Nell’agosto del 2014, appena due mesi dopo il lancio dell’app, Cambridge Analytica aveva raccolto i dati completi di oltre ottantasette milioni di utenti Facebook, perlopiù americani. La community di MTurk era stata ormai sfruttata a pieno, e CA dovette affidarsi alla società Qualtrics, dello Utah, che gestiva una piattaforma di sondaggi online. Quasi immediatamente diventammo uno dei clienti di punta e cominciammo a ricevere vagonate di prodotti con il loro logo. Jucikas se ne andava in giro con una T-shirt I ♥ QUALTRICS sotto il completo Savile Row dal taglio perfetto, cosa che tutti trovavano al contempo divertente e assurda. Da Provo, sede della società, arrivava una fattura di pagamento ogni ventimila nuovi utenti del loro progetto di raccolta dati su Facebook.
Appena iniziammo a raccogliere dati da Facebook, i responsabili di Palantir avviarono degli approfondimenti; a quanto pareva, a suscitare il loro interesse era stato scoprire la mole di informazioni raccolte con il beneplacito del social network. I dirigenti che Cambridge Analytica incontrò volevano sapere come funzionasse il progetto, e ben presto si rivolsero al nostro team per sondare la possibilità di accedere a quei dati.
Palantir stava ancora lavorando per l’NSA e il GCHQ, e il loro staff – durante un incontro presso il quartier generale britannico dell’azienda, in Soho Square – spiegò che collaborare con Cambridge Analytica poteva costituire un’interessante scappatoia legale. Gli enti governativi per la sicurezza e i loro fornitori non erano autorizzati a raccogliere in massa i dati personali dei cittadini americani, ma le società di sondaggi, i social network e le aziende private non avevano tali limitazioni. E mi dissero che, malgrado il divieto a interventi di sorveglianza diretta sulla popolazione, le agenzie di intelligence statunitensi erano comunque autorizzate a utilizzare le informazioni «liberamente cedute» da individui o società del Paese. A quel punto intervenne Nix. «Quindi state dicendo che alle società americane noi... piacciamo.» Sogghignò. Non pensavo facessero sul serio, ma presto capii di aver sottovalutato l’interesse suscitato da quei dati.
Alcuni dei dipendenti di Palantir si erano resi conto che Facebook aveva il potenziale per diventare il miglior strumento di sorveglianza segreta mai immaginato dall’NSA. Sempre che quelle informazioni venissero «liberamente cedute» da un’altra entità. Per completezza, devo aggiungere che le discussioni rimasero sul piano della speculazione: non so se la Palantir, come società, fosse a conoscenza dei dettagli di questi incontri o se abbia ricevuto dati da CA. Il loro personale si era limitato a far presente che, se Cambridge Analytica avesse consentito loro l’accesso ai dati raccolti, a livello teorico avrebbero potuto passarli all’NSA in modo legale. In questa ottica, Nix mi disse che avevamo urgente bisogno di rendere possibile un accordo con lo staff dell’azienda, «per garantire la difesa della nostra democrazia». Ovviamente non fu per quello che Alexander fornì loro completo accesso ai dati privati di centinaia di milioni di americani. Il suo sogno, come mi aveva confessato in occasione del nostro primissimo incontro, era diventare il «Palantir della propaganda».
Un capoanalista della società inizio a visitare con regolarità gli uffici di Cambridge Analytica, per lavorare con i nostri esperti alla costruzione di modelli di profiling. Talvolta era accompagnato da alcuni colleghi, ma l’accordo fu tenuto segreto agli altri team di CA, e forse alla stessa Palantir. Non riuscivo a indovinarne il motivo, ma lo staff di Palantir riceveva credenziali per il login al nostro database e indirizzi mail contenenti palesi pseudonimi, del tipo dottor Freddie Mac (come la società di mutui salvata dal governo statunitense durante la crisi immobiliare del 2008). So per certo, però, che quando gli esperti di Palantir cominciarono a realizzare le proprie app per la raccolta di dati da Facebook, Nix chiese loro di restare oltre l’orario d’ufficio e lavorare a programmi in grado di replicare il lavoro di Kogan, così da poter fare a meno del ricercatore. E non si trattava più soltanto di app per Facebook: Cambridge Analytica iniziò a testare estensioni per browser all’apparenza innocue, come calcolatrici e calendari, che ottenevano accesso ai cookies di sessioni Facebook dell’utente. Venne fuori che, in tal modo, la società poteva effettuare il login con le credenziali del bersaglio e raccogliere tutti i suoi dati, oltre a quelli dei suoi amici. Tutte quelle estensioni venivano sottoposte a processi di revisione indipendente da parte di diversi popolari browser, e regolarmente approvate.
Non era chiaro se il personale di Palantir facesse visita a Cambridge Analytica in veste ufficiale, e la loro società ha sempre sostenuto che si trattò di un singolo dipendente, che collaborava con CA «a titolo personale».
Se devo essere sincero, su questo punto non so a chi o cosa credere. Come spesso faceva per i fornitori coinvolti nei progetti in Africa, Nix portava in ufficio valigette piene di dollari, e li pagava in contanti. Mentre loro lavoravano, lui se ne stava seduto alla scrivania a contare le banconote e dividerle in mazzette, ciascuna del valore di migliaia di dollari. A volte i fornitori ricevevano decine di migliaia di dollari a settimana.
Molti anni prima, Nix era stato scartato dall’agenzia d’intelligence estera britannica, l’MI6. Spesso ci scherzava su, sostenendo di non essere abbastanza banale da confondersi in una folla, ma era evidente che la cosa l’avesse ferito. E adesso quasi non gli importava chi avesse accesso ai dati di CA: li avrebbe mostrati a chiunque, solo per sentirsi dire quanto fosse fantastico.
Nella tarda primavera del 2014 l’investimento di Mercer aveva innescato una corsa all’assunzione di psicologi, esperti di dati e ricercatori. Nix affidò il progetto a un nuovo team di manager, incaricati di gestire le attività in forte crescita: io rimasi il titolare della ricerca, ma ai nuovi direttori operativi fu affidata la supervisione diretta e l’organizzazione dell’operazione. Nuovi progetti sembravano saltare fuori ogni giorno, e a volte non mi era chiaro come o perché ricevessero l’approvazione per la fase operativa. Segnalai a Nix che faticavo a tenere le redini, e non sapevo più chi stesse facendo cosa, ma lui non vedeva il problema. Tutto ciò cui riusciva a pensare erano prestigio e denaro. Mi disse che molte persone sarebbero state felici di essere sollevate da parte del lavoro e delle responsabilità, senza veder compromessa la propria posizione.
