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GENESI

A ogni passo le scarpe nuove mi mordono i talloni. Stringo in mano una cartelletta blu scuro, piena di documenti organizzati con post-it colorati. Il luogo in cui mi trovo mi mette soggezione, e l’idea della mia meta mi riempie d’ansia, quindi mi concentro sul rumore dei nostri passi. Un assistente ci ricorda di non attardarci, per non attirare l’attenzione. Superiamo alcuni agenti in divisa, varchiamo l’atrio e svoltiamo in un corridoio. L’assistente apre una porta; ci precipitiamo giù per delle scale e imbocchiamo un secondo corridoio, identico al precedente: pavimento in marmo, soffitto alto, porte in legno, di tanto in tanto una bandiera americana. Siamo in sette, e i nostri passi riecheggiano nell’ambiente. Siamo quasi arrivati quando mi riconoscono. Un deputato mi scorge e agita la mano per salutare. «Già di ritorno?» Un gruppetto di giornalisti sta lasciando una conferenza stampa. Notano i miei capelli rosa elettrico. Sanno chi sono.

Due cameraman mi si parano davanti e, camminando all’indietro, iniziano a riprendere. Si crea una piccola folla, cominciano a fioccare le domande. «Mr Wylie, una dichiarazione per la NBC!» «Una dichiarazione per la CNN! Perché è qui?» Uno dei miei avvocati mi ricorda di tenere la bocca chiusa. L’assistente indica un ascensore e avverte i corrispondenti di stare al proprio posto. Entriamo. Le macchine fotografiche continuano a scattare mentre le porte si chiudono.

Mi ritrovo pressato contro la parete della cabina, attorniato da persone in giacca e cravatta. Cominciamo la discesa, calandoci sottoterra in silenzio. Il lavoro di preparazione fatto con gli avvocati mi riempie la testa: quali leggi statunitensi sono state violate e da chi, quali diritti ho o non ho in quanto cittadino straniero, come ribattere con calma alle accuse, che accadrebbe se venissi arrestato... Non ho idea di cosa aspettarmi. Nessuno ce l’ha.

Ci fermiamo, l’ascensore si apre. Qua sotto c’è solo un’altra porta, con un grosso cartello a lettere bianche su sfondo rosso: AREA RISERVATAACCESSO VIETATO AL PUBBLICO E AI MEDIA. Ci troviamo al terzo piano interrato del Campidoglio, a Washington D.C.

Oltre la porta il pavimento è rivestito di una soffice moquette marrone. Agenti in uniforme ci confiscano i telefoni e gli altri dispositivi elettronici: li sistemano su alcuni scaffali numerati dietro la scrivania, dividendoli per proprietario, e ci consegnano dei biglietti per recuperarli. Specificano che possiamo portare con noi solo carta e matita. E, ci avvertono, quando usciremo potrebbero confiscarci anche quelle, se riterranno che abbiamo preso nota di informazioni sensibili.

Due agenti aprono un’enorme porta d’acciaio, uno ci fa segno di passare. Entriamo in fila indiana in un lungo corridoio fiocamente illuminato da lampade al neon. Le pareti sono rivestite da pannelli di legno scuro, con lunghe file di bandiere americane issate su supporti. L’ambiente puzza di edificio vecchio e detergenti; l’aria è viziata, stantia. Le guardie ci conducono per il corridoio, svoltano a sinistra e proseguono oltre l’ennesima porta. Sopra di essa campeggia un gigantesco stemma di legno con l’aquila che ci osserva dall’alto, le frecce strette tra gli artigli. Siamo giunti a destinazione: il Sensitive Compartmented Information Facility – o SCIF – dello United States House Permanent Select Committee on Intelligence. Qui si tengono le riunioni top secret del Congresso.

I miei occhi faticano ad adattarsi, assaliti dalla luce di altre lampade al neon, ben più forti. La stanza è anonima, con spoglie pareti beige e un tavolo da riunioni con tante sedie; potrebbe trovarsi in uno qualsiasi dei tanti scialbi edifici federali sparsi per tutta Washington. A colpirmi, però, è il silenzio dello SCIF: l’ambiente è insonorizzato, protetto da pareti multistrato che impediscono le intercettazioni. Si dice sia a prova di bomba. Una struttura blindata, pensata per custodire i segreti dell’America.

Ci sediamo, e alla spicciolata iniziano ad arrivare anche i deputati. Gli assistenti dispongono dei faldoni davanti a ogni componente della commissione permanente per l’intelligence della Camera dei rappresentanti. Il presidente – il democratico Adam Schiff, deputato della California – siede di fronte a me; alla sua sinistra c’è Terri Sewell, e in fondo al tavolo si stringono Eric Swalwell e Joaquin Castro. Io sono affiancato dai miei avvocati e dall’amico Shahmir Sanni, anche lui un whistleblower, un informatore. Aspettiamo ancora un po’, nel caso qualche repubblicano della commissione si decida a presenziare. Nessuno di loro lo farà.

È il giugno del 2018 e mi trovo a Washington per deporre, di fronte a deputati del Congresso degli Stati Uniti, in merito a Cambridge Analytica – società di consulenza per la guerra psicologica presso la quale lavoravo – e a una complessa rete che collega Facebook, la Russia, WikiLeaks, il comitato per la campagna elettorale di Trump e il referendum per la Brexit. In qualità di ex direttore delle ricerche, ho portato con me dei documenti che provano come i dati raccolti da Facebook siano stati trasformati in un’arma, e come il sistema messo in piedi dalla società abbia esposto milioni di americani ad attacchi propagandistici di Stati ostili. È Schiff, già procuratore federale, a fare le domande. La sua linea d’indagine è netta, precisa; va dritto al nocciolo della questione.

