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RIVELAZIONI

Non vi dirò dove vivo di preciso. È un posto da qualche parte tra Shoreditch e Dalston, nell’East End di Londra. Sono il tipo con i capelli rosa che vive all’ultimo piano, ma non è che mi si noti troppo. È un quartiere operaio sin nelle radici e molti dei suoi edifici erano un tempo fabbriche della Londra industriale. Scritte sbiadite sui mattoni anneriti pubblicizzano prodotti ormai scomparsi da un secolo. Lì le comunità indiana, pakistana e caraibica – persone che si sono trasferite con l’ultima ondata di immigrazione dal Commonwealth – convivono pacificamente con un’ondata di artisti, gay, studenti e strampalati grunge che il costo della vita allontana dal centro. Ci sono cinema art déco, giardini pensili e l’incessante cacofonia di discotecari ubriachi che bevono lattine di Red Stripe fino alle quattro del mattino di ogni weekend. Si vedono spesso donne musulmane con il velo che fanno la spesa negli stessi negozietti con la licenza per gli alcolici frequentati da clubber tatuati e con i capelli asimmetrici. Resta comunque un posto in cui posso passeggiare con relativa tranquillità.

Il mio palazzo è vecchio, costruito in un’epoca in cui Internet non era neanche immaginabile e l’impianto idraulico una novità. La struttura di legno è solida, ma di tanto in tanto scricchiola quando fai un passo. Ci sono serrature extra alla porta, installate perché alcuni tizi non la smettevano di infastidirmi quando ho deciso di vuotare il sacco. Sono andati avanti settimane, e i miei vicini avevano cominciato a lagnarsi, ma poi hanno capito chi fossi. Adesso mi avvertono se notano qualcuno di strano aggirarsi nei paraggi.

Mancano molte cose dove vivo. In un angolo del soggiorno c’è un supporto per il televisore, senza televisore. A sua memoria restano solo dei cavi penzolanti dalla parete. Era una smart tv che si connetteva al mio Netflix e agli account social, dotata di microfono e videocamera. Nella mia stanza c’è un comodino con un cassetto rivestito di uno speciale tessuto metallico che impedisce ai dispositivi all’interno di mandare o ricevere segnali elettronici. Prima di andare a dormire, lascio sempre lì dentro i miei dispositivi. Dall’altro lato della stanza, nello sgabuzzino, ci sono i vecchi dispositivi elettronici della mia vita precedente. Un’Alexa Amazon se ne sta lì scollegata, sepolta in mezzo a un mucchio di altra robaccia elettronica – tablet, telefoni, uno smartwatch – di cui non riesco a sbarazzarmi per mancanza di tempo. In un’altra scatola ci sono i resti di hard drive, smagnetizzati, sfasciati o sbiancati dall’acido dopo che le prove contenute in essi sono state consegnate alle autorità. I dati sono perduti per sempre e tanto varrebbe buttarli via, ma provo per essi un attaccamento quasi sentimentale.

In soggiorno ho un’antica scrivania di legno proveniente da una vecchia fabbrica e, su di essa, c’è un laptop inviolabile che non è mai stato collegato a Internet. L’ho usato per elaborare le prove consegnate all’House Intelligence Committee. Nel cassetto c’è il laptop vuoto che uso quando viaggio, in caso di perquisizione alla frontiera. Il mio personal computer è in soggiorno, criptato e bloccato con una chiave fisica. Le videocamere sono coperte da nastro adesivo, anche se si può fare ben poco con il microfono interno. Sul pavimento, c’è un server VPN che si connette esternamente ad altri server.

C’è una telecamera di sicurezza all’ingresso del palazzo che trasmette i dati a un’agenzia di vigilanza. Non so se siano criptati, perciò non so chi stia guardando. Quando esco di casa, ho con me un pulsante d’emergenza portatile, ma non ho ancora avuto bisogno di usarlo. L’NCA ha inserito il mio numero in un elenco di sorvegliati speciali. Se chiamo, avrò una risposta prioritaria, anche se non dico niente all’operatore. Nel mio zaino c’è sempre un router VPN portatile nel caso debba connettermi a un wi-fi non sicuro, oltre a diverse custodie Faraday che ho preso in rosa perché sono carine. Indosso spesso un cappello, ma la gente mi riconosce lo stesso, anche a un anno di distanza. Quasi ogni giorno, qualcuno mi chiede: «Ma tu sei... il whistleblower

Adesso la mia vita sembra quella di un paranoico ma, dopo essere stato aggredito per strada, aver subito minacce da società di vigilanza corrotte, aver ricevuto una visita notturna nella mia camera da letto mentre dormivo e sofferto due tentativi di violazione della mia mail negli ultimi dodici mesi, è più che logico essere prudenti. Quando il mio appartamento è stato controllato per eventuali rischi alla sicurezza, la tv è stata ritenuta tale, dal momento che poteva essere usata per guardarmi o ascoltarmi a mia insaputa. Mentre la staccavamo dal muro, ho sorriso all’ironia di una tv che ti guarda.

Nei giorni precedenti la pubblicazione della vicenda, quando Facebook cominciò a spedirmi minacce legali e fece arrivare il mio caso fino al suo vicedirettore generale e al vicepresidente, per i miei avvocati fu chiaro che l’azienda vedeva la mia attività di whistleblower come un’imponente minaccia ai suoi affari. Avendo esperienza di altri casi di pirateria informatica, i miei avvocati sapevano cos’erano disposte a fare le società con le spalle al muro. Ma con Facebook era diverso. Non avevano bisogno di hackerarmi; potevano semplicemente rintracciarmi ovunque per via delle app sul mio telefono: dov’ero, chi erano i miei contatti, chi incontravo.

Mi sbarazzai del telefono e i miei avvocati comprarono nuovi telefoni puliti che non avevano mai toccato Facebook, Instagram o WhatsApp. I termini e le condizioni sulle app mobili di Facebook chiedevano accesso a microfono e fotocamera. Anche se la società nega in tutti i modi di estrapolare dati audio per pubblicità mirate, c’è comunque un’autorizzazione tecnica nei nostri telefoni che consente l’accesso alle funzionalità audio. E io non ero un utente medio: all’epoca, ero la più grande minaccia alla reputazione dell’azienda. Almeno in teoria, l’audio poteva essere attivato e i miei avvocati temevano che la società potesse ascoltare le mie conversazioni con loro o con la polizia. Facebook aveva già accesso alle mie foto e alla fotocamera, il che consentiva loro non solo di ascoltarmi ma anche di vedere dove fossi. Anche se ero solo in bagno a fare una doccia, non ero mai davvero solo. Se il mio telefono era lì, c’era anche Facebook. Impossibile fuggire.

Ma sbarazzarmi del telefono non sarebbe bastato. Mia madre, mio padre e le mie sorelle furono costrette a rimuovere Facebook, Instagram e WhatsApp dai loro telefoni per la stessa ragione. Ma Facebook sapeva anche chi fossero i miei amici, sapevano dove ci piaceva andare, cosa scrivevamo nei messaggi e dove vivevamo tutti quanti. Anche uscire con i miei amici divenne un rischio, dal momento che Facebook aveva accesso ai loro telefoni. Se un amico scattava una foto, Facebook poteva accedervi e i suoi algoritmi di riconoscimento facciale potevano, almeno in teoria, individuare la mia faccia nelle foto presenti sui telefoni di altre persone, anche se si trattava di estranei.

Mentre mi sbarazzavo dei dispositivi elettronici, i miei amici scherzavano dicendo che era come se stessi esorcizzando i demoni dentro ai macchinari, e uno di loro addirittura portò della salvia da bruciare per sicurezza. Un gesto divertente, certo, ma, per certi versi, fu davvero un esorcismo. Adesso viviamo in un mondo in cui ci sono spiriti invisibili fatti di codici e dati che hanno il potere di sorvegliarci, di ascoltarci e di pensare a noi. E io volevo che questi spettri sparissero dalla mia vita.

Il 16 marzo 2018, un giorno prima che il Guardian e il New York Times pubblicassero la mia storia, Facebook annunciò che mi bandiva non solo da Facebook ma anche da Instagram. Facebook si era rifiutata di bandire suprematisti bianchi, neonazisti e altri eserciti dell’odio, ma sceglieva di bandire me. La società pretese che consegnassi telefono e personal computer e disse che l’unico modo per essere reintegrato era dare loro le stesse informazioni che stavo fornendo alle autorità. Facebook si comportava come se fosse uno Stato sovrano invece che un’azienda. Sembrava non capisse che non ero io l’oggetto dell indagini, bensì loro. I miei avvocati mi consigliarono di rifiutare le loro richieste, allo scopo di non interferire con una legittima indagine governativa e di polizia. In seguito, durante la mia collaborazione con le autorità, la messa al bando rese molto più difficile consegnare prove contenute nel mio account Facebook e, di conseguenza, le indagini su cosa accadde prima del referendum per la Brexit ne soffrirono.

Si dice che apprezziamo qualcosa solo quando non c’è più, e fu solo quando fui cancellato da Facebook che mi resi conto davvero della frequenza con cui la mia vita entrava in contatto con la loro piattaforma. Diverse app del mio telefono smisero di funzionare – un’app di incontri, una di taxi, una di messaggistica – perché usavano l’autenticazione Facebook. Iscrizioni e account su altri siti decaddero per lo stesso motivo. Spesso la gente parla di un dualismo: il mondo virtuale e le nostre «vite reali». Ma dopo che mi è stata sottratta gran parte dell’identità digitale, posso assicurarvi che non sono separati. Quando venite cancellati dai social media, perdete il contatto con le persone. Smisi di essere invitato alle feste, non di proposito, ma perché quegli inviti venivano sempre fatti su Facebook o erano postati su Instagram. Amici che non avevano il mio nuovo numero di telefono trovarono quasi impossibile mettersi in contatto con me, se non cercando di mandare una mail ai miei avvocati. Quando entrai nel vivo della mia attività di whistleblower, riprendevo i contatti con persone che non vedevo da mesi solo grazie a incontri fortuiti in bar o locali notturni.