Quanto a me, trovavo tutto sempre più strano; eppure, ogni volta che condividevo le mie perplessità con i colleghi finivamo per calmarci a vicenda e razionalizzare ogni cosa. Certo, Nix parlava di operazioni losche, ma era fatto così e nessuno lo prendeva sul serio. E quando Mercer inserì Bannon direttamente nel progetto, io sorvolai su quelli che a posteriori erano evidenti segnali d’allarme, trovando spiegazioni per tutto. Steve aveva idee politiche «di nicchia», però Mercer sembrava troppo distinto per partecipare ai suoi squallidi teatrini. Il nostro lavoro aveva un alto potenziale di ritorno per le finanze del miliardario, il che spiegava alla perfezione perché avesse deciso di investire così tanto denaro in un’operazione dal profilo altamente speculativo. In effetti aveva regalato a Cambridge Analytica decine di milioni di dollari prima ancora che la società avesse acquisito dati o realizzato software per l’America. Dalla prospettiva di investitore qualsiasi, si trattava di capitale d’avviamento ad alto rischio, ma in CA sapevamo che Mercer non era stupido né incosciente: di certo si era fatto bene i propri conti. All’epoca, molti nel team erano convinti che, per giustificare una mossa tanto rischiosa, Mercer doveva aspettarsi che la ricerca fruttasse soldi a palate al suo fondo di investimento. In altre parole, la società non era lì per dar vita a una rivolta dell’alt-right, bensì per aiutare Mercer a rimpolpare il suo patrimonio. E la passione di Nix per il denaro rafforzava tale convinzione.
Certo, adesso sappiamo che la situazione era ben diversa. Tutto ciò che posso dire è che mi rivelai più ingenuo di quanto pensassi. Anche se avevo molta esperienza per la mia età, restavo comunque un ventiquattrenne; e, chiaramente, avevo ancora molto da imparare. Quando ero entrato nell’SCL l’avevo fatto per collaborare all’esplorazione di ambiti quali la lotta alla radicalizzazione; volevo aiutare il Regno Unito, gli Stati Uniti e i loro alleati a difendersi dalle nuove minacce che emergevano online. Poi, pian piano, mi ero adattato a quel settore, nel quale erano considerate normali cose che, a un comune osservatore, sarebbero sembrate assurde. Le operazioni d’informazione non sono certo il classico impiego d’ufficio, e ci si imbatte in persone e situazioni a dir poco bizzarre. Ogni volta che qualcuno sollevava dubbi sull’eticità di un progetto clandestino in un Paese lontano, veniva schernito per la sua ingenuità: era evidente che non avesse idea di come il mondo «funzionava davvero».
Per la prima volta in vita mia, mi era consentito esplorare idee nuove senza sentirmi limitato da visioni ristrette o persone pronte a snobbare ogni progetto che si discostasse dalle vie già battute. Per quanto stronzo, Nix mi concedeva un ampio margine di azione per provare approcci innovativi. Da quando Kogan si era unito al progetto, poi, i professori di Cambridge non facevano che decantare il potenziale rivoluzionario del nostro operato, capace di far compiere un passo avanti a campi quali psicologia e sociologia. Sentivo di avere una missione. E se anche i docenti di università quali Harvard o Stanford si stavano interessando al nostro lavoro, be’, non poteva esserci dubbio: eravamo sulla strada giusta. Trovavo davvero stimolante l’idea dell’istituto proposta da Kogan, ed ero convinto che condividere quei dati con ricercatori di tutto il mondo avrebbe portato a una svolta in svariati ambiti. Per quanto stucchevole possa apparire, avevo davvero la sensazione di lavorare a qualcosa di importante; non solo per Mercer o per la compagnia, ma per la scienza. E lasciai che quella sensazione mi accecasse al punto da giustificare l’ingiustificabile. Dicevo a me stesso che studiare davvero le società porta ad addentrarsi in questioni scomode sul nostro lato più oscuro. Come potevamo capire il pregiudizio razziale, l’autoritarismo o la misoginia se non esplorandoli? A sfuggirmi, all’epoca, fu il sottile confine tra esplorare certi atteggiamenti e stimolarli.
Bannon, un ambizioso e raffinato guerrigliero della cultura, aveva ormai assunto il controllo della società. Sentiva che la politica dei democratici, tutta giocata sull’identità etnica o razziale degli elettori, era in realtà meno potente di quella dei repubblicani, che spesso arrivavano a sostenere come l’identità americana andasse oltre la pelle, la preferenza religiosa o il genere. Un bianco che vive in una roulotte non si ritiene parte di una classe privilegiata, anche se altri possono considerarlo tale per via del suo colore. Ogni mente è sfaccettata. E il lavoro di Bannon era scoprire come rivolgersi alle persone di conseguenza.
Un giorno dissi a Steve che la questione più interessante evidenziata dall’indagine di CA era quanti americani si sentissero costretti dalla società a portare una maschera. E non stavo parlando solo degli omosessuali. La cosa era emersa già nei focus group, e in seguito era stata confermata dalla ricerca quantitativa svolta tramite panel online. Gli uomini bianchi eterosessuali, in particolare quelli più anziani, erano cresciuti in un sistema di valori che conferiva loro determinati privilegi sociali: non erano costretti ad adottare un linguaggio adeguato in presenza di donne o persone di colore, perché una certa patina di razzismo e misoginia era considerata normale. Con l’evolversi delle convenzioni sociali, però, quei privilegi avevano iniziato a sgretolarsi, e molti di quegli statunitensi si trovavano – per la prima volta in vita loro – a dover modificare il proprio comportamento. Adesso flirtare con la segretaria poteva costarti il posto di lavoro, e rischiavi di essere emarginato se usavi la parola sbagliata nella parte afroamericana della città. Trovarsi a discutere di simili questioni li faceva sentire in imbarazzo, e sentivano minacciata la loro identità di «uomini normali».
Uomini che non erano minimamente abituati a moderarsi – negli impulsi, nel linguaggio del corpo e nel modo di parlare – avevano cominciato a covare risentimento per quella che consideravano l’ingiusta fatica mentale ed emotiva necessaria a cambiare e a correggere di continuo il loro modo di porsi in pubblico. Ciò che trovavo interessante erano le similitudini tra le rivendicazioni di questi bianchi eterosessuali e arrabbiati e il dibattito sull’emancipazione delle comunità gay. Quegli uomini stavano provando il peso della repressione, l’odiosa sensazione di dover cambiare ciò che sentivano di essere per «farsi accettare» dalla società. Certo, l’ostilità riservata agli omosessuali e quella che investiva razzisti e misogini avevano origini molto diverse, ma quelle persone provavano comunque un’esperienza soggettiva di oppressione. Ed erano pronti a uscire allo scoperto, a tornare al tempo in cui l’America era grande... almeno per loro.
«Ci pensi» dissi a Bannon. «Il messaggio a un comizio del Tea Party è lo stesso di quello a un corteo del Gay Pride: Non calpestatemi! Lasciatemi essere ciò che sono!» Alcuni conservatori avvelenati sentivano di non potersi più porre da «uomini veri», perché le donne non frequentavano chi si comportava come gli uomini si erano comportati per millenni. Dovevano nascondere il loro vero io per compiacere la società, e la cosa li faceva incazzare. Secondo loro, il femminismo aveva messo in soffitta gli «uomini veri». Lo trovavano umiliante. E Bannon sapeva che non c’era risorsa più potente dell’uomo umiliato. Era ansioso di esplorare – e sfruttare – la loro condizione.