«Ha lavorato con Steve Bannon?»

«Sì.»

«Cambridge Analytica ha contatti con possibili agenti russi?»

«Sì.»

«Ritiene che quei dati siano stati usati per influenzare il popolo americano nell’elezione del presidente degli Stati Uniti?»

«Sì.»

Passa un’ora, poi due, poi tre. Sono venuto qui di mia spontanea volontà, per provare a chiarire perché un ventiquattrenne canadese, liberal e gay, si sia ritrovato a lavorare per una società di consulenza britannica che sviluppa strumenti di guerra psicologica per la alternative right – la cosiddetta «destra alternativa», o alt-right – americana. Fresco di università, avevo accettato un impiego presso l’SCL Group di Londra, che forniva consulenze informatiche al ministero della Difesa britannico e agli eserciti NATO. Le forze armate occidentali erano alle prese con la lotta alla radicalizzazione online, e la società voleva che contribuissi alla creazione di un team di analisti incaricato di sviluppare nuovi strumenti per identificare e combattere il fenomeno. Un lavoro al contempo affascinante, impegnativo ed eccitante. Eravamo sul punto di aprire nuovi orizzonti per la cyber defence della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dei loro alleati, fronteggiando il fermento dell’estremismo grazie a dati, algoritmi e narrazioni mirate online; poi, in seguito a una catena di eventi dipanatisi nel 2014, un miliardario ha messo le mani sul nostro progetto, per radicalizzare l’America e realizzare i suoi obiettivi. Cambridge Analytica – una società di cui pochi avevano sentito parlare, capace di trasformare in arma le ricerche di profilazione psicologica – è riuscita a stravolgere il mondo.

In ambito militare, quando un’arma finisce in mani sbagliate si usa talvolta l’espressione «vampa di ritorno». Be’, questa particolare vampa sembrava conflagrata all’interno della stessa Casa Bianca. Non potevo continuare a lavorare su qualcosa di così dannoso per la società, quindi avevo deciso di vuotare il sacco, riferendo l’intera faccenda alle autorità e collaborando con i giornalisti per informare l’opinione pubblica.

Seduto di fronte ai deputati del Congresso, ancora stordito dal jet lag a ventiquattr’ore da un volo intercontinentale, non riesco a contenere il disagio man mano che le domande si fanno più mirate. In diverse occasioni i miei tentativi di spiegare le complesse attività della società lasciano interdetti i deputati, così mi limito a spingere verso di loro la cartelletta che ho con me. Al diavolo, ormai sono qui: tanto vale che dia loro tutto.

Non facciamo pause, la porta alle mie spalle resta chiusa per tutto il tempo. Sono bloccato in una stanza soffocante, senza finestre e ben al di sotto del livello del suolo; tutto ciò che posso guardare sono gli occhi dei deputati, che si sforzano di capire cosa diamine sia successo al loro Paese.

Tre mesi fa, il 17 marzo 2018, il Guardian, il New York Times e Channel 4 News hanno pubblicato i risultati di un’indagine durata un anno, nata dalla mia decisione di svelare quanto stava accadendo dentro a Cambridge Analytica e Facebook. Le mie rivelazioni hanno dato inizio alla più grande indagine giudiziaria della storia incentrata sulla raccolta e l’utilizzo di dati online. In Gran Bretagna l’inchiesta ha coinvolto la National Crime Agency (o NCA, la principale forza di polizia per la lotta al crimine organizzato, al traffico di droga, armi e uomini, ai reati online e a quelli di natura economica), l’MI5 (l’agenzia d’intelligence interna del Regno Unito), l’Information Commissioner’s Office (o ICO, l’organo garante per la privacy), l’Electoral Commission (incaricata di vigilare sulle attività elettorali e di finanziamento ai partiti) e il London Metropolitan Police Service. A questi enti si sono accodati, negli Stati Uniti, l’FBI, il dipartimento di Giustizia, la Securities and Exchange Commission (o SEC, l’organismo preposto al controllo delle attività di Borsa) e la Federal Trade Commission (o FTC, l’agenzia che si occupa di concorrenza e tutela dei consumatori).

Nelle settimane precedenti l’uscita di quei primi articoli era entrata nel vivo anche l’indagine di Robert Mueller. A febbraio il procuratore speciale aveva incriminato tredici cittadini russi e tre società dello stesso Paese, in base a due diversi capi d’imputazione per cospirazione. Una settimana più tardi erano arrivate anche le accuse per l’ex direttore della campagna di Trump, Paul Manafort, e il suo vice Rick Gates. Il 16 marzo il procuratore generale Jeff Sessions – a capo del dipartimento di Giustizia – aveva licenziato il vicedirettore dell’FBI Andrew McCabe, che di lì a ventiquattr’ore sarebbe andato in pensione. La gente chiedeva a gran voce che si facesse luce sui rapporti tra il comitato per la campagna elettorale di Trump e la Russia, ma nessuno era stato in grado di unire i puntini. Io ho fornito le prove che collegavano Cambridge Analytica a Donald Trump, Facebook, i servizi segreti russi, gli hacker internazionali e la Brexit. Prove che hanno svelato come un’anonima società straniera fosse dedita ad attività illegali, e avesse fornito i suoi servizi alle vincenti campagne di Trump e della Brexit. Le catene di mail, le comunicazioni interne, le fatture, i resoconti di trasferimenti bancari e la documentazione progettuale che ho messo a disposizione hanno dimostrato che Trump e il comitato pro Brexit avevano fatto ricorso alle medesime strategie, basate sulle stesse tecnologie e dirette perlopiù dalle stesse persone. E che su tutto ciò aleggiava lo spettro di un occulto intervento russo.

