Faceva più caldo, e neve e ghiaccio cominciavano a sciogliersi. A ogni angolo doveva saltare sopra la poltiglia grigia raccolta intorno agli scarichi delle grondaie. Ben presto si ritrovò con calze e piedi freddi e umidi.

Ogni volta che passava davanti al suo nome su un muro, si fermava e agitava il pugno, sfidando i passanti a obiettare qualcosa.

Finché, a un certo punto, si scoprì a muovere rapidi passettini minuscoli e a contare: — … ventuno… ventidue… — Mentre contava, cominciò ad avvertire la presenza di qualcosa, qualcosa di enorme, di azzurro. — … trentacinque… trentasei… — Enorme e azzurra, incombeva su di lui, torreggiante, massiccia. — … cinquantuno…

Una frustata gelida gli sferzò le ginocchia, levandogli il fiato. Era in mezzo alla strada, e la ruota che l’aveva annaffiato era a metà dell’isolato, collegata a un’auto rossa. Non una decappottabile e nemmeno una Firebird, ma abbastanza da riscuoterlo, da farlo tornare in sé. Scosse rabbiosamente i jeans. Non era più tempo di gingillarsi.

Mangusta non era a casa. Donnola batté le strade del centro, controllando i soliti posti. Solo dopo averli esauriti ammise con se stesso che un posto l’aveva evitato: la biblioteca.

Arrivò al contenitore delle rese e lì si fermò. Fissò il portone, ma non riuscì a entrare. Una brezza sussurrante gli avvolse un dito gelido intorno al collo. Il cielo si stava oscurando, l’ora di cena era vicina. Dalla biblioteca uscivano, a gruppi, allievi delle superiori.

Sbirciò dentro da una finestra laterale. Ed ecco là Mangusta, tutto solo a un grande tavolo rotondo. Donnola bussò alla finestra, ma l’amico sembrava ipnotizzato dal libro che aveva di fronte. Altri libri erano sparpagliati sul tavolo, come se volesse farci il bagno.

Bussò di nuovo, più forte… e una donna comparve di là del vetro. Non sembrava arrabbiata e neanche sorpresa di vederlo. Non tentò di scacciarlo. Gli sorrise e indicò il portone e le sue labbra formarono una parola: “Entra.”

Donnola la fissò. Il vento era aumentato. Con voce non troppo alta, nel caso il vetro fosse sottile, sibilò con tono arrogante: — Tu dici a me di entrare? Non puoi dirmi niente, tu. Io faccio quello che mi pare. Se volevo entrare, pensi che avresti potuto fermarmi?

Rise e se ne andò.

Finalmente, dopo cena, trovò Mangusta a casa. Lo trascinò sul tetto, dove le cose erano sempre giuste. Il vento ruggiva fra le cime degli alberi.

Afferrò l’amico per un braccio. — Domani sera usciamo. E niente scuse. Si va a dipingere.

Con sua sorpresa, Mangusta non cercò scuse. E nemmeno rispose, così Donnola sputò fuori tutto.

— E poi molliamo.

Mangusta sgranò gli occhi. Donnola soffocò una risata. Prendi questo, balena azzurra.

— Molliamo? — ripeté Mangusta. — Molliamo che cosa? Non capisco.

— La scuola. Che cosa credi? Te l’avevo detto. Sei con me?

Mangusta indietreggiò. — Avevi detto a sedici anni.

Donnola scosse la testa. — Troppo da aspettare. Io la mollo subito. Sei con me?

Si fissarono e poi, nel vento ululante, risuonò uno scatto.

All’istante i due ragazzi si accucciarono accanto al parapetto. La porta si aprì e ne uscì un uomo, una grossa sagoma goffa che nessuno dei due riconobbe. Trasportava qualcosa. Trascinò il qualcosa fino all’altro capo del tetto e lo aprì: aveva tre zampe scheletriche che si univano a formare una piramide sormontata da un cilindro.