E adesso, quando qualcuno sulle app di incontri chiede di vedere il mio profilo Instagram, comincia un’imbarazzante spiegazione sul perché sono stato bandito. Oltre alle rassicurazioni che non sono un adescatore. È come se mi sia stata confiscata l’identità e la gente non creda più che io sia chi dico di essere. A volte, vengo riconosciuto come quel tipo e le persone temono che qualcuno possa iniziare a sorvegliarle se decidono di frequentarmi. Dico sempre loro che non devono preoccuparsi, perché i vari sociale media le tengono già monitorate 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Questa interdizione è stata solo una mossa da stronzi da parte di Facebook e mi è sembrato come essere trollato da bulli impauriti. Mi ha solo creato scocciature a livello personale e non ha avuto sulla mia vita le conseguenze delle rappresaglie inflitte ad altri whistleblower. (Per non parlare del danno alla società moderna che la piattaforma ha già favorito e incoraggiato.) Ma mi ha dimostrato quanto la mia identità online fosse diventata parte integrante di così tanti aspetti della mia vita, e che alla mia identità non è stato concesso un regolare processo né un giudizio imparziale. Quattro giorni dopo la mia interdizione, durante un dibattito di emergenza in Parlamento, il segretario di Stato britannico per la cultura disse che la capacità di Facebook di bandire unilateralmente i whistleblower era «scioccante»: c’era da chiedersi se fosse il caso che una società privata potesse godere di quel tipo di potere incontrollato.

Centinaia di milioni di americani sono entrati nell’invisibile architettura di Facebook pensando che fosse un posto innocuo in cui condividere foto e seguire le celebrità preferite. Sono stati attratti dalla comodità di entrare in contatto con gli amici e dalla possibilità di scacciare la noia grazie a giochi e app. Facebook aveva detto agli utenti che lo scopo era unire le persone. Ma la «comunità» di Facebook stava costruendo quartieri separati solo per persone che si somigliano. Mentre la piattaforma li osservava, leggeva i loro post e studiava il modo in cui interagivano con gli amici, i suoi algoritmi prendevano decisioni su come classificare gli utenti in quartieri digitali di persone come loro. Ciò che Facebook definiva i loro «Lookalike» (Pubblici Simili). La ragione di ciò, ovviamente, era consentire agli inserzionisti di rivolgersi a questi Lookalike omogenei con narrazioni distinte e apposite per persone come loro. La maggior parte degli utenti non conosce la propria classificazione, poiché gli altri quartieri di persone che non sono come loro restano invisibili. La segmentazione di Lookalike, prevedibilmente, ha separato sempre di più le persone. Ha creato l’atmosfera in cui adesso viviamo tutti.

Come luogo di nascita dei social media, l’America è arrivata per gradi ai concetti di newsfeed, follower, like e condivisioni. E, come con gli effetti progressivi del cambiamento climatico sulle nostre coste, sulle foreste e la fauna selvatica, può essere difficile constatare pienamente la scala del cambiamento di qualcosa che ci circonda. Ma ci sono casi in cui possiamo vedere nettamente l’impatto dei social media, casi in cui investono un Paese con tutta la loro forza. Verso la metà degli anni Dieci del 2000, Facebook è sbarcata in Myanmar ed è cresciuto rapidamente, raggiungendo presto 20 milioni di utenti in un Paese di 53 milioni di abitanti. L’app di Facebook era preinstallata su molti smartphone venduti nel Paese e le indagini di mercato hanno individuato nel sito una delle principali fonti di notizie per i cittadini birmani.

Nell’agosto 2017, su Facebook si registrò un’impennata di discorsi d’odio rivolti contro i Rohingya, una minoranza musulmana, e gli appelli a un Myanmar «senza musulmani» e alla pulizia etnica della regione divennero virali. Gran parte era propaganda creata e diffusa ad hoc dai militari. Dopo che alcuni militanti rohingya lanciarono un attacco coordinato alla polizia, l’esercito birmano sfruttò il supporto che riceveva online e procedette a uccidere, stuprare e mutilare sistematicamente decine di migliaia di Rohingya. Altri gruppi parteciparono al massacro e inviti all’azione per assassinare i Rohingya continuarono ad apparire su Facebook. Villaggi rohingya furono dati alle fiamme e più di settecentomila persone furono costrette a fuggire nel vicino Bangladesh. Facebook ricevette ripetuti avvertimenti da parte di organizzazioni locali e internazionali circa la situazione in Myanmar. La società bandì dalla piattaforma un gruppo di resistenza rohingya ma vi lasciò esercito e gruppi governativi, consentendo loro di continuare a diffondere propaganda. Questo nonostante ciò che le Nazioni Unite definirono «un esempio da manuale di pulizia etnica».

Nel marzo 2018, l’ONU concluse che Facebook aveva svolto un «ruolo determinante» nella pulizia etnica del popolo rohingya. La violenza è stata consentita dall’architettura priva di attriti di Facebook, in grado di diffondere discorsi inneggianti all’odio in una popolazione a una velocità senza precedenti. La fredda risposta di Facebook è stata decisamente orwelliana. «Non c’è posto su Facebook per l’odio o altri contenuti che promuovono la violenza, e lavoriamo sodo per tenerli lontani dalla nostra piattaforma» diceva la dichiarazione di Facebook a proposito del suo ruolo di facilitatore nella pulizia etnica di quarantamila esseri umani. A quanto pare, se volete mantenere un regime oppressivo, Facebook sarebbe un’eccellente società a cui rivolgersi.

Quella che avrebbe dovuto essere la genialità di Internet era la possibilità di superare ogni tipo di barriera e parlare con chiunque, ovunque. Ma la verità è che c’è stata un’amplificazione delle stesse tendenze che si impongono negli spazi fisici di un Paese. La gente passa ore sui social, seguendo persone come loro, leggendo articoli di notizie «curate» per loro da algoritmi la cui unica etica sono le percentuali di click, articoli che non fanno altro che rinforzare un punto di vista unidimensionale e portano gli utenti all’estremo perché continuino a cliccare. Quella a cui stiamo assistendo è una segregazione cognitiva, dove le persone esistono nei propri ghetti informativi. Stiamo assistendo alla segregazione delle nostre realtà. Se Facebook è una «comunità», è una comunità chiusa e recintata.

L’esperienza condivisa è la base fondamentale della solidarietà tra cittadini in una moderna democrazia pluralista, e la storia del movimento per i diritti civili è, in parte, la storia della possibilità di condividere lo spazio: essere nella stessa parte di un cinema o usare la stessa fontanella o lo stesso bagno. La segregazione in America si è sempre manifestata in modi insidiosamente ordinari: tramite posti sugli autobus, fontanelle, scuole, biglietti del cinema e panchine, tutti separati. E forse adesso sui social media. Per Rosa Parks, l’ordine di cedere il suo posto sull’autobus è stato solo uno degli innumerevoli modi in cui l’America bianca assicurava sistematicamente che la sua pelle scura fosse separata e invisibile, che lei restasse l’altro, non facesse parte della loro America. E, sebbene non consentiamo più che gli edifici abbiano ingressi separati in base alla razza di un ospite, la segregazione resta nel cuore delle architetture di Internet.

Dall’isolamento sociale deriva la materia prima sia del complottismo che del populismo: la diffidenza. Cambridge Analytica è stata l’inevitabile prodotto di questo spazio virtuale balcanizzato. La società ha potuto fare sì che i suoi utenti sviluppassero una dipendenza dalla rabbia solo perché non c’era niente a impedirglielo. E così, incontrastata, li ha sprofondati in un maelstrom di disinformazione, con prevedibili risultati disastrosi. Ma limitarsi a fermare CA non basta. La nostra nuova crisi della percezione non farà che peggiorare se non affrontiamo le architetture nascoste che ci hanno portati qui. E le conseguenze dell’inazione saranno gravi. La distruzione dell’esperienza comune è l’essenziale primo passo del rendere altro, del negare un altro punto di vista su ciò che significa essere uno di noi.

Steve Bannon ha capito che i mondi «virtuali» di Internet sono molto più reali di quanto creda la gente. Le persone controllano il telefono una media di cinquantadue volte al giorno. Molti ormai dormono con il telefono in carica accanto al letto, dormono con il telefono più di quanto non facciano con altre persone. La prima e l’ultima cosa che vedono nelle ore di veglia è uno schermo. E ciò che le persone vedono su quello schermo può motivarle a commettere atti di odio e, in alcuni casi, atti di estrema violenza. Niente è più «solo online» e l’informazione online – o la disinformazione – che colpisce i suoi soggetti di riferimento può portare a terribili tragedie. Per tutta risposta, Facebook, come l’NRA (la National Rifle Association), elude la propria responsabilità morale avvalendosi dello stesso ragionamento di «Le pistole non uccidono la gente». Alzano le mani e sostengono di non poter controllare in che modo gli utenti abusano dei loro prodotti, anche quando la conseguenza è uno sterminio di massa. Se la pulizia etnica non è per loro motivo sufficiente per agire, allora cosa lo è? Quando Facebook si imbarca nell’ennesimo tour di scuse, professando a gran voce «ci impegneremo di più», la sua vuota retorica non è altro che i pensieri e le parole di un’azienda tecnologica felice di trarre vantaggio da uno status quo di inazione. Per Facebook, la vita delle vittime è diventata un’esternalità della loro continua missione di muoversi in fretta e rompere le cose.

Quando sono uscito allo scoperto come whistleblower, la macchina della rabbia digitale dell’alt-right ha puntato il suo mirino su di me. A Londra, brexiter inferociti mi spingevano nel traffico. Venivo seguito da stalker di destra e le foto di me nei locali insieme ai miei amici venivano pubblicate sui siti web dell’alt-right, corredate da informazioni su dove trovarmi. Quando è arrivato il momento di testimoniare al Parlamento europeo, teorie complottiste sui critici di Facebook hanno cominciato a filtrare tramite i forum della destra alternativa. Durante la mia deposizione, c’erano cori di «Soros, Soros, Soros» alle mie spalle. Mentre stavo uscendo dal Parlamento europeo, un uomo mi ha raggiunto per strada urlando: «Denaro ebreo!» All’epoca, queste narrazioni sembravano sbucare dal nulla. In seguito, è emerso che Facebook, in preda al panico per l’eventuale danno di immagine, aveva assunto la società di comunicazione Definers Public Affairs, che ha poi fatto trapelare false narrazioni zeppe di cliché antisemiti, secondo le quali gli oppositori facevano parte di un complotto finanziato da George Soros. Voci in tal senso sono state disseminate in Internet e, come ho constatato personalmente, il loro pubblico di riferimento ha interpretato la cosa come un’indicazione a prendere in mano la situazione.