Due giorni dopo che la vicenda è venuta alla luce, il Parlamento britannico si è riunito per un’interrogazione urgente. In un raro momento di coesione, i ministri del governo e i principali esponenti dell’opposizione hanno additato compatti le negligenze della dirigenza di Facebook, colpevole di non aver impedito che la piattaforma si trasformasse in una rete di propaganda elettorale in mano a potenze ostili, con tutti i rischi che ciò ha comportato per le democrazie occidentali. La successiva ondata di articoli si è concentrata sulla Brexit, e ha messo in discussione il regolare svolgimento del referendum. Parte dei documenti che avevo fornito alle autorità rivelava come la campagna del Vote Leave avesse fatto ricorso a occulte società affiliate di Cambridge Analytica: alcuni pagamenti, tenuti segreti, erano volti a diffondere disinformazione sfruttando le inserzioni pubblicitarie su Facebook e Google. L’Electoral Commission ha stabilito che si è in effetti trattato di una pratica illegale, una delle più grandi e importanti violazioni della legge sul finanziamento alle campagne elettorali nella storia britannica. Le prove di tale frode hanno sprofondato l’intero staff del 10 di Downing Street – residenza del primo ministro del Regno Unito – in una crisi mediatica. L’NCA e l’MI5 hanno poi ricevuto il materiale che dimostrava l’esistenza di un contatto diretto tra l’ambasciata russa e i maggiori sostenitori delle campagne pro Brexit. Una settimana più tardi il titolo azionario di Facebook è crollato del diciotto per cento, bruciando ottanta miliardi di dollari. Le turbolenze di mercato sono poi continuate, culminando in quella che rimane tuttora la più grande perdita di valore azionario registrata in un singolo giorno nella storia delle imprese statunitensi.

Il 27 marzo 2018 sono stato convocato dal Parlamento per un’audizione trasmessa in diretta; un’esperienza cui mi sarei dovuto abituare nel corso dei mesi successivi. Il mio intervento ha spaziato dal ricorso a hacker e tangenti da parte di Cambridge Analytica all’acquisizione illecita di dati da Facebook, fino alle operazioni dell’intelligence russa. Dopo quell’udienza sono partite indagini anche oltreoceano, guidate da FBI, dipartimento di Giustizia, SEC e FTC. Pareva che tutti volessero ascoltarmi: lo United States House Intelligence Committee, l’House Judiciary Committee, il Senate Intelligence Committee, il Senate Judiciary Committee... Nel giro di qualche settimana anche l’Unione Europea ha aperto diverse indagini su Facebook, i social media e la disinformazione. Un esempio seguito da oltre venti altri Paesi.

Avevo raccontato la mia storia al mondo, e adesso ogni schermo la rifletteva come uno specchio. Per due settimane di fila la mia vita è stata un caos: le giornate cominciavano alle sei del mattino, ora di Londra, con apparizioni nelle trasmissioni britanniche, e continuavano fino a mezzanotte con interviste sui network statunitensi. I giornalisti mi seguivano ovunque. Ho cominciato a ricevere minacce, tanto preoccupanti da spingermi ad assumere delle guardie del corpo per proteggermi durante gli eventi pubblici. I miei genitori, entrambi medici, hanno dovuto chiudere temporaneamente i loro studi a causa di cronisti insistenti che arrivavano a disturbare i pazienti. Nei mesi successivi la situazione è giunta al limite dell’ingestibile, ma sapevo di non potermi fermare: dovevo dare l’allarme.

La vicenda di Cambridge Analytica dimostra che i nostri comportamenti e le nostre stesse identità sono divenuti una merce nel mondo dei dati, un mercato ad alto rischio. Le società che controllano il flusso di informazioni sono tra le più potenti al mondo, e gli algoritmi che hanno sviluppato stanno plasmando in segreto le nostre menti, in modi un tempo inimmaginabili. Non importa quale sia la causa che più avete a cuore – lotta alla diffusione delle armi, immigrazione, libertà di parola, libertà religiosa... – non potete sfuggire alla Silicon Valley, epicentro della nostra crisi di percezione. Il mio lavoro in Cambridge Analytica ha svelato il lato oscuro dell’innovazione tecnologica. Noi l’abbiamo cavalcata, così come l’hanno cavalcata l’alt-right e la Russia. E Facebook – il social network sul quale condividete inviti alle vostre feste e foto dei bambini – ha aperto il mondo al nostro operato.

Non credo mi sarei interessato alla tecnologia, né sarei finito in Cambridge Analytica, se fossi nato in un corpo diverso. Mi sono dedicato ai computer perché non c’era molto altro a disposizione per un ragazzino come me. Sono cresciuto sull’isola di Vancouver, sulla costa occidentale della British Columbia, circondato da oceani, foreste e fattorie. Primogenito di due medici, ho «aperto la strada» a due sorelline, Jaimie e Lauren. A undici anni le mie gambe iniziarono a perdere mobilità: non riuscivo più a correre veloce come gli altri ragazzi, e cominciai a camminare in modo strano; cosa che, come ovvio, fece di me il bersaglio dei bulli. Mi furono diagnosticati due disturbi piuttosto rari, i cui sintomi comprendevano forti dolori neuropatici, debolezza muscolare e calo di vista e udito. A dodici anni, con tempismo perfetto sull’arrivo dell’adolescenza, ero su una carrozzella. Ho usato la sedia a rotelle fino a tutte le superiori.

