Quelle braccia irrequiete che si protendevano dal tronco in posizione eretta. Quelle gambe, come forbici ridicole. Quegli occhi puntati in avanti su una faccia piatta che al posto della bocca aveva un buco senza becco, senza muso. E i gesti. Mani, fronte, naso, labbra. Tanti gesti. Quei lineamenti deformati e smarriti e i loro movimenti sprecati, osceni. Pensò che nulla poteva essere piú grottesco di quelle sagome. Il pensiero seguente fu che gli assomigliavano. Poi corse a prendere la pistola.
Aveva perduto la capacità di pensare al futuro e quindi aveva smesso di considerare come comportarsi se qualcuno fosse mai giunto alla sua tana. E ora che cinque uomini si stavano avvicinando, pareva la cosa piú ovvia del mondo. Ma senz’altro qualcuno doveva arrivare, a un certo punto. Con quegli uomini una dimensione della realtà, fino ad allora dimenticata, ricomparve d’improvviso, sfidando i suoi sensi. Il mondo era nuovo, complicato e spaventoso. Mentre caricava la pistola le mani gli tremavano.
Allungò una mano verso il soffitto, fece scivolare di lato uno dei pannelli di cuoio e sbirciò fuori. Gli uomini cavalcavano in giro tranquilli, esaminando la tana e indicando questo e quel dettaglio. Erano vigili e, al tempo stesso, rilassati, come se sapessero che lui viveva lí, ma consapevoli anche di essere in numero soverchiante. L’avevano spiato? E da dove? Come poteva non essersene accorto? Nel loro atteggiamento tutto – le voci squillanti, le risate intermittenti, il passo lento e le redini morbide, la noncuranza con cui reggevano i fucili – indicava che erano sicuri che fosse solo. Avevano l’arroganza del conquistatore che sa che è sufficiente farsi vedere.
Tre di loro erano soldati, ma sembravano appartenere a due eserciti diversi. Due indossavano uniformi grigie troppo grandi e bustine coordinate, mentre il terzo soldato era vestito di blu e portava un cappello floscio con un ornamento che ne teneva sollevata e appuntata la tesa. La sua manica sinistra era vuota, ripiegata e cucita al gomito. Sul braccio destro portava tre strisce gialle. Indipendentemente da colore e grado, le uniformi erano consunte e stracciate. Gli altri due uomini somigliavano a tanti altri che Håkan aveva visto nei suoi viaggi: pantaloni di pelle di cervo, camicie di flanella, cappelli a tesa larga. I civili montavano dei normali bai, ma i soldati avevano dei cavalli da tiro alti e robusti: poderosi, muscolosi, quasi senza collo, i nodelli e gli zoccoli coperti da fitti ciuffi di crine pieni di lappole e cardi. Håkan non sapeva niente di razze, ma era chiaro che quelle bestie erano destinate al giogo, e non alla sella.
«Amico!» gridò il soldato blu. «Ehi, amico! Siamo amici!»
Håkan si rese conto che stava ansimando. Dal nulla, un banco di puntolini incandescenti iniziò a ribollire, scoppiare, svanire e riemergere davanti ai suoi occhi. Gli pareva che il suo corpo fosse diventato meno solido. Anche se avesse voluto rispondere, la lingua, appiccicata al palato, era troppo secca e pesante per permettergli di pronunciare una sola parola.
Uno dei soldati in grigio mormorò qualcosa e gli altri scoppiarono a ridere. Passarono accanto a della carne che era stata stesa a seccare su dei tralicci. L’altro soldato grigio ne prese un pezzo, lo assaggiò e poi lo sputò. Si strofinò la lingua sulla manica imprecando e facendo dei rumori grotteschi. Altri sogghigni.
Håkan ebbe l’impressione di poterne sentire l’odore. Fetore di uomo. A quali torture selvagge sarebbe stato sottoposto? Perché quelli erano feroci e sgarbati. Lo capiva dalle cicatrici, dalle risatine e soprattutto dalla loro calma; la calma di chi sa che può sempre contare sulla violenza assoluta. Guardò la pistola che stringeva come se qualcuno gliel’avesse piantata in mano mentre era distratto. Spegnere un’altra vita.
Si fermarono a circa quindici passi da lui. L’avevano visto? Dopo aver confabulato, piú a cenni che a parole, uno dei civili infilò il fucile nel fodero della sella, smontò e fece qualche passo verso Håkan.
«Non vogliamo farle del male, signore. Per niente. Solo qualche parola».