Il gruppo che aveva in mente era la comunità incel, che stava salendo alla ribalta nel periodo in cui Cambridge Analytica fu fondata. I «casti non per scelta» erano uomini che si sentivano ignorati e puniti da una società – in particolare dalla sua componente femminile – che non apprezzava più l’uomo medio. Costola del Men’s Rights Movement, un’organizzazione votata a combattere presunte discriminazioni contro i maschi, gli incel erano nati in parte per la crescente disuguaglianza economica intergenerazionale, che impediva ai giovani millennial l’accesso agli impieghi ben pagati dei loro padri. A tale condizione si aggiungevano gli standard di bellezza maschile – sempre più irraggiungibili – proposti dai social network e dai media tradizionali, cui non faceva riscontro un riconoscimento pubblico per i problemi di autopercezione maschile e per le pressioni di genere, come avvenuto invece per le donne. Per non parlare della crescente importanza attribuita all’aspetto fisico in un contesto di frequentazioni sempre più definito da uno swipe a destra o a sinistra su un’app, dopo un’occhiata di mezzo secondo a una fotografia. E siccome le donne erano diventate più indipendenti dal punto di vista economico, potevano permettersi di essere più selettive in fatto di partner. Privi di un bell’aspetto e di uno stipendio rispettabile, gli «uomini medi» affrontavano dunque la dura realtà del costante rifiuto.
Alcuni di loro avevano iniziato a riunirsi su forum come 4chan, che era diventato un ricettacolo di meme, fandom su strane fantasie, porno specializzato, cultura pop e reazioni controculturali di giovani frustrati in una società sempre più atomizzata. I primi anni Dieci del 2000 avevano visto svilupparsi i dibattiti nichilistici tra giovani uomini ormai rassegnati a una vita di solitudine. Un nuovo vocabolario era emerso per descrivere la loro situazione: beta (uomini inferiori, dal punto di vista dell’appeal sessuale), alfa (uomini superiori), vocel («casti per scelta»), men going their own way (o, più spesso, MGTOW: «uomini che vanno per la propria strada», allontanandosi dalle donne), incel e robot (incel con l’Asperger).
Malgrado i privilegi concessi loro in quanto uomini bianchi eterosessuali, i membri di quei gruppi soffrivano di un vuoto d’identità, scopo e autostima, e si aggrappavano a qualsiasi cosa potesse dargli un senso di appartenenza e solidarietà. Nell’autodefinirsi maschi beta della società, molti incel parlavano di «accettare la pillola nera», ovvero affrontare quelle che ritenevano verità innate sull’attrazione sessuale e romantica. I forum affrontavano argomenti quali il «carburante per suicidio»: esempi della loro quotidianità di rifiuto, che rafforzavano la sensazione di essere orribili e senza speranze. In molti incel, quella rabbiosa disperazione si era tramutata in misoginia estrema.
La dottrina della pillola nera era cupa e rigida; affermava che alle donne interessa solo l’aspetto fisico e che certe caratteristiche, compresa la razza, contribuiscono a definire una gerarchia di desiderabilità sessuale. Condividevano grafici e osservazioni che indicavano una presunta, innata condizione di vantaggio degli uomini bianchi, in quanto le donne di ogni etnia ne avrebbero accettato uno come proprio partner, e all’opposto un forte svantaggio per gli asiatici. Essere grassi, poveri, disabili o di colore significava rientrare fra i meno desiderati d’America. Gli incel non bianchi usavano espressioni quali just be white – spesso abbreviato in JBW, «basta essere bianchi» – per spiegare o giustificare quelli che ritenevano innati limiti razziali. Era sorprendente quanto fossero pronti a riconoscere i privilegi dei bianchi, ma il dibattito incel inseriva quell’elemento nel contesto di un’intrinseca superiorità razziale, almeno nell’ambito della selezione sessuale.
Condividevano di continuo battute e meme sull’opporsi alla loro «condanna a morte» e scatenare una «rivolta beta» per la ridistribuzione del diritto a fare sesso. Ma, nascosta dietro a quell’umorismo ai limiti dell’inquietante, c’era la rabbia di una vita di rifiuti. Scorrendo le loro narrazioni incentrate sul vittimismo mi veniva da pensare ai video della propaganda jihadista, con la stessa ingenua e romantica rappresentazione di uomini oppressi che spezzavano le catene di una società insulsa per trasformarsi in eroi celebrati della ribellione. Al contempo, gli incel nutrivano una perversa attrazione per i «vincenti» della società, come Donald Trump e il giornalista omosessuale legato a Breitbart Milo Yiannopoulos; soggetti che, nella loro distorta visione, rappresentavano l’incarnazione di quegli stessi alfa ipercompetitivi che li brutalizzavano, e che ciononostante volevano alla guida della rivolta. Molti erano pronti a radere al suolo la società, e Bannon cercò di offrire loro una valvola di sfogo su Breitbart. Ma la sua ambizione non si fermava certo lì: vedeva in quei giovani le prime reclute della sua futura insurrezione.
Quando Cambridge Analytica partì, nell’estate del 2014, l’obiettivo di Bannon era cambiare la politica modificando la cultura; algoritmi, dati raccolti da Facebook e narrazioni mirate erano le sue armi. Per prima cosa usammo i gruppi di discussione e l’osservazione qualitativa per sviscerare le percezioni di una data fetta della popolazione ed evidenziare i temi che essa riteneva più importanti: durata delle cariche politiche, poteri forti, «bonificare la palude», armi, muri per frenare l’immigrazione... Tutto nel 2014, diversi anni prima della campagna presidenziale di Trump. Poi formulammo alcune teorie su come influenzarne le opinioni. Cambridge Analytica testò quelle ipotesi in panel online o test su segmenti di riferimento della popolazione, così da verificare se i soggetti si comportavano come il team aveva pronosticato in base ai dati. Inoltre volevamo sfruttare le informazioni raccolte dai profili Facebook per individuare schemi ricorrenti e realizzare una rete neurale artificiale che ci aiutasse a fare previsioni.
Nell’analisi della personalità, una ristretta minoranza di persone mostra tratti di narcisismo (egocentrismo estremo), machiavellismo (spietata tensione a perseguire l’interesse personale) e psicopatia (distacco emotivo). Rispetto ai Big Five – apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amicalità e stabilità emotiva; elementi che, combinati in diversa misura, sono propri di ciascuno di noi e definiscono le nostre caratteristiche psicologiche – questa «triade oscura» è disadattiva: chi li esibisce è in generale più incline a comportamenti antisociali, compresi gli atti criminali. Grazie ai dati raccolti, il nostro team poté identificare persone che mostravano scarsa stabilità emotiva e componenti della triade oscura, insieme a quelli più inclini della media alla rabbia impulsiva e al pensiero complottista. Cambridge Analytica li prendeva di mira con narrazioni mirate diffuse tramite gruppi Facebook, inserzioni o articoli i cui contenuti, sulla base di test interni, potevano infiammare quei ristretti segmenti di popolazione. L’obiettivo era provocare la gente, indurla a schierarsi.