Nel febbraio 2013, un generale russo di nome Valerij Gerasimov scrisse un articolo che sfidava le prevalenti nozioni di guerra. Gerasimov, che è capo di Stato maggiore delle forze armate russe, scrisse i suoi pensieri sul Military-Industrial Kurier, con il titolo «Il Valore della Scienza nella Previsione», un insieme di idee che qualcuno in seguito ribattezzò Dottrina Gerasimov. Gerasimov scriveva che «’le regole della guerra’ sono cambiate» e che «il ruolo dei mezzi non militari per conseguire obiettivi politici e strategici è cresciuto». Affrontava l’uso dell’intelligenza artificiale e delle informazioni nella guerra: «Lo spazio informativo» scriveva, «apre vaste possibilità asimmetriche per ridurre il potenziale di combattimento del nemico». In pratica, Gerasimov prendeva le lezioni delle rivolte della primavera araba, che erano state alimentate dalla condivisione di informazioni sui social media, ed esortava gli strateghi militari a adattarle. «Sarebbe facilissimo dire che i fatti della ’Primavera araba’ non sono guerra e che non ci sono per noi – militari – lezioni da imparare. Ma forse è vero il contrario, ovvero che questi fatti sono tipici della guerra del XXI secolo.»

All’articolo di Gerasimov seguì un’altra pubblicazione di strategia militare russa, scritta dal colonnello S.G. Chekinov e dal tenente generale S.A. Bogdanov. Questa pubblicazione portava l’idea di Gerasimov ancora oltre: gli autori scrivevano che sarebbe possibile attaccare un avversario «ottenendo informazioni da usare come propaganda dai server dei social network Facebook e Twitter» e che con «queste potenti tecnologie informatiche a disposizione, l’aggressore si impegnerà a coinvolgere tutte le istituzioni pubbliche del Paese che intende attaccare, perlopiù i mass media e le organizzazioni religiose, le istituzioni culturali, le organizzazioni non governative, i movimenti pubblici finanziati dall’estero e gli studiosi impegnati in ricerche con sovvenzioni straniere». All’epoca, era una nuova idea radicale. Letta oggi, è il progetto esatto dell’ingerenza russa nelle elezioni americane del 2016.

La storia della guerra è la storia di nuove invenzioni e strategie, molte delle quali sono nate dalla necessità. In base a molti parametri, l’esercito russo è significativamente più debole di quello degli Stati Uniti. Il budget militare USA, con settecentosedici miliardi di dollari, supera oltre dieci volte quello della Russia. Il personale militare attivo degli Stati Uniti ammonta a un milione duecentottantamila unità, rispetto al milione della Russia; ha un totale di più di tredicimila velivoli, contro i quattromila della Russia, e venti portaerei, mentre la Russia ne ha una. In base a tutti gli esistenti parametri convenzionali, Mosca non sarebbe mai più stata competitiva rispetto agli Stati Uniti in termini di guerra tra «grandi potenze», e Vladimir Putin lo sapeva. Perciò i russi hanno dovuto escogitare un altro modo per riconquistare il vantaggio, un modo che non avesse niente a che fare con la guerra fisica.

È difficile per gli strateghi militari concepire nuove forme di battaglia quando sono concentrati su quelle a disposizione. Prima dell’avvento del volo, i comandanti militari si preoccupavano solo di come dare battaglia sulla terra o per mare. Solo nel 1915, quando il pilota francese Roland Garros si mise alla guida di un aereo modificato e dotato di mitragliatrice, gli strateghi militari capirono che la guerra si poteva fare anche dal cielo. Poi, una volta che i velivoli cominciarono a essere impiegati negli attacchi, anche le unità di terra si trasformarono, impiegando armi contraeree. E così l’evoluzione della guerra è continuata.

La guerra dell’informazione si è evoluta allo stesso modo. All’inizio, nessuno avrebbe potuto immaginare che Facebook e Twitter potessero essere strumenti di battaglia; la guerra si faceva a terra, in aria, per mare e, teoricamente, nello spazio. Ma il quinto dominio – il mondo virtuale – si è rivelato un fruttuoso campo di battaglia per coloro che hanno avuto l’immaginazione e la lungimiranza di pensare all’impiego dei social media per la guerra dell’informazione. È possibile tracciare una linea retta che parte dalle basi gettate da Gerasimov, Chekinov e Bogdanov, attraversa le azioni di Cambridge Analytica e arriva alle vittorie della Brexit e della campagna Trump. In soli cinque anni, o giù di lì, l’esercito e lo Stato russi sono riusciti a sviluppare la prima devastante nuova arma del XXI secolo.

Sapevano che avrebbe funzionato, perché aziende come Facebook non avrebbero mai preso la misura «non americana» di limitare i propri utenti. Così la Russia non è stata costretta a diffondere propaganda. È riuscita a fare sì che fossero gli stessi americani a farlo, cliccando, mettendo like e condividendo. Gli americani su Facebook hanno fatto il lavoro per conto dei russi, ripulendone la propaganda attraverso il primo emendamento.

Ma questa nuova era di disinformazione su vasta scala non è confinata all’ambito politico. Imprese come Starbucks, Nike e altri marchi della moda si sono ritrovate bersaglio di operazioni di disinformazione promosse dalla Russia. Quando i brand rilasciano dichiarazioni che intervengono nelle esistenti tensioni sociali o razziali, sono stati individuati diversi casi in cui siti di fake news, botnet e operazioni di social media, tutti sponsorizzati dalla Russia, si sono attivati per trasformare in armi le narrazioni e provocare conflitto sociale. Nell’agosto del 2016 il giocatore di football Colin Kaepernick si rifiutò di restare in piedi durante l’inno nazionale americano per protestare contro il razzismo sistemico e la brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani e altre minoranze negli Stati Uniti. Il marchio Nike, sponsor di Kaepernick, sostenne l’atleta e la sua reazione scatenò una polemica. Ma, all’insaputa di tutti all’epoca, account di social media legati alla Russia cominciarono a diffondere e amplificare hashtag per promuovere un boicottaggio Nike a poche ore dallo scandalo. Una parte di questo contenuto amplificato dalla Russia riuscì a inserirsi nei media convenzionali, cosa che contribuì a legittimare la narrazione del boicottaggio Nike come una protesta assolutamente locale. Le società di sicurezza informatica individuarono inoltre falsi coupon Nike provenienti da gruppi dell’alt-right e indirizzati a utenti di social media afroamericani con offerte come «settantacinque per cento di sconto per le persone di colore». I coupon erano concepiti per creare situazioni in cui ignari clienti afroamericani avrebbero tentato di usare i buoni nei negozi Nike, dove sarebbero stati rifiutati. Nell’epoca dei video virali, questo scenario avrebbe potuto, a sua volta, creare un «vero» filmato che mostrava il cliché razzista di un «inferocito uomo nero» che pretendeva roba gratis in un negozio. Allora perché queste operazioni di disinformazione prendono di mira un’azienda di moda e tentano di trasformarne il marchio in un’arma? Perché l’obiettivo di questa propaganda ostile non è solo l’ingerenza nella nostra politica e neanche il danno alle nostre aziende. L’obiettivo è fare a pezzi il nostro tessuto sociale. Vogliono che ci odiamo l’un l’altro. E quella divisione può fare molti più danni quando le narrazioni contaminano le cose a cui teniamo nella vita quotidiana: i vestiti che indossiamo, gli sport che guardiamo, la musica che ascoltiamo o persino il caffè che beviamo.

Siamo tutti esposti al rischio di manipolazione. Formuliamo giudizi in base alle informazioni disponibili, ma siamo tutti suscettibili di manipolazione quando il nostro accesso a quelle informazioni diventa mediato. Con il tempo, le nostre parzialità possono amplificarsi senza che neanche ce ne accorgiamo. Molti di noi dimenticano che ciò che vediamo nel nostro newsfeed e nei nostri motori di ricerca è già moderato da algoritmi il cui unico criterio è selezionare contenuti che ci coinvolgano, non che ci informino. Con molte attendibili testate giornalistiche ormai a pagamento, sembra proprio che l’informazione sia in procinto di diventare un bene di lusso in un mercato in cui le fake news sono sempre gratis.

Nell’ultima rivoluzione economica, il capitalismo industriale ha cercato di sfruttare il mondo naturale intorno a noi. È solo con l’avvento dei cambiamenti climatici che adesso stiamo facendo i conti con le sue conseguenze ecologiche. Ma in questa nuova iterazione del capitalismo, le materie prime non sono più petrolio o minerali bensì attenzione e comportamento mercificati. In questa nuova economia del capitalismo della sorveglianza, siamo noi le materie prime. Questo significa che c’è un nuovo incentivo economico a creare sostanziali asimmetrie informative tra piattaforme e utenti. Per poter convertire il comportamento dell’utente in profitto, le piattaforme hanno bisogno di conoscere tutto del comportamento dei propri utenti, mentre gli utenti non sanno niente del comportamento della piattaforma. Come ha constatato Cambridge Analytica, questo diventa l’ambiente perfetto per incubare la propaganda.

Con l’avvento di hub domotici come Amazon Alexa e Google Home, stiamo assistendo al primo passo verso l’integrazione definitiva del mondo virtuale con la realtà fisica. Il 5G e il wi-fi di prossima generazione vengono già implementati, gettando le basi perché l’Internet delle cose diventi la nuova norma, in cui gli elettrodomestici grandi e piccoli saranno connessi a reti Internet ad alta velocità e universali. Questi comuni dispositivi, che siano un frigorifero, uno spazzolino o uno specchio, vengono pensati per impiegare sensori che monitorano il comportamento degli utenti all’interno delle loro case, trasmettendo i dati ai fornitori di servizi. Amazon, Google e Facebook hanno già richiesto brevetti per creare «case in rete», che integrino i sensori IoT (Internet of Things) domestici con mercati virtuali, reti di inserzioni e profili social. In questo futuro, Amazon saprà quando prendete un’aspirina e Facebook osserverà i vostri figli giocare in soggiorno.

Completamente integrato con le reti di informazione intelligente, questo nuovo ambiente sarà in grado di osservarci, giudicarci e cercare di influenzarci mediando il nostro accesso alle informazioni, al punto che «esso» potrà vedere noi ma noi non potremo vedere «esso». Per la prima volta nella storia umana, ci immergeremo in spazi motivati influenzati da questi spiriti di silicio di nostra creazione. Il nostro ambiente non sarà più innocuo o passivo; avrà intenzioni, opinioni e programmi. Le nostre case non saranno più un rifugio dal mondo esterno, poiché una presenza ambientale permarrà attraverso ogni stanza collegata. Stiamo creando un futuro in cui le nostre case penseranno a noi. In cui le nostre auto e i nostri uffici ci giudicheranno. In cui le porte diventeranno portieri. In cui abbiamo creato i demoni e gli angeli del futuro.