Quando non puoi camminare la gente ti tratta in modo diverso, e a volte capita di sentirsi più oggetti che persone: il modo in cui ti sposti diventa la cifra attraverso cui gli altri ti interpretano e definiscono. Inoltre cambia il tuo approccio a edifici e strutture. Quale ingresso potrò usare? Come raggiungerò la mia destinazione evitando le scale? Impari a cercare elementi che le persone intorno a te neanche notano.

Così, appena ne scoprii l’esistenza, il laboratorio di informatica divenne il mio rifugio scolastico: l’unico luogo in cui non mi sentissi un escluso. Fuori c’erano i bulli e il personale accondiscendente, gli insegnanti che spingevano gli altri ragazzi a relazionarsi con me, generando comportamenti forzati persino più irritanti dell’essere ignorato. Preferivo di gran lunga andare in sala computer.

Cominciai a realizzare pagine web verso i tredici anni. Ricordo ancora la prima: mostrava un’animazione in Flash della Pantera Rosa inseguita da un imbranato ispettore Clouseau. Poi mi imbattei in un video che spiegava come realizzare in JavaScript un semplice programmino per sfidare il computer a tris, e pensai che fosse la cosa più figa di tutti i tempi. Quel gioco sembra piuttosto semplice, finché non ti trovi a doverne segmentare la logica. Non puoi lasciare che il computer selezioni a caso una casella libera, altrimenti la partita sarebbe noiosa. No, devi guidarne le scelte attraverso regole; per esempio inserire una X in una casella adiacente a un’altra X, sempre che non ci sia già una O in quella riga o colonna. E le X in diagonale? Come spiegargli quelle?

Alla fine misi insieme centinaia di confuse stringhe di codice, creando uno di quegli ammassi informi che vengono definiti in modo dispregiativo spaghetti code. Ricordo ancora la sensazione che provavo nell’osservare quella piccola creazione rispondere alle mie mosse: mi sentivo uno stregone. E più facevo pratica con gli incantesimi, più potente diventava la mia magia.

Laboratorio d’informatica a parte, la scuola continuava a sembrarmi un luogo in cui si insegnavano cose che non ero in grado di fare o non mi erano permesse. Il tempio in cui si formava chi non potevo essere. I miei mi spronavano a cercare un posto in cui potessi integrarmi, così nel 2005 – a quindici anni – trascorsi l’estate presso il Lester B. Pearson United World College: una scuola internazionale a Victoria, intitolata al premio Nobel e premier canadese che delineò la prima forza di peacekeeping dell’ONU, durante la crisi di Suez degli anni Cinquanta. Passare così tanto tempo con studenti di ogni parte del mondo era stimolante; non mi era mai capitato di provare un reale interesse per le lezioni e per ciò che i miei coetanei avevano da dire. Lì feci amicizia con un ragazzo scampato al genocidio in Ruanda; una sera rimanemmo alzati fino a tardi e lui mi raccontò che la sua intera famiglia era stata massacrata quando era appena un bambino. Da solo, aveva raggiunto a piedi un campo per rifugiati in Uganda.

Fu una cena ad aprirmi definitivamente gli occhi: studenti arabi e palestinesi sedevano di fronte a compagni israeliani, tutti intenti a discutere con trasporto del futuro dei propri Paesi. Mi resi conto che non sapevo nulla del mondo, e che volevo colmare quella lacuna. Così nacque il mio interesse per la politica. Tornato a scuola presi a saltare le lezioni per partecipare a eventi pubblici cui erano invitati esponenti politici locali; in classe di rado parlavo con gli altri, mentre lì mi sentivo libero di esprimermi. A scuola ti limiti a sederti in fondo mentre l’insegnante ti dice come e cosa pensare. C’è un percorso da seguire, come una ricetta. Nella sala del municipio scoprii un mondo nuovo. Certo, il politico di turno ci sedeva di fronte, ma erano le persone tra il pubblico – noi – a dirgli o dirle cosa pensavano. Quell’inversione di ruoli fu per me un’illuminazione. Ogni volta che un parlamentare locale annunciava un evento, io mi presentavo, facevo domande e arrivavo persino a condividere le mie idee.

Trovai la mia voce, e fu una gran liberazione. Al tempo, come ogni adolescente, stavo esplorando la mia personalità; una sfida già ardua di suo, ma persino più grande per chi è gay e in carrozzella. Grazie a quegli incontri realizzai che tante delle mie problematiche superavano la sfera personale: erano questioni politiche. Le mie sfide avevano carattere politico. La mia intera vita e la mia stessa esistenza erano «politica». Così decisi di intraprendere quella strada. Il consulente di un parlamentare, un ex ingegnere informatico di nome Jeff Silvester, aveva notato il ragazzino senza peli sulla lingua che interveniva sempre, e si offrì di aiutarmi a trovare un qualche incarico nel Liberal Party of Canada, che al tempo cercava qualcuno bravo con le nuove tecnologie. Concordammo che, finita l’estate, avrei iniziato il mio primo, vero lavoro: assistente presso il Parlamento di Ottawa.