Per riuscirci sfruttavamo una specifica caratteristica dell’algoritmo di personalizzazione di Facebook, almeno all’epoca. Seguire la pagina di marchi comuni come Walmart o di una celebre sitcom cambia ben poco nel flusso di notizie che si visualizzano; d’altro canto, mettere like a gruppi dalle posizioni estreme come i neofascisti di Proud Boys o l’Incel Liberation Army distingue nettamente un utente dagli altri, quindi il sistema di personalizzazione dei contenuti darà priorità agli argomenti collegati. In sostanza, l’algoritmo comincerà a presentare contenuti e pagine simili, così da stimolare la partecipazione di quell’utente. Per Facebook l’unica cosa che conta è massimizzare la partecipazione, perché ciò significa più tempo davanti allo schermo e maggior esposizione alle inserzioni.
Ecco il lato più oscuro della metrica dello user engagement, tanto celebrata dalla Silicon Valley: concentrandosi in modo massiccio sul massimizzare la partecipazione, i social media tendono a svilupparsi sfruttando i meccanismi adattativi del nostro cervello. Si dà il caso che i contenuti più coinvolgenti siano spesso orribili o eccessivi. Ebbene, secondo gli psicologi evoluzionisti l’Homo sapiens ha sviluppato, per sopravvivere in tempi premoderni, un’attenzione sproporzionata nei confronti di potenziali minacce. Se istintivamente notiamo di più il sangue di un cadavere in decomposizione a terra anziché lo spettacolo di uno splendido cielo sulla nostra testa è perché far attenzione al primo ci ha aiutati a sopravvivere. In altre parole, ci siamo evoluti per concentrarci sulle potenziali minacce. Ora sapete come mai non riuscite a distogliere lo sguardo dai video raccapriccianti: siete umani.
Le piattaforme social impiegano inoltre strutture che attivano il nostro cervello attraverso loop ludici e schemi a rinforzo variabile. Si tratta di modelli a ricompensa frequente ma irregolare, che creano attesa ma in cui la gratificazione finale è troppo imprevedibile ed effimera per poterla pianificare. Ciò alimenta un ciclo autorinforzante di incertezza, attesa e feedback. La casualità di una slot machine impedisce al giocatore di mettere in campo strategie per vincere, quindi l’unico modo per ottenere una ricompensa è continuare a giocare. Tali ricompense sono abbastanza frequenti da riconquistarvi dopo una serie di sconfitte, e indurvi così a continuare. Nel mondo del gioco d’azzardo, un casinò guadagna attraverso il numero di giocate dei singoli clienti; nell’universo dei social media, una piattaforma fa soldi grazie al numero di click di un utente. Ecco perché il flusso di contenuti è strutturato su un sistema a scroll infinito: c’è pochissima differenza tra un utente che continua a scorrere per trovare altri contenuti e un giocatore che insiste a tirare la leva della slot machine.
Nell’estate del 2014 CA cominciò a caricare, su Facebook e altre piattaforme, pagine fake realizzate per sembrare forum, gruppi o fonti di notizie reali. Una tattica comune, già impiegata dall’SCL per progetti di contrasto alle insurrezioni. Non è chiaro chi abbia dato l’ordine finale di avviare queste operazioni di disinformazione, ma a molti della vecchia guardia – che per anni avevano seguito lavori in tutto il mondo – la cosa non parve assurda: ci si limitava a riservare ai cittadini statunitensi lo stesso trattamento che i clienti americani o britannici avevano richiesto per le popolazioni pakistane o yemenite. La società si mosse a livello locale, creando pagine di destra con nomi vaghi tipo Smith County Patriots o I Love My Country. Grazie al funzionamento dell’algoritmo di raccomandazione di Facebook, queste pagine apparivano nei feed di persone che avevano già messo like ad argomenti simili. Quando gli utenti si univano ai gruppi fake, CA iniziava a postare video e articoli provocatori, pensati per infiammarne ancor di più gli animi. Le conversazioni infuriavano, e c’era sempre qualcuno pronto a lamentare quanto terribile o ingiusto fosse qualcosa. Cambridge Analytica lavorava ad abbattere le barriere sociali interne ai gruppi, coltivando relazioni tra i membri, e nel frattempo testava e affinava messaggi allo scopo di ottenere il massimo coinvolgimento.
A questo punto, l’azienda aveva in mano utenti che si identificavano come parte di un gruppo estremista, costituivano un pubblico passivo e potevano essere manipolati con i dati. Molte delle inchieste successive sull’operato di Cambridge Analytica hanno dato l’impressione che tutti fossero presi di mira, ma in realtà i target non erano poi così tanti; non c’era bisogno di creare un vasto universo di riferimento, perché molte elezioni sono giochi a somma zero: se si ottiene un voto in più dell’altro si vince. Alla società bastava «infettare» solo una piccolissima parte della popolazione, poi sarebbe rimasta a guardare mentre le sue narrazioni si diffondevano.
Quando un gruppo raggiungeva un certo numero di membri, CA organizzava un evento dal vivo. I team sceglievano piccole location – una caffetteria o un bar – per far sì che i partecipanti si sentissero più numerosi. Supponiamo che abbiate mille utenti in un gruppo, un numero modesto se paragonato ai volumi di Facebook, e che all’evento si presenti al massimo qualche decina di loro. Be’, quaranta persone costituiscono una vera folla per la caffetteria locale. Chi partecipava si trovava immerso in un mare di rabbia e paranoia, il che li portava a sentirsi parte di un gigantesco movimento e dava carburante alla loro visione cospirazionista. Talvolta un dipendente di Cambridge Analytica faceva da «complice», una tattica comunemente usata dai militari per accrescere le paure in particolari soggetti, ma perlopiù gli eventi si svolgevano in modo «genuino». Gli invitati erano selezionati sulla base dei loro tratti, perciò era facile prevedere come avrebbero interagito. Furono organizzati incontri in diverse contee, a cominciare dagli Stati a maggioranza repubblicana, e ogni volta la gente pareva infiammarsi un po’ di più per ciò che considerava uno scontro tra «noi» e «loro». Quella che era iniziata come una fantasia digitale – concepita nella solitudine notturna di una camera da letto, cliccando su un link – si trasformava nella loro nuova realtà: la narrazione era lì davanti, in carne e ossa, a parlare con loro. Non importava che fosse reale: bastava che lo sembrasse.
