Dovevo essermi appisolato, perché l’annuncio nel vagone mi fece trasalire. «Scendere per Cambridge!» Quella mattina mi ero svegliato alle cinque per prendere il treno delle sette meno venti alla stazione londinese di King’s Cross: Nix mi aveva prenotato un posto sul primo treno, così da risparmiare cinque sterline. Mi alzai di scatto e mi scontrai accidentalmente con l’anziana signora accanto a me. Lei, da perfetta inglese, si limitò a guardarmi torva stringendo la borsetta. Mi precipitai fuori con la testa voltata per chiederle scusa, e finii per inciampare. «Attenzione allo spazio tra treno e banchina!» Troppo tardi.
Appena mi rialzai realizzai di aver perso chissà come il portafogli, e rimasi a guardare inorridito il treno che lasciava lento la stazione. Dannazione. Senza contanti né carte di credito, chiamai Nix per chiedergli di mandarmi un taxi già pagato. «Vacci a piedi» rispose lui. «Avresti dovuto fare più attenzione.» Ero troppo stanco per discutere, ed evidentemente lui non era dell’umore giusto, quindi feci come mi aveva detto: mi incamminai fuori dalla stazione, avvolto dalla nebbia e dalla pioggia leggera di quel mattino d’ottobre del 2013. Cambridge si stava pian piano svegliando.
All’appuntamento mancavano ancora diverse ore, quindi optai per una passeggiata a Parker’s Piece, il piccolo parco pubblico in cui studenti-atleti cominciavano la routine mattutina d’allenamento sullo sfondo della guglia che faceva capolino tra gli alberi. Da lì mi incamminai tra le tortuose strade in pietra della città, risalenti al Medioevo; superai alcuni negozietti e le svettanti mura della seconda università più antica d’Inghilterra, risalente al 1209. Quindi continuai su Thompson’s Lane, a poca distanza dal fiume Cam, e raggiunsi il piccolo – ma chiaramente costoso – Varsity Hotel.
Lavorando per una società legata alle forze armate mi capitava di incontrare personaggi di tutti i tipi, che spesso esigevano «discrezione assoluta»: non era affatto insolito scoprire chi fosse di preciso l’interlocutore solo al primo incontro. Il giorno precedente, Nix era entrato in ufficio un po’ agitato, aveva puntato la mia scrivania, vi aveva poggiato sopra i palmi e si era sporto in avanti. «Ho bisogno che domani tu vada a Cambridge a incontrare una persona» mi aveva annunciato. «Non riesco proprio a entrargli in testa, ma penso che tu potresti farcela.»
Avevo chiesto di chi si trattasse.
«Ti manderò i dettagli per mail, più tardi.»
Le sue indicazioni si erano rivelate a dir poco inutili: Nix si limitava a scrivere che avrei dovuto incontrare «Steve dall’America», senza aggiungere altri dettagli a parte la richiesta di «portare i dati».
Rimasi ad aspettare nella hall dell’hotel per un’ora, poi mi decisi a scrivere a Nix per chiedergli il numero di Steve. Lui lesse il messaggio, ma non rispose. Dopo altri quindici minuti un signore dall’aria burbera mi si piazzò davanti e mi squadrò.
«Sei il tizio?» chiese.
«Sì, sono io» risposi.
Visto chi di solito richiedeva i servizi dell’SCL, ero convinto che mi sarei trovato davanti il classico esponente del governo o dei servizi d’intelligence. Invece mi ritrovai a fissare un uomo trasandato con indosso due camicie, come si fosse scordato di toglierne una prima di indossare l’altra. Non si era rasato, aveva i capelli unti e l’aspetto sporco di chi ha appena affrontato un volo transoceanico. La ragnatela di capillari nella sclera faceva il paio con la rosacea delle guance. In generale, l’impressione che dava era a metà strada tra il venditore di auto usate e il pazzo. Sembrava stanco e confuso, ma immaginai che fosse colpa del jet lag.
Quando entrammo nell’ascensore, la tipica trappola inglese capace a malapena di contenere due persone, dovetti impegnarmi parecchio per non sfiorarlo. Io portavo un outfit Dries Van Noten tutto sul blu navy: pantaloni eleganti abbinati a una camicia che ricordava la giacca di una divisa maoista in obliquo.
«Non sei come mi ero immaginato» disse, tra il serio e il faceto.
Già, non sei un bel vedere neanche tu, tesoro...
Alloggiava in una suite all’ultimo piano. A parte l’audace carta da parati sulla parete d’accento, l’arredamento era moderno, minimalista, e creava un netto contrasto con la veduta panoramica della città medievale. L’assenza di bagagli nella stanza mi parve strana, ma subito non ci feci troppa attenzione. Poi esitai. Un momento, sono da solo nella camera di un albergo chic con un uomo di mezza età... Lanciai un’occhiata al letto matrimoniale e notai un flaconcino di crema idratante. Cazzo, cazzo, cazzo... Possibile che Nix mi stesse sfruttando come «incentivo»?
Strinsi la presa sulla mia borsa, sperando che il laptop all’interno la rendesse abbastanza pesante da essere usata come arma impropria. Intanto Bannon si era spostato verso il grande divano vicino al letto e mi invitò ad accomodarmi. Con mio estremo sollievo, prese per sé una sedia e mi chiese se volessi dell’acqua. Quando si sistemò, la pancia gli debordò sopra la cintola.
«Nix sostiene che stai facendo delle ricerche su come influenzare la mentalità delle persone» esordì. «Parlamene un po’.»
Gli dissi che stavamo usando i computer per quantificare le tendenze culturali e prevedere come si sarebbero evolute in aree ad alto rischio di estremismo. «Cerchiamo di intuirne gli sviluppi» spiegai, mirando a distillare in poche parole decenni di teoria computazionale e sociale. Bannon roteò gli occhi.
