14.

Imparò a mettere a terra il cavallo e il burro. Iniziava con un abbraccio e la guancia appoggiata al collo dell’animale. Poi lo costringeva a piegare una delle ginocchia anteriori mentre con la gamba premeva di lato e in basso con tutta la forza del proprio corpo. Dapprima era una lotta, ma con il tempo le bestie capirono che, con un abbraccio e una leggera spinta, dovevano stendersi su un fianco e restare cosí finché Håkan non si fosse alzato. Lo faceva ogni volta che credeva di notare qualcuno sull’orizzonte circolare. Se Håkan e i suoi animali fossero stati avvistati, i lontani viaggiatori avrebbero scambiato quelle sagome evanescenti per un miraggio. Ma di viaggiatori cosí non ce n’erano: le ombre semoventi che scorgeva quasi ogni giorno in lontananza erano illusioni. Con l’intenzione di allontanarsi dalla pista e dal freddo, Håkan aveva proseguito verso sud per giorni. Non aveva incontrato né insediamenti né sentieri, e non aveva trovato tracce di cacciatori, cercatori o indiani. Per settimane, le uniche forme umane visibili erano state le sue estremità e la sua stessa ombra. Le pianure che lo circondavano non permettevano né imboscate né sorprese. Nell’aria ghiacciata il suono sembrava propagarsi piú velocemente e se qualcosa sfuggiva al suo sguardo, subito gli arrivava alle orecchie. In quelle pianure senza sponde la sua solitudine era assoluta. Eppure si sentiva messo all’angolo. Il minimo movimento nel cielo, il piú fioco fruscio tra i cespugli e lui si sdraiava a terra insieme agli animali. Se ne stavano zitti con le orecchie a terra e la polvere nelle narici. Håkan misurava il tempo palpando le pulsazioni dell’arteria sotto il cuoio vivo del collo del cavallo. Dopo almeno cento battiti, o il doppio se riteneva che il pericolo fosse grave, alzava gli occhi e i tre si rimettevano in piedi e riprendevano il cammino.

Aveva una tale paura di incontrare qualcuno che potesse conoscere lui e le sue imprese che, oltre alle ombre illusorie che lo spingevano a buttarsi a terra insieme agli animali, cominciò a percepire segni di presenza umana a ogni piè sospinto. Qualche rametto spezzato (e nella steppa composta di artemisia di rametti spezzati ce n’erano molti) a suo parere segnalava il passaggio di un uomo a cavallo; alcuni sassi disposti in un disegno piú o meno regolare (e lui vedeva disegni ovunque) rappresentavano i resti di un fuoco da campo le cui ceneri erano state disperse dal vento; una pallida striscia di terra nuda (e strisce cosí solcavano le pianure in tutte le direzioni) veniva scambiata per una pista; un cerchio ben definito tra l’erba alta (e il caso aveva tracciato innumerevoli cerchi in tutte quelle distese) significava che del bestiame aveva pascolato all’interno di un anello di carri. Parecchie volte al giorno smontava di sella e raccoglieva dello sterco secco per accertarsi che non fosse equino; e se invece proveniva da un cavallo, per stabilire quanto fosse vecchio. Esaminava carcasse e ossa calcinate, alla ricerca delle prove di un metodo umano nella maniera in cui erano stati macellati. L’aria, che aveva sempre trovato priva di aromi, ora sembrava portare con sé ogni genere di odore umano, dal pane di granturco alla polvere da sparo. Moltitudini avevano appena abbandonato il cerchio della sua realtà o erano prossime a invaderlo. Con l’avanzare del freddo, la terra induriva e invece del tonfo soffocato e reso morbido dal muschio a cui Håkan era abituato, gli zoccoli acquisirono un suono legnoso. Con l’incerata fabbricò otto sacchetti, li riempí d’erba secca e vecchi stracci, ci infilò gli zoccoli del cavallo e del burro, e glieli legò alle caviglie. Quegli scarponcini impedivano di udire il rumore degli zoccoli e questo diede al suo viaggio la leggerezza di un’idea irrealizzata. Håkan cavalcava perlopiú di sbieco, con un orecchio teso in avanti, in ascolto di altri viaggiatori su quelle distese mute. Le pianure che dapprima gli erano sembrate impenetrabili nella loro nuda monotonia, e poi una fonte di conoscenza, ora erano diventate una superficie cifrata, satura di messaggi in codice con un unico significato: la presenza altrui. Uomini che l’avrebbero visto in quelle condizioni degradate, corrotte. Erano sempre appena oltre l’orizzonte. Come l’inverno.