Passai l’estate del 2007 a Montréal, bazzicando ambienti frequentati da hacker e cyberanarchici francocanadesi, che tendevano a riunirsi in ex strutture industriali riconvertite, con i pavimenti in cemento e le pareti rivestite di compensato, le stanze piene di Apple II, Commodore 64 e altri reperti di «tecnologia retrò». Intanto, grazie alle terapie mediche, ero di nuovo in grado di muovermi senza carrozzella. (Le mie condizioni sono andate via via migliorando, ma il mio fisico è stato messo a dura prova dall’esperienza di whistleblower.

Quando il primo articolo sull’attività di Cambridge Analytica stava per essere pubblicato, ho avuto una crisi epilettica e sono crollato privo di sensi su un marciapiedi di Londra. Mi sono risvegliato all’University College Hospital, con un’infermiera che mi inseriva l’ago di una flebo nel braccio.) La maggior parte degli hacker non fa caso al tuo aspetto fisico o alla tua camminata strana: sono interessati solo a condividere l’amore per il proprio mondo, e vogliono aiutarti a progredire in quel campo.

La breve parentesi nella comunità hacker ha lasciato il segno: lì ho imparato che nulla è assoluto e niente è impenetrabile; i limiti sono solo una sfida. La filosofia di quel mondo mi ha insegnato che se cambi prospettiva su una qualsiasi struttura – un computer, una rete, l’intera società – puoi scoprirne falle e vulnerabilità. La mia storia personale di gay disabile mi ha portato a comprendere presto i sistemi di potere, ma dagli hacker ho imparato che ogni sistema ha punti deboli da sfruttare.

Avevo iniziato da poco a lavorare al Parlamento canadese quando il Liberal Party prese a interessarsi a quanto stava accadendo oltre il confine sud. All’epoca Facebook si stava diffondendo e Twitter iniziava a ingranare; i social media erano ancora agli esordi, e nessuno aveva idea di come usarli per fare campagna elettorale, ma un astro nascente della politica statunitense era pronto a premere sull’acceleratore.

Mentre altri candidati si scervellavano nel tentativo di decifrare Internet, il team di Barack Obama mise online My.BarackObama.com, avviando una rivoluzione dal basso. A differenza di siti come quello di Hillary Clinton, che si focalizzavano sulla pubblicazione di comunicati standard, il portale di Obama mirava a offrire una piattaforma per le organizzazioni locali, grazie alla quale gestire e avviare le campagne per il voto. Quella pagina web contribuì ad accrescere l’entusiasmo verso il senatore dell’Illinois, molto più giovane e all’avanguardia degli avversari. Obama sembrava incarnare le caratteristiche che ci si aspetta da un leader. Dopo un’adolescenza passata a sentir parlare dei miei limiti, il ribelle ottimismo che inspirava il suo semplice messaggio – Yes, We Can! – mi colpì. Lui e la sua squadra stavano trasformando la politica. E io, appena diciottenne, fui tra le persone inviate dal Liberal Party negli Stati Uniti, con il compito di osservare ogni dettaglio della sua campagna e individuare nuove strategie da applicare alla propaganda progressista in Canada.

Cominciai visitando un paio di Stati in cui erano previste a breve le primarie, a partire dal New Hampshire. Passai il tempo a parlare con gli elettori e confrontarmi con la cultura americana, un’esperienza al contempo divertente e rivelatrice. Mi colpì quanto fossero diverse le sensibilità nelle due nazioni, e rimasi scioccato sentendo il primo statunitense proclamarsi assolutamente contrario alla sanità pubblica, la stessa cui mi rivolgevo quasi ogni mese nel mio Paese. Alla centesima volta non ero più tanto sorpreso.

Mi piaceva andare in giro a parlare con la gente, e quando venne il momento di focalizzarsi sui dati non ero propriamente entusiasta. Poi, però, mi presentarono il direttore nazionale del targeting di Obama, Ken Strasma. Lui mi fece cambiare idea.

La parte fascinosa della campagna di Obama era tutta nella cura del «brand» e nell’utilizzo di nuovi media come YouTube. Roba forte, una strategia visiva mai utilizzata prima, che coinvolgeva piattaforme piuttosto recenti. Avrei voluto concentrarmi su quegli aspetti, ma Ken mi frenò. «Lascia perdere i video» disse. Dovevo andare più a fondo, puntare al cuore tecnologico dell’opera di propaganda. «Tutto quel che facciamo» aggiunse, «si basa sul capire esattamente a chi dobbiamo rivolgerci, e di quale argomento parlargli.»

In altre parole, la spina dorsale della campagna di Obama erano i dati, e il lavoro più importante svolto dal team di Ken Strasma consisteva nella modellizzazione attraverso cui venivano analizzati. L’opera di modelling aveva permesso di tradurli in una forma sfruttabile e creare una concreta strategia comunicativa grazie all’uso... dell’intelligenza artificiale. Un attimo, l’AI come strumento di una campagna politica? Sembrava qualcosa di avveniristico: un robot in grado di divorare montagne di informazioni sugli elettori e sputare fuori criteri di individuazione del target. I risultati del processo venivano impiegati dai responsabili della campagna per indirizzare messaggi chiave e strategie di branding di Obama.

L’infrastruttura per elaborare quell’ingente mole di dati era fornita da una società all’epoca chiamata Voter Activation Network Inc.; più conosciuta come VAN, era gestita da Mark Sullivan e Jim St. George, una straordinaria coppia gay di Boston. Grazie a quella società, entro la fine della campagna 2008 il Democratic National Committee – il comitato nazionale permanente del Partito democratico – avrebbe decuplicato i dati sui votanti rispetto alla tornata precedente delle presidenziali, nel 2004. Quel volume di dati e gli strumenti impiegati per organizzarli e sfruttarli diedero ai democratici un evidente vantaggio nello spingere gli elettori ai seggi.