Farsi vedere disarmato era l’unica possibilità. Forse la sua stazza li avrebbe intimiditi. Forse la sua stazza avrebbe fatto venire loro voglia di sparargli a sangue freddo. Si era rappacificato con l’idea di morire, ma non voleva condividere quell’esperienza personale e definitiva con dei barbari simili. Prima di posare la pistola e raggiungere una delle uscite, si rese conto, vagamente, che era la prima volta nella vita che aveva paura di uomini piú giovani di lui.
Il cappotto di puma era appeso a uno dei pali in fondo al letto. Non faceva freddo, ma se lo infilò. Dopo aver spostato una parte del tetto, salí su un’asse e si arrampicò fuori.
Quando emerse dalla trincea era accovacciato e quindi non si capí subito quant’era alto, ma non appena si rizzò e si mise in posizione verticale, guardò davanti a sé e vide lo sbigottimento prendere lentamente possesso delle facce di tutti. Ne fu stupito lui stesso. Erano passati anni dall’ultima volta che si era ritrovato in piedi davanti a un’altra persona o a qualcosa dalle dimensioni piú o meno stabilite, qualcosa che non esistesse in natura o che non avesse fabbricato lui con le sue mani. Quegli uomini erano come bambini. I cavalli avevano un’aria strana. Håkan e gli uomini si fissarono: lui, ricordando cos’era un uomo; loro, scoprendo cosa poteva diventare.
Uno dei civili armò il grilletto. Il soldato blu alzò la mano che gli restava senza distogliere lo sguardo da Håkan.
«Sei tu» disse.
Håkan si guardò i piedi nudi. Dopo averli guardati per tanti anni erano diventati oggetti separati da lui stesso. Callosi e insensibili al tatto, avevano smesso di fare da tramite tra il mondo e la sua coscienza. Erano l’ennesimo oggetto quotidiano.
«Sei tu» ripeté il soldato monco in blu. «Visto?» gridò, voltandosi verso i compagni. «È lui!» E poi, guardando di nuovo Håkan: «Il Falco».
L’umiliazione, il senso di colpa, la paura lo investirono all’improvviso, cancellando tutti gli anni trascorsi in solitudine. Era tornato da dov’era partito.
Forse in reazione alla vergogna, per un attimo dimenticò quant’era riconoscibile e pensò che se il soldato blu sapeva chi era, a un certo punto dovevano essersi incontrati. Nella frazione di un istante, tutte le facce che riusciva a ricordare gli balenarono nella mente. Nessuna corrispondeva a quella del soldato blu. Forse era stato uno dei bambini della pista degli emigranti. Magari uno dei ragazzi che gli avevano lanciato verdura marcia quando lo sceriffo l’aveva messo alla gogna. Ma sulla faccia del soldato c’era un’espressione che Håkan conosceva bene. Era lo sguardo della gente che aveva sentito parlare di lui ma in realtà non l’aveva mai visto. Per un attimo si domandò se quelle uniformi volessero dire che i nuovi arrivati erano uomini della legge.
«L’assassino della confraternita, pelle di puma e tutto il resto».
La spiegazione del soldato blu era superflua. L’espressione sbalordita e raggelata degli altri quattro uomini dimostrava che avevano già capito chi fosse Håkan.
«È vivo?» domandò uno dei civili, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Parecchio» rispose il soldato blu, indicando Håkan dalla testa ai piedi.
Håkan si guardò intorno, soffermandosi sulle diverse sezioni della tana. Sapendo che ben presto avrebbe dovuto abbandonarla per sempre, per la prima volta si rendeva conto della sua imponenza.
Il soldato blu aveva raggiunto gli altri e intavolarono una discussione sussurrata. Ogni tanto si giravano e, ancora stregati, fissavano Håkan.
«Hai una pistola?» domandò uno.
«Dentro».
«Che posto, questo» disse un soldato grigio. «Davvero, che posto».
«Come hai fatto?» domandò il soldato blu, ignorando il commento dell’amico.
«Ho scavato» rispose Håkan.
«No, no. Come hai fatto? Tutte quelle cose, intendo. La confraternita, la fuga dalla legge. Startene alla larga per cosí tanto tempo».
«Ho camminato» disse lui, rispondendo solo all’ultima parte della domanda.
Gli uomini risero.
«Ha camminato» ripeté uno e ridacchiò come un idiota.
«Da quanto tempo sei qui?»
«Non lo so».