Cercando di evitare ulteriori incontri con gli ultimi ritardatari sulla pista e alla ricerca di un clima piú mite, Håkan puntò verso sud, sempre con una leggera inclinazione verso oriente. L’inverno era un’onda gigantesca che montava in lontananza, che si increspava sopra le pianure, pronta a infrangersi e a travolgere il minuscolo cavaliere in un vortice di oscurità e ghiaccio. L’ombra di quell’onda colossale l’aveva già catturato. Le giornate si erano fatte piú corte. Il sole aveva perduto la sua supremazia. L’erba marrone era inamidata dal gelo. La legna diventò immune dall’esca. L’acqua sciabordava sotto ragnatele di ghiaccio. La selvaggina scarseggiava. Dovette razionare le provviste. Mangiò diverse piante che lo fecero stare male, finché alla fine trovò un gambo succulento che spappolava con l’impugnatura del coltello riducendolo a una polpa dolceamara e leggermente salata che gli ricordava le caramelle alla liquirizia che sua madre gli aveva regalato con grande solennità tre volte nella vita, e che lui aveva finto di trovare buone. Per un po’ mangiò i grilli, ma di lí a poco le provviste divennero insufficienti finché, con l’arrivo del gelo, non scomparvero del tutto.

Dal momento che lui aveva solo poche coperte da buttare sopra quell’accozzaglia di vestiti che gli avevano procurato gli indiani, ben presto le pellicce diventarono preziose come la carne. Quasi tutti gli animali erano migrati a sud o si erano chiusi nelle loro tane per il letargo invernale, ma giravano ancora alcuni cani, roditori e gatti, gli occhi convessi dalla fame e dalla disperazione. Catturò i primi tassi e ratti con una trappola a trabocchetto. Ridotte a una poltiglia di carne e peli sotto quella roccia pesante, le creature piú piccole – la maggioranza tra quelle catturate – erano difficili da scuoiare e impossibili da mangiare. Un pomeriggio, mentre gettava via un coniglio particolarmente danneggiato, ripensò alla colla di suo padre. Un paio di volte l’anno suo padre raccoglieva cotenne e carcasse di animali morti, soprattutto topi e lepri catturati intorno a casa, anche se una volta aveva usato i pezzi di un alce trovato a marcire nella foresta; grattava le pelli e bolliva per un paio di giorni ciò che ne risultava, insieme a ossa, code e tendini, aggiungendo pochissima acqua, finché il tutto si riduceva a uno sciroppo vischioso simile alla resina. Poi toglieva le ossa e usava la pasta per piccole riparazioni. Una volta, particolarmente soddisfatto del risultato, sfidò Linus a spaccare due assi che aveva messo insieme con quella mistura. Linus, orgoglioso di essere trattato come un adulto e, inoltre, ansioso di esibirsi in una prova di forza, aveva afferrato le assi e, senza alcuno sforzo visibile, le aveva separate con uno schianto. Era accaduto cosí in fretta che lui non era nemmeno riuscito a esalare la grande boccata di fiato inalato per prepararsi all’impresa. Dopo l’iniziale stupore, Linus aveva sorriso orgoglioso, ma poi aveva alzato gli occhi e notato l’espressione di suo padre. L’uomo aveva detto ai figli di pulire quel disastro, poi si era voltato e se n’era andato. Anche se la colla non era abbastanza forte per il legno, Håkan pensò che forse poteva essere usata per catturare piccoli animali selvatici. L’ostacolo principale alla sua fabbricazione era tenere acceso un fuoco per cosí tanto tempo, non solo perché la legna scarseggiava e il vento soffiava forte, ma soprattutto perché aumentava le sue possibilità di essere avvistato. Dopo aver trascorso i giorni successivi ad ammucchiare combustibile, costruí uno schermo con delle coperte e dei teli che avevano il doppio pregio di riparare il fuoco dal vento e celarne il bagliore durante la notte. Dopo avere bollito per quasi due giorni i ritagli e i brandelli delle sue prede spappolate, versò la colla su un pezzo d’incerata e come esca vi aggiunse delle gallette. La prima vittima, un geomide, riuscí a sfuggirgli. Un secondo geomide fuggí a sua volta da quella trappola appiccicosa, che però lo rallentò a sufficienza perché Håkan riuscisse ad assestargli un bel colpo sulla testa. Quasi tutti gli animali, sebbene confusi dall’improvvisa vischiosità del terreno sotto le zampe, riuscivano a scappare con la galletta. Anche se deluso, a ogni sconfitta Håkan si sentiva piú vicino a suo padre. Con il tempo, però, tra il trabocchetto e la colla che, una volta asciutta, diventava un blocco d’ambra che era possibile fondere e riutilizzare piú volte, Håkan riuscí a catturare un bel numero di cani della prateria, furetti, donnole, tassi, ratti, lepri e perfino piccoli cani.