Più imparavo sulla «macchina Obama» più ne ero affascinato. E in seguito ebbi modo di fare tutte le domande che volevo a Mark e Jim: sembravano trovare divertente che un giovane canadese fosse venuto in America per studiare l’utilizzo dei dati in politica. Prima di scoprire cosa stavano facendo Ken, Mark e Jim non avevo mai pensato di usare la matematica e l’intelligenza artificiale per potenziare una campagna elettorale. Anzi, la prima volta che vidi una schiera di persone al computer nel quartier generale di Obama rimasi scettico. Sono i messaggi e le emozioni, non computer e numeri, a creare una campagna vincente, pensai. Imparai invece che erano proprio quei numeri – e gli algoritmi predittivi che da essi traevano forza – a distinguere Obama da chiunque avesse mai corso per la presidenza.

Appena mi resi conto dell’efficienza con cui la campagna di Obama sfruttava gli algoritmi per trasmettere i propri messaggi, cominciai a studiare come crearne di miei. Imparai a usare software di analisi statistica come MATLAB e SPSS, che mi permettevano di sbizzarrirmi con i dati. Anziché affidarmi ai manuali, cominciai a giocare con il dataset Iris – un classico per chi studia classificazione statistica – e andai avanti per tentativi ed errori. Trovavo avvincente sfruttare le diverse caratteristiche degli iris, come la lunghezza e il colore dei petali, per inquadrare in modo predittivo le diverse specie di fiori.

Una volta acquisiti i fondamentali, passai dai petali alle persone. La VAN aveva a disposizione un mare di informazioni sugli elettori: età, genere, reddito, razza, proprietà immobiliari e persino gli abbonamenti a riviste e le miglia aeree percorse. Con gli input giusti, era possibile cominciare a prevedere chi avrebbe votato per i democratici e chi per i repubblicani. Si potevano identificare e isolare le questioni più rilevanti per i diversi bacini elettorali, e realizzare messaggi che avessero più probabilità di influenzarne le opinioni.

Per me era un modo nuovo di vedere le elezioni: i dati erano una forza positiva, grazie alla quale potenziare una campagna per il cambiamento. Venivano usati per portare alle urne nuovi elettori e raggiungere persone che si sentivano tagliate fuori, lasciate ai margini del dibattito pubblico. Più mi addentravo nel processo, più mi convincevo che i dati avrebbero salvato la politica. Non vedevo l’ora di tornare in Canada e condividere con il Liberal Party quanto imparato dallo staff del futuro presidente degli Stati Uniti.

A novembre Obama trionfò sul repubblicano John McCain. Due mesi più tardi alcuni amici impegnati nella campagna mi invitarono al party per l’insediamento, e volai a Washington per celebrare la vittoria dei democratici. (Prima di potermi unire ai festeggiamenti, però, ci fu una piccola discussione: lo staff all’ingresso non era felice di ammettere un ventunenne all’evento con open bar.) Passai una serata incredibile: chiacchierai con Jennifer Lopez e Marc Anthony, mentre osservavo Barack e Michelle Obama godersi il primo ballo da First Couple. Era l’alba di una nuova era, l’occasione perfetta per celebrare ciò che poteva accadere quando le persone giuste capivano come usare i dati per vincere una moderna competizione elettorale.

Con la pratica di inviare messaggi mirati a elettori selezionati, però, il microtargeting della campagna Obama aveva ridotto alla sfera privata il dibattito pubblico statunitense. Sebbene la posta giocasse da tempo un ruolo importante nelle elezioni americane, la nuova pratica basata sulla raccolta e lo sfruttamento dei dati consentiva di abbinare a ristrette costellazioni di votanti micronarrazioni specifiche: era possibile che il tuo vicino ricevesse un messaggio completamente diverso dal tuo, senza che nessuno dei due si accorgesse della cosa. Con una campagna condotta in privato, si evitavano i filtri di controllo del dibattito pubblico. La comunicazione online stava pian piano sostituendo la piazza cittadina, fondamento stesso della democrazia americana. E, senza più controlli di sorta, la propaganda non era nemmeno tenuta a mostrarsi come tale: i social media offrivano un ambiente in cui i messaggi elettorali, proprio come quelli di Obama, potevano essere scambiati per la segnalazione di un amico, senza che ci si rendesse conto della loro fonte o del loro intento reale. La propaganda elettorale poteva passare per il comunicato di un sito di news, di un’università o di un ente pubblico. L’ascesa dei social media ci ha costretti a confidare nell’onestà delle campagne politiche, perché è diventato molto più difficile riconoscere una menzogna. Nessuno vaglia le informazioni di un network pubblicitario privato.

Negli anni precedenti alla prima campagna Obama, una nuova logica di capitalizzazione si è fatta strada nei consigli di amministrazione della Silicon Valley: le aziende informatiche hanno cominciato a far soldi sfruttando la propria capacità di mappare e organizzare le informazioni. Alla base di tale modello c’era una forte asimmetria di conoscenza: le «macchine» sapevano molto del nostro comportamento, e noi sapevamo ben poco di loro. In uno scambio di indubbia convenienza, quelle aziende hanno offerto al pubblico servizi d’informazione in cambio di altre informazioni, ovvero dati. E i dati si sono rivelati sempre più preziosi: Facebook, per esempio, fattura in media trenta dollari da ciascuno dei suoi centosettanta milioni di utenti americani. Al tempo stesso, ci siamo innamorati dell’idea che quei servizi fossero «gratuiti»; in realtà li paghiamo con i nostri dati, in un modello di business che trasforma l’attenzione in risorsa da sfruttare.

