8.

Un nuovo strato di desolazione si sovrappose a quella terra già derelitta. La pianura priva di vita, con le sue cellette che si moltiplicavano all’infinito, restò identica. Il sole era come sempre penetrante e pervasivo, tagliente e ottuso. In quella monotonia irremovibile c’era soltanto un cambiamento: la solitudine di Håkan, l’unica cosa dotata di profondità in quel mondo piatto e demoralizzante. Mentre Lorimer languiva tra le sue casse e i suoi vasi, Håkan avvertiva un vuoto profondo quasi come quello che l’aveva colto durante la traversata dell’oceano Atlantico. Sentiva la mancanza di Lorimer allo stesso modo, se non con la stessa intensità, con cui sentiva quella di Linus. Entrambi l’avevano protetto, l’avevano considerato degno di attenzione e avevano perfino visto in lui qualità meritevoli di essere coltivate. Ma la virtú principale posseduta da suo fratello e dal naturalista era la loro capacità di attribuire un significato al mondo. Le stelle, le stagioni, la foresta: Linus conosceva storie su tutte quante, e attraverso quelle storie la vita acquistava dei limiti, diventava qualcosa che era possibile esaminare e comprendere. Proprio come l’oceano si era gonfiato quando Linus non era con lui a frenarne l’immensità con le sue parole, ora, da quando Lorimer si era ammalato, il deserto si era violentemente espanso fino a diventare una distesa vuota e illimitata. Senza le teorie del suo amico, la piccolezza di Håkan era gigantesca come la pianura che gli si stendeva davanti.

L’apripista li stava riportando da dov’erano venuti. Sospettava che ci fosse una scorciatoia, ma avevano quasi finito il cibo e non potevano permettersi di smarrirsi. Le razioni erano state ridotte a mezza tazza di polenta di granturco e una galletta per colazione e cena. Dopo qualche giorno di viaggio, uno degli uomini salí nel carro dove Håkan stava curando Lorimer, si diresse subito alle gabbie di vimini che contenevano gli uccelli, ne prese due e si girò, pronto ad andarsene. Håkan lo afferrò per un polso e gli ordinò con un gesto di posare le gabbie. L’uomo obbedí, ma con la mano libera tirò fuori una pistola e ne appoggiò la canna contro il petto di Håkan. La reazione di Håkan, che piú tardi, a rifletterci, lo stupí, fu di aumentare la stretta al polso dell’uomo, anziché lasciarlo andare. L’uomo alzò il grilletto. Håkan lo liberò. Quella notte, gli uomini arrostirono gli uccelli. Håkan mangiò polenta di granturco. Mentre procedevano, con i serpenti di Lorimer prepararono uno stufato e un brasato con i gatti. I cani furono risparmiati.

La malattia aveva consumato Lorimer al punto che il movimento del suo petto addormentato era quasi impercettibile. Le guance avvizzite erano sprofondate nella cavità delle mandibole e le labbra raggrinzite si erano ritirate dai denti, suggerendo già il teschio. Somministrandogli la cura che lui stesso aveva ricevuto quand’era stato soccorso, Håkan aggiungeva miele all’acqua di Lorimer. Cercava di imboccarlo con granturco schiacciato, ma la poltiglia gli restava sulla lingua e poi gli sgocciolava giú per il mento. Lo stesso giorno che la pianura di sale apparve per la prima volta punteggiata di terra, Lorimer fissò Håkan non con lo sguardo delirante che sembrava attraversarlo, ma con occhi che, benché fossero innaturalmente dilatati, erano alquanto decisi.

«Ce ne siamo andati?» riuscí a malapena a balbettare.

«Mi dispiace» rispose Håkan.

Lorimer chiuse gli occhi e, dopo aver radunato un po’ di forza, li aprí e cercò di sorridere. Håkan gli fece bere un po’ d’acqua da uno straccio bagnato. L’amico fece un cenno di gratitudine con il capo e ripiombò nel sonno.

Durante uno dei suoi occasionali momenti di consapevolezza, Lorimer riuscí a impartire a Håkan alcune semplici istruzioni su come curarlo. Lo pregò di offrirgli acqua continuamente e perfino di costringerlo a berla, se fosse svenuto. Seguendo le sue direttive, Håkan preparò un unguento d’aceto, agave, cantaridi essiccate e olio di lavanda, e glielo applicò sulle vesciche e sulle pustole. Lorimer gli chiese anche di aggiungere all’acqua e miele un po’ di sale e qualche goccia di un particolare tonico. Se avesse cominciato a delirare e a essere irrequieto, Håkan avrebbe dovuto somministrargli tre gocce di una tintura contenente oppio e altri sedativi: per nessuna ragione Lorimer doveva agitarsi e sudare.

Mentre venature di polvere rossa cominciavano a percorrere il terreno bianco, Håkan scoprí che camminare gli riusciva sempre piú difficile. I piedi gli erano cresciuti troppo per le scarpe che aveva preso a Clangston e il dolore lo azzoppava. Con uno dei bisturi di Lorimer, tagliò via le punte. Le dita, dissociate dal resto dei piedi, sporgevano sopra le suole come vermi albini e ciechi. Gradualmente le pianure salate si ridussero a increspature cristalline sul terreno. La linea dell’orizzonte cominciò a essere punteggiata di cespugli riarsi. Il territorio astratto diventò ancora una volta un paesaggio. Le prime galline selvatiche che videro, a Håkan apparvero favolose come giocattoli volanti.