Questo è il sogno che la Silicon Valley ha per tutti noi: circondarci di continuo e ovunque. Nella sua ricerca del dominio informativo, Cambridge Analytica non si sarebbe mai accontentata di insiemi di dati dei social e aveva già cominciato a costruire relazioni con i provider di tv satellitari e digitali. Dopo aver attinto alle smart tv, Cambridge Analytica intendeva trovare un modo per inserire sensori e dispositivi smart nelle case delle persone. Immaginate un futuro in cui una società come Cambridge Analytica possa modificare la tv che guardate, parlare con i vostri figli e sussurrarvi nel sonno.

La base del nostro sistema legale è il concetto che il nostro ambiente è passivo e inanimato. Il mondo che ci circonda può influenzare passivamente le nostre decisioni ma tale influenza non è motivata. La natura o il cielo non scelgono di influenzarci. Nel corso dei secoli, la legge ha sviluppato diversi fondamentali presupposti sulla natura umana. Il più importante è il concetto di «agentività umana» come presunzione irrefutabile nella legge, ovvero gli esseri umani hanno la capacità di fare scelte razionali e indipendenti di loro spontanea volontà. Ne consegue che non è il mondo a prendere decisioni per gli umani, ma che sono gli umani a prendere decisioni all’interno di quel mondo.

Questo concetto di agentività umana funge da base filosofica della responsabilità penale e noi puniamo i trasgressori della legge in virtù delle loro scelta. Un edificio in fiamme può certamente nuocere alle persone, ma la legge non punisce quell’edificio, non avendo esso agentività. E perciò le leggi umane regolano le azioni umane e non le motivazioni o i comportamenti dell’ambiente circostante. I corollari di ciò sono i diritti fondamentali di cui siamo titolari. Durante l’Illuminismo, i diritti fondamentali delle persone furono espressi come irrinunciabili legittimazioni a proteggere l’esercizio dell’agentività umana. Il diritto alla vita, alla libertà, di associazione, di parola, di voto e di coscienza sono tutti sorretti da una presunzione di agentività, essendo prodotti di quell’agentività. Ma l’agentività non è stata espressa come un diritto di per sé, poiché si è sempre pensato che esistesse solo in virtù della nostra individualità. Come tale, non abbiamo un esplicito diritto all’agentività che sia contra mundum, ovvero un diritto all’agentività che sia esercitabile contro l’ambiente stesso. Non abbiamo un diritto contro il cielo o l’indebita influenza di spazi motivati e pensanti che mediano l’esercizio della nostra agentività. Ai tempi della nascita degli Stati Uniti, una situazione in cui la nostra agentività poteva essere manipolata da un ambiente motivato e pensante non era mai stata contemplata come possibile. Per i padri fondatori, questo doveva essere un potere conosciuto solo a Dio.

Possiamo già vedere come gli algoritmi, che competono per massimizzare la nostra attenzione, abbiano la capacità non solo di trasformare le culture ma di ridefinire l’esperienza dell’esistenza. La «partecipazione» algoritmicamente rafforzata si trova al centro della nostra politica dell’indignazione, della cultura dell’accusa, della vanità autoindotta, della dipendenza tecnologica e del calante benessere mentale. Gli utenti di riferimento sono bersagliati di contenuti perché continuino a cliccare. Ci piace pensare di essere immuni dall’influenza o dalle nostre distorsioni cognitive perché vogliamo avere la sensazione di essere i detentori del controllo, ma industrie come quelle dell’alcol, del tabacco, del fast food e dei videogiochi sanno che siamo creature soggette a vulnerabilità cognitive ed emotive. E la tecnologia se n’è accorta con le sue ricerche su user experience, gamification, growth hacking e partecipazione, attivando loop ludici e programmi di rinforzo con le stesse modalità delle slot machine. Finora, questa gamification, o ludicizzazione, è stata limitata ai social media e alle piattaforme digitali; ma cosa accadrà man mano che inseriamo nelle nostre vite architetture informative collegate in rete, concepite per sfruttare falle evolutive nella nostra cognizione? Vogliamo davvero vivere in un ambiente «ludicizzato» che progetta le nostre ossessioni e gioca con le nostre vite come se fossimo dentro al suo gioco?

L’ideologia nascosta nei social media non è potenziare la scelta o l’agentività, bensì restringere, filtrare e ridurre la scelta per avvantaggiare creatori e inserzionisti. I social media radunano la cittadinanza in spazi sorvegliati dove gli ideatori possono monitorarli e classificarli, usando queste informazioni per influenzare il loro comportamento. Se democrazia e capitalismo si basano su informazioni accessibili e libertà di scelta, ciò a cui stiamo assistendo è il loro sovvertimento dall’interno.

Rischiamo di creare una società ossessiva nei confronti del ricordo e potremmo aver trascurato il valore di dimenticare, di voltare pagina o di essere anonimi. La crescita umana necessita di rifugi privati e spazi liberi in cui possiamo sperimentare, giocare, cimentarci, avere segreti, trasgredire a tabù, venire meno a promesse e contemplare le nostre versioni future senza conseguenze sulla nostra vita pubblica fino a che non decidiamo di cambiare in pubblico. La storia ci dimostra che l’emancipazione personale e sociale ha inizio nel privato. Non possiamo lasciarci alle spalle l’infanzia, le relazioni passate, gli errori, i vecchi punti di vista, i vecchi corpi o pregiudizi se non abbiamo il controllo della nostra privacy e del nostro sviluppo personale. Non possiamo essere liberi di scegliere se le nostre scelte sono monitorate e filtrate per noi. Non possiamo crescere e cambiare se siamo incatenati a chi eravamo un tempo o chi pensavamo di essere o al modo in cui ci presentavamo. Se esistiamo in un ambiente che ci osserva sempre, ci ricorda e ci etichetta, secondo criteri o valori esterni al nostro controllo o alla nostra consapevolezza, allora i nostri stessi dati ci incatenano a storie rispetto alle quali vorremmo voltare pagina. La privacy è l’essenza stessa del nostro potere di decidere chi e come vogliamo essere. La privacy non significa nascondersi – la privacy riguarda la crescita e l’agentività umana.

Ma non è solo questione di privacy o consenso. È questione di chi riesce a influenzare le nostre verità o le verità di quelli intorno a noi. È questione delle architetture della manipolazione che stiamo costruendo attorno alla nostra società. E in questo consiste la lezione di Cambridge Analytica. Per comprendere i danni dei social media, dobbiamo prima capire cosa sono. Facebook potrà anche definirsi una «comunità» con i suoi utenti o una «piattaforma» con i legislatori, ma non è un servizio, proprio come non lo è un edificio. Anche se non capite esattamente in che modo funziona il mondo virtuale, è importante comprendere che adesso vi circonda. Ogni dispositivo e computer fa parte di un’architettura informativa interconnessa e plasma la vostra esperienza del mondo. Le mansioni più comuni in gran parte delle aziende della Silicon Valley hanno nomi come ingegnere o architetto, non gestore dei servizi o rapporti col cliente. Ma, a differenza dell’ingegneria in altri settori, le aziende tecnologiche non sono tenute a eseguire test di sicurezza per essere conformi a regolamenti di costruzione prima di immettere sul mercato i propri prodotti. Alle piattaforme, invece, è consentito adottare interfacce dark pattern che ingannano deliberatamente gli utenti, inducendoli all’uso continuo e a concedere sempre più dati. Gli informatici progettano sulle loro piattaforme labirinti fuorvianti per far sì che le persone si addentrino sempre più in queste architetture, senza una chiara via di fuga. E quando le persone procedono in questi labirinti a suon di click, i loro ideatori godono nell’incrementare la «partecipazione».

I social media e le piattaforme Internet non sono servizi; sono architetture e infrastrutture. Etichettando le loro architetture come «servizi», stanno cercando di scaricare la responsabilità sul consumatore, tramite il suo «consenso». Ma in nessun altro settore carichiamo in questo modo il consumatore. Ai passeggeri delle compagnie aeree non viene richiesto di «accettare» l’ingegneria dei velivoli, agli ospiti di un albergo non viene richiesto di «accettare» il numero di uscite dell’edificio e alle persone non viene chiesto di «accettare» i livelli di purezza dell’acqua che bevono. E, da ex clubber, posso dirvi che quando i bar o i concerti superano la capacità o esplodono di raver, i vigili del fuoco ordinano a quei consumatori consenzienti di abbandonare il locale se vengono a mancare le condizioni di sicurezza.

Facebook può anche dire: se non ti piace, non usarlo. Ma non ci sono alternative comparabili alle figure dominanti su Internet, proprio come non ci sono alternative alle società elettriche, idriche o di telecomunicazioni. Rifiutare l’uso di piattaforme come Google, Facebook, LinkedIn e Amazon equivarrebbe a escludersi dalla società moderna. Come farete a trovare un lavoro? In che modo otterrete informazioni? Queste aziende amano parlare di scelta del consumatore, quando sanno di aver fatto tutto quanto in loro potere per diventare una parte necessaria della vita di moltissime persone. Indurre gli utenti a cliccare «accetta» dopo aver presentato loro un romanzo scritto in legalese (quasi dodicimila parole nel caso di Facebook) non è altro che una farsa. Queste piattaforme sono costruite appositamente per buttare nel cesso il consenso dell’utente. Nessuno si chiama fuori, perché gli utenti non hanno altra scelta che accettare.

Quando Facebook mi ha messo al bando, non si sono limitati a disattivarmi l’account; hanno cancellato la mia intera presenza su Facebook e Instagram. Quando i miei amici cercavano i vecchi messaggi che avevo mandato, non veniva fuori nulla: il mio nome, le mie parole – tutto – era scomparso. Sono diventato un’ombra. La messa al bando è un’antica punizione per liberare una società dai suoi criminali, dagli eretici e dai politici radicali che mettevano a repentaglio il potere dello Stato o della Chiesa. Nell’antica Atene, le persone potevano essere bandite dalla società per dieci anni per qualsiasi motivo e senza facoltà di appello. Nel periodo stalinista dell’Unione Sovietica, i nemici dello Stato non si limitavano a sparire; tutti i residui della loro esistenza – foto, lettere, notizie – erano cancellati dagli annali della storia ufficiale. Lungo tutto il corso della storia, i potenti hanno usato la memoria sociale e l’oblio collettivo come arma potente per schiacciare il dissenso e correggere gli eventi perché si adattassero alla realtà del presente. E se vogliamo capire perché queste aziende tecnologiche si comportano così, dovremmo ascoltare le parole di quelli che le hanno create. Peter Thiel, il venture capitalist dietro a Facebook, Palantir e PayPal, ha parlato a lungo di come non creda più «che libertà e democrazia siano compatibili». E, nel chiarire i suoi punti di vista sulle aziende tecnologiche, ha spiegato che i CEO sono i nuovi monarchi di un sistema di governo tecno-feudale. Solo che in pubblico non le chiamiamo monarchie, ha detto, perché «qualsiasi cosa non sia una democrazia mette a disagio la gente».