Così Cambridge Analytica si era trasformata nell’incarnazione digitale, automatizzata e ingigantita di una strategia che gli Stati Uniti e i loro alleati avevano già usato in altri Paesi. Quando avevo iniziato a lavorare all’SCL, la società era impegnata in un programma di lotta al narcotraffico in una nazione sudamericana. L’operazione consisteva in parte nell’identificare possibili target per far collassare dall’interno il gruppo criminale. La prima mossa era individuare i bersagli più facili, quelle persone che, secondo gli psicologi, avevano maggiori probabilità di sviluppare comportamenti inaffidabili e paranoidi. Poi ci si impegnava a inculcare in loro determinate idee: «I tuoi capi vogliono fregarti», oppure: «Ti useranno come capro espiatorio». L’obiettivo era farli rivoltare contro la loro stessa organizzazione. E, se una persona sente una storia un numero sufficiente di volte, ci sono buone probabilità che finisca per crederci.
Appena i target iniziali si dimostravano permeati dalla nuova narrazione, arrivava il momento di farli incontrare, così che potessero far gruppo e organizzarsi. Avrebbero diffuso voci, spingendosi a vicenda nella paranoia più profonda. A quel punto si passava al livello successivo: soggetti la cui iniziale resistenza alle insinuazioni si stava ormai incrinando. Era così che, in modo graduale, si destabilizzava un’organizzazione dall’interno; e CA voleva fare la stessa cosa all’America, sfruttando i social media come truppa d’assalto. Quando il gruppo di una contea era ormai in grado di autogestirsi lo si presentava a quello della contea vicina, poi si ripeteva l’operazione. Con il tempo si venne a creare un movimento a livello statale, composto da cittadini nevrotici e complottisti. L’alt-right.
Alcuni test interni avevano inoltre dimostrato che anche le inserzioni pilotate messe online e sui social erano efficaci per stimolare la partecipazione. Il profilo di chi riceveva quei contenuti sperimentali era abbinato ai relativi precedenti elettorali, quindi la società ne conosceva nome e identità reali; a quel punto, si potevano sfruttare i dati sull’engagement rate – il tasso di coinvolgimento delle persone raggiunte – delle inserzioni per studiarne il potenziale impatto sull’affluenza alle urne. Un report interno illustrava i risultati di un test su elettori registrati alle liste ma che non avevano votato nelle ultime due elezioni: se fossimo riusciti, grazie ai click sui nostri contenuti, a riportare alle urne anche solo il venticinque per cento di quei soggetti, stimavamo di poter aumentare l’affluenza in singoli Stati chiave anche dell’uno per cento, ovvero il margine che separa la vittoria dalla sconfitta in un testa a testa. La prospettiva esaltò Bannon, ma voleva che CA scavasse più a fondo, che si addentrasse in meandri più oscuri. Voleva testare la malleabilità della psiche americana. Ci esortò a includere nella nostra ricerca quelle che erano a tutti gli effetti domande tendenzialmente razziste, per vedere fino a che punto fosse possibile spingere la gente. Cominciammo a testare quesiti sulle persone nere: chiedevamo, per esempio, se fossero in grado di realizzarsi in America senza l’aiuto dei bianchi, o se fossero geneticamente predestinate al fallimento. Bannon riteneva che il movimento per i diritti civili avesse limitato la «libertà di pensiero» negli Stati Uniti, ed era determinato a «far emancipare» le persone rivelando quelle che considerava le «verità proibite» sulla razza.
Era ormai convinto che intere fasce della popolazione si sentissero ridotte al silenzio dalla minaccia di essere etichettate come «razziste», e le ricerche di Cambridge Analytica confermarono quest’idea: l’America è piena di razzisti che tengono la bocca chiusa per timore dello stigma sociale. Ma Bannon non aveva come unico obiettivo l’emergente movimento dell’alt-right: lui mirava anche ai democratici.
Sebbene il «democratico tipo» si rivelasse bravissimo a sostenere a parole le minoranze razziali, Steve aveva notato una vena di paternalismo che sconfessava quel professato impegno sociale. Il partito, riteneva, era pieno di limousine liberals: un’espressione coniata nel 1969, durante l’elezione del sindaco di New York, e della quale i populisti si erano subito impadroniti per denigrare i benefattori democratici «con il Rolex al polso». Si trattava di bianchi che magari si impegnavano a sostenere il servizio di scuolabus pubblici, ma al contempo mandavano i propri figli in scuole private a maggioranza bianca; o che affermavano di avere a cuore le sorti delle aree degradate del centro, ma intanto vivevano in zone residenziali recintate. «I bianchi democratici trattano i neri come bambini» disse una volta Bannon. «Li inseriscono in progetti, propongono sussidi, parlano di pari opportunità, mandano i propri ragazzi a distribuire cibo in Africa... Però sembrano troppo spaventati per porsi una semplice domanda: ’Perché questa gente ha tanto bisogno di babysitter?’» Secondo lui, simili atteggiamenti rivelavano in modo inconscio dei profondi pregiudizi nei confronti delle minoranze. Riteneva che, sebbene convinti di apprezzare gli afroamericani, quei democratici in realtà non li rispettassero, e che molte delle loro politiche derivassero dalla radicata convinzione che «quella gente» non fosse in grado di cavarsela da sola.
Michael Gerson – celebre speechwriter, ovvero uno specialista incaricato di scrivere i discorsi ai politici – aveva riassunto alla perfezione il concetto in un’espressione coniata nel 1999, per l’allora candidato alla presidenza George W. Bush junior: «l’intolleranza soft delle scarse aspettative». In quest’ottica i democratici mostravano una solidarietà paternalistica ed erano responsabili di avallare, così facendo, comportamenti sbagliati e risultati scolastici sotto la media, perché in realtà non credevano che gli studenti delle minoranze potessero far bene quanto i loro coetanei bianchi.
La posizione di Bannon era persino più radicale: era convinto che i democratici si stessero limitando a sfruttare le minoranze americane per i propri fini politici. Sosteneva che il patto sociale nato dal movimento per i diritti civili, in base al quale i democratici ottenevano i voti degli afroamericani in cambio di aiuti governativi, non scaturisse da un illuminismo morale bensì da un astuto calcolo. E l’unico modo che avevano per difendere quella che lui considerava la scomoda verità dietro tale alleanza era il ricorso al politically correct: sottoponevano i «razionalisti» alla gogna sociale quando questi parlavano di «realtà razziale».
Il realismo razziale è una delle varianti più recenti dei vecchi cliché sulla presunta superiorità genetica di alcuni gruppi etnici. I realisti della razza credono, per esempio, che gli afroamericani riportino punteggi bassi nei test standardizzati non perché i test stessi sono sbilanciati, o per via della lunga storia di oppressione e pregiudizio contro cui i neri stanno ancora lottando, bensì perché intrinsecamente meno intelligenti dei connazionali bianchi. Tale teoria pseudoscientifica, sposata dai suprematisti bianchi, affonda le sue secolari radici nel razzismo scientifico, alla base di tragedie della storia quali schiavitù, apartheid e Olocausto. E l’alt-right guidata da Bannon e Breitbart aveva adottato il realismo razziale quale sua filosofia cardine.