Sebbene fosse ancora debole, grazie alle cure che Håkan gli aveva prestato, i momenti di lucidità di Lorimer diventarono piú frequenti, fino a quando non riacquistò completamente la consapevolezza. La prima preoccupazione di Håkan fu per gli animali di Lorimer. Avrebbe voluto confessare al suo amico che non era stato in grado di proteggerli prima che lui stesso si accorgesse che non c’erano piú. Balbettando e frenato dalla paura, Håkan raccontò al naturalista ciò che era accaduto. Lorimer rise debolmente a bocca chiusa.

«Mangiati. Bene. Bene». E rise di nuovo. «Una fine molto piú dignitosa del destino che avrebbero avuto con me».

Lorimer parlò con l’apripista che, insieme agli altri uomini, domandò di essere sollevato dai propri obblighi dopo averlo portato sano e salvo a Fort Squibb, una settimana o due piú a nord e leggermente piú a est del punto in cui si trovavano. Quella fortezza era diventata un felice luogo di commerci per cacciatori ed emigranti, e là Lorimer avrebbe potuto riposare, procurarsi provviste, cavalli freschi e perfino una nuova squadra, se l’avesse voluto. Si accordarono stringendosi la mano.

Lentamente, le pianure riguadagnarono i loro marroni, rossi e viola. Håkan non sarebbe rimasto sorpreso se a un tratto si fossero ritrovati vicino alla miniera d’oro di James Brennan o a Clangston. A poco a poco, Lorimer cominciò ad avventurarsi fuori dal carro e alla fine riuscí a restare in sella per la maggior parte della giornata. Dopo una di quelle cavalcate, Håkan lo aiutò a smontare e finirono per ritrovarsi faccia a faccia. Il naturalista guardò stupefatto l’amico.

«Mi hai superato?» domandò. «Com’è possibile che nelle ultime settimane tu sia diventato piú alto di me? Vieni qui».

E misurò Håkan, scuotendo la testa per l’incredulità.

«Quanti anni hai?»

«Non lo so».

«Piú o meno».

«Non lo so».

Lorimer cominciò ad annotarsi le dimensioni del suo cranio, l’estensione della sua spina dorsale e la lunghezza e la larghezza delle sue membra, sempre scuotendo la testa. Dopo la delusione al Saladillo e la malattia, la sua tendenza a stupirsi e a compiacersi a ogni piè sospinto si era attutita e lui non usava piú un tono appassionato per sottolineare i voli pindarici della sua eloquenza. Ma mentre guardava il giovane amico, una parte del suo antico fervore si risvegliò. Dopo aver studiato gli appunti ed eseguito qualche calcolo, disse a Håkan di non avere mai visto né letto niente del genere. Il suo ritmo di crescita era senza precedenti. Gli ricordò che la vita è un continuo opporsi alla spinta verso il basso della forza di gravità; la vita è una forza ascendente che spinge ogni pianta e ogni creatura ad allontanarsi dalla terra e lo stesso si può dire dell’evoluzione morale degli esseri viventi, che cercano di allontanarsi dai propri istinti primordiali per raggiungere una consapevolezza piú alta. Ogni verme che striscia fuori dalla pozzanghera opaca della non-esistenza e risale la spirale dei mutamenti, nel corso dei millenni, è una specie verticale e raziocinante in gestazione. Forse Håkan, che torreggiava al di sopra di tutti loro, era un esempio di ciò che gli esseri umani sarebbero potuti diventare?

Il convoglio viaggiava sulle pianure monotone. Dopo aver curato Lorimer e avergli somministrato i suoi tonici, ora nell’artemisia grigioverde Håkan riusciva a distinguere un vago aroma medicinale. Diversamente il deserto, immutabile come sempre, sembrava voler sfidare l’idea che loro un tempo se ne fossero allontanati. Lorimer trascorreva quasi tutte le giornate a scrivere, spesso appoggiando il suo taccuino contro il pomello della sella. L’apripista e gli altri uomini lo scortavano con fredda formalità, da lontano.

Un pomeriggio notarono nel cielo il tratteggio di un pennacchio di fumo. Due uomini, probabilmente mossi dalla noia piú che dal coraggio, si offrirono di precederli per capire cosa stava succedendo. Chi restò indietro ispezionò i corni portapolvere e caricò i fucili. Nessuno parlò ma, dal modo in cui coccolavano le armi, si agitavano sulle selle e sfoggiavano l’espressione arrogante del coraggio non ancora messo alla prova, era chiaro che morivano dalla voglia di arrivare allo scontro. Quando i due esploratori, partiti al galoppo, tornarono tranquilli al trotto, l’apripista e i suoi uomini non nascosero la delusione.

«Sono soltanto degli indiani» disse uno degli esploratori e bevve un po’ d’acqua.

«Morenti» aggiunse l’altro, allungando la mano verso la borraccia del compagno.