La filosofia dell’autoritarismo si fonda sulla creazione della certezza sociale all’interno della società. La politica della certezza riposiziona il concetto di libertà, in cui libertà da sostituisce libertà di. Regole e leggi severe sono imposte in maniera forzosa per governare e plasmare il comportamento, il pensiero e le azioni dell’ordinamento politico. E il primo strumento dei regimi autoritari è sempre il controllo delle informazioni, sia raccogliendo informazioni sulla popolazione tramite la sorveglianza che filtrando le informazioni destinate alla popolazione tramite i media di regime. Agli albori, Internet parve rappresentare una minaccia per i regimi autoritari ma, con l’avvento dei social media, stiamo assistendo alla costruzione di architetture che soddisfano i bisogni di ogni regime autoritario: sorveglianza e controllo delle informazioni. I movimenti autoritari sono possibili solo quando il pubblico generale si abitua – e diventa insensibile – a una nuova normalità.

Internet ha vanificato questi vecchi presupposti sulla legge e la realtà da essa regolata. Internet è al contempo ovunque e da nessuna parte: dipende fisicamente da server e cavi, ma esiste senza un luogo di residenza. Questo significa che una singola azione digitale potrebbe avvenire contemporaneamente in innumerevoli luoghi fisici, oppure l’azione compiuta in un posto potrebbe avere effetti in un altro posto. Questo perché Internet è un tipo di iperoggetto; come il nostro clima e la biosfera, Internet ci circonda e noi viviamo al suo interno. La comunità informatica spesso chiama le sue piattaforme «ecosistemi digitali», con l’implicita ammissione che la loro creazione è un contenitore o un ambito digitale al cui interno esistono almeno parti delle nostre vite. Non possiamo vederlo né toccarlo, ma sappiamo che esiste attorno a noi grazie ai suoi effetti.

Ho spesso conosciuto investigatori della polizia inesperti di reati informatici che usavano false analogie, quali «arma del delitto» e «posizione del corpo», e lineari «nessi di causalità». Ma i reati informatici sono reati che solitamente non hanno luogo in un posto specifico. I reati informatici si comportano spesso come l’inquinamento: è in generale ovunque, ma nello specifico da nessuna parte. I dati sono del tutto fungibili e intangibili, trattandosi semplicemente di una rappresentazione di informazioni. Possono essere immagazzinati simultaneamente in server distribuiti in giro per il mondo; sembrano essere in un posto, ma non sono mai interamente in quel posto. Ai server ubicati nel Paese A che gestiscono dati del Paese B potrebbe avere accesso una persona del Paese C e potrebbero essere impiegati su una piattaforma del Paese D, dopo aver ricevuto istruzioni da una società nel Paese E, finanziata dal Paese F. Questa era la natura della complessa struttura di Cambridge Analytica. Anche in caso di gravi danni, come attacchi informatici, furto di dati, minacce o truffe, non sarebbe stato chiaro chi fosse il responsabile e i nostri tradizionali sistemi per stabilire la colpevolezza erano del tutto inadeguati al compito.

Ci piace immaginare il nostro governo come il capitano della nave, ma, quando il mare cambia, i nostri capitani potrebbero trovarsi impreparati e incapaci di navigare. Nel luglio del 2018 l’Electoral Commission scoprì che la campagna Vote Leave aveva infranto la legge, collaborando illegalmente con BeLeave. Il 30 marzo 2019 – un anno dopo le rivelazioni sulla Brexit – la campagna Vote Leave ha ritirato ufficialmente il ricorso contro le conclusioni e le sanzioni dell’Electoral Commission, in pratica ammettendo ciò che aveva fatto. Qualcuno ha chiesto: «Perché dovrebbe importarci così tanto di settecentomila sterline?» Chiariamo questo punto: il piano di Vote Leave è stato la più grande violazione conosciuta della legge sul finanziamento elettorale della storia britannica. Ma, anche se così non fosse, le elezioni, come i cento metri alle Olimpiadi, sono giochi a somma zero, in cui il vincitore prende tutto. Chi arriva primo, anche se di pochissimi voti o frazioni di secondo, si aggiudica l’intera gara. Ricopre un incarico pubblico. Riceve la medaglia d’oro. Nomina i giudici della vostra corte suprema. Porta via il vostro Paese dall’Unione Europea.

L’unica differenza, naturalmente, è che se venite beccati a imbrogliare alle Olimpiadi, venite squalificati e perdete la vostra medaglia. Nessuno avanza l’ipotesi che l’atleta dopato «avrebbe vinto comunque»: l’integrità dello sport esige una gara pulita. Ma nella politica non riteniamo l’integrità un requisito necessario per la nostra democrazia. Le sanzioni per gli atleti che imbrogliano nello sport sono più severe che per le campagne elettorali fraudolente. Nonostante abbiano vinto con appena uno scarto del 3,78 per cento, i brexiter hanno rivendicato per sé «la volontà del popolo». E quando ha perso il voto popolare con uno scarto del 2,1 per cento, anche Trump ha dichiarato vittoria. Nonostante la frode conclamata, a Vote Leave nessuno ha portato via la medaglia della Brexit. Nessuno è stato squalificato dalle campagne future e i due leader di Vote Leave, Boris Johnson e Michael Gove, hanno potuto entrambi candidarsi a primo ministro. I reati commessi contro la nostra democrazia non sono stati considerati dalla classe politica «veri reati». Molti hanno equiparato queste trasgressioni a una multa per divieto di sosta, malgrado il danno concreto che subiamo quando le nostre istituzioni civili possono essere attaccate così facilmente da criminali e governi stranieri ostili che cercano di scatenare il terrorismo elettorale nella nostra società. E, naturalmente, la posizione delle persone più potenti di Regno Unito e Stati Uniti è che questi reati non siano neanche accaduti, anzi, che si tratti di una «bufala», l’invenzione di avversari rancorosi e sconfitti. Tutto questo a dispetto di quanto un tempo era noto come «fatti» e «realtà».

Pensereste che dopo aver messo in atto un complotto per violare le mail private e le cartelle mediche di un leader mondiale, corrompere ministri, ricattare uomini politici e inondare gli elettori di inquietanti video di macabri assassini e minacce, ci sarebbe stato qualche tipo di conseguenza legale. E invece non ci sono state conseguenze per nessuno coinvolto nei progetti africani di Cambridge Analytica. Era troppo difficile stabilire la giurisdizione, se o meno una parte sufficiente del reato fosse avvenuta in Gran Bretagna per giustificare un’azione legale nei tribunali inglesi. I loro server erano in tutto il mondo, gli incontri avevano luogo in Paesi diversi, gli hacker si trovavano in un altro Paese, e Cambridge Analytica si limitava a ricevere il materiale hackerato a Londra ma non richiedeva il materiale hackerato nel Regno Unito. Nonostante svariati testimoni, Cambridge Analytica l’ha fatta franca. Anzi, uno dei manager del progetto Nigeria ha ottenuto una posizione di rilievo presso il Cabinet Office britannico, dove si occupa di progetti di politica estera tra le alte sfere del governo.

Anche in America non ci sono state conseguenze per Cambridge Analytica. La società ha consapevolmente e deliberatamente violato il Foreign Agents Registration Act. Ha condotto operazioni per sopprimere il voto afroamericano. Ha frodato gli utenti di Facebook e li ha intimiditi con contenuti disgustosi. Ha ceduto centinaia di milioni di dati privati di cittadini americani a Stati stranieri ostili. Eppure non è successo niente, perché Cambridge Analytica è stata creata a scopo di arbitraggio giurisdizionale. L’evasione fiscale prevede spesso la creazione di società di facciata nelle isole tropicali nel tentativo di riciclare denaro tramite una complessa catena di Paesi e società, ciascuno con le proprie regole, così che le autorità perdano le tracce del denaro. Questo è possibile perché il denaro, come i dati, sono una risorsa completamente fungibile e possono essere trasferiti all’istante attraverso un sistema finanziario globale. Quello che Cambridge Analytica ha fatto è stato usare complesse compagini aziendali in diverse giurisdizioni per riciclare non solo denaro ma anche qualcosa che stava diventando altrettanto prezioso: i vostri dati.

Nel Regno Unito non ci sono state conseguenze neanche per AIQ. Dopo che Sanni e io abbiamo rivelato prove del progetto illegale di Vote Leave per superare il tetto di spesa tramite AIQ e usarla come proxy segreto per le capacità di targeting di Cambridge Analytica, la società si è trasformata nell’elefante nella stanza del dibattito sulla Brexit. La Gran Bretagna aveva già formalmente avviato le pratiche per lasciare l’Unione Europea. L’idea che il risicato risultato della Brexit potesse essere stato influenzato da una frode sistematica, una violazione di dati e l’ingerenza straniera è stata deliberatamente ignorata perché le ramificazioni erano inimmaginabili. Se gli stessi fatti si fossero verificati in Kenya o in Nigeria, ci sarebbero state immediate esortazioni da parte degli osservatori britannici a indire nuove elezioni.

Anche altre istituzioni britanniche hanno peccato. I dirigenti della BBC, informati della vicenda dal Guardian, che aveva consegnato loro l’intero corpus di prove settimane prima della pubblicazione, hanno deciso di rinunciare alla storia giorni prima che diventasse di dominio pubblico. Sarebbe stata troppo controversa. La BBC ha intervistato Alexander Nix prima che il reportage di Channel 4 andasse in onda, omettendo i commenti del whistleblower. Quando in seguito ho partecipato a Newsnight, il programma di informazione serale della BBC, il conduttore non ha fatto che intervenire di continuo, dicendo che la violazione di Vote Leave, che prevedeva l’uso di denaro illegittimo per miliardi di inserzioni mirate su Facebook, era semplicemente un’altra delle mie «accuse». Questo nonostante il fatto che si trattasse di una conclusione accertata da parte dell’Electoral Commission. Frustrato e confuso, mi sono poi imbarcato in una discussione sul significato di «fatto» e su quanto fosse bizzarro che, persino con sentenze pubbliche delle autorità britanniche, la BBC non mi consentisse di dire che Vote Leave aveva infranto la legge o che attività illecite avevano luogo sotto gli occhi di Facebook.