Con le pelli iniziò a confezionarsi un cappotto. Tutte le dissezioni che aveva operato sotto la guida di Lorimer l’avevano trasformato in un esperto scuoiatore. Con pochissime incisioni, le pellicce quasi scivolavano giú dai corpi, come se fossero foderate di seta e la carne che ricoprivano fosse fatta di cera. In certi casi riuscí a lasciarle quasi intatte, dando l’impressione che il corpo all’interno si fosse semplicemente sciolto o fosse evaporato. Dopo aver scuoiato la preda, Håkan grattava via dalle pelli carne e grasso, e le stendeva ad asciugare sulle bisacce che pendevano dalla sella del cavallo e sulla groppa del burro. Ripensando alle donne indiane che aveva visto conciare pelli di bisonte mentre i loro uomini giacevano stesi a terra svenuti a forza di bevute, Håkan strofinò i cervelli degli animali appena uccisi sulle pellicce rigide, per ammorbidirle. Visto che quei cervelli erano molto piccoli, li maciullò e li mescolò ad acqua. Durante un periodo di siccità, scoprí che la sua urina produceva risultati migliori.

Dopo averli pestati un po’, i tendini disseccati degli animali piú grandi si frantumavano in fibre che Håkan separava e usava come filo per cucire, con gli aghi chirurgici, i diversi ritagli di pelle conciata. Era un procedimento lento – cacciare, conciare, filare, cucire – ed era già caduta la prima neve. Senza pistola, non aveva speranza di colpire uno degli ultimi pochi orsi o grandi felini che a volte avvistava in lontananza, intenti a divorare le carcasse che lui si lasciava dietro. Una volta si spalmò di sangue e si distese, fingendo di essere ferito e sperando di accoltellare una lince che gli stava alle calcagna. La lince non arrivò mai. Non molti giorni dopo, però, qualcosa di meglio rimediò a quel fallimento.

Tra i leggeri fiocchi di neve che si scioglievano prima ancora di toccare terra, gli giunse il pianto di un bambino. Come al solito, la prima reazione di Håkan fu di mettere a terra cavallo e burro. Nella foschia, il pianto proseguí. Le goccioline leggere sembravano un’aureola gelida sospesa intorno al suo viso, in contrasto con il tepore proveniente dai muscoli del cavallo che gli si contraevano sotto la guancia. Niente voci maschili o femminili. Niente tintinnii di briglie o cigolii di molle. Niente fragori di carri o trapestii di bestiame. Soltanto un gemito solitario. Il cavallo di Håkan si fece irrequieto, ma lui gli si premette contro e lo fece restare giú. Passò molto tempo. Il pianto non cessò mai, proveniva sempre dallo stesso punto nella caligine bianca. A parte il pianto, silenzio totale. Smise di nevicare. La nebbia si infittí. Fradicio e irrigidito, Håkan si alzò, montò a cavallo e cavalcò verso le nubi striscianti. A ogni passo il pianto diventava piú forte. La pianura riusciva a malapena a resistere alla nebbia. Håkan sfoderò il coltello. Mentre avanzava, il terreno davanti a lui svaniva nella realtà del candore che lo attendeva. Poi, in una piccola depressione accanto a dei cespugli, prese forma un puma. Giaceva in un lago del suo stesso sangue, annacquato dalla neve. Lí vicino, un cucciolo cieco e piangente. Stava diventando roco. Håkan smontò e vide subito che il puma era morto tentando di dare alla luce il secondogenito, podalico, e ancora incastrato per metà. Håkan fece girare la madre e avvicinò il cucciolo piangente a uno dei capezzoli. Dalle zampe posteriori tese alla testa, il puma era piú lungo di Håkan. Il cucciolo succhiò avido. Dopo qualche istante, rendendosi conto che non usciva niente, ricominciò a piangere. Håkan cercò di mungere la madre. Poi frugò tra le sue provviste e offrí al cucciolo tutto ciò che aveva: carne secca, acqua zuccherata, la carne affumicata di diversi animali, avena, pancetta e gallette inumidite. Nelle grida disperate del cucciolo ora Håkan avvertiva della rabbia. Si tagliò l’avambraccio e avvicinò il muso del piccolo al sangue, ma quello non volle assaggiarlo. Håkan guardò tra le fauci piangenti e vide la volta scanalata del palato, i dentini acuminati e le scaglie bianche sulla lingua rosata. Annusò il fiato pulito proveniente da quello stomaco vuoto. Poi scrutò la creatura negli occhi acquosi e le torse il collo. Madre e cucciolo furono scuoiati.