Håkan capí che gli indiani avevano delle pelli e dei vecchi cavalli che loro avrebbero potuto facilmente sottrarre e vendere a Fort Squibb. Gli altri uomini furono d’accordo. Sul viso di Lorimer si dipinse un’aria severa e preoccupata, e sebbene non pronunciasse parola, era chiaro che non era affatto d’accordo con le intenzioni della squadra. Il naturalista si accertò di cavalcare in testa al convoglio e sembrava ansioso di essere il primo a raggiungere gli indiani. Quando si avvicinarono al campo, scoprirono che le poche capanne che avevano resistito alle fiamme erano state bruciate e ridotte a scheletri anneriti. Da quelle strutture informi e da qualche palo spezzato e conficcato nel terreno, pendevano pelli strappate, pellicce e pezzi di cuoio flosci nell’aria immobile. Non c’erano esseri umani in vista. Disseminati tra le rovine, brandelli di carne secca, zucche, pelli dipinte, utensili di vario tipo e altri oggetti spezzati e irriconoscibili. Alcuni pony ammalati tenevano gli occhi fissi a terra. Un paio di cani, le orecchie dritte e tese in avanti, osservavano gli sconosciuti. Il fuoco che aveva quasi completamente consumato la tenda piú grande e i ripari circostanti, si stava estinguendo sotto il peso del proprio stesso fumo. Quel fiume nero e ribollente ricopriva la metà posteriore dell’accampamento e poi si alzava formando un’onda concava la cui cresta si dissolveva in cielo. I cani uscirono per andare incontro ai cavalieri, alcuni ringhiavano, altri latravano un saluto, quasi tutti li osservavano con fredda curiosità.

«Erano qui» disse uno degli esploratori, stupefatto.

L’apripista e gli altri si fermarono ai confini del campo distrutto e caricarono le armi mentre esaminavano inutilmente quella terra desolata e nuda alla ricerca di nascondigli. Lorimer proseguí a cavallo fin dentro il fumo. Håkan lo seguí. Si coprirono il viso con le camicie mentre il fumo si addensava. Il sole era ridotto a un tramonto urticante. Lorimer sussurrò all’amico di fermarsi e alzò una mano per chiedergli di tacere. Erano avvolti dalle numerose spire di un vortice denso e granuloso. Avrebbero potuto alzare le mani e afferrare la cenere a manciate. Il mondo finiva poco oltre le orecchie dei loro cavalli. Smontarono e Håkan seguí il naturalista nel cuore di quella nuvola di fumo. Da sotto arrivavano dei colpi di tosse soffocati. Fissarono entrambi il terreno, ma i loro piedi erano quasi invisibili. Lorimer si fermò, si chinò e raccolse un fagotto. Era un neonato, il viso completamente avvolto in uno straccio bagnato, come una piccola mummia. Håkan si accovacciò e scoprí che il fumo restava sospeso un paio di piedi sopra il terreno. Distesi nella polvere, quasi schiacciati da quel soffitto basso e nero, c’erano una dozzina di corpi. Il fumo sembrava appoggiato alle loro schiene. Avevano le facce coperte di stracci. Una mano si aggrappò fiacca alla caviglia di Håkan, facendolo sobbalzare.

«Prima i bambini» disse Lorimer.

Uno alla volta, li portarono tutti fuori all’aria fresca. Erano gravemente feriti e quasi privi di sensi. Uno degli uomini tirò fuori un coltello ma era troppo debole per usarlo. Mentre Lorimer iniziava a dare un’occhiata alle ferite, l’apripista e altri due uomini si avvicinarono a cavallo dopo aver fatto il giro della nuvola.

«Luridi bastardi» disse. «Si sono nascosti sotto il fumo. Credevo che avessero fatto una strana magia indiana e fossero scomparsi».

Lorimer non si disturbò nemmeno ad alzare gli occhi. Era impegnato a curare i feriti.

«Carichiamo tutte le pelli sul carro. I pony ce li dividiamo» disse l’apripista.

«Il carro e i pony restano qui. Prendetevi il resto e andatevene».

L’apripista restò di stucco. Lorimer aveva intenzione di restare? Ne seguí una discussione accalorata riguardante i pony. Di lí a poco si misero a urlare. Håkan non riusciva a capire le parole, ma la lite si concluse quando Lorimer andò a prendere delle monete d’oro dalla sacca appesa alla sua sella e congedò gli uomini. Infuriato, l’apripista prese il denaro, fece dietrofront e ordinò agli uomini di caricare il bottino e lasciare lí i pony. Prima di tornare dai feriti, Lorimer guardò Håkan.

«Senza il mio aiuto, quasi tutte queste persone moriranno» disse. «Io rimango. Fort Squibb è soltanto a pochi giorni di viaggio. Vai con loro».

«Io rimango».

«Vai».

«Ti aiuterò».

Lorimer annuí e gli chiese di stringere un laccio emostatico intorno alla gamba di un uomo. Come tutte quelle persone gravemente ferite fossero riuscite a nascondersi sotto la nuvola di fumo, era un mistero. Crani fratturati, ossa spezzate, gabbie toraciche e membra spappolate dalle pallottole, interiora trattenute a malapena da mani tremanti. Cosa strana, quasi tutti i bambini erano pienamente coscienti e piú o meno immuni dagli effetti del fumo. Mentre la nuvola di fuliggine si dissipava, alcuni adulti relativamente in buone condizioni si guardarono intorno, come se si fossero d’un tratto risvegliati in una terra nuova e sconosciuta.