«Sì, sì, sì. Senti, dacci un taglio con le stronzate e dimmi cosa fate veramente.»
Parlammo per quattro ore; e non solo di politica: di moda, di cultura, di Foucault, dell’esponente della «terza ondata» femminista Judith Butler e della natura frammentata dell’io. In apparenza, Bannon era il tipico bianco eterosessuale di una certa età, ma dimostrava una consapevolezza dei meccanismi sociali che non mi ero aspettato. Anzi, dovetti presto ammettere che lo trovavo in gamba. Quando iniziammo a parlare di come misurare i tratti fondamentali di una cultura mi offrii di mostrargli alcuni dati. Aprii un file di Tableau – un programma per la visualizzazione grafica delle informazioni – con una cartina di Trinidad, diedi un comando e la mappa cominciò a popolarsi di puntini giallo fosforescente.
«Si tratta di persone» spiegai, «quelle delle quali conosciamo genere, età ed etnia.» Cliccai ancora e apparve un nuovo strato di puntini. «Ho aggiunto come variabile le tracce online, per esempio la navigazione su Internet.» Un altro click. «Ecco le informazioni censuarie... e i profili sui social media.»
Continuai ad aggiungere strati, mentre lui osservava con attenzione. La cartina si illuminò sempre più, man mano che i grappoli di puntini si espandevano; dopo l’ultimo click la mappa risplendeva di una moltitudine di colori. Mi chiese chi avesse pagato per realizzare quella profilazione, ma gli spiegai che non ero autorizzato a condividere quell’informazione. Quando passai a illustrare le ricerche sui social network sovvenzionate dalla DARPA mi chiese se si potesse fare qualcosa del genere anche in America.
«Non vedo perché no» risposi.
Steve Bannon era nato in Virginia nei primi anni Cinquanta, da una famiglia cattolica di origini irlandesi. Cresciuto nella working class, aveva fatto le superiori presso una scuola militare – anch’essa cattolica – e si era laureato con una tesi in urbanistica alla Virginia Tech; poi aveva prestato servizio in marina, come ufficiale, e aveva trovato lavoro presso il Pentagono: stilava rapporti sulle condizioni della flotta navale statunitense in tutto il mondo. Negli anni Ottanta aveva avuto una «svolta accademica»: nel 1983 aveva frequentato un master in studi sulla sicurezza nazionale presso la Georgetown University, e nel 1985 un MBA dell’Harvard Business School. Dopo una breve parentesi nelle banche d’investimento, era passato all’attività di produttore esecutivo, regista e sceneggiatore per Hollywood. Aveva lavorato a oltre trenta film, compreso un documentario su Ronald Reagan. Nel 2005 era entrato a far parte della Internet Gaming Entertainment, o IGE, un’azienda con sede a Hong Kong che vendeva risorse e interi account per giochi online. Appena un anno più tardi aveva assicurato all’azienda un investimento da sessanta milioni di dollari, metà dei quali provenienti da Goldman Sachs, suo ex datore di lavoro. L’IGE aveva quindi cambiato nome in Affinity Media Holdings, e Bannon si era occupato della sua gestione fino al 2012, quando si era unito all’organico di Breitbart. Aveva inoltre contribuito a fondare il Government Accountability Institute, che in seguito avrebbe pubblicato il libro Clinton Cash di Peter Schweizer, editor at large di Breitbart News.
Nel 2005 l’opinionista di destra Andrew Breitbart aveva dato vita a Breitbart.com, un aggregatore di notizie online che, in soli due anni, era cresciuto al punto da pubblicare contenuti originali con il nome di Breitbart News. Il sito si muoveva nel solco della filosofia personale del fondatore, anche conosciuta come «dottrina Breitbart». Egli teorizzava che la politica fosse un prodotto della cultura; quindi, se i conservatori statunitensi volevano arginare in modo efficace le idee progressiste, dovevano prima combattere il background che le aveva generate. In sostanza si trattava non di una semplice piattaforma mediatica, bensì di uno strumento per invertire il corso della cultura americana.
Quando Andrew Breitbart (che nel frattempo aveva presentato Steve alla famiglia Mercer, tra i finanziatori principali del suo sito) era morto all’improvviso, nel 2012, Bannon aveva preso il suo posto come senior editor, sposandone la filosofia. All’epoca del nostro primo incontro era il direttore esecutivo di Breitbart News, ed era venuto a Cambridge alla ricerca di giovani conservatori promettenti per la nuova sede di Londra. La sua idea, come scoprimmo durante la campagna per la Brexit, era che il Regno Unito fosse ancora un importante riferimento culturale per gli americani. «Conquista i britannici e avrai gli Stati Uniti» mi avrebbe detto in seguito. Secondo lui, infatti, i cliché hollywoodiani avevano contribuito a diffondere un’immagine della Gran Bretagna quale Paese di gente colta, razionale ed elegante. Solo che Steve aveva un problema. Nonostante i polveroni sollevati dal sito e la furia dei suoi articoli, Breitbart.com era stato bollato come ritrovo per giovani bianchi etero che non riuscivano a scopare. Tra i primi e più conosciuti esempi della guerra culturale condotta dalla pagina c’era infatti il cosiddetto Gamergate: alcune donne dell’industria videoludica avevano cercato di mettere in evidenza la grave misoginia che si respirava nel loro mondo lavorativo, e per tutta risposta si erano viste aggredire online da un’orda di maschi frustrati, con tanto di informazioni sensibili rese pubbliche e minacce di morte, in una massiccia campagna contro i «progressisti» che imponevano la loro «ideologia femminista» alla cultura del gaming.