I suoi animali erano esausti e malnutriti ma Håkan sapeva che la loro unica speranza era sfuggire al freddo del nord. Rinunciò a ogni aspirazione, per quanto ridotta, di dirigersi a est. Le costanti folate di vento gelato gli davano la sensazione di cadere, invece che di camminare. Aveva la faccia infiammata dal vento, le mani screpolate, i piedi tagliati dai geloni. Il cavallo procedeva con la testa bassa, quasi premuta contro il petto. Ogni tanto Håkan doveva fermarsi e voltarsi per riposare da quell’ululato inarrestabile, assordante, folle, che in testa non gli lasciava spazio nemmeno per un pensiero. Non c’era modo di accendere un fuoco e lui dormiva avvolto nella sua pelle di puma. Quando non gli bastava, costringeva il cavallo a stendersi e gli si accoccolava accanto. Una notte che il cavallo si rifiutò, Håkan imparò che il burro era felice di permettergli di dormire appoggiato al suo torace e a quel modo condivisero il reciproco calore durante parecchie tempeste di neve. In quei giorni, l’unico sollievo lo provava al pensiero di quanto sarebbe stato improbabile imbattersi in qualcuno dentro quell’urlo che annichiliva tutto. La sua solitudine era perfetta e per la prima volta da mesi, nonostante il ruggito e le frustate del vento, trovò la pace.

All’orizzonte emerse una modesta catena montuosa. Dopo mesi e leghe di deserto ed erba appiattita, quei rilievi frastagliati svettavano nel cielo come un fenomeno ultraterreno. Alcune cime si perdevano perfino tra le nubi basse. Le pendici, incredibilmente, erano verdi. Forse lui avrebbe potuto rifugiarsi là e magari sull’altro versante il vento sarebbe stato piú clemente. Due giorni dopo, era già a metà della sierra piú accessibile. Sollevato da quel cambiamento rispetto all’invariabile piattezza della steppa, Håkan procedeva a cavallo in salita, con gioia. E gli alberi. Alberi sempreverdi. Verticali. Sotto quella volta verde, uccelli amichevoli (non i saprofagi disperati e impazziti che a volte sorvolavano le pianure) cinguettavano e si muovevano indaffarati intorno ai loro nidi. Tagliata e divisa da rami e aghi, la luce cinerea del sole riprendeva un po’ di tepore quando spioveva in raggi discreti e sottili sulle pietre ricoperte di licheni. Il sottobosco brulicava di vita: tamia, lombrichi, volpi, insetti. Accanto a un pino, Håkan trovò dei funghi burrosi che gli ricordarono i finferli che raccoglieva sempre insieme a Linus. In Svezia non erano funghi invernali ma Håkan ne raccolse uno e, riconoscendone il profumo fresco eppure troppo maturo, ne staccò cautamente un morso. Poi crollò e dovette reprimere un singhiozzo. Verso il tramonto, trovò una caverna stretta dove cucinò i funghi nel lardo e li mangiò a occhi chiusi. Il giorno dopo riposò. Quando si svegliò da quel lungo sonno muschioso, mise un paio di trappole e si mise a lavorare al suo cappotto.