La figura vi si chinò sopra.

— Una mitragliatrice — bisbigliò Donnola. — O un lanciarazzi.

Mangusta era già in moto.

Incoraggiato, Donnola gli passò davanti e gridò: — Ehi!

L’ampia schiena scura si raddrizzò di scatto, sorpresa, e una voce d’uomo disse: — Sì? — e si voltò a fissarli.

I ragazzi fecero un salto all’indietro.

Donnola strillò.

Avevano davanti una maschera come quelle che si vedono nei film delle rapine alle banche e lasciano scoperti soltanto occhi e bocca. La maschera aderiva alla testa come un guanto. Poi videro un paio di paraorecchie. E un berretto a strisce rosse e bianche, col pompon.

L’uomo ridacchiò. — Scusate, ragazzi, non avevo nessuna intenzione di spaventarvi.

— Non siamo spaventati — ringhiò Donnola, facendo un altro passo indietro.

— Con un freddo così — disse l’uomo — il cinquanta per cento del calore corporeo si disperde attraverso la testa. Lo sapevate?

— Non la mia testa — disse Donnola.

L’uomo annuì. — Be’, te ne accorgerai alla mia età. E questa sarà una notte gelida. C’è un fronte freddo in arrivo. Domani nevicherà.

A Donnola non interessavano le previsioni del tempo, neanche un po’. — Che ci fa sul nostro tetto? — indagò. — È un lanciarazzi, quello?

La testa incappucciata s’inclinò. La bocca sorrise. Una mano batté sul cilindro nero. — Questo? No. Questo è un telescopio. Serve a osservare il cielo. È il mio passatempo preferito. Intorno a casa mia ci sono troppi alberi, così ho chiesto all’amministratore del condominio se potevo salire sul tetto. Sapevate che, a parte la torre dell’orologio, è il punto più alto della città?

— Lo sapevamo — rispose Donnola. — Questo è il nostro tetto.

— Spero che non vi dispiaccia — disse la bocca.

— Ci dispiace eccome — sbottò Donnola.

— Cos’è che guarda? — chiese Mangusta.

Il sorriso divenne più ampio. — La Grande Nebulosa di Orione.

— Eh? — dissero all’unisono Donnola e Mangusta.

L’uomo indicò il cielo. — Vedete quelle tre stelle in fila? — Donnola le vide, ma non aveva intenzione di dirlo. — Quella è la cintura di Orione. Orione è una costellazione. Sapete che cos’è una costellazione?

— Sì — risposero entrambi, ma Donnola mentiva.

— Le stelle di quella costellazione delineano la figura di Orione, il grande cacciatore. E quelle tre in fila costituiscono la sua cintura. Ora guardate la stella a sinistra, e poi un poco più in basso. Vedete altre tre stelle in fila?

— Sì — disse Mangusta, come se la faccenda lo interessasse.

— Be’, a occhio nudo la seconda di quelle stelle sembra una, ma in realtà è un’intera galassia di stelle e nubi gassose. E tutto l’insieme è chiamato la Grande Nebulosa di Orione.

Con rare eccezioni, il vocabolario di Donnola conteneva una sola e unica domanda. La fece ora: — E con ciò?

Come previsto, la domanda paralizzò la bocca dell’uomo all’istante. Restò aperta, sciocca, ammutolita; gli occhi ammiccarono.

E questo avrebbe sistemato le cose su due piedi. Lo sconosciuto avrebbe rimpacchettato il suo stupido aggeggio e lasciato il loro tetto… Eccetto che Mangusta, accennando al cannocchiale, rovinò tutto con una domanda: — Posso guardare?

L’uomo si fece da parte. — Certo che puoi. — Puntò un dito. — Basta che guardi là dentro.

Donnola osservò Mangusta avvicinarsi al telescopio che avrebbe dovuto essere un lanciarazzi. Vide il suo migliore amico chinarsi e guardare.