L’NCA ha abbandonato all’improvviso le indagini sull’ingerenza russa, anche dopo aver ricevuto prove dei rapporti tra l’ambasciata russa e Leave.EU. In seguito, il primo ministro si è rifiutato di negare di aver fermato le indagini sulla Brexit. Non è stata avviata un’inchiesta parlamentare sulla frode occorsa durante il referendum per la Brexit e io ho finito per passare più tempo a rispondere a domande sulla Brexit testimoniando davanti al Congresso degli Stati Uniti che nel Parlamento britannico. Malgrado l’assenza di un’inchiesta in Gran Bretagna, il Parlamento canadese ha avviato una propria inchiesta sul ruolo di AIQ nella Brexit, per aiutare le autorità britanniche a ottenere risposte da AIQ, dopo che la società è riuscita ad aggirare con successo la sua giurisdizione restando in Canada.

A quanto pare, imbrogliare è un’ottima strategia per vincere, dal momento che ci sono pochissime conseguenze. In seguito, l’Electoral Commission ha ammesso che, anche se la vittoria al voto è stata conseguita tramite sfruttamento di dati o finanziamenti illeciti, il risultato vale comunque. Facebook si è rifiutato di consegnare sia i dettagli completi di quanto è accaduto sulla sua piattaforma durante la Brexit sia il numero o il tipo di elettori scelti come bersaglio dalle campagne illegali. Mark Zuckerberg si è opposto a tre inviti a testimoniare davanti al Parlamento britannico e, quando quindici parlamenti nazionali, rappresentanti di quasi un miliardo di cittadini di sei continenti, hanno presentato la richiesta congiunta di intervistarlo, anche al telefono, Zuckerberg si è rifiutato. Per ben due volte. A quanto pare, il tempo di Zuckerberg era molto più prezioso di quello delle legislature rappresentanti quasi un settimo della razza umana. Facebook ha constatato che, nonostante la violenza della tempesta mediatica, ci sono state in realtà pochissime conseguenze per aver ignorato i parlamenti del mondo. Ha constatato che può comportarsi come uno Stato sovrano, immune al loro scrutinio. Alla fine Facebook ha mandato il proprio CTO (Chief Technology Officer), Mike Schroepfer, all’inchiesta del Parlamento britannico; ma, secondo una successiva dichiarazione della commissione, Schroepfer ha omesso di rispondere in maniera esauriente a quaranta domande. Ma quella che forse è stata la cosa più rivelatrice del suo intervento è l’assenza di pentimento da parte della società. Quando a Schroepfer hanno chiesto se il primo impulso di Facebook di mandare minacce legali sia stato o meno un comportamento vessatorio, il CTO di Facebook ha replicato: «Mi risulta che sia prassi comune nel Regno Unito». Dopo essere stato pressato dagli increduli deputati, Schroepfer ha ceduto e finalmente si è scusato, dicendo che era «dispiaciuto che i giornalisti pensino che stiamo tentando di impedire alla verità di venire fuori».

Di tutti gli individui che avrebbero potuto essere formalmente puniti in questa saga, è stato triste per me prendere atto che una delle poche persone a subire una sanzione fosse Darren Grimes, il ventiduenne stagista di Vote Leave, perché l’arcaica legislazione prevedeva che fosse personalmente responsabile degli illeciti elettorali. La commissione gli ha inflitto una sanzione di ventimila sterline e ha sottoposto il suo caso alla polizia. In seguito ha vinto il ricorso contro quella decisione, anche se l’Electoral Commission potrebbe presentare altri ricorsi. Alla campagna Vote Leave è stata comminata una sanzione di sessantunomila sterline, parte della quale è dovuta al loro rifiuto di collaborare con il legislatore. Vote Leave ha ritirato il ricorso e la sanzione, per lo meno quella, resta.

È stato incredibilmente difficile guardare quanto è successo a Grimes, la cui vita è finita in pezzi per un piano orchestrato da altri. Avevamo sperato che uscisse allo scoperto con Sanni, Gettleson e me, ma Grimes ha difeso il piano fino alla fine. Andava nel panico e crollava ogni volta che Sanni affrontava l’argomento e non voleva accettare di essere stato usato dalle persone di cui si fidava. Grimes era destinato a diventare il loro capro espiatorio e Vote Leave non avrebbe potuto chiedere un candidato migliore. Per quanto abbia difeso le azioni dei suoi vecchi capi, Grimes è stato la loro vittima. Hanno trasformato quello che era un talentuoso e progressista studente d’arte in un’esca pubblica per le loro cause alt-right, in cambio di aiuto per le spese legali.

Diverse settimane dopo che la vicenda è diventata di dominio pubblico, Shahmir Sanni è stato licenziato dal suo lavoro presso la TaxPayers’ Alliance, un think tank, in seguito a pressioni di consiglieri del Partito conservatore. In seguito la TPA ha ammesso ai suoi avvocati di aver licenziato ingiustamente Sanni per ripicca contro quella che hanno definito la sua «fede filosofica nella santità della democrazia britannica». Sebbene la questione del suo incarico presso il 10 di Downing Street sia stata sollevata diverse volte in Parlamento, Parkinson non ha perso il lavoro né ha subito conseguenze per aver usato l’ufficio stampa del primo ministro per svelare l’omosessualità del suo ex stagista. Prima di dimettersi da primo ministro, Theresa May ha raccomandato Parkinson per il titolo di pari alla Camera dei Lord. Entrando a far parte dei Lord, Parkinson avrebbe il diritto di votare leggi e percepire una diaria per il resto della vita. Mentre Mark Gettleson, che ha fornito prove alle autorità di entrambi i lati dell’Atlantico, è stato allontanato dal nuovo lavoro presso una società di app per cellulari a causa di potenziali danni di immagine derivanti dalla sua attività di whistleblower.

Nel marzo del 2018, poco prima che lo staff di Cambridge Analytica fosse informato dell’imminente chiusura della società, Alexander Nix avrebbe prelevato sei milioni di sterline dai conti di CA, impedendo agli ex dipendenti di ricevere le indennità dovute. In seguito ha negato tutto al Parlamento, dicendo che il denaro prelevato era «in cambio di servizi non registrati» e che intendeva restituirne una parte. Nix è stato ostracizzato da molti dei suoi ex soci d’affari e dai membri dei club privati di Pall Mall ma, data la sua eccezionale ricchezza, ha potuto continuare a vivere di rendita nella sua residenza di Holland Park, a Londra. Non gli è successo granché, a parte alcune imbarazzanti udienze pubbliche al Parlamento, in occasione delle quali ha incolpato «i media liberal» per la rovina della sua società.

Dopo che ho rivelato la vicenda di Cambridge Analytica, Brittany Kaiser si è reinventata come whistleblower e ha assunto un esperto di pubbliche relazioni per concedere interviste. È stata chiamata a deporre in un’udienza parlamentare, nella quale ha ammesso di essere coinvolta nel Progetto Nigeria, ha detto che probabilmente Cambridge Analytica tratteneva i dati di Facebook e ha parlato del suo rapporto con Julian Assange. (In seguito è emerso che aveva fatto visita ad Assange presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra.) Subito dopo che la testimonianza di Kaiser si è conclusa, Nix le ha inviato un messaggio. «Ottimo lavoro, Britt, sembrava tosta e tu sei stata brava. ;-)» Il giorno seguente, è volata a New York per tenere una conferenza stampa sul suo nuovo progetto, una cosa chiamata The Internet of Value Omniledger, a quanto pare con l’obiettivo di dare sfogo alla nostra «libertà dei dati».

Al pari di Kaiser, diversi altri dirigenti di Cambridge Analytica hanno fondato le proprie società di dati. L’ex product manager di CA Matt Oczkowski ha creato una società chiamata Data Propria («dati personali» in latino) e ha portato con sé l’analista capo David Wilkinson. La società ha dichiarato che si concentrerà sul targeting di «trigger comportamentali motivazionali» e di aver già cominciato a lavorare per la campagna presidenziale di Donald Trump del 2020. Mark Turnbull, ex direttore generale di Cambridge Analytica, ha unito le forze con uno degli ex associati, Ahmad Al-Khatib, per creare Auspex International, descritta come una «società di consulenza geopolitica specializzata» e «basata sull’etica».

Il mio più grande rimpianto è stato Jeff Silvester. Non trovo le parole per descrivere quanto sia stato esasperante e avvilente venire a conoscenza di cosa avevano fatto lui e AIQ. Era stato il mio mentore durante l’adolescenza, nonché l’uomo che mi aveva aiutato a entrare in politica. Mi aveva sostenuto, incoraggiato e aveva nutrito i miei talenti così che potessi crescere. E ancora non riesco a capire come possa aver continuato a lavorare per qualcosa di così sbagliato, così coloniale, così illegale e così malvagio. Ho provato a parlargli e gli ho detto di essere sincero con il Guardian, ma è stato inutile. Avrebbe potuto uscirne pulito. Avrebbe potuto collaborare con le indagini. Sapeva che ciò che aveva fatto AIQ era sbagliato. Sapeva che gli effetti del suo lavoro avevano profonde conseguenze per il futuro di un’intera nazione e i diritti di milioni di persone. Dover scegliere tra una vecchia e solida amicizia e denunciare un reato è una tortura, perché, qualsiasi cosa scegliate, il rimpianto sarà enorme. Ma non ho avuto altra scelta. Il giorno in cui il Guardian ha inviato le lettere con diritto di replica a tutte le parti in causa, non ho fatto che pensare a quanto stava succedendo, aspettando di sapere qualcosa. Quando ha ricevuto la sua lettera, Silvester ha finalmente saputo qual era stata la mia scelta e ha iniziato a rendersi conto di cosa gli sarebbe successo. Il suo ultimo messaggino diceva semplicemente: «Wow».

Intervenendo alla mia prima udienza parlamentare, tra il fuoco di fila delle macchine fotografiche e le domande urlate, mi sentivo stranamente a mio agio. Il mio avvocato, Tamsin Allen, era seduta dietro di me, passandomi di tanto in tanto veline con consigli legali. Ci eravamo preparati per ore, rivedendo le prove, e avevo la speciale protezione dell’immunità parlamentare; niente di ciò che avessi detto poteva essere usato in un procedimento civile o penale. L’udienza ha provocato un’ondata di attenzione legislativa in tutto il mondo e il presidente della commissione DCMS, Damian Collins, ha cominciato a organizzare udienze congiunte internazionali in seno a quindici parlamenti nazionali. Ci sono stati dibattiti nell’aula della House of Commons e sostegno trasversale all’idea di regolamentare i social media. Per un paio di mesi è sembrato che la Gran Bretagna stesse prendendo l’iniziativa di sfidare il potere della Silicon Valley.

