L’uomo aveva avuto ragione. Cominciò a nevicare prima che uscissero da scuola, e per la sera era inutile pensare a scorribande notturne. La nevicata proseguì fino all’ora di pranzo del giorno successivo. La scuola rimase chiusa.
Donnola tallonò Mangusta tutto il giorno, per evitare che l’amico se la svignasse a leggere un libro o a guardare in qualche telescopio. Passarono la giornata andando in slittino, facendo a palle di neve, mangiando. Mangusta era di nuovo lui.
Cenarono insieme, poi Donnola corse a casa per prendere le bombolette di vernice. Quando tornò, Mangusta lo aspettava fuori e disse: — Dove sono le mie? — Non stava nella pelle.
Donnola l’avrebbe baciato. — Tieni.
Gli porse le due blu.
Mangusta se ne infilò una per tasca e tese una mano, il palmo verso l’alto. Sorrise. — Andiamo!
Donnola gli batté con forza sulla mano. — Sì!
E partirono di corsa, ridendo, sparando battutacce, tirandosi palle di neve, due amiconi. Proprio come ai vecchi tempi.
La luna, un ritaglio sottile nel cielo nero, dava poca luce quella notte; ma quella poca si raccoglieva in pozzanghere sulla superficie levigata della neve fresca come acqua piovana sul tettuccio di una brillante Firebird appena lucidata.
— Andiamo alle superiori! — gridò Mangusta.
Spiccarono la corsa.
Poco dopo, fermi davanti alla scura arcata gotica, Donnola provò tre emozioni insieme. Era felice che Mangusta fosse di nuovo se stesso. Sbigottito dall’audacia dell’amico. E nervoso riguardo a metterla in pratica. E poi pensò: “Ehi… Tanto qui non ci verrò mai. Che mi frega?” E allora si sentì bene e basta.
Tirò fuori una bomboletta e la scosse. Superò l’arcata e andò verso il massiccio portone di legno. Stavolta non scrisse il suo nome. Scrisse: VI MOLLO.
Fece un passo indietro.
— Guarda, Mangusta.
Mangusta era sparito. Lo individuò sul retro, che arrancava oltre i campi da tennis.
— Dove vai?
— Sul campo da calcio — fu la risposta.
Dove poteva scrivere, là? Le gradinate erano coperte di neve. I pali delle reti?
Dal momento che non aveva intenzione di frequentare le superiori, Donnola si rifiutò di onorare l’edificio principale con la propria firma. Invece autografò altri punti: la palestra, la rimessa, la centrale elettrica, la segreteria, i cartelli del parcheggio. Stava firmando le case-basi del campo da baseball quando sentì Mangusta alle sue spalle: — Andiamo, lumaca. Io ho finito da un pezzo.
Donnola esaurì la seconda bomboletta e tornarono verso casa. Poi, desideroso di prolungare quella nottata splendida, Donnola suggerì di salire alla loro vecchia postazione, sul tetto.
Capì di avere commesso un errore appena aprirono la porta. Gli occhi di Mangusta corsero subito al cielo.
— Eccolo lì. — Puntò il dito. — Orione.
Donnola si rifiutò di guardare.
— Quanto credi che costi, un telescopio? — chiese Mangusta.
— Milioni. Lascia perdere quell’idiota.
Si fecero strada fra la neve fino al parapetto e bombardarono bersagli immaginari sei piani più in basso.
Diffidando delle risposte, Donnola evitò le domande.
— Domani è il gran giorno — disse. — Finalmente saremo liberi.
Mangusta, impegnato a pressare palle di neve, non fece commenti.
— Andremo alla sala giochi. Ce li faremo tutti. Ci ingozzeremo a pranzo. Andremo a guardarci un po’ di automobili. — Tirò una gomitata a Mangusta. — Magari anche le Jaguar.
Mangusta sganciò una bomba di neve.
— Sarà uno spasso la faccia della vecchia Pocopson quando vedrà i nostri posti vuoti.
Mangusta andò al centro del tetto e si lasciò cadere all’indietro, le braccia allargate, sulla neve. — Ehi, Don — chiamò — prova questo. Da quaggiù, non vedi altro che cielo.
Donnola tenne duro. — Allora, dove vuoi andare a mangiare, domani?
Non ricevendo risposta, mise insieme una bomba di neve grande quanto un pallone e la tenne sopra la testa di Mangusta, disteso a braccia e gambe spalancate sulla neve.
— Allora, dove? Voglio una risposta.
Mangusta chiuse gli occhi e ridacchiò. — Don, credi davvero che tua madre ti permetterà di mollare la scuola?
Donnola non sapeva cosa lo irritò di più: la domanda o il risolino. Sganciò la bomba, però Mangusta, fedele al proprio nome, era troppo svelto.