Com’era inevitabile, quel capo fu costruito tutto intorno alla pelle del puma. Håkan era stato bene attento a staccarla praticando il minor numero possibile di incisioni, per conservarne integralmente la forma. Con qualche toppa di cuoio cucita o incollata a qualche punto essenziale nascosto sul rovescio della pelliccia (orecchie, fronte, muso, mandibola), la testa del puma, ridotta a uno straccio, riguadagnò un po’ della sua maestà. Pendeva sotto la nuca, ma poteva anche fungere da minaccioso cappuccio. Gli arti anteriori, legati intorno al collo, potevano essere indossati come una sciarpa, tenuta ferma dal peso delle zampe, riempite di terra e sassolini. Il dorso del puma ricopriva la schiena di Håkan in modo che la coda del felino sembrasse la continuazione della spina dorsale dell’uomo. Con quella veste per ora senza maniche, Håkan sperava di fabbricarsi un cappotto vero e proprio, per il quale stava cucendo insieme tutte le pelli piú piccole conciate lungo il percorso. Durante il soggiorno nella caverna, catturò una volpe che, da sola, gli serví per ricavarne quasi una manica intera. Dal momento che la pelle del puma gli ricopriva quasi tutto il corpo e che in quella piccola foresta di montagna la selvaggina abbondava, ora aveva delle pelli in piú, con le quali si costruí un piccolo riparo pieghevole.

Se i pascoli non fossero stati cosí scarsi, avrebbe trascorso lí l’intero inverno, a cucire tranquillo, a mettere trappole e mangiare stufato di funghi nella tana che stava rapidamente diventando il posto piú simile a una casa che avesse mai conosciuto durante i suoi viaggi.

Quando ebbe superato la cima e sceso le pendici meridionali, fu felice di avere proseguito. Sull’altro lato della montagna il vento era piú dolce, l’erba piú tenera e il sole meno lontano. Ogni tanto nevicava ancora e le notti erano lunghe e aspre, ma secondo i suoi calcoli l’inverno doveva essere ormai trascorso per metà e se quello era il peggio, era certo che sarebbe sopravvissuto. Anche se era sempre diretto a sud, impresse alla sua rotta una lieve inclinazione verso est. Le sierre erano ben lontane dall’essere insormontabili ma Håkan era piú a suo agio sapendo che si trovavano tra lui e la pista. Scrutava sempre le pianure alla ricerca di uomini, ma non vide tracce lasciate né da fuochi, né da utensili o bestiame.

Sebbene in passato avesse già cavalcato attraverso pianure sconosciute, stavolta c’era qualcosa che non andava. Lui. Lui non apparteneva a quel paesaggio. Si domandò quando fosse stata l’ultima volta che quei campi avevano abitato la coscienza di qualcuno. Sentiva che ricambiavano il suo sguardo, che coglievano quell’incontro, che cercavano di ricordare che effetto facesse essere osservati cosí.

«Gräs» disse Håkan a voce alta, provando meraviglia e un senso d’ingiustizia al pensiero di accomunare per la prima volta sotto il dominio di quella singola parola tutti quei distinti fili d’erba che ondeggiavano ai confini del mondo.

Aveva paura del tramonto e spesso trascorreva l’intero giorno ad angosciarsi per la notte. A volte la mancanza di legna e la violenza di alcune folate di vento rendevano impossibile accendere un fuoco. In previsione di questo, nella sua caverna dentro la montagna aveva preso la precauzione di costruire una piccola tenda. Era un triangolo allungato e curvo fatto di rametti flessibili, cuoio e stoffa trapuntata, con due lati convessi come la prua invertita di una piccola barca a remi o come la testa di certi pesci o il becco di certi uccelli, e un’apertura. La piantava sottovento e ci strisciava dentro, stendendosi sulla base per tenere la struttura in piedi. La tenda gli copriva soltanto la parte superiore del corpo, ma la prua affusolata riusciva a tagliare il vento, sempre sul punto di schiantare il piccolo scafo dell’imbarcazione capovolta, che sembrava muoversi a velocità vertiginosa benché restasse completamente immobile. Le poche ore di sonno di quelle notti ventose senza fuoco le doveva a quello striminzito rifugio.