Erano tutti snelli. Non c’era nulla di omogeneo nel loro abbigliamento: vesti di cuoio, poncho, calzoni, perizomi, camicie, sandali, stivali, piedi nudi, fasce, cappelli, fazzoletti. Sotto il sangue, erano estremamente puliti, a differenza di tutti gli uomini e donne bianchi che Håkan aveva incontrato dal suo arrivo in California. Fino a quel momento, nel deserto aveva visto soltanto facce scempiate dagli elementi: pelli lacerate sotto le quali la carne luccicava come un disgustoso frutto maturo che, con il tempo, acquistava inevitabilmente la consistenza e il colore del legno marcio. Ma quelle facce non rivelavano alcuna lotta contro l’ambiente circostante. Håkan pensò che il viso di Lorimer aspirasse a diventare simile ai loro.

Si rese conto di avere sempre creduto che quegli immensi territori fossero vuoti; era stato convinto che fossero abitati soltanto nel breve periodo in cui erano attraversati da viaggiatori e che, come l’oceano dopo il passaggio di una nave, la solitudine si richiudesse alle spalle degli uomini a cavallo. Capí anche che quei viaggiatori, compreso lui, in realtà erano degli intrusi.

L’uomo che aveva sfoderato il coltello cercò di nuovo di aggredire Lorimer ma fu frenato dal suo stesso dolore. Aveva il piede sinistro completamente ritorto: il tallone si trovava dove avrebbero dovuto esserci le dita, la pelle formava una spirale nera intorno alla caviglia ed era squarciata, rivelando ossa e tendini. L’orrore di Håkan lasciò spazio a curiosità e stupore. Lorimer tenne ferma la testa dell’uomo infuriato e gli asciugò la fronte sudata.

«Siamo amici» disse.

L’uomo lo fissò, ancora furente. Lorimer tirò fuori la pistola dalla fondina, la mostrò all’uomo, reggendola per la canna con pollice e indice, come se fosse un animale schifoso, e la buttò via.

«Amici» ripeté.

La furia dell’uomo si trasformò in confusione, ma sembrava aver capito che non avevano intenzione di fargli del male. Lorimer domandò a Håkan di andare a prendere sul carro strumenti, medicinali e unguenti. Come primo provvedimento, somministrarono tintura sedativa a quanti provavano un dolore lancinante o avevano bisogno di essere operati. Tra chi ebbe una pronta guarigione c’era un vecchio con dei capelli bianchi corti, tagliati con grande precisione: un’eccezione tra i suoi compagni dalle chiome fluenti. Il lavoro di Lorimer sarebbe stato impossibile senza l’aiuto del vecchio. Nessuno osava contraddire i suoi consigli o i suoi ordini. Se non il capo della comunità, l’uomo dai capelli corti era sicuramente un’autorità indiscutibile, e le cure piú drastiche, come le amputazioni, non avrebbero mai potuto essere eseguite senza la sua approvazione. L’uomo si rivelò anche un ottimo medico, dotato di una raffinata comprensione della struttura umana, e aveva salvato dal saccheggio risorse preziosissime: un anestetico locale fatto con erbe e funghi tritati, alcune ceneri dalle miracolose proprietà curative e altri unguenti e pozioni benefici. Lui e Lorimer discutevano ogni caso a gesti. Håkan osservava e imparava.

Oltre a offrire i suoi unguenti e il suo talento medico, l’uomo con i capelli corti compí due gesti che modificarono le nozioni di Lorimer sulle procedure chirurgiche e influenzarono profondamente il futuro di Håkan. Quando il naturalista era in procinto di effettuare la prima operazione, l’uomo con i capelli corti gli fermò la mano prima che il bisturi potesse incidere la pelle e, dolcemente, lo accompagnò a una pentola d’acqua che bolliva sul fuoco. Dentro c’erano i suoi strumenti. Grazie al linguaggio dei segni, domandò a Lorimer di immergere il bisturi nell’acqua bollente. Lorimer era confuso ma alla fine obbedí. Mentre gli strumenti bollivano, l’uomo con i capelli corti canticchiò una melodia. Dopo un po’, li tirò fuori con delle pinze di legno, facendo bene attenzione a non toccare mai le parti che sarebbero venute a contatto con il paziente. La seconda cosa che fece fu lavarsi le mani. Per far questo, utilizzò una forte bevanda alcolica che aveva recuperato dal saccheggio. In alcuni casi, usava il medesimo liquido per pulire le ferite. Prima di ogni operazione, ripeteva queste due procedure, la bollitura degli strumenti e il lavaggio delle mani. Con il tempo, Lorimer, stupefatto, dovette concludere che il bassissimo numero di infezioni doveva essere collegato al rituale seguito dall’uomo.

«I nostri insigni studiosi nelle nostre accademie di marmo non sono riusciti a comprendere ciò che quest’uomo saggio ha ricavato dalla sua osservazione della natura: che la putrefazione che fiorisce in una ferita e le malattie che sbocciano in una lacerazione aperta possono essere troncate sul nascere. Il seme di queste malattie può essere bollito e cancellato prima ancora che metta radici nella carne».