Se Bannon voleva riuscire nell’impresa di condurre all’emancipazione i suoi «liberi pensatori», allora doveva trovare un modo per vaccinare la gente contro il virus del politicamente corretto. Cambridge Analytica cominciò quindi a studiare non solo il razzismo più palese, ma anche le sue innumerevoli incarnazioni. Di solito, quando pensiamo al razzismo ci viene in mente un odio manifesto, ma esso può in realtà presentarsi con sfumature molto diverse. C’è un razzismo aversivo: quello di chi, consciamente o meno, evita certi gruppi etnici (tramite le proprie scelte abitative, sentimentali, sessuali...); e c’è un razzismo simbolico, nel quale la considerazione negativa di una certa popolazione si riflette in stereotipi, doppi standard eccetera. Al contempo, siccome nella società statunitense il marchio infamante connesso all’etichetta «razzista» è molto potente, i bianchi tendono spesso a sminuire o mascherare i propri pregiudizi interiorizzati, reagendo con forza quando qualcuno insinua che possano nutrire certe convinzioni. Si parla, in tal senso, di white fragility: la fragilità di quei bianchi che – abituati a muoversi in ambienti privilegiati, al riparo dagli svantaggi legati alla provenienza etnica – si convincono di essere a proprio agio con simili questioni, mentre in realtà mostrano una scarsissima tolleranza agli stress razziali.
Nella nostra ricerca, verificammo che la white fragility impediva a parecchie persone di affrontare i propri pregiudizi latenti. Tale dissonanza cognitiva spingeva inoltre molti soggetti ad accentuare le reazioni positive nei confronti delle minoranze, nel tentativo di consolidare un’idea «non razzista» di sé. Per esempio, provammo a sottoporre dei curriculum fittizi corredati di foto ad alcuni intervistati che avevano ottenuto punteggi alti in un precedente test per misurare l’implicito pregiudizio razziale; venne fuori che i profili dei membri di una minoranza ricevevano un punteggio più alto rispetto a quelli – identici – dei bianchi. Visto? Ho dato un voto migliore alla persona di colore, perché non sono razzista.
Comportamenti simili ci davano un certo margine d’azione: molti soggetti mascheravano il proprio razzismo non perché preoccupati di contribuire a un’oppressione sistematica, bensì per proteggere la propria immagine sociale. Il che bastò a convincere Bannon della fondatezza della sua teoria sui democratici: spendevano tante belle parole in favore delle minoranze, ma nel profondo erano razzisti quanto chiunque altro in America. A fare la differenza era la «realtà» in cui ciascuno viveva.
Bannon immaginava uno strumento per sdoganare il «libero pensiero» dei razzisti bianchi. Quando nel 2005 era entrato all’IGE, la società di Hong Kong specializzata in servizi legati ai videogiochi, la compagnia aveva messo sotto contratto un’azienda che forniva gamer cinesi per un salario ridicolo. L’obiettivo era farli giocare a World of Warcraft, concentrandosi sull’accumulare oggetti e risorse. A quel punto, anziché scambiare i beni virtuali attraverso l’interfaccia di gioco, come lecito, l’IGE li vendeva a giocatori occidentali in cambio di moneta reale. Un’attività che la community aveva subito bollato come disonesta, al punto da scatenare una violenta protesta online e persino una causa civile. È possibile che sia stata la prima occasione in cui Bannon si trovava esposto alla collera delle comunità virtuali; e, stando a quanto riferito, alcuni dei commenti erano «vetriolo anticinese». Bannon era diventato un assiduo frequentatore di forum come Reddit e 4chan, e aveva iniziato a familiarizzare con le esplosioni di rabbia che si scatenano quando la gente può nascondersi nell’anonimato di Internet. Per lui, quei tizi stavano dando libero sfogo alla propria natura profonda, senza il filtro del politicamente corretto che impediva loro di esprimere in pubblico simili «verità». E lui si era convinto di poter imbrigliare la forza di quelle anonime tempeste di risentimento e angherie.
Una visione rafforzatasi dopo il Gamergate, nella tarda estate del 2014, poco prima che Steve entrasse in contatto con l’SCL. Per molti versi, il Gamergate aveva creato una cornice concettuale per l’alt-right di Bannon, poiché aveva svelato l’esistenza di una comunità sotterranea composta da milioni di giovani uomini veementi e arrabbiati. Il trolling e il cyberbullismo erano così diventati strumenti chiave dell’alt right. Steve, però, voleva spingersi oltre: indusse Cambridge Analytica a sviluppare e impiegare molti dei comportamenti che bulli e gli autori di violenze domestiche sfruttano per erodere la resistenza allo stress delle loro vittime. Bannon trasformò CA in uno strumento di bullismo automatizzato e violenza psicologica su vasta scala. La società si mise all’opera identificando una serie di distorsioni cognitive che, in linea teorica, potevano entrare in risonanza con il latente pregiudizio razziale. Nel corso di svariati esperimenti, mettemmo su un arsenale di strumenti psicologici che potevano essere impiegati sistematicamente su social media, blog, gruppi e forum.
La prima richiesta di Bannon fu studiare chi si sentiva oppresso dal politically correct. Scoprimmo che, siccome spesso le persone sopravvalutano quanto gli altri facciano caso a loro, puntare i riflettori su situazioni ad alto tasso d’imbarazzo sociale era un modo efficace per far emergere il pregiudizio nei gruppi di riferimento. Lavorammo, per esempio, sull’imbarazzo che si prova dopo aver pronunciato male un nome straniero. Uno dei messaggi più efficaci che testammo chiedeva di «immaginare un’America in cui non sia più possibile pronunciare il nome di nessuno». Ai soggetti veniva mostrata una serie di nomi insoliti, seguita dalla domanda: «Quanto è difficile leggere questo nome? Ricordi un tempo in cui le persone ridevano di chi si sbagliava nel pronunciare un nome straniero? C’è chi usa il paravento del politicamente corretto per far sentire stupidi gli altri o per farsi strada?»
Le persone reagivano con forza alla prospettiva che i «liberal» fossero alla ricerca di nuovi modi per schernirle e umiliarle, così come all’idea che il politically correct fosse solo uno strumento di persecuzione. Una tecnica efficace, in tal senso, consisteva nel mostrare ai soggetti blog tipo People of Walmart, i cui utenti si prendevano gioco dei bianchi come loro. Bannon studiava da anni le comunità virtuali che ruotavano attorno a siti quali Reddit e 4chan, e sapeva quanto spesso accadesse che piccoli gruppi di giovani bianchi arrabbiati condividessero contenuti secondo cui le «élite liberal» deridevano gli «americani normali». Erano sempre esistite pubblicazioni che prendevano in giro i «bifolchi» delle aree rurali degli Stati Uniti centrali, quelle zone dimenticate da tutti e buone solo per essere sorvolate in aereo, ma i social media rappresentavano un mezzo straordinario per mettere sotto al naso degli «americani normali» lo snobismo delle élite costiere.