Dall’alba al tramonto, proseguiva senza mai smontare di sella per mangiare e si fermava soltanto quando raggiungeva un torrente o uno specchio d’acqua dove rinfrescare cavallo e burro. In quelle occasioni posava qualche trappola. Mentre viaggiava verso sud attraverso quelle terre sconosciute, nel suo corpo lievitò un crescente disagio. Aveva un’origine astratta, come un umore misterioso che gli sgorgava dalle budella e diventava piú denso, ascendendo nell’esofago e coagulandosi in un grumo in fondo allo sterno, proprio tra le clavicole. Quella palla semisolida gli faceva venir voglia di vomitare. Anche se aveva ingurgitato una quantità di carne marcia e troppe piante tossiche, in qualche modo sapeva che quel malessere non era causato da qualcosa che aveva mangiato. La fonte della sua malattia era al di fuori di lui. Erano le pianure. Era quel continuo spostarsi nel vuoto. Forse la mancanza di cibo appropriato e di riposo aggravava i sintomi, ma quella distesa ondulata gli dava la nausea. Gli bastava guardare le pianure perché il grumo diventasse piú denso, e non appena lui iniziava ad avanzare nella steppa, quello si faceva piú duro e soffocante. Il marrone, le colline, il mormorio, la luce accecante, la polvere, gli zoccoli, l’orizzonte, l’erba, le mani, il cielo, il vento, i pensieri, la luce accecante, gli zoccoli, la polvere, le colline, le mani, l’orizzonte, il marrone, il mormorio, il cielo, il vento, l’erba gli davano le vertigini. A volte cercava di costringersi a vomitare, ma sentiva solo le vene della testa che si gonfiavano e minacciavano di scoppiare tra i conati. Alcuni eventi minimi interruppero quella monotonia nauseabonda – un bisonte, un arcobaleno – ma dopo la loro scomparsa la malattia si ripresentò con rinnovata potenza.

Håkan proseguí verso sud per alcune settimane. L’aria si intiepidí e la vita diventò piú facile. Eppure lo sorprendeva constatare che, sebbene il clima fosse piú mite, la vegetazione si diradava. I fili d’erba duri e taglienti come lame di rasoio crescevano solo a tratti. I cespugli ridiventarono pungenti e ostili. Ben presto gli animali a scaglie furono piú numerosi di quelli con la pelliccia. Un deserto rosso stava prendendo il sopravvento su quello marrone. Mentre avanzava, il terreno acquisiva caratteristiche che gli erano familiari: la polvere cremisi che diventava purpurea sfiorando la linea frastagliata dell’orizzonte, il calore emanato da quel buco bianco nel firmamento, la generale indifferenza verso la vita. Era già stato lí, prima? Gli ricordava una parte del suo viaggio con i Brennan. Oppure era la terra desolata dove Lorimer e la sua squadra avevano trovato gli indiani saccheggiati? Håkan restò stordito dalla consapevolezza di non essere in grado di distinguere quei due luoghi, e la sua stessa confusione lo spaventò. Benché controllasse regolarmente la bussola, in qualche modo era riuscito a perdersi? Era forse tornato in uno dei luoghi in cui era già stato? Quanti deserti poteva avere un paese? Lorimer gli aveva insegnato che, nonostante quello che gli dicevano i sensi, la terra era un globo. Era forse riuscito a fare il giro completo? Il suo viaggio verso sud, e leggermente verso est, l’aveva forse condotto di nuovo a nord-ovest, da dov’era venuto? Se confrontava la durata del suo viaggio a cavallo con il tempo trascorso da Capo Horn sulla nave che l’aveva portato in America, poteva anche essere vero. Scoppiò a piangere. Aveva viaggiato per tutto il mondo per nulla? E dentro di lui si fece strada un pensiero ancora piú terrificante. La ragione lo stava abbandonando? Il suo cervello era malato?

Non c’erano piante, né legna, né acqua. Non sapeva dove si trovava. Non sapeva se era sano di mente. L’unica possibilità era tornare indietro, ritrovare la prateria e poi, senza esitazioni, puntare dritto verso est.