Ma poi, nell’ottobre del 2018, diversi mesi dopo che lo scandalo di Cambridge Analytica aveva fatto tremare Facebook, la società ha annunciato un grosso acquisto: un nuovo difensore capo per i governi mondiali. Il nuovo spin doctor globale di Facebook sarebbe stato Nick Clegg, ex leader dei Lib Dem nonché vice primo ministro del Regno Unito. Lo stesso uomo per il quale lavoravo ai tempi dell’LDHQ. Ironia della sorte, era Clegg ad aver giurato che sarebbe andato in prigione piuttosto che registrarsi in un database sperimentale di identità nazionale. Ma era anche l’uomo il cui mandato di vice primo ministro era diventato in realtà un quinquennale tour di scuse dopo essere venuto meno a una miriade di promesse chiave nella coalizione di governo. E più ci pensavo, più trovavo conferma nel detto «Dio li fa e poi li accoppia». Zuckerberg e Clegg avevano fondato le rispettive carriere sul venir meno ai propri principi, entrambi avevano subito contraccolpi catastrofici dopo aver ignorato le promesse rivolte agli utenti o agli elettori, ed entrambi avevano smesso di essere fighi nel 2010. Quando Channel 4 mi ha chiesto un commento dopo l’annuncio della nomina di Clegg, non mi è venuto altro in mente a parte: «È una stronzata». Hanno mandato in onda il commento, anche se con un bip.

Il 24 maggio 2019, il primo ministro Theresa May ha annunciato le proprie intenzioni di dimettersi, innescando una corsa alla leadership all’interno del Partito conservatore. Nel Regno Unito, se un primo ministro si dimette a metà mandato, la consuetudine vuole che Sua Maestà la Regina nomini il nuovo leader del partito di governo senza indire nuove elezioni. Questo significa che le eminenze grigie, i finanziatori e i membri pagati dal partito possono aggirare un’elezione e scegliere tra loro chi guiderà la Gran Bretagna. Il 23 luglio i membri del Partito conservatore hanno deciso che il primo ministro sarebbe stato Boris Johnson, l’ex segretario agli Esteri e massimo fautore del ritiro dall’Unione Europea senza alcun accordo di buonuscita (spesso definito «hard Brexit»). Nel formare il nuovo governo, Johnson ha nominato Dom Cummings, l’ex collega di Vote Leave, tra i suoi nuovi consiglieri al 10 di Downing Street. È sembrata una cosa di poco conto che Cummings sia stato il direttore di una campagna che ha imbrogliato durante lo stesso referendum che adesso Johnson stava usando come presupposto «democratico» per il ritiro dall’Unione Europea a qualunque costo, o quasi. Documenti trapelati dal Cabinet Office hanno in seguito rivelato che i consiglieri di Johnson hanno immediatamente avviato i lavori per sospendere il Parlamento come uno dei primi atti del loro nuovo governo. La sospensione del Parlamento avrebbe impedito ai deputati di vagliare i loro progetti per la Brexit. Questa avversione allo scrutinio democratico non stupisce, tuttavia. Solo qualche mese prima della sua nomina, Cummings è stato accusato di oltraggio dopo aver ignorato l’ordine di presentarsi al Parlamento per rispondere a domande sulla frode e la diffusione di notizie false in occasione del referendum. Sebbene Cummings sia una delle pochissime persone che non sono mai state formalmente ammonite dal voto unanime della House of Commons, i limiti dell’autorità parlamentare sono stati sfidati e, a quanto pare, ci sono state pochissime conseguenze per Cummings. In occasione della sua nomina, gli è stato persino concesso un pass parlamentare. E candidato ad affiancare Cummings nel nuovo governo Johnson come nuovo consigliere speciale al Tesoro di Sua Maestà c’era Matthew Elliott, ex direttore esecutivo di Vote Leave e cofondatore della TaxPayers’ Alliance, il think tank che ha licenziato Sanni per rappresaglia contro le sue rivelazioni. Sembrava proprio che Vote Leave stesse occupando il governo britannico. Durante il suo primo question time alla House of Commons come primo ministro, gli esponenti dell’opposizione hanno chiesto a Johnson quale fosse stato l’argomento di discussione nel dicembre 2016, durante l’incontro con il CEO di Cambridge Analytica Alexander Nix, quando lui era segretario agli Esteri. La sua risposta è stata semplicemente: «Non ne ho idea».

Dentro a Cambridge Analytica, ho visto da vicino avidità, potere, razzismo e colonialismo. Ho visto come si comportano i miliardari quando vogliono modellare il mondo a propria immagine. Ho visto le più bizzarre e oscure nicchie della nostra società. Come whistleblower, ho visto cosa fanno le grandi aziende per proteggere i propri profitti. Ho visto fin dove arrivano le persone per coprire reati che altri hanno commesso nell’interesse di una narrazione vantaggiosa. Ho visto accaniti «patrioti» chiudere un occhio davanti allo sfregio dello stato di diritto sulla più importante questione costituzionale di una generazione. Ma ho anche visto tutte le persone a cui importava e che hanno combattuto contro un sistema sbagliato. Ho visto giornalisti del Guardian, del New York Times e di Channel 4 lavorare per ottenere le prove dei reati commessi da Cambridge Analytica e dell’incompetenza di Facebook. Ho visto i miei brillanti avvocati superare in astuzia ogni minaccia che mi è stata lanciata addosso. Ho visto la gentilezza di persone che venivano a sostenermi senza chiedere nulla in cambio. Ho visto il minuscolo Information Commissioner’s Office, nella cittadina di Wilmslow, fare ricorso a tutti i poteri possibili per affrontare un gigante tecnologico americano, comminando alla fine a Facebook il massimo delle sanzioni consentite dalla legge per la violazione dei dati.

E ho visto deputati del Congresso degli Stati Uniti preoccupati e ansiosi di scoprire il «brave new world», il mondo nuovo, in cui adesso ci troviamo. Conclusa l’udienza presso l’House Intelligence Committee, emergendo dallo SCIF con i miei avvocati e Sanni, ho stretto la mano ai membri della commissione e sono stato accompagnato all’ingresso di sicurezza dall’onorevole Adam Schiff e i suoi assistenti. Sono stati gentili e mi hanno ringraziato per essere venuto in America per aiutarli a capire non solo Cambridge Analytica ma i rischi che le piattaforme dei social media rappresentano per le elezioni americane. Era l’ultima delle mie testimonianze negli Stati Uniti ma la faccenda mi sembrava tutt’altro che risolta.

Il 24 luglio 2019, la Federal Trade Commission ha comminato una sanzione civile record di cinque miliardi di dollari a Facebook; lo stesso giorno, la Securities and Exchange Commission ha reso nota un’ulteriore sanzione di cento milioni. Le autorità di vigilanza hanno riscontrato che non solo Facebook ha mancato di proteggere la privacy degli utenti, ma la società ha fuorviato la gente e i giornalisti rilasciando false dichiarazioni in cui sosteneva di non aver rilevato prove di illeciti, quando invece l’aveva fatto. La sanzione è stata una delle più grandi in assoluto imposte dal governo USA. Anzi, è stata la più onerosa mai comminata a una società americana per aver violato il diritto alla privacy dei consumatori, venti volte maggiore della più grande sanzione per la violazione dei dati o della privacy mai inflitta al mondo. Tuttavia, gli investitori l’hanno vista come una buona notizia, che ha fatto salire il valore azionario di Facebook del 3,6 per cento, con il mercato che ha tacitamente riconosciuto che nemmeno la legge può fermare la crescita di questi giganti tecnologici.

Mentirei se non ammettessi di essere molto più cinico adesso rispetto a quando ho cominciato questo viaggio. Ma non mi ha reso più rassegnato. Semmai, mi ha reso ancora più radicale. Un tempo credevo che i sistemi che abbiamo, in generale, funzionassero. Credevo che ci fosse qualcuno pronto con un piano in grado di risolvere un problema come Cambridge Analytica. Mi sbagliavo. Il nostro sistema è difettoso, le nostre leggi non funzionano, le nostre autorità di vigilanza sono deboli, i nostri governi non capiscono cosa sta succedendo e la nostra tecnologia sta usurpando la nostra democrazia.

Così ho dovuto imparare a trovare la voce per parlare di quello a cui ho assistito. Sono speranzoso, perché ho visto cosa succede quando troviamo il coraggio di parlare. Quando il Guardian si è occupato della vicenda, molti giornalisti l’hanno vista come una serie di teorie cospirazioniste. Le aziende della Silicon Valley hanno riso all’idea che potessero essere sottoposte a un eventuale controllo. Politicanti a Washington e Westminster hanno definito la vicenda di nicchia. C’è voluta la tenacia di una squadra di donne della sezione Arte e Cultura del Guardian e la sua edizione domenicale, dov’è apparso il servizio esplosivo. C’è voluta l’attenzione delle donne che hanno condotto le indagini presso l’Information Commissioner’s Office e l’Electoral Commission. E ci sono voluti due whistleblower immigrati e gay, sostenuti da un risoluto avvocato donna. Questa vicenda ha avuto bisogno della guida di donne impegnate, di immigrati e gay per far sì che l’opinione pubblica aprisse gli occhi sull’enorme potere colonizzatore della Silicon Valley e delle tecnologie digitali che hanno creato per circondarci. Abbiamo tutti continuato ad alzare la voce fino a che il mondo non ha potuto vedere quanto avevamo visto noi.

Crescendo gay, impari presto che la tua esistenza esula dalla norma. Incubiamo noi stessi in segreto, mantenendo l’incognito, e nascondiamo la nostra verità fino a che non diventa intollerabile. Vivere nel segreto è doloroso. È un atto di violenza emotiva che infliggiamo a noi stessi per non arrecare disagio a chi ci sta intorno. I gay comprendono intimamente i sistemi di potere e uscire allo scoperto è il nostro rivoluzionario atto di sincerità. Nel fare coming out, ci accorgiamo del potere di dire la verità a coloro che potrebbero non volerla sentire. Mettiamo da parte la loro tranquillità e li costringiamo ad ascoltare. Perché così tanti gay usano i fischietti al Pride? Per avere la vostra attenzione. Per annunciare che non ci nasconderemo più. Per sfidare le egemonie dei potenti. E, come tanti gay che sono venuti prima di me, ho dovuto accettare la mia verità e scendere a patti con l’inevitabile fallimento nell’impresa di incarnare la concezione che ha la società di un uomo perfetto.