Il Gamergate non era stato istigato da Breitbart, ma Bannon ne aveva colto il segnale di fondo appena aveva visto l’incredibile mobilitazione di uomini bianchi, soli e arrabbiati, che sentivano minacciato il proprio stile di vita. Steve aveva compreso in fretta quanto potesse rivelarsi utile il coltivare la misoginia di quei vergini arrapati. La loro rabbia nichilista ribolliva nei recessi di Internet, dove si arrivava a parlare di «rivolta dei beta». Solo che addestrare un esercito di incel (da involuntary celibates, ovvero «casti non per scelta») non sarebbe bastato al movimento di cui Bannon fantasticava. Aveva bisogno di trovare un nuovo approccio.
Arriviamo così a uno dei passaggi più bizzarri della saga di Cambridge Analytica: una casuale conversazione in aereo che avrebbe cambiato la storia. Diversi mesi prima che incontrassi Bannon, Mark Block e Linda Hansen – due consulenti dei repubblicani – si erano ritrovati seduti in aereo accanto a un ex ufficiale dell’esercito, che aveva lavorato come subappaltatore per una società specializzata in operazioni di guerra informatica a fini elettorali. Block si era addormentato durante il volo, ma la Hansen e il suo vicino avevano cominciato a chiacchierare e l’uomo le aveva parlato dei progetti dell’SCL. Una volta atterrati, Linda aveva annunciato a Mark che dovevano contattare Nix. Block – già a capo della campagna di Herman Cain per le primarie repubblicane, nel 2010 – aveva ottimi agganci tra gli elementi più estremisti dei circoli repubblicani; conosceva Bannon, e capì subito che avrebbe trovato interessante l’operato dell’SCL. Così aveva messo in contatto Steve e Nix, e io mi ero ritrovato in quella suite a parlare con l’uomo che avrebbe orchestrato una manipolazione di massa sulle menti degli americani.
Prima della mia trasferta al Varsity Hotel, Nix e Bannon si erano già incontrati diverse volte a New York. Solo che, quando Alexander cercava di spiegare i nostri progetti, incappava in un problema: non aveva realmente idea di cosa stessimo facendo. A Steve interessavano i dettagli della ricerca, non il pedigree dei ricercatori, e lui finiva per ritrovarsi sperso. Non a caso gli altri dirigenti dell’SCL l’avevano relegato a occuparsi dei clienti «meno seri». Nix aveva assunto un ruolo più attivo all’interno della società nel 2007, dopo che il padre, azionista di maggioranza, era morto. Si era laureato – con voti mediocri – in Storia dell’arte presso l’University of Manchester, ma a gallerie e biblioteche aveva sempre preferito le aziende di amici e parenti danarosi.
Bannon non era certo il tipico cliente di Nix, abituato a trattare con ministri o uomini d’affari di nazioni in via di sviluppo un tempo appartenenti all’impero britannico. A Steve non serviva un secondo passaporto rilasciato da uno Stato tropicale, non era interessato a rivivere a Londra i tempi andati del colonialismo né gli importava dell’accento e dei completi su misura di Nix. Lui puntava alla sostanza. Il che, per un uomo abituato a sedurre ministri usando discinte donne ucraine e battutine tra un bicchiere e l’altro in pieno stile etoniano, era quantomeno disorientante.
All’inizio, Nix aveva proposto a Bannon di incontrarci a Londra, dalle parti di Pall Mall: una strada fiancheggiata da grandi palazzi in pietra, un paio di isolati a nord di Buckingham Palace. Pall Mall parte da Trafalgar Square e sbocca su St. James’s Palace, dimora reale risalente al XIV secolo. La zona ospita alcuni dei circoli privati più esclusivi della capitale, dove l’abito scuro è ancora la regola, e Nix era solito recarsi lì per socializzare con i suoi pari davanti a drink, circondato da ambienti sfarzosi. Si era immaginato un’elaborata cena in una sala privata del Carlton Club, con tanto di menù e personale attentamente selezionati, ma all’ultimo si era sentito opporre un netto rifiuto.
Ciononostante sapeva che tutti, compreso Bannon, si struggono per una qualche versione di sé segreta e mai realizzata. Si era reso conto che l’americano girovagava per le antiche università del Regno Unito impersonando un ruolo: quando si guardava allo specchio, Steve vedeva un filosofo. Così si era detto che, per conquistarlo, avrebbe dovuto aiutarlo a realizzare quella fantasia, a sentirsi davvero un grande pensatore. E la mia aria «accademica» era proprio ciò che gli serviva per irretire il cliente con quel gioco di ruolo.
Oggi Bannon è famoso, ma al tempo, nell’autunno del 2013, non sapevo praticamente nulla di Steve dall’America. Eppure, in quella camera d’albergo, mi resi presto conto che eravamo spiriti affini. Entrambi finiti in politica, la nostra passione comune era la cultura, lui con le sue ambizioni cinematografiche e io con le mie velleità legate al mondo della moda. Nutriva il mio stesso interesse per la decostruzione delle tendenze e concordava sul fatto che molte delle norme sociali potessero essere ricondotte all’estetica. E tutti e due eravamo ben consapevoli del fermento che agitava la rete e l’universo della tecnologia. Parlava di gamer, meme e MMORPG (i massive multiplayer online role-playing game, giochi online con un enorme numero di utenti, come World of Warcraft), e usava senza problemi il termine pwned (espressione da videogiocatore per indicare la sconfitta totale e l’umiliazione di un rivale). Eravamo in sintonia, uniti da ciò che ci rendeva strani agli occhi del mondo. Mentre chiacchieravamo, mi scoprii sempre più a mio agio con lui. Non era un politicante: era un nerd come me, cui era stato concesso di parlare liberamente.