Il ricordo di Håkan di ciò che accadde dopo la prima operazione fu oscurato da dense macchie di sangue, ma dietro quelle spirali cremisi tendenti al nero, la sua memoria aveva la precisione chirurgica di un’immagine dipinta con un pennello formato da un solo pelo. Fino al tramonto estrassero pallottole sepolte nelle fibre piú profonde della carne, legarono le estremità frastagliate di ossa fratturate, ricomposero visceri e ricucirono addomi, cauterizzarono ferite con ferri incandescenti, segarono braccia e piedi, e cucirono lembi di pelle, ottenendo da muscoli, grasso e ossa dei moncherini arrotondati. Concentrato sul lavoro, Håkan scoprí una forma di fredda attenzione che gli era completamente nuova. Sentiva che il suo distacco era l’unico approccio corretto alla cura dei feriti. Qualunque altra cosa, a partire dalla compassione e dalla commiserazione, poteva soltanto sminuire il dolore di chi soffriva accostandolo a un’agonia puramente immaginaria. E imparò che la pietà è insaziabile: una virtú falsa che agogna una sofferenza sempre maggiore per poter dimostrare la sua infinitezza e magnificenza. Questo senso di responsabilità mise in luce un disaccordo fondamentale con le dottrine di Lorimer. Il naturalista sosteneva che ogni tipo di vita fosse la stessa cosa e, alla fine, costituisse un tutto. Proveniamo da altri corpi e siamo destinati a diventare altri corpi. In un universo fatto di universi, diceva spesso, la gerarchia perde di significato. Ma ora Håkan avvertiva la santità del corpo umano e considerava ogni sguardo sotto la pelle una profanazione. Lí non si trattava di galline selvatiche.

Quando fu troppo buio per continuare a operare e a curare gli infermi, Lorimer si avvicinò con il fucile a uno dei burro, con aria composta glielo puntò alla testa e sparò, uccidendolo. Due uomini feriti lievemente lo aiutarono a macellare l’animale. Il sangue tiepido fu dato da bere ai deboli. I piú sani si scelsero da soli la parte che preferivano; una volta che ebbero tagliato e mangiato lingua, fegato e pancreas, spezzarono i femori e ne succhiarono il midollo. Dopo aver arrostito alcune costolette e aver salato la carne commestibile rimasta, Lorimer fece bollire la testa del burro e piú tardi serví il brodo ai malati piú bisognosi. Due donne prepararono un pane a forma di serpente. Arrotolarono un lungo cilindro di pasta e poi lo avvolsero a spirale intorno a un bastone, che fu piazzato in diagonale su una X fatta di due altri bastoni sopra alcune braci. La spirale di pasta fu rigirata a intervalli regolari e alla fine il bastone fu sfilato dal centro. Il pane a forma di molla fu fatto circolare e ciascuno spezzò un anello della spirale, bruciacchiato all’esterno e umido all’interno.

Quella notte, quando i pazienti sedati si furono addormentati, l’uomo con i capelli corti e Lorimer si divisero un calumet. Incalzato dal naturalista, che non voleva offendere l’ospite, anche Håkan aspirò qualche boccata. Sapeva di lamponi, urina e piume bagnate. Tossí discretamente senza aprire bocca e sentí lo stomaco premergli contro l’ugola.

Lorimer voleva sapere se gli aggressori erano stati dei bianchi. Cercò di comunicare a gesti e disegnando delle scene con il carbone. L’uomo con i capelli corti, concentrato sul sistemare il contenuto della pipa, non gli prestava molta attenzione. Lorimer provò a mettere in scena gli avvenimenti usando come attori Håkan e il vecchio impassibile. Dopo una serie di tentativi sempre piú intensi e astratti, l’uomo con i capelli corti si alzò, mise le dita sulla guancia di Lorimer e disse: «Wooste». Poi si avvicinò a Håkan e, con un gesto che racchiuse tutto il corpo dello svedese, ripeté la stessa parola: «Wooste». Indicò entrambi ancora una volta e disse: «Wooste». Alla fine prese il braccio di Lorimer, lo impugnò come se fosse un fucile, lo puntò verso i feriti che giacevano nell’ombra e sparò. «Wooste».

Con il passare dei giorni, i pochi uomini e donne che avevano riportato ferite superficiali iniziarono a ripulire e a ricostruire l’accampamento. Con l’aiuto di aghi d’osso e budello, trasformarono stracci in trapunte e trapunte in tende. I bambini lavoravano altrettanto duro al loro accampamento, una riproduzione in scala ridotta di quello reale, fatta di ritagli di cuoio e pezze di stoffa. Forse a causa del fatto che le sue dimensioni enfatizzavano la vastità dell’ambiente circostante, sembrava piú sostanzioso, piú ricco di realtà di quello vero. Parecchie volte al giorno i bambini chiedevano a Håkan di camminare intorno alle tende giocattolo e tutti, compresi gli adulti, si divertivano a vedere quell’uomo gigantesco ulteriormente amplificato dalla passeggiata tra i modellini in scala.