«Sei una leggenda, lo sai?»
Di nuovo, i piedi.
Uno dei civili bevve un sorso da una fiaschetta e la offrí a Håkan, che scosse la testa.
«Che posto» ripeté il soldato grigio.
Smontarono e scortarono Håkan alla sua cella e, dopo aver intascato le pistole che vi trovarono, fecero un giro, esaminarono la tana e si presero ciascuno una sezione diversa.
Venne la notte. Dopo una lunga conversazione accanto a un fuoco lontano dalla camera di Håkan, gli uomini gli chiesero di unirsi a loro. Il soldato monco in blu parlò a nome di tutti.
«Dobbiamo discutere con te d’affari. Un’offerta». Tacque un istante e scrutò Håkan negli occhi. «Tutti ammiriamo quello che hai fatto. Come ti ho detto, sei una leggenda. Ammazzare quei coloni. E quei selvaggi, quella confraternita. E poi» e rise in anticipo, «e poi scappare con il cavallo dello sceriffo! Insomma, per l’inferno!»
Parole. Ecco da cos’era scappato Håkan. Che fossero complimenti non migliorava le cose. Lui non voleva sentire altre parole.
«Tutti abbiamo le nostre storie da raccontare, tutti noi, storie di guerra. Ma non come te. Comunque. Da quando regna la pace» disse, guardando i soldati grigi con un ghigno, «viaggiamo a cavallo, cercando di sopravvivere. Lo sai anche tu. Là fuori c’è pieno di opportunità».
Qualcuno continuava a sputare nel fuoco. Ogni volta le braci sibilavano.
«Cosí stavamo pensando che potevamo usarti. Tu non devi fare niente. A meno che tu non voglia, naturalmente. Devi solo farti vedere. Ti fai vedere con addosso la tua grossa pelliccia di puma. Noi entriamo in un posto. Un emporio, una taverna, una banca, quello che vuoi. Poi entri tu. La gente ti vede e si paralizza. A quel punto interveniamo noi. Potremmo diventare la tua banda. La banda del Falco o i Falchi o qualcosa del genere. Tu puoi prenderti tutto il merito. Ma con il tuo nome, la tua reputazione, e… Insomma». Non riusciva a trovare la parola giusta, cosí indicò Håkan. «Con te. Con te nessuno potrà fermarci».
Håkan lo guardò dritto negli occhi.
«No».
Durante il silenzio che seguí la sua risposta, Håkan sentí un meccanismo interiore caricarsi negli uomini: non armarono le pistole, ma se stessi.
«Bene, certo» disse il soldato blu senza perdere il contegno. «Non ho finito. Come dicevo, tu puoi venire con noi come nostro, come si dice?, nostro capo. Puoi venire con noi come nostro capo, oppure possiamo portarti indietro. C’è ancora una taglia sulla tua testa, sai. Un mucchio di soldi. Non come quelli che faremmo se tu venissi con noi, ma comunque una bella sommetta. Come ho già detto, sei una leggenda».
Pur continuando a fissare il fuoco, Håkan sapeva che quegli uomini erano pronti a reagire e a colpire al minimo cenno.
«Stammi a sentire» disse infine il soldato blu. «Il tuo posto ci piace. Siamo stanchi. Ci fermiamo qualche giorno. Sarai tu a dirci che direzione prendere quando ce ne andremo».
Il giorno dopo gli uomini riposarono, abbeverarono i cavalli e bevvero alcolici, ma qualcuno di loro sorvegliava sempre Håkan. Lui si aggirò nei campi e nei boschi circostanti, facendo bene attenzione che i suoi guardiani potessero sempre tenerlo d’occhio, per dissipare qualunque sospetto. Prima raccolse dei funghi, delle noci, qualche erba e alcuni fiori. Poi iniziò a dare la caccia alle quaglie, accovacciato e armato di coperta. Gli uccelli spiccavano il volo sempre all’ultimo secondo e atterravano a qualche passo di distanza, per fissarlo con le teste inclinate di lato e un’aria insolente. Gli uomini lo guardavano e ridevano, dandosi degli schiaffi sulle cosce e tenendosi la pancia. Facevano finta di essere comprensivi, lanciavano lunghe grida ogni volta che lui mancava il bersaglio e poi lo prendevano in giro con parole di incoraggiamento condiscendenti, quasi tutte relative alla disparità di dimensioni tra cacciatore e preda.
Il sole stava tramontando quando ebbe finito di raccogliere tutti gli ingredienti