Quando mi disse che puntava a innescare una trasformazione culturale, gli chiesi quale fosse la sua definizione di «cultura». Restò a lungo in silenzio, e io aggiunsi che non si può misurare ciò che non si riesce a definire. E se una cosa non puoi misurarla, non puoi nemmeno sapere se la stai cambiando.
Anziché tuffarmi in disquisizioni teoriche, usai gli stereotipi culturali per fargli un esempio – pur molto semplificato – di ciò che intendevo. Gli italiani sono famosi per essere passionali ed estroversi, molto più di altri popoli. (E avendo fatto coppia con uno di loro, posso confermare che in una simile reputazione c’è un fondo di verità.) Ora, pur essendo palese che non tutti gli italiani sono chiassosi e infuocati, è di certo più probabile trovare persone estroverse in quel Paese che non per esempio in Germania o a Singapore. Potremmo pensare a questo tratto come a uno standard: la parte centrale nella curva di distribuzione a campana dell’estroversione o della chiassosità. E forse il picco di quella curva è un po’ più alto in Italia che in altri Stati.
Quando descriviamo una cultura usiamo il linguaggio e il vocabolario propri della personalità. Utilizziamo le stesse parole per descrivere le persone e il popolo di cui fanno parte. Da un lato non possiamo stereotipare a livello individuale, perché ciascuno di noi è un mondo a sé. Ma, dall’altro, in via generale possiamo affermare che la cultura italiana è probabilmente caratterizzata da una socievolezza maggiore di tante altre.
Se, usando informazioni personali, possiamo misurare o desumere determinati tratti negli individui, e poi impiegare quegli stessi tratti per descrivere una cultura, allora possiamo tracciare una metrica approssimativa di quest’ultima, una sua curva di distribuzione. In una simile cornice, noi proponevamo l’utilizzo dei dati ricavati da social media, clickstream o rivenditori specializzati per identificare, per esempio, gli italiani più estroversi, analizzando i loro schemi comportamentali di consumatori e utenti. L’obiettivo era modificare quei tratti culturali ridimensionando la socievolezza? Ebbene, i dati ci fornivano una lista di nomi reali, ordinati in base al «livello di estroversione»; persone che potevamo monitorare e prendere di mira nel corso del tempo, cercando di erodere quella loro caratteristica. In altre parole, il cambiamento culturale può essere definito come una spintarella verso l’alto o verso il basso su una curva di distribuzione. I dati ci consentivano di disaggregare una cultura in individui, che diventavano unità discrete e rimodulabili di una data società.
A Bannon piaceva parecchio parlare, ma quando mi addentravo in argomenti che lo interessavano diventava taciturno, persino deferente. Al contempo, però, era sempre ansioso di ricondurre il tutto alle sue applicazioni concrete. Ora, per capire in che modo questa analisi possa trasformarsi in una campagna vera e propria, pensate alla sanità pubblica. Quando una malattia trasmissibile minaccia una popolazione, si immunizzano prima determinati vettori: di solito si parte da bambini piccoli e anziani, ovvero i soggetti più vulnerabili; poi è la volta di personale infermieristico e medico, insegnanti e conducenti di autobus, che hanno vaste interazioni sociali e, dunque, una maggior probabilità di diffondere il contagio, persino se non si ammalano in prima persona. Ecco, lo stesso tipo di strategia si può adottare per modificare una cultura. Per aumentare la resistenza di una popolazione alle derive estremistiche, per esempio, vanno innanzitutto identificate le persone più suscettibili a quel tipo di «messaggi armati»: si determinano i tratti che le rendono vulnerabili a una narrazione contagiosa e le si sottopone a un trattamento di contronarrazione, nel tentativo di cambiarne il comportamento. Come ovvio, la procedura funzionerebbe anche in senso opposto, ovvero con l’intento di alimentare l’estremismo, ma era un’eventualità che non avevo neanche considerato.
L’obiettivo della pirateria informatica è trovare un punto debole in un sistema e sfruttarlo. Nella guerra psicologica, le vulnerabilità sono falle nel modo in cui la gente pensa. Quando si cerca di hackerare la mente di una persona è necessario identificarne le distorsioni cognitive. Se avvicinate una persona a caso per strada e le chiedete: «Sei felice?», ci sono alte probabilità che risponda di sì. Tuttavia, provate prima a domandarle: «Sei ingrassato negli ultimi anni?», oppure: «Alcuni tuoi ex compagni di scuola hanno avuto più successo di te?»; poi chiedete: «Sei felice?» Ebbene, quella stessa persona sarà molto meno propensa a rispondere di sì. In effetti non è cambiato niente nella sua situazione o nella sua storia personale, però è cambiata la percezione che ha della sua vita. Come mai? Perché nella sua mente una particolare informazione ha preso più rilievo delle altre.
Sfruttando quelle domande abbiamo fatto leva sul modo in cui il soggetto attribuisce valore a determinate informazioni; cosa che, a sua volta, ne ha influenzato il giudizio. Abbiamo giocato con il modello mentale della sua vita. Perciò, qual è la verità? È felice o no? La risposta dipende da quale informazione viene posta in evidenza nella sua mente. In psicologia, questo fenomeno si chiama priming, o «innesco». Ed è così, in sintesi, che si trasformano i dati in armi: si scopre quali informazioni mettere in primo piano per influenzare lo stato d’animo di una persona, ciò in cui crede e il modo in cui si comporta.