Più numerosi sono i dati maggiore è il profitto generato, così si sono progettati schemi che incoraggiano gli utenti a condividere sempre nuove informazioni su di sé. Le diverse piattaforme hanno cominciato a imitare i casinò, implementando innovazioni – quali lo scroll infinito e altre funzioni – che fanno leva sui meccanismi di ricompensa psicologica per coinvolgerci sempre più. Servizi come Gmail hanno cominciato a setacciare la nostra corrispondenza, con modalità che manderebbero in galera un qualsiasi impiegato postale tradizionale. La geolocalizzazione in tempo reale, in precedenza riservata ai braccialetti elettronici dei detenuti, è stata implementata nei nostri smartphone, e quella che in passato sarebbe stata definita «intercettazione telefonica» è diventata una caratteristica standard di innumerevoli applicazioni.

Presto siamo arrivati a condividere informazioni personali senza la minima esitazione. La cosa è stata incoraggiata, in parte, anche da un nuovo vocabolario. Quelle che erano, a tutti gli effetti, reti di sorveglianza private sono diventate «comunità», le persone sfruttate a fini di lucro da quelle stesse reti sono state ribattezzate «utenti» e le soluzioni di programmazione capaci di dare assuefazione sono state promosse sotto la bandiera della «user experience» o della «partecipazione». La nostra identità è stata schedata sfruttando i cosiddetti «dati di scarico», o «briciole digitali». Per migliaia di anni, i modelli economici dominanti si erano concentrati sullo sfruttamento delle risorse naturali e la trasformazione delle materie prime in prodotti. Il cotone veniva filato per produrre tessuto; il ferro veniva estratto, fuso e impiegato per la creazione dell’acciaio; le foreste venivano tagliate per ricavarne legname... L’avvento di Internet ha reso possibile trasformare in merce le nostre stesse vite: comportamenti, attenzione, identità. Le persone sono state elaborate e ridotte a dati. Siamo diventati la materia prima di un nuovo complesso industriale.

Uno dei primi a riconoscere il potenziale politico di questa realtà è stato Steve Bannon, semisconosciuto responsabile del sito web di destra Breitbart News, creato per ripensare la cultura americana in base alla visione nazionalista di Andrew Breitbart. Bannon si sentiva investito di una missione: condurre una vera e propria guerra culturale, ma la prima volta che l’ho incontrato sapeva di non avere le armi giuste per combatterla. Se le preoccupazioni principali di un generale sul campo sono l’impatto dell’artiglieria e il dominio aereo, Bannon aveva bisogno di impatto culturale e dominio dell’informazione. Ciò che gli serviva era un arsenale di dati grazie ai quali conquistare cuori e menti, assurti a terreno di scontro. E la neonata Cambridge Analytica gli ha fornito quell’arsenale. Affinando le tecniche delle PSYOPS, ovvero le operazioni militari di guerra psicologica, CA ha dato lo slancio alla rivolta dell’alt-right di Steve Bannon. L’elettore americano si è tramutato nel bersaglio di questa nuova guerra, oggetto di manovre volte a confonderlo, manipolarlo e ingannarlo. La verità è stata sostituita da narrazioni alternative e realtà virtuali.

Cambridge Analytica ha esordito testando le proprie tecniche in Africa e in alcune isole tropicali; ha condotto esperimenti con la disinformazione online, le fake news e il profiling di massa. Ha lavorato al fianco di spie russe e impiegato hacker per violare gli account di posta elettronica dei candidati dell’opposizione. Poi, una volta perfezionati i propri strumenti lontano dall’attenzione dei media occidentali, è passata dall’infiammare i conflitti tribali in Africa a infiammare quelli negli USA. Di colpo, quasi fosse nata dal nulla, una sommossa ha scosso gli Stati Uniti al grido di «Make America Great Again» e «Costruiamo il muro». Anziché mettere a confronto diverse posizioni politiche, i dibattiti presidenziali si sono improvvisamente tramutati in assurde discussioni su quali fossero le «notizie reali» e quali quelle «false». Erano le conseguenze del primo impiego su vasta scala di un’arma psicologica di distruzione di massa.

Come membro del team che ha dato vita a Cambridge Analytica, condivido la responsabilità di quanto è successo e so di avere l’obbligo imperativo di riparare ai miei errori. Al pari di tante persone nel mondo della tecnologia, ho stupidamente ceduto al fascino dell’arrogante motto di Facebook: Move fast and break things, «muoviti in fretta e rompi le cose». È il rimorso più grande della mia vita: mi sono mosso in fretta, ho realizzato strumenti dalla potenza immensa, ma non ho compreso cosa stessi distruggendo finché non è stato troppo tardi.

Mentre mi avviavo alla struttura blindata sotto al Campidoglio, quel giorno di inizio estate del 2018, mi sentivo come anestetizzato, intontito da quanto mi stava accadendo intorno. I repubblicani avevano iniziato a raccogliere dossier sul mio conto. Facebook aveva assoldato alcune società di pubbliche relazioni per diffamare i propri detrattori, e gli avvocati della società avevano minacciato di denunciarmi all’FBI per non meglio specificati reati informatici. Il dipartimento di Giustizia statunitense era ormai in mano all’amministrazione Trump, che aveva già dimostrato pubblicamente di ignorare convenzioni costituzionali consolidate. Mi ero messo contro troppi gruppi d’interesse, e i miei avvocati avevano il serio timore che l’FBI potesse arrestarmi una volta terminata la deposizione. Uno era arrivato a consigliarmi di restare in Europa, considerandola la mossa più sicura.