Sono un whistleblower gay e questo è stato il mio secondo coming out. Accettando gli accordi di riservatezza venivo costretto in un nuovo armadio, a vivere nascosto con il mio scomodo sapere e le mie spiacevoli verità. Ho vissuto per due anni in una personalissima versione del don’t ask, don’t tell – «non fare domande, non informare»: la politica adottata dalle forze armate statunitensi per i militari gay, sulla cui sessualità non si indagava purché loro non ne parlassero in pubblico – impostami da potenti società. Se speravo di evitare conseguenze, mi era vietato rivelarmi agli altri e così sono diventato il loro piccolo segreto. Ma, come altri gay dichiarati, sono uno che dice la verità e ho scelto di essere indiscreto con quelle verità scomode, per smetterla di nascondermi, per smetterla di essere il loro segreto, per affrontare le conseguenze e urlare al mondo quello che so.

L’armadio non è uno spazio letterale; è una struttura sociale che noi omosessuali interiorizziamo e alla quale ci conformiamo. L’armadio è un contenitore i cui limiti sono imposti da altri che vogliono controllare come ti presenti e come ti comporti. L’armadio è invisibile e ti viene imposto a tavolino, mai per scelta, perché gli altri creino una versione più appetibile di chi sei. A loro beneficio, non al tuo. Crescere in un armadio significa imparare per gradi come passare l’esame della società: quali movimenti, toni, espressioni, punti di vista o desideri espressi trasgrediscono le norme di quei limiti sociali imposti. I ragazzi gay imparano, poco a poco, a controllare il proprio comportamento fino a che diventa una seconda natura, fino a che non passano l’esame. Questi cambiamenti sono così graduali che a volte neanche ti accorgi di quanto hai modificato il tuo comportamento, fino a che, un giorno, decidi di lasciare quell’armadio. E parte del coming out è fare i conti con quanto di te è stato costruito per te dentro a quell’armadio, e può essere doloroso rendersi conto quanto di chi eri un tempo ti sia stato imposto senza che te ne accorgessi o senza il tuo consenso. L’armadio è un luogo di adeguamento alla società in cambio di approvazione, ma è anche un posto in cui la rabbia monta mentre quei limiti e definizioni ti soffocano lentamente, fino a che non puoi più tollerare di restare dentro a quella prigione.

Fare coming out è il nostro rifiuto delle definizioni che ci sono state imposte da qualcun altro. La capacità di definire le nostre identità è estremamente potente e, sia che le minacce a quella capacità assumano la forma di un armadio sociale o algoritmico, dobbiamo resistere a chiunque o a qualsiasi cosa ambisca al potere di definire o classificare chi noi siamo a loro vantaggio. La Silicon Valley rischia di creare una nuova egemonia dell’identità tramite la creazione di questi spazi personalizzati per ciascuno. E questi spazi altro non sono che nuovi armadi per definire le nostre identità, espressioni e comportamenti. Nel raccogliere ed elaborare i vostri dati, gli algoritmi prendono decisioni su come definirvi, come classificarvi, cosa dovreste notare e chi dovrebbe notare voi. Ma c’è un confine sottile tra un algoritmo che ti definisce per rappresentare chi sei davvero e un algoritmo che ti definisce per creare una profezia autoavverante di chi pensa che dovresti diventare.

Le persone si stanno già trasformando per adattarsi all’idea che una macchina ha di chi dovrebbero essere. Alcuni di noi dedicano grande attenzione alla propria immagine sui social per aumentare la partecipazione dei nostri follower, al punto che chi siamo davvero e come ci presentiamo online si confondono e si fondono. E quando vedono un certo numero di queste identità «cesellate», alcuni di quei follower cominciano a odiare chi sono o come appaiono, e infliggono privazioni al proprio corpo per conformarsi a un nuovo standard che adesso li circonda.

Altri cliccano su link raccomandati loro dagli algoritmi, partecipando a quel contenuto e sprofondando sempre più nei meandri della personalizzazione, fino a che la loro visione del mondo cambia senza che se ne accorgano. Ciò che acquistiamo online è selezionato in base a un profilo di noi, definito da qualcos’altro. Il nostro valore rispetto al lavoro, alla polizza assicurativa, al credito o alle richieste di mutuo si fonda adesso su un profilo di noi definito da qualcos’altro. Mentre andiamo verso l’inevitabile fusione dei nostri mondi fisico e digitale, un numero sempre maggiore di vite cominceranno a essere definite non da noi ma da qualcos’altro. E perciò, se vogliamo impedire che la nostra vita futura sia definita da qualcos’altro, potremmo avere tutti bisogno di uscire dal nostro armadio prima che qualcuno o qualcosa ci chiuda dentro a chiave.

Il 23 maggio 2019 mi sono svegliato alle sei del mattino, insolitamente presto per me. La mia stanza era luminosa e calda, l’alba faceva capolino tra le tende. Odio alzarmi presto, così sono rimasto a fissare il soffitto per un po’ prima di dare un’occhiata fuori dalla finestra, per osservare la vita invadere la strada. Un ragazzo con cui avevo passato la serata era rimasto da me per la notte, così sono sgusciato fuori dal letto con cautela, per non fare rumore. Quel giorno in Regno Unito si votava, forse le ultime elezioni in assoluto per il Parlamento europeo. La mia tessera elettorale diceva che i seggi avrebbero aperto alle sette, perciò volevo sgattaiolare fuori e correre al seggio della mia circoscrizione.

Facendo passi esagerati per raggiungere silenziosamente il guardaroba, ho raccolto dal pavimento jeans e maglietta. La T-shirt era un regalo della stilista inglese Katharine Hamnett. Morbido cotone nero e una scritta a lettere cubitali bianche: SECONDO REFERENDUM ADESSO! Se oggi indosserò qualcosa, deve essere questa T-shirt. Ho tirato fuori dal cassetto il mio cellulare, che, una volta ripreso il segnale, ha cominciato a vibrare di messaggi in arrivo.

Oh merda. Mi sono voltato per vedere se l’avessi svegliato. Bofonchiando contro un cuscino, ha chiesto perché mi fossi alzato così presto e gli ho detto che volevo andare a votare. Si è tirato a sedere e ha fatto un sorrisetto, roteando gli occhi e chiedendomi se fosse un po’ come il giorno di Natale per quelli come me. Gli ho detto di no, che volevo andarci presto, prima che i rappresentanti di lista si presentassero e cominciassero a contare chi si presentava. Non volevo azzuffarmi di nuovo con lo UKIP o i brexiter. Sono stato chiamato traditore e spintonato per strada, ma non volevo che mi si impedisse di votare.

Non mi sembrava Natale, né la trovavo una giornata eccitante. Era un giorno triste perché, dentro di me, sapevo che non avrei preso parte a una vera elezione: faceva tutto quanto parte di un’esibizione finale prima del ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea. Nonostante la decisione dell’Electoral Commission contro Vote Leave, un’indagine in corso della National Crime Agency, testimonianze al Parlamento e un reportage lungo una settimana sul Guardian riguardante l’insabbiamento deciso a Downing Street, il governo era comunque determinato a uscire dall’Unione Europea con un mandato ottenuto con la frode e gli imbrogli.

La mia cassetta della posta straripava di volantini e opuscoli. Mi aspettavo quasi di ricevere qualcosa di folle da Arron Banks o Leave.EU, tipo un volantino Brexit infilato in una bottiglia di vodka russa, visto che amavano così tanto trollare me e la giornalista del Guardian Carole Cadwalladr. Ma no, erano solo comuni volantini. Verdi. Lib Dem. UKIP. Niente da parte di conservatori e laburisti, chissà perché. Ho aperto quello liberaldemocratico e pensato ai dati che stavano usando adesso e se mi avessero preso di mira con un messaggio. Non mi pareva. Era solo il solito stupido volantino.

Ho lanciato un’occhiata alla telecamera di sicurezza che mi osservava nell’androne e sono uscito. Mi sono avviato, percorrendo un paio di strade del mio quartiere. Vecchie case a schiera georgiane intervallate da un condominio qua e là. Era una giornata estremamente luminosa e soleggiata. L’aria del mattino era fresca e tonificante. Ho svoltato sulla strada principale, dove i negozi non erano ancora aperti, a parte una caffetteria. Sono entrato e ho ordinato un caffè macchiato con latte di soia. Mentre aspettavo, ho guardato tutti quelli dentro al locale, in piedi e con lo sguardo fisso sul telefono, tutti che scorrevano pagine, seguivano e si facevano coinvolgere da contenuti. Io stavo accanto a loro ma erano tutti lontani, nei loro mondi digitali. A dire la verità, facevo lo stesso prima della mia messa al bando. Ma, senza social media, a parte un account Twitter che uso di rado, mi sono ritrovato a scorrere meno pagine, a postare meno e a scattare meno foto alle cose. Non trascorro più ore a stare da solo insieme ad altre persone attraverso lo schermo. Potrò anche vivere al di fuori di questi mondi digitali ma, per lo meno, sono diventato più presente in questo mondo. Dopo aver preso il mio caffè, sono uscito e mi sono avviato lungo una strada bordata di alberi prima di raggiungere la sede del seggio. Legati agli alberi, c’erano grandi cartelli bianchi a lettere nere che dicevano SEGGIO ELETTORALE. Mi sono tenuto a distanza e ho dato un’occhiata intorno, ma fuori non si aggirava ancora nessun sostenitore di partiti. Così sono entrato e ho seguito le indicazioni lungo un corridoio fino a una stanza, semplice e spoglia, disseminata di cabine elettorali di cartone e minuscole matite senza gomma.

La scrutatrice mi ha guardato e mi ha chiesto come mi chiamavo. Ha sfogliato l’elenco e, con una matita, ha fatto una croce sul mio nome. Tutto qui, niente documenti di identità, niente ricorso all’elettronica. Mi ha consegnato una scheda elettorale grande quanto un lenzuolo per l’elezione della delegazione londinese di parlamentari europei. La carta era leggermente più spessa di quella di un quotidiano ma, mentre la tenevo in mano, ho pensato a quanto sembri fisico l’atto di votare, eppure è una sofisticata attività online a portare al semplice atto di tracciare una X su un sottile foglio di carta. Ho inserito la scheda nell’urna e sperato che non fosse l’ultima volta.