Alla fine, fu chiaro che circa un terzo dei feriti sarebbero morti. Le lacerazioni brillavano di cancrena iridescente e i cervelli erano stati completamente consumati dall’infezione e dalla febbre. L’uomo con i capelli corti li preparò alla dipartita lavandoli meticolosamente, spazzolandone i capelli e spalmandoli di un olio profumato di lillà. Ogni volta che le ferite lo permettevano, li vestiva e li ornava con i pochi oggetti preziosi che i saccheggiatori avevano tralasciato: sassi colorati, piume e ossa intagliate. Che queste spoglie fossero state trascurate confermava che i predatori erano stati bianchi, cioè wooste. Coloro che erano abbastanza forti da reggersi in piedi pregavano per i morenti, a turno. Con voce quasi impercettibile, cantavano una specie di ninnananna. Era un canto straordinario, non soltanto per la sua grande bellezza (la sua morbidezza, come un brivido da sfioramento, sembrava questione di tatto, piú che di udito) ma soprattutto a causa della sua lunghezza e composizione. Non aveva un ritornello e nessuna parte della melodia, e nemmeno del testo, a quanto Håkan aveva potuto capire, veniva mai ripetuta, ma scorreva in avanti come un ruscello in continuo fluire. La cantavano tutto il giorno a gruppi di tre o quattro, perfettamente all’unisono, senza mai perdere la nota, il ritmo, la parola. Quando un turno si concludeva, un altro gruppo subentrava senza la minima interruzione o transizione. Ogni volta, indipendentemente dal gruppo, cantavano con precisione stupefacente, senza scambiarsi alcun segnale visibile, come se le loro bocche fossero governate da un’unica mente: a Håkan ricordavano gli stormi o i banchi in cui centinaia di uccelli o pesci cambiano bruscamente direzione, ondeggiando a destra e a sinistra esattamente nello stesso momento, senza alcun preavviso. Se il canto era circolare, la curva era abbastanza lunga e cosí poco pronunciata da rendere impossibile percepire le ripetizioni. Che si trattasse di un canto infinito o di una melodia costituita da ritornelli incalcolabilmente lunghi, Håkan non riusciva a concepire come fosse possibile averla mandata a memoria. Pensò che forse i cantanti se l’inventavano man mano che procedevano, condividendo evidentemente una specie di codice; per esempio, un certo suono di una certa lunghezza poteva essere seguito soltanto da una nota ben precisa di una durata ben precisa, e una procedura simile si applicava alle parole, in modo che la melodia e la poesia erano completamente condensate nel nucleo della prima nota e della prima parola. Ma questo sistema non poteva spiegare pienamente la ricchezza e la complessità di quella ninnananna, e se fosse stato possibile, si trattava comunque di regole difficili da memorizzare quanto un canto infinito.

Il primo paziente morí. Gradualmente sfigurato da un’infezione, fu soffocato a morte da un’infiammazione acuta al collo e alla testa. Dopo aver chiuso gli occhi dell’uomo, il naturalista si guardò intorno e poi fissò il suo discepolo con palese preoccupazione.

«Spero che comprendano che abbiamo fatto del nostro meglio» mormorò.

La reazione alla morte del giovane fu sorprendente, ma non perché i suoi amici e la sua famiglia si fossero infuriati per il risultato delle cure. Non ci fu rabbia; non ci furono pianti disperati; non ci furono nemmeno lacrime. Håkan constatò con stupore che la loro reazione era straordinariamente simile al lutto in Svezia. Ricordava chiaramente la morte di suo fratello minore. I suoi genitori e alcuni vicini di casa che vivevano molto lontano avevano partecipato al funerale con lo stesso dolore austero della gente che ora camminava intorno al giovane morto, fingendo di non vederlo. I loro visi severi sembravano implicare che quel lutto trascendesse i limiti dei sentimenti conosciuti e che, di conseguenza, le espressioni di dolore consuete fossero inutili. Invece che lasciarsi offuscare dalle lacrime, i loro occhi erano induriti da un’espressione di sfida, e la loro rabbia silenziosa impediva loro di guardarsi. L’uomo con i capelli corti spogliò il cadavere. Chi si trovava nelle vicinanze prese ciò che gli conveniva di piú. Il corpo fu steso su una barella di tela e portato verso il tramonto. Non ci fu processione funebre, soltanto l’uomo con i capelli corti e il suo compagno che trasportavano la barella. Quanti rimasero indietro sembrarono dimenticare il morto non appena fu portato via. Tornarono ai loro compiti, chiacchierando in tono indifferente. I loro occhi si erano ammorbiditi.

Dopo essersi accertato che i suoi pazienti potessero sopravvivere qualche ora senza la sua supervisione, Lorimer seguí i portatori mantenendosi a una rispettosa distanza. Håkan gli andò dietro. Camminarono per circa tre miglia nel deserto ostinato. Polvere. Artemisia. Cielo. Ogni tanto, udivano qualche frammento della conversazione tra i barellieri. Il sole tramontò senza clamore; fece buio e basta. La luna color peltro era poco piú che un profumo nella notte. A un tratto, in un punto simile a tanti altri, i portatori si fermarono, scaricarono il cadavere, arrotolarono la barella e, senza alcun tipo di cerimonia, fecero dietrofront e si allontanarono. Quando raggiunsero Lorimer e Håkan, si fermarono e offrirono loro carne secca e della polpa di cactus glassata, il primo dolce che i viaggiatori assaggiavano da tanti mesi. Dopo il lungo processo di masticazione di quelle vivande gommose, gli uomini si guardarono, nella speranza che qualcuno cominciasse a parlare. L’uomo con i capelli corti guardò la luna pallida. Anche Håkan e Lorimer guardarono verso l’alto. L’uomo con la barella arrotolata non li imitò. L’uomo con i capelli corti disse qualcosa che Håkan avrebbe tradotto con «va bene» e iniziò a dirigersi verso l’accampamento, seguito dal compagno. Lorimer rivolse un cenno a Håkan e si avvicinarono al cadavere. Håkan non aveva mai visto nulla di cosí morto come quel corpo mutilato e derelitto tra la notte e il deserto. Si putrefaceva, abbandonato, già diventava nulla.