Non posso, per motivi di sicurezza e legali, riportare alla lettera la testimonianza resa a Washington, ma posso dire che sono entrato in quella stanza con due grossi raccoglitori, ciascuno contenente centinaia di documenti. Il primo raggruppava mail, circolari e altro materiale che attestava l’entità dell’operazione di raccolta dati condotta da Cambridge Analytica. Dimostrava inoltre che l’azienda aveva reclutato diversi hacker, si era avvalsa di personale legato ai servizi segreti russi ed era coinvolta in attività di corruzione ed estorsione, oltre ad aver condotto campagne di disinformazione in occasione di diverse competizioni elettorali in tutto il mondo. Alcuni memorandum legali riservati avvertivano Steve Bannon delle violazioni al Foreign Agents Registration Act – la legge statunitense che impone a chi rappresenti gli interessi politici di un Paese straniero di dare formale comunicazione di tali rapporti – da parte di Cambridge Analytica, e un’enorme mole di documenti descriveva come l’azienda sfruttasse Facebook per accedere a oltre ottantasette milioni di account privati, i cui dati venivano impiegati nel tentativo di arginare il voto degli afroamericani.

Il secondo raccoglitore conteneva materiale ancor più delicato: centinaia di pagine di mail, documenti finanziari, messaggi di testo e trascrizioni di registrazioni audio che mi ero procurato di nascosto quello stesso anno, a Londra. Si trattava delle prove a lungo cercate dai servizi d’intelligence statunitensi, che descrivevano in dettaglio gli stretti rapporti tra l’ambasciata russa a Londra, i soci di Trump e i principali sostenitori della Brexit. Dimostravano che figure di spicco dell’alt-right britannica avevano incontrato personale dell’ambasciata russa prima e dopo essersi recate in America per la campagna Trump, e che almeno tre di loro avevano ricevuto proposte di investimenti agevolati nelle società minerarie di quel Paese, con potenziali guadagni per milioni di dollari. A risaltare in modo particolare era la tempestività con cui il Cremlino aveva messo gli occhi sulla rete dell’alt-right angloamericana, con la concreta possibilità che avesse addestrato degli agenti per avvicinare Donald Trump. Quei documenti mostravano i legami tra i più importanti eventi del 2016: l’ascesa dell’alt-right, la vittoria a sorpresa del Leave nel referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump.

Per quattro, cinque ore mi ero impegnato a descrivere il ruolo – e le colpe – di Facebook in quanto accaduto.

«I dati usati da Cambridge Analytica sono mai finiti in mano a potenziali spie russe?»

«Sì.»

«Ritiene che a Londra ci fosse un fulcro di attività finanziato dallo Stato russo, durante le elezioni presidenziali americane del 2016 e le campagne per la Brexit?»

«Sì.»

«C’era comunicazione tra Cambridge Analytica e WikiLeaks?»

«Sì.»

Finalmente, negli occhi di quei deputati avevo scorto un lampo di comprensione. Avevo messo in chiaro che Facebook non era più solo un’azienda: era una porta sulle menti degli americani; una porta che Mark Zuckerberg aveva lasciato spalancata per Cambridge Analytica, i russi e chissà quanti altri. Facebook ha in buona sostanza un monopolio, ma i suoi comportamenti vanno al di là delle questioni normative: costituiscono una minaccia alla sicurezza delle nazioni. Il potere che si concentra nelle mani di quell’azienda è un pericolo per la democrazia.

Nel tempo – destreggiandomi tra differenti giurisdizioni e molteplici udienze parlamentari, confrontandomi con agenzie di intelligence e autorità di polizia – ho rilasciato più di duecento ore di dichiarazioni giurate e consegnato oltre diecimila pagine di documenti. Mi sono ritrovato a viaggiare per il mondo, da Washington a Bruxelles, per aiutare i governanti a disinnescare non solo la minaccia Cambridge Analytica, ma più in generale quella costituita dai social media durante lo svolgimento di libere elezioni.

E in tutte quelle ore mi sono reso conto di una cosa: le forze di polizia, i parlamentari, le autorità di vigilanza e i media faticavano a capire cosa farne di quelle informazioni. Siccome i reati che descrivevo erano avvenuti online, e non in un luogo fisico, era difficile decidere chi ne avesse la giurisdizione. E il fatto che fossero coinvolti software e algoritmi aumentava la confusione. In tanti alzavano le mani, disorientati. Una volta, convocato per un interrogatorio presso le autorità di polizia, ho dovuto spiegare un concetto di base dell’informatica ad agenti che, in teoria, erano specializzati in quel tipo di reati. Ho abbozzato un diagramma su un foglietto, e loro l’hanno confiscato: tecnicamente, si trattava di prove. Scherzando, qualcuno ha aggiunto che era un ottimo schemino per capire ciò su cui stavano indagando. Che spasso, eh?

Ci insegnano a riporre la nostra fiducia nelle istituzioni: il governo, la polizia, la scuola, il Parlamento... e alla fine sembriamo convincerci che ci sia un tizio in un ufficio, contorniato da un team di esperti, che sa esattamente cosa fare. Che ha la soluzione. E se non dovesse funzionare, niente paura: ha anche un piano B e un piano C. Insomma, un incaricato è pronto a occuparsi della questione. Il problema è che, in realtà, quel tizio non esiste. Se scegliamo di aspettare, nessuno verrà a salvarci.