A meno che i genitori di qualcuno di noi non siano vulcaniani in incognito, nessuno sulla faccia della terra è puramente razionale. Siamo tutti vittime di distorsioni cognitive, o bias: quegli errori che ricorrono comunemente nel nostro modo di pensare e conducono alla fallace interpretazione soggettiva di un’informazione. È naturale per le persone filtrare le informazioni attraverso pregiudizi, lo facciamo tutti; e spesso quei pregiudizi non hanno impatti significativi sulla nostra vita quotidiana. Però non sono nemmeno casuali. Si tratta di «errori sistematici», che creano schemi comuni di pensiero irrazionale. Non a caso, la psicologia ha identificato migliaia di bias cognitivi. Alcuni sono così diffusi e in apparenza «logici» che si rivela difficile anche solo riconoscerne l’irrazionalità.
Un esempio? Gli psicologi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno condotto uno studio nel quale si poneva ai partecipanti una domanda molto semplice: «Immaginate di scegliere una parola a caso da un testo inglese. È più probabile che inizi con la k o che essa sia la terza lettera?» Molte persone scelsero la prima opzione, ovvero sostennero che era più facile incontrare parole che iniziassero con la k (pensando a kitchen, kite o kilometre). Tuttavia è vero il contrario: in un tipico testo inglese le probabilità di imbattersi in parole la cui terza lettera è una k – come ask, like, make, joke o take – sono il doppio. Il test fu ripetuto per altre cinque lettere (l, n, r e v). Il punto è che è più facile pensare alle parole in termini di prima lettera, perché è in base a quella che ci insegnano a organizzarle. Le persone tendono a confondere lo schema mnemonico più comune con la frequenza o la probabilità, anche quando tra i due c’è parecchia differenza. Si tratta di un bias detto euristica della disponibilità, ed è solo uno dei tanti che influenza il nostro pensiero. Tale distorsione spiega perché, per esempio, le persone che seguono telegiornali ricchi di servizi su reati violenti tendono a pensare che la violenza nella società sia in aumento, mentre in realtà nell’ultimo quarto di secolo il tasso globale di omicidi è nel complesso calato.
Mi ero ritrovato a riflettere sulla questione a partire dalle mie esperienze nella politica, nella moda e infine nella guerra d’informazioni. L’estremismo politico, tanto per fare un esempio, è una caratteristica culturale che ha chiari paralleli con la moda: entrambi si basano sul modo in cui le informazioni si diffondono attraverso i nodi di una rete. L’ascesa dello jihadismo e la popolarità delle Crocs possono essere entrambe definite come prodotti di flussi di informazioni. Quando avevo intrapreso la mia ricerca sull’informazione culturale per il lavoro di lotta all’estremismo presso l’SCL, avevo attinto a concetti, approcci e strumenti simili a quelli che stavo esplorando nella previsione delle mode: cicli di adozione, percentuali di diffusione, omofilia delle reti... Tutto era incentrato sul tentativo di prevedere il modo in cui le persone avrebbero interiorizzato e poi diffuso determinate informazioni, che si parlasse di affiliarsi a una setta di assassini o di scegliere il proprio guardaroba.
Bannon colse immediatamente la questione; anzi, arrivò a dirmi che, proprio come me, riteneva politica e moda due prodotti dello stesso fenomeno. Era evidente l’ampia e profonda considerazione che riservava all’attività di raccolta dati; qualcosa che avevo visto di rado nei politici. Ed è esattamente questo a renderlo così influente. Come avrei scoperto in seguito, Steve si interessa al femminismo intersezionale o alla fluidità d’identità non perché sia aperto a quelle idee, ma per corroderle: mira a identificare ciò in cui le persone si riconoscono e trasformarlo in arma. Ancora non sapevo che intendeva combattere una guerra culturale, e che si era rivolto a una società specializzata in guerra dell’informazione per ottenere il proprio arsenale.
Quel giorno, io e lui ci trovammo sulla stessa lunghezza d’onda, e la conversazione fu così naturale che poteva sembrare stessimo flirtando. Cosa che, ovviamente, non era. In effetti sarebbe stato disgustoso. Dal punto di vista intellettuale, però, eravamo una coppia perfetta. Andai via galvanizzato, sentendomi legittimato da qualcuno che si era preso il tempo di ascoltarmi. Bannon mi era parso una persona ragionevole, persino gradevole. Gli piaceva imparare, e lo entusiasmavano le potenzialità insite in nuove idee. A colpirmi davvero, però, fu la sua competenza in materia di cultura e tecnologia. Certo, il suo approccio mi ricordava in parte le posizioni di destra dello statunitense Partito libertario, ma non avevamo parlato di politica.
Solo quando lasciai il Varsity Hotel ricordai di aver perso il portafogli. Chiamai Nix per raccontargli com’era andata e dirgli che mi serviva un nuovo biglietto.
«Chris, ho da fare, sbrigatela da solo» fu la sua risposta.
L’interesse di Bannon per il nostro lavoro non era puramente accademico: aveva grandi progetti per l’SCL. Parlò a Nix di un importante finanziatore di destra che poteva essere convinto a investire nella società. Robert Mercer era un miliardario atipico. Si era specializzato in scienze informatiche nei primi anni Settanta, e per circa due decenni era stato un ingranaggio nella macchina dell’IBM. Nel 1993 era entrato in un fondo d’investimento chiamato Reinassance Technologies, ottenendo guadagni astronomici grazie a scelte orientate da algoritmi e scienza dei dati. Mercer non era uno di quegli affaristi che compravano e vendevano senza sosta; no, era un introverso ingegnere che aveva imparato ad applicare il proprio bagaglio tecnico all’arte di fare soldi.