«Il tuo cadavere diventerà pasto di tutti gli uccelli del cielo e delle bestie selvatiche e nessuno li scaccerà: e pensare che questa è una delle maledizioni piú terribili di Dio. Ma riflettici attentamente. Niente sepolcro. Niente cremazione. Niente ossequi. Diventare carne per denti altrui» disse Lorimer riacquistando in parte la passione perduta. «Te l’immagini? Ti immagini che sollievo? Oseremo mai contemplare un cadavere senza il sudario della superstizione, nudo, com’è realmente? Materia e nient’altro. Siamo cosí preoccupati di perpetuare le nostre anime dipartite da aver dimenticato che al contrario sono le nostre carcasse e la nostra carne a renderci immortali. Sono sicuro che non l’hanno sepolto per far sí che la sua trasmigrazione in uccello e bestia sia piú rapida. I memoriali, le reliquie, i mausolei e altri tentativi vani di salvarci dalla corruzione e dall’oblio sono inutili. Quale tributo piú grande che offrire nutrimento alle nostre compagne creature? Quale monumento piú nobile della tomba viva di un coyote o dell’urna volatile di un avvoltoio? Quale conservazione piú affidabile? Quale resurrezione piú letterale? Questa è vera religione: sapere che esiste un legame tra tutte le creature viventi. Quando l’avremo capito, non ci sarà nulla da piangere, perché sebbene nulla possa essere conservato, nulla va mai perduto. Te l’immagini?» domandò di nuovo Lorimer. «Che sollievo. Che libertà».

Nei giorni successivi morirono altre quattro persone e ciascuna di esse fu trasportata nel deserto al crepuscolo.

I sopravvissuti guarirono. La ninnananna infinita cessò. Per quanto massacrati e mutilati, i convalescenti erano vigili e se soffrivano molto, erano abbastanza forti da non darlo a vedere. Tra i feriti c’era l’uomo che aveva cercato di accoltellare Lorimer. Dalla caviglia, quel vortice di ossa, tendini e carne, l’infezione aveva risalito il polpaccio e gli avevano amputato la gamba all’altezza del ginocchio. Non appena ebbe riacquistato un po’ del suo vigore, chiamò Lorimer al suo capezzale. Si mise a sedere con grande difficoltà e una smorfia di dolore amaro. Dopo aver ripreso fiato, pronunciò un discorso severo, breve ma appassionato. Quando ebbe finito, prese una borsa di cuoio e ne rovesciò fuori il contenuto. Tra le mani aveva circa due dozzine di denti, perfettamente estratti alla radice, alcuni ingialliti, altri grigi, tutti opachi e giganteschi. Uno di essi era lungo come tutto il palmo della sua mano.

«Delle lucertole spaventose» disse Lorimer affascinato e trasfigurato. «Rettili estinti. Creature simili ai draghi, spazzate via, cancellate dalla faccia della terra poco dopo l’alba dei tempi».

Alcuni di quei denti erano spezzati o frastagliati, ma l’uomo fu bene attento a sottolineare che ne aveva anche di grandi, in ottime condizioni. Guardò Lorimer e con una parola solenne gli offrí quel tesoro. Lorimer rifiutò. L’uomo insistette con grande veemenza. La scena si ripeté un paio di volte fino a quando il naturalista non capí che rifiutare quel dono non sarebbe stata soltanto una grande offesa, ma avrebbe anche minato la salute del paziente: quella discussione ne aveva già esaurito quasi tutte le energie. Prese i denti e l’uomo tornò a distendersi, fisicamente e spiritualmente sollevato. Accanto a lui una donna attirò l’attenzione di Lorimer e tirò fuori a sua volta un sacchetto. Di denti ne aveva meno e soltanto uno, da lei esibito con grande orgoglio, era in perfette condizioni. Ancora una volta, Lorimer, che l’aveva curata da una ferita da pallottola all’addome, dovette accettare il tesoro. Uno a uno, tutti i suoi pazienti lo chiamarono e, con un breve discorso cerimoniale, gli donarono una manciata di denti di drago. Nessuno di loro era ricco, in quantità o qualità, come il primo uomo con la gamba amputata. Mentre percorreva la corsia improvvisata, Lorimer dovette iniziare a mettere le offerte nel cappello. Quel mucchietto di schegge d’avorio non somigliava piú a dei denti, ma piuttosto a un mollusco non ancora classificato o a munizioni per un’arma non ancora inventata.

«Quale forma migliore di valuta?» disse Lorimer quasi pensando a voce alta mentre tornavano al carro. «Dal momento che non è possibile fabbricarli perché queste creature scomparse da tempo non possono essere allevate, e che la quantità disponibile è estremamente limitata, questi denti non perderanno mai il loro valore. Lo stesso principio dell’oro e dei diamanti. Ma questi valgono molto di piú, e ci ricordano che tutti gli esseri viventi, proprio come le merci, sono preziosi precisamente perché intercambiabili». Guardò quelle ossa simili a pugnali. «Il criterio perfetto».