Cambridge Analytica iniziò a usare questi contenuti in relazione a un tacito convincimento sulla competizione etnica per attenzioni e risorse, ovvero che fosse un gioco a somma zero. Più gli altri prendevano, meno restava a disposizione; e gli avversari usavano il politicamente corretto per impedire ai nostri soggetti di dire ciò che pensavano. Quest’idea del politically correct come minaccia alla propria identità scatenava un «effetto boomerang»: anziché indebolire le loro convinzioni, le contronarrazioni finivano per rafforzarle. In altre parole, quando le persone del nostro gruppo di riferimento vedevano filmati contenenti critiche a comportamenti razzisti da parte di candidati o celebrità dello schieramento opposto, anziché interrogarsi sul proprio approccio finivano per confermare una volta di più le opinioni di partenza. Quindi, se potevamo spingerli a considerare le opinioni razziali attraverso la lente dell’identità prima che fossero esposti a una contronarrazione, quest’ultima sarebbe stata interpretata come un attacco all’identità. Il che si rivelò utilissimo per Bannon: aveva in mano uno strumento per vaccinare gruppi di riferimento da contronarrazioni che criticassero l’etnonazionalismo. Si creava un circolo vizioso in cui i soggetti rinsaldavano le proprie opinioni quando esse erano esposte a critiche. In parte, un simile atteggiamento può dipendere dal fatto che l’area principale del cervello attivata dall’elaborare convinzioni molto forti è la stessa coinvolta nelle riflessioni su chi siamo e sulla nostra identità. In seguito, Donald Trump sarebbe stato oggetto di aspre critiche da parte dei media per le sue dichiarazioni razziste e misogine; ebbene, è probabile che tali critiche abbiano generato un effetto simile: le polemiche su Trump rafforzarono la determinazione dei sostenitori, che le interiorizzarono come una minaccia alla propria identità.
Pungolando la parte più astiosa delle persone, CA portava avanti un ampio studio che dimostrava come la rabbia interferisca con la ricerca di informazioni. Ecco perché le persone possono «saltare a conclusioni sbagliate» in un accesso di rabbia, per poi ritrovarsi a rimpiangere le proprie decisioni. In un esperimento, mostravamo ai soggetti dei semplici grafici a barre, sostenendo che riguardassero argomenti non questionabili come i tempi di utilizzo dei cellulari o le vendite di un tipo di automobile; la maggior parte dei partecipanti era in grado di leggere quegli schemi in modo corretto. Tuttavia, all’insaputa degli intervistati, i dati che andavano a comporre tali grafici erano in realtà stati ricavati da controversi argomenti politici: disuguaglianza di reddito, cambiamento climatico, decessi per arma da fuoco... Appena presentavamo gli stessi schemi abbinandoli alle tematiche reali, i soggetti – indotti a sviluppare un atteggiamento rabbioso da quelle che percepivano come minacce alla propria identità – facevano molta più fatica a non equivocarne il senso.
Quando gli intervistati erano arrabbiati, il loro bisogno di spiegazioni esaustive e razionali era significativamente ridotto. In particolare, la rabbia faceva scattare una disposizione mentale che li rendeva più punitivi, specie nei confronti di soggetti esterni al gruppo. Constatammo così che, se un’ipotetica guerra commerciale con la Cina o il Messico avesse provocato la perdita di posti di lavoro e profitti negli Stati Uniti, quegli individui rabbiosi avrebbero tollerato il danno economico purché servisse a punire immigrati e liberal.
Bannon era convinto che, mostrando loro il «reale significato» del politicamente corretto, le persone avrebbero aperto gli occhi davanti alla verità. Cambridge Analytica iniziò a chiedere ai soggetti se fossero a disagio all’idea che la loro figlia sposasse un immigrato messicano. Nel caso di risposta negativa, seguiva un ulteriore stimolo: «Si è sentito in dovere di dirlo?» Ai soggetti era consentito cambiare idea, e in effetti capitava con molti. Con la raccolta dei dati di Facebook, CA iniziò a esplorare strategie per portare la cosa a un nuovo livello: presentavamo ad alcuni uomini bianchi le foto delle loro figlie di fianco a quelle di uomini di colore, per mostrare loro come «apparisse davvero» il politicamente corretto.
I panel di ricerca di Cambridge Analytica dimostrarono inoltre che esisteva una relazione tra i comportamenti che ci interessavano e una distorsione psicologica chiamato just-world hypothesis, o JWH: «l’ipotesi del mondo giusto». Si tratta di un bias che spinge le persone a fare affidamento sul presupposto di un universo equo, nel quale le cose brutte «accadono per una ragione» o vengono compensate da una sorta di «giustizia morale». Scoprimmo che i soggetti sensibili alla JWH erano, per esempio, più inclini a colpevolizzare la vittima in un ipotetico scenario di violenza sessuale. Se il mondo è giusto, allora agli innocenti non dovrebbero capitare cose brutte, quindi la vittima deve avere una qualche forma di responsabilità. Trovare modi per colpevolizzare i comportamenti delle vittime è una sorta di profilassi psicologica per alcune persone: le aiuta ad affrontare l’ansia indotta da minacce ambientali sulle quali non hanno alcun controllo, salvaguardando la confortevole certezza che il mondo sarà comunque giusto con loro.
La JWH era collegata a diversi atteggiamenti distorti, ma aveva una relazione speciale con il pregiudizio razziale. Le persone nelle quali quel bias era forte avevano più probabilità di accettare la visione secondo cui, per le disuguaglianze economiche tra le razze, andavano incolpate le minoranze. Insomma: i neri ne avevano avuto di tempo per realizzarsi, eppure non erano arrivati a nulla. Forse, suggerivamo, non era razzismo affermare che le minoranze non erano state in grado di creare il proprio successo; forse era solo realismo.
Inoltre i nostri studi misero in evidenza che alcuni fedeli, in particolare gli appartenenti alle Chiese evangeliche, ritenevano che il «mondo giusto» fosse opera di Dio, il quale premiava con il successo le persone che seguivano i suoi dettami. In altre parole, chi conduceva una vita retta non doveva scontrarsi con limitazioni preesistenti e aveva successo a prescindere dal colore della pelle. Cambridge Analytica iniziò a proporre a questi gruppi narrazioni con un’estesa valenza religiosa. «Dio è equo e giusto, esatto? Le persone ricche sono benedette da Dio per una ragione, esatto? Perché Egli è giusto. Se le minoranze si lamentano di ricevere meno, forse c’è una ragione: ovvero che Egli è giusto. O state osando mettere in discussione Dio?»