— Faresti meglio a mettere le mani intorno all’occhio — suggerì la bocca. — Elimina la luce esterna.

Mangusta s’ingobbì e sollevò le mani a coppa.

Una preghiera sfiorò le labbra di Donnola: “Ti prego, fa’ che non veda niente.”

— Proprio al centro — diceva l’uomo. — Vedi la macchia increspata? Tutte le piccole punte luminose?

Mangusta sembrava una statua. — Sì.

— È quella. La Grande Nebulosa di Orione. Stai guardando una galassia, composta da miliardi di stelle. E quella galassia si trova a mille e cinquecento anni luce dalla Terra.

Mangusta si raddrizzò. — Che cos’è un anno luce?

— Un anno luce è la distanza che la luce percorre in un anno. Più o meno diecimila miliardi di chilometri.

— Accidenti!

— Accidenti, giusto. Ma non c’è da stupirsi, se si pensa alla velocità della luce.

— Cioè? — chiese Mangusta.

— Circa trecentomila chilometri al secondo.

— Che cosa? — ansimarono contemporaneamente Mangusta e Donnola.

— Ha detto al secondo? — chiese Mangusta.

La testa incappucciata annuì. — Al secondo.

— Mi sta dicendo… — Mangusta si tolse il guanto destro e schioccò le dita, e poi le schioccò di nuovo — che a questa velocità la luce si fa quasi trecentomila chilometri?

Un altro cenno d’assenso deciso, senza ombra di dubbio, da parte dello sconosciuto.

Per un istante sul tetto parlò soltanto il vento. Donnola pensava alla sua decappottabile rossa, con lui dentro, che sfrecciava sull’autostrada lasciandosi dietro l’asfalto fumante. Non gli piaceva, quell’uomo. Col suo berretto stile leccalecca somigliava a un elfo andato a male. Aveva voglia di acchiappare quel ridicolo pompon e strapparglielo dalla testa e scaraventarlo giù dal tetto.

Mangusta si rimise il guanto e tornò a guardare nel cannocchiale.

— In effetti — riprese l’uomo — la galassia che stai osservando si allontana da noi a centinaia di migliaia di chilometri l’ora.

Donnola sogghignò. — Questo è niente. Appena avrò la mia Firebird…

Nessuno lo ascoltava.

— C’è un grande mondo là fuori — stava dicendo l’uomo, con un ampio gesto della mano.

— Quanto grande? — chiese Mangusta.

“Quanto grande?” lo schernì in silenzio Donnola. “Quanto grande? Quanto veloce? Quanto? Quanto? Quanto?”

Lo sguardo dell’uomo vagò oltre il tetto, oltre le cime degli alberi. — Nessuno lo sa per certo.

Donnola andò verso l’altro lato del tetto. — Ehi, Gus — chiamò — arriva gente. Vieni, bombardiamoli di sputi.

Però Mangusta era altrove. — Don, vieni qui. Guarda questo!

Donnola restò sul bordo del tetto, come tante altre volte. La città, la sua città, era distesa davanti a lui. È a questo che serve un tetto: per guardare in basso, per controllare il territorio, per misurare se stessi.

— Don! La luna! Vedo la luna! Da non credere! È come se potessi toccarla! Vieni!

Donnola si sentì sprofondare.

Lentamente, sentendo infine il freddo, arrancò verso la porta. Arrivato lì, si voltò. Mangusta era chino sopra quell’aggeggio, tutto ingobbito a parte un braccio proteso oltre il cilindro, le dita che annaspavano come se cercassero di toccare la luna.

Donnola odiava l’uomo. Odiava il cannocchiale. — Gus — chiamò.

Mangusta non si mosse.

— Mangusta! — urlò.

Con qualcosa di simile al sollievo, vide la forma scura dell’amico staccarsi dal cilindro, pronta all’ascolto.

— Ricorda: domani sera. Passo da te. Sta’ pronto.

Non aspettò la risposta.