Gradualmente all’accampamento la vita tornò alla normalità. I feriti erano fuori pericolo e le tende e le capanne erano state riparate. La riverenza che tutti avevano mostrato a Lorimer e Håkan svaní, e alla fine gli stranieri vennero semplicemente ignorati. L’unica eccezione all’indifferenza generale fu Antim, il guerriero invalido, che aveva avuto una guarigione straordinaria ed era diventato abbastanza forte da montare a cavallo. Era fanaticamente devoto a Lorimer e lo assisteva in ogni maniera possibile. Passavano insieme moltissimo tempo e il naturalista, con la facilità che gli era consueta, imparò rapidamente i rudimenti della lingua di Antim.

Le giornate di Håkan erano divorate quasi interamente dal suo desiderio di partire verso est. Ogni giorno sentiva aumentare la distanza che lo separava da Linus. Inoltre, dal momento che aveva aiutato Lorimer con i feriti, in lui si era sviluppato un senso di irrequietezza completamente nuovo. Fino ad allora la mancanza di suo fratello si era intrecciata e spesso confusa con la paura: certo, gli mancava Linus, ma gli mancava anche la sua protezione. Ora, però, Håkan non temeva per sé, ma per suo fratello. Aveva la costante sensazione che fosse Linus ad avere bisogno di lui; che fosse lui a dover salvare il fratello maggiore (si rese poi conto che quella preoccupazione si era sviluppata insieme alla sua educazione medica). Ma Håkan conosceva il deserto abbastanza bene da sapere di non potercisi avventurare senza provviste né animali. Poteva soltanto sperare che il suo amico decidesse di partire presto, e che si dirigesse a est. Alla fine, un pomeriggio Lorimer gli disse che era ora di andarsene.

«Io torno al Saladillo. Antim si è offerto di aiutarmi».

Håkan sentí il sangue abbandonargli il corpo. Inspirò e si guardò attorno alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Lorimer gli mise una mano sulla spalla.

«Non preoccuparti, mio caro amico» disse. «Tu partirai per New York a cavallo e con tutte le provviste necessarie. Antim, che si sente in debito anche con te, ti darà uno dei suoi pony e io ti offrirò tutto ciò di cui avrai bisogno per il viaggio».

«Ti prego, non tornare alle saline».

«Devo. E so che mi capisci».

Håkan riuscí soltanto a guardare per terra.

«Quando siamo partiti dal Saladillo, ho creduto di avere perduto per sempre la possibilità di trovare l’essere originario. Come avrei potuto ritornare in quella terra desolata? Ma ora Antim dice che mi ci può portare, che mi aiuterà a raggiungere gli stagni alcalini. Come posso rifiutare? Devo trovare la creatura, l’unico essere vivente che meriti il nome di creatura, perché è stato l’unico organismo mai veramente creato. Tutto il resto, noi compresi, sono soltanto riproduzioni sempre piú distorte di quell’organismo basilare. Capisci certamente cosa significherebbe una scoperta del genere. Come posso rifiutare?»

Håkan ricevette un pony e uno dei burro di Lorimer dotato di tutto il necessario. Il naturalista lo avvertí di fare una deviazione prima di procedere verso est. Se si fosse diretto a nord per circa due settimane, alla fine sarebbe giunto a un fiume, di cui a quel punto avrebbe avuto bisogno, e qualche giorno dopo a un’importante pista migratoria; anche se avesse perso la strada, gli sarebbe stato impossibile non vedere quella linea che si estendeva da costa a costa. Poi, avrebbe dovuto soltanto procedere controcorrente rispetto ai carri dei coloni e nel giro di pochi mesi avrebbe raggiunto l’Atlantico. Anche se avesse finito le provviste e gli animali si fossero ammalati, gli emigranti lo avrebbero aiutato e se avesse finito il denaro, poteva lavorare per un certo periodo – anche se questo l’avrebbe costretto a puntare a ovest per un po’, le carovane erano lente – e quindi riprendere il viaggio. Il flusso costante di pionieri rendeva la strada piú sicura. E poi, aggiunse Lorimer con un sorriso, quel fiume brulicante di emigranti che si recavano nella direzione opposta, con i loro carri, i buoi, i mobili, i cavalli, le merci, le donne e il bestiame, avrebbe creato l’illusione che era il mondo a muoversi, mentre Håkan restava dov’era.

La mattina che si separarono, il naturalista diede all’amico dell’oro, un fascio di banconote di vario taglio e una scatola di metallo lucido.

«Gli strumenti del tuo mestiere» disse mentre Håkan apriva la scatola. Conteneva fiale, boccette, bisturi, aghi, filo per sutura, pinze, seghe, forbici e altri strumenti chirurgici. «Oh, quasi dimenticavo» aggiunse Lorimer frugandosi nelle tasche. «Come navigatore non hai speranze. Possiedi altri talenti? Certamente sí. Non parlo di distinguere la destra dalla sinistra; il solo pensiero che tu conosca la differenza tra sopra e sotto mi sconvolge! Quindi ecco qui» disse offrendogli una bussola d’argento. «Questa me l’ha regalata Blume, il mio maestro, e adesso è tua».

Trascorsero gli ultimi momenti insieme a osservare l’ago, mentre Lorimer spiegava all’amico come trovare il Nord.