Nel corso degli anni aveva donato milioni di dollari alle campagne dei conservatori. Aveva anche avviato la Mercer Family Foundation, gestita dall’allora trentanovenne figlia Rebekah. All’inizio la fondazione aveva finanziato ricerca ed enti benefici; poi, però, le donazioni si erano allargate anche a gruppi politici no profit. Per ricchezza e influenza, nel pantheon dei finanziatori repubblicani Robert Mercer si posizionava al fianco dei fratelli Koch e Sheldon Adelson. E la prospettiva che potesse investire nell’SCL fece venire l’acquolina a Nix. Mercer era stato capace di sconvolgere il mondo della finanza: Reinassance era uno dei fondi di investimento con le più alte prestazioni, e lui l’aveva fatto prosperare scostandosi dagli approcci tradizionali, affidandosi a fisici, matematici ed esperti d’informatica perché realizzassero appositi algoritmi. A quanto pareva, però, il miliardario voleva che ci cimentassimo in una versione ancor più ambiziosa e redditizia di decostruzione. Sottoponendo a profiling tutti i cittadini di un Paese, così da delinearne personalità e comportamenti unici, e inserendo poi quei profili in una simulazione al computer, avremmo potuto costruire il primo prototipo di società artificiale. Se fossimo stati in grado di rappresentare lo sviluppo di un’economia o una cultura attraverso profili digitali dotati degli stessi tratti delle persone reali che rappresentavano, avremmo forse potuto creare il più potente strumento di analisi di mercato mai concepito. E, sfruttando input culturali quantificabili, ci saremmo trovati a esplorare un settore del tutto nuovo, qualcosa di simile alla «finanza culturale». Con il giusto approccio, ritenevamo di poter simulare futuri diversi per intere società. Vendere imprese sarebbe stato il passato: noi avremmo messo sul mercato intere economie.
In realtà, Mercer aveva in mente qualcosa che andava oltre l’economia, ma all’epoca tutto ciò che ci interessava era dimostrare di cosa fosse capace l’SCL. Dopo averci riflettuto su per un po’, Bannon decise che avremmo dovuto effettuare una dimostrazione pratica sulla Virginia, che riteneva un microcosmo rappresentativo dell’intera America. Ha caratteristiche del Nord e del Sud, zone montuose e costiere, cittadine militari, ricchi sobborghi nell’area di Washington D.C., contesti rurali, fattorie... Inoltre offre uno spaccato di società, con ricchi e poveri, neri e bianchi. E l’esperimento avrebbe portato per la prima volta l’SCL a maneggiare dati provenienti dagli Stati Uniti. Come avevo fatto per l’LPC e i Lib Dem, partimmo dalla ricerca qualitativa: conversazioni aperte, destrutturate, con la gente del posto. Nessuno della squadra era americano e non sapevamo niente della Virginia, che mi era sconosciuta quanto il Ghana. L’ovvio primo passo fu dunque visitare lo Stato e incontrarne i cittadini, scoprire come percepissero il mondo e cosa fosse importante per loro. Era impossibile ideare domande prima di aver conosciuto quella gente nel proprio ambiente, lasciando che si presentasse a modo suo. Una volta inquadrato quali temi le fossero cari e in che modo si approcciasse alle cose, avremmo potuto strutturare dei percorsi d’intervista per la ricerca quantitativa. Politica e cultura sono così interconnesse che di solito non si può studiare l’una senza l’altra.
Così, insieme a Mark Gettleson, Brent Clickard e qualche altro collega andai negli Stati Uniti. Arrivammo in Virginia nell’ottobre del 2013, poco prima delle elezioni statali, e una delle prime questioni che richiamarono la nostra attenzione incontrando i focus group fu la preoccupazione diffusa per il candidato repubblicano al ruolo di governatore, l’ex procuratore generale dello stato Ken Cuccinelli. Esponente della destra conservatrice più intransigente, Cuccinelli si era fatto promotore di iniziative per revocare i diritti degli omosessuali e contrastare le norme di tutela ambientale. Il Partito repubblicano ha in Virginia una solida base di elettori cristiano-evangelici, e Cuccinelli aveva bisogno di loro se voleva vincere. Solo che, come scoprimmo, aveva inseguito i loro voti fino a superare il limite.
Una delle iniziative che aveva messo in campo era stata appellarsi a un tribunale federale perché modificasse un pronunciamento in merito alla legge della Virginia sui «reati contro natura». Approvata nel 1950 e abolita nel 2013 dalla corte federale d’appello competente per i distretti del quarto circuito (sulla scia di una decisione della corte suprema del 2003, in base alla quale l’attività sessuale tra adulti consenzienti non costituiva un crimine), la legge in questione dichiarava illegali il sesso orale e anale. Cuccinelli sosteneva che quella normativa fosse necessaria per combattere la pedofilia. Il profilo del candidato repubblicano mi ricordava alcuni politici fanatici incontrati in diverse regioni dell’Africa, ossessionati dagli omosessuali e dai «peccati» che commettevano in camera da letto. A quanto pareva, estremisti e svitati si nascondevano ovunque, persino nell’America borghese.
I partecipanti ai nostri focus group – perlopiù machissimi uomini eterosessuali – continuavano a dire quanto trovassero strana la cosa. Al bando quelle schifezze da gay, certo, ma perché vietare tutto il sesso che non fosse a scopo procreativo? Insomma, che aveva Cuccinelli contro i pompini? Sul serio: non era un tantino strano? Quei tizi non facevano che sottolineare quanto si sentissero a disagio nel farsi fare un servizietto e ritrovarsi a pensare a Cuccinelli, e come biasimarli? L’argomento si riproponeva con una certa costanza, quindi decidemmo di tentare un esperimento.