Ciò permise a CA di incentivare un approccio punitivo verso «gli altri». Se il mondo è giusto, in quanto governato da un Dio giusto, allora i rifugiati soffrono per una ragione. Con il tempo, i soggetti tendevano a opporsi sempre più a richieste di asilo assolutamente motivate in base alla legislazione statunitense, interrogandosi invece sul come e perché quelle persone dovessero essere punite. In alcuni casi, più motivata era la richiesta di asilo più aspre erano le critiche. Quei soggetti erano sempre meno preoccupati della sorte degli ipotetici rifugiati, e tendevano invece a salvaguardare la coerenza della loro visione del mondo. Se siete davvero convinti che il mondo sia giusto, le prove del contrario possono apparire profondamente minacciose.
Per i liberi pensatori di Bannon, la realtà razziale non era più un’idea loro: era l’approccio di Dio. Una visione con una lunga storia alle spalle, in America. Fin dall’arrivo dei primi schiavi nel continente, i predicatori avevano attinto alla Lettera agli Efesiani di san Paolo per giustificare la schiavitù, citando il versetto: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni». Quella, secondo loro, era la prova che Dio non fosse contrario a tale pratica. Nella prima metà dell’Ottocento, il vescovo della Chiesa episcopale Stephen Elliott aveva bollato come empi quanti desideravano la fine della schiavitù. Secondo lui, simili persone avrebbero dovuto «chiedersi se, con la loro opposizione a tale istituzione», non stessero intralciando «un’opera della Provvidenza», dal momento che milioni di «semibarbari» avevano «appreso la via del Paradiso [...] e scoperto il loro Salvatore proprio tramite la schiavitù». Dopo la guerra civile americana, alcuni Stati del Sud avevano promulgato i cosiddetti Black Codes, che limitavano le libertà appena ottenute dai neri. In città come Memphis e New Orleans, politici bianchi e funzionari dell’amministrazione locale avevano sfruttato un allarmismo diffuso per scatenare lotte sanguinose che mietevano decine di vittime nella comunità nera. Le celebri Jim Crow laws, promulgate a cavallo tra Ottocento e Novecento, avevano assicurato per decenni che le diverse etnie restassero separate negli spazi pubblici, e le tasse elettorali avevano reso impossibile per molti neri del Sud andare a votare. Il Ku Klux Klan, quasi scomparso dopo la guerra civile, era rinato agli inizi del XX secolo, talora presentandosi come organizzazione nazionale patriottica.
Il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965 avevano portato a un enorme salto in avanti nei diritti garantiti agli afroamericani. Queste due normative radicali promettevano di rimediare a tanti dei torti perpetrati ai danni della comunità nera nell’arco di decenni, garantendone il diritto al voto, abolendo la segregazione, sancendo pari opportunità d’impiego e il divieto di discriminazione nei programmi federali. Avevano inoltre inaugurato un nuovo capitolo nella prassi di fomentare in modo spudorato le paure dei bianchi.
Sul finire degli anni Sessanta, la «strategia sudista» di Richard Nixon aveva alimentato paure e tensioni razziali allo scopo di spostare il voto dei bianchi verso i repubblicani. Nixon si era presentato alle presidenziali del 1968 giocandosi l’intera campagna su due temi forti, «diritti degli Stati» e «legge e ordine», entrambi palesi messaggi in codice per l’elettorato razzista. Durante la sua campagna del 1980, Ronald Reagan aveva parlato più volte di una fantomatica «regina del sussidio»: una donna di colore che, a quanto pareva, era riuscita a comprarsi una Cadillac con i sussidi governativi. Nel 1988, George W. Bush senior aveva fatto leva per la sua corsa alla presidenza sul celebre spot su Willie Horton, terrorizzando gli elettori bianchi con visioni di criminali neri dalla capigliatura afro in preda alla furia omicida.
Steve Bannon mirava a rafforzare le peggiori distorsioni della psiche americana, convincendo chi le nutriva di essere una vittima, costretta troppo a lungo a reprimere i suoi veri sentimenti. Nel profondo dell’animo degli statunitensi si andava accumulando tensione esplosiva; lui l’aveva intuito da tempo, e adesso aveva i dati per dimostrarlo. La storia, ne era certo, gli avrebbe dato ragione. E gli strumenti giusti avrebbero contribuito a far avverare più in fretta quella profezia. I giovani, cui uno stato troppo invasivo e un sistema finanziario corrotto avevano strappato ogni opportunità, venivano preparati alla ribellione. Solo che ancora non lo sapevano. Bannon voleva mostrare loro il ruolo che avrebbero giocato nella rivoluzione che annunciava: si sarebbero trovati a guidare una «svolta» generazionale d’importanza storica; come artisti, dopo il «grande disfacimento» avrebbero ridisegnato una società nuova, con uno scopo e un significato. Steve ripeteva spesso che molti grandi della storia erano stati artisti: Franco e Hitler erano pittori; Stalin, Mao e bin Laden erano poeti... Per lui era evidente che ogni movimento rivoluzionario adottasse un’estetica nuova per la società. Perché i dittatori imprigionavano per primi poeti e artisti? Perché spesso erano artisti essi stessi. E, per Bannon, il suo movimento era pronto per la grande performance. Era arrivato il momento che si compisse la profezia, che si avverasse quanto descritto in libri a lui cari come The Fourth Turning, i cui autori prefiguravano una crisi imminente seguita dalla rivolta di una generazione dimenticata, o Il campo dei Santi, con la civiltà occidentale schiacciata dal peso di una massiccia invasione di migranti.
Ma, per scatenare il caos, a Steve serviva un esercito. Era convinto di guidare una rivolta, ed era disposto a utilizzare ogni mezzo possibile per ispirare lealtà e impegno totali. Ai suoi occhi, sfruttare dei bias era solo un modo per «deprogrammare» i soggetti dal «condizionamento» subito crescendo in una società insipida e priva di significato. Voleva che quelle persone «scoprissero se stesse» e «diventassero chi erano davvero». Ma gli strumenti creati da Cambridge Analytica nel 2014 non erano pensati per favorire la realizzazione della gente: furono invece impiegati per nutrirne i demoni interiori, allo scopo di creare quello che Bannon chiamava il suo «movimento». Prendendo di mira soggetti con specifiche vulnerabilità psicologiche, CA li induceva con l’inganno ad aderire a quello che era a tutti gli effetti un culto guidato da falsi profeti. E, sfruttando la rete per renderli insensibili a narrazioni inopportune, si assicurava che fatti e ragione non potessero influenzare quei nuovi adepti.
Nell’ultima discussione che ebbi con lui, Bannon mi disse che per cambiare radicalmente la società «bisogna rompere tutto». Ed era proprio ciò che voleva fare: annientare «l’establishment». Steve incolpava il «grande governo» e il «grande capitalismo» di aver annullato il margine di casualità essenziale nell’esperienza umana. Voleva liberare le persone da un dispotico Stato amministrativo che sceglieva per loro, privandone le vite di ogni scopo. Voleva scatenare il caos per mettere fine alla tirannia della certezza. Steve Bannon non voleva, e non tollerava, che fosse lo Stato a segnare il destino dell’America.