Se si segue il modello di personalità a cinque fattori, i conservatori tendono a mostrare una combinazione di due tratti: scarsa apertura mentale e alta coscienziosità. Generalizzando, è improbabile che i repubblicani vadano alla ricerca di novità o manifestino curiosità verso nuove esperienze (eccezion fatta per i repressi). Al tempo stesso prediligono struttura e ordine, e non amano le sorprese. I democratici sono più aperti, ma tendenzialmente anche meno coscienziosi. È in parte per questo se i dibattiti politici vertono spesso su comportamento e locus della responsabilità personale.
Tra le altre cose, la nostra ricerca qualitativa evidenziava come i repubblicani della Virginia fossero contrariati dall’ossessione di Cuccinelli per i pompini. E i test psicometrici ci dicevano anche che non apprezzavano l’imprevedibilità. Sfruttando queste due informazioni, eravamo in grado di creare una strategia mirata a orientare l’opinione pubblica in favore di Cuccinelli?
A quel punto entrò in gioco il genio di Gettleson. Sebbene affascinato dai maschi alfa dell’elettorato e dal dilemma rappresentato da Cuccinelli, sapeva anche che sarebbe stato difficile venire a capo della questione in termini di messaggio. Così si focalizzò sul «fattore stranezza». Gli elettori repubblicani erano scoraggiati perché trovavano che Cuccinelli fosse strano. Ma cosa sarebbe successo se la comunicazione del politico avesse ammesso apertamente quella caratteristica? Decidemmo di testare un messaggio: «Potrete anche non essere d’accordo, ma almeno sapete come la penso». La gente magari riteneva folle la sua posizione, però potevamo trasformare Cuccinelli in un elemento prevedibile, ordinato.
Organizzammo focus group, panel online e test pubblicitari digitali per verificare l’impatto dello slogan, e il risultato fu che surclassò ogni altro messaggio provato, sebbene fosse in sostanza privo di significato. Fu un’illuminazione: eravamo in grado di influenzare l’opinione dei votanti attraverso una comunicazione che collimasse con i loro profili psicometrici. E siccome molti repubblicani mostravano quegli stessi tratti di personalità, era probabile che la cornice «sono come sono, ma tu sai come la penso» funzionasse anche per altri. La strategia diede risultati migliori tra quanti mostravano alti livelli di coscienziosità ed erano indecisi in merito al profilo di Cuccinelli. Ai loro occhi, inquadrava il candidato come «il male che conosci», e rendeva affidabile la sua eccentricità.
A quanto pareva, i repubblicani potevano accettare un candidato con le rotelle fuori posto, purché la sua pazzia fosse coerente. Una scoperta che avrebbe in seguito influenzato quasi ogni progetto di Cambridge Analytica. Come ovvio, da lì a un candidato che si vanta di potersi piazzare su Fifth Avenue e sparare a qualcuno senza perdere consensi il passo è breve.
Nel corso del nostro esperimento raccogliemmo una valanga di informazioni personali sulla popolazione della Virginia. Procurarsele fu facile: comprammo l’accesso ai database di broker specializzati come Experian e Acxiom, e ci affidammo a società di nicchia con elenchi incentrati su chiese evangeliche, società di comunicazioni e così via. Alcune amministrazioni statali vendono persino elenchi su licenze di pesca, caccia e porto d’armi. Quegli uffici governativi si curavano forse di chiedere dove finissero i dati dei loro cittadini? Macché. Per quanto ne sapevano potevamo essere truffatori, o spie straniere, ma non sembravano preoccuparsi della cosa.
Molti conoscono Experian come società di valutazione per il credito al consumo. E in effetti è così che ha iniziato: giudicando l’affidabilità creditizia delle persone in base a una serie di fattori finanziari. L’azienda raccoglieva informazioni da una vasta gamma di fonti: carte fedeltà di compagnie aeree, società di comunicazione, enti benefici, persino parchi divertimento. Inoltre sfruttava i dati di agenzie governative, come quelli relativi alla motorizzazione, alle licenze di caccia e pesca e al porto d’armi. Il risultato erano profili molto dettagliati, e presto la società si rese conto di poter aumentare i propri introiti usandoli a scopo di marketing.
Negli anni Novanta i consulenti politici avevano cominciato a comprare informazioni personali da usare nelle campagne. Pensateci: sapendo quale auto guida una persona, se va a caccia o meno, a quale ente benefico fa donazioni e a quali riviste è abbonata, potete iniziare a costruirvene un’immagine. Molti democratici e repubblicani hanno caratteristiche precise, che vengono immortalate dai dati. E grazie a quella specie di istantanea si può iniziare a puntare potenziali elettori.
Riuscimmo a ottenere persino i dati dei censimenti. A differenza delle nazioni in via di sviluppo, dove i controlli sulla privacy sono meno rigorosi, il governo statunitense non fornisce i dati grezzi relativi a singoli individui; è però possibile ottenere informazioni a livello di contea o quartiere, come tassi di criminalità, diffusione dell’obesità o incidenza di patologie quali diabete e asma. Di norma i censimenti suddividono il Paese in sezioni, ciascuna contenente dalle seicento alle tremila persone; ciò significa che combinando più fonti di informazione è possibile sviluppare modelli che abbinino a specifici individui le caratteristiche misurate. Per esempio, facendo riferimento a fattori collegati al diabete quali età, razza, luogo di residenza, reddito, attenzione all’alimentazione, preferenza per particolari ristoranti, abbonamento a palestre e uso di prodotti per la perdita di peso (dati disponibili nella maggior parte di elenchi di consumatori statunitensi), potremmo fare un raffronto con le statistiche aggregate sull’incidenza del diabete di una determinata località. A quel punto potremmo assegnare a ogni individuo di quell’area un punteggio, a rappresentare la probabilità che abbia problemi di salute legati al diabete. E tutto senza bisogno che il censimento o i database di consumatori forniscano informazioni specifiche in merito alla salute.
Gettleson e io passammo ore a esplorare combinazioni casuali di caratteristiche, anche le più strane. C’erano persone che avevano il porto d’armi ma facevano anche parte dell’American Civil Liberties Union (o ACLU, l’organizzazione non governativa che lotta per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali, e che da tempo si oppone alla libera circolazione delle armi)? Qualcuno aveva l’abbonamento stagionale ai concerti di una filarmonica ed era anche iscritto alla National Rifle Association (o NRA, la più importante lobby impegnata a sostenere la causa di produttori e possessori di armi)? Esistevano davvero omosessuali repubblicani? Un giorno ci ritrovammo a chiederci se alcuni sostenitori di Chiese con posizioni antigay facessero la spesa in negozi di cibo biologico. In effetti, passando al vaglio i dataset dei consumatori che avevamo acquisito per il progetto pilota, trovammo una manciata di persone che facevano entrambe le cose.
Provai l’immediato desiderio di conoscere una di queste creature mitologiche; in parte perché ero curioso, ma anche perché volevo accertarmi che i nostri dati fossero accurati. Quindi selezionammo alcuni nominativi e li passammo a un call center, che provvide a chiamare ogni persona chiedendo se fosse disposta a incontrare un ricercatore e rispondere ad alcune domande. Molti rifiutarono, ma una donna acconsentì. E io non vedevo l’ora di incontrarla. Le sue abitudini di spesa apparivano incoerenti: cliente di Whole Food – una catena specializzata in cibi biologici – e appassionata di yoga, era anche membro di una Chiesa con posizioni antigay e faceva donazioni a enti benefici di destra. O le informazioni in nostro possesso erano errate, o ci trovavamo davanti a una delle figure più affascinanti degli interi Stati Uniti.
I dati della donna mi condussero a una modesta casa a due piani tra i sobborghi di Fairfax County. Di fronte alla porta ebbi un attimo di esitazione: quanto sarebbe stato imbarazzante, quell’incontro? Ormai, però, ero arrivato fin lì... Mi feci coraggio e suonai. Sentii una campana a vento tintinnare sopra la mia testa, poi una vivace bionda fresca di messa in piega aprì la porta e per poco non mi saltò addosso.
«Ehiii! Su, entra!»
Mentre mi faceva strada notai che indossava pantaloni da yoga Lululemon. Mi accompagnò in un soggiorno che profumava di incenso e ospitava statue sia di Buddha sia di Ganesh, il dio hindu con la testa di elefante. Alla parete era appeso un crocifisso. Decisamente sopra le righe...
Mi offrì un bicchiere di kombucha fatto in casa, e io accettai. In cucina aprì un grosso vasetto di... qualcosa e versò nel bicchiere un liquido dall’aspetto «stagionato» e pieno di coaguli.
«È ricco di probiotici.»
«Già, vedo» replicai, osservando i pezzi che vi galleggiavano dentro.
All’inizio della chiacchierata mi parlò del suo tentativo di «allineare le energie positive», attraversando tutta una serie di concetti New Age ispirati senza dubbio dai volumi di Deepak Chopra che aveva nella libreria. Poi, però, passammo a parlare di moralità e lei si calò di colpo nella visione evangelica alla «fuoco e zolfo»; specie per quanto riguardava i gay: era convinta che sarebbero andati dritti all’inferno. Eppure, persino nel modo in cui esprimeva quella certezza faceva capolino uno strano amalgama. Disse che l’omosessualità era una specie di peccaminoso blocco dell’energia. Insomma, mi evangelizzò per due ore, mentre io me ne stavo lì a prendere appunti come fossimo nel pieno di una folle seduta di psicoterapia.
Me ne andai di lì con un turbinio di idee per la testa. Mi sembrava di aver centrato un tema importante: come diavolo andava classificata quella donna, agli occhi di un sondaggista? Ero convinto che dovevamo investire di più nella comprensione delle sfumature dietro i dati demografici. Una volta avevo incontrato la primatologa Jane Goodall, e lei mi aveva detto una frase che mi era rimasta impressa. Stavamo chiacchierando a un ricevimento, e io le avevo chiesto perché non svolgesse le sue ricerche sui primati in un laboratorio controllato, anziché in natura. «Semplice» aveva risposto, «perché non vivono in laboratorio.» Be’, nemmeno gli umani. Se vogliamo capire davvero le persone, dobbiamo sempre tenere a mente che la loro vita va oltre i dataset.
È incredibile quanto sia facile lasciarsi coinvolgere da ciò che ci interessa. Eravamo una società britannica che sviluppava progetti innovativi per le forze armate, con una squadra in crescita composta perlopiù da omosessuali, esperti di dati e ricercatori sociali dalle idee liberal: perché mai avevamo iniziato a lavorare per quell’eclettico gruppo composto da manager di fondi di investimento e studiosi di informatica, guidati da un tizio che gestiva un oscuro sito web di destra? Perché l’idea di fondo era pazzesca. Ci avevano dato carta bianca per studiare qualcosa di fluido e astratto come la cultura, e grazie a ciò avremmo potuto farci strada in un ambito ancora inesplorato. Se fossimo riusciti a infilare l’intera società in un computer avremmo potuto quantificare ogni cosa e isolare problemi come la povertà e la violenza, studiandone le soluzioni attraverso la simulazione.
Ero proprio come la donna che avevo appena incontrato: lei non vedeva conflitto tra gli idoli di cui si circondava, e io non scorgevo ancora la contraddizione di fondo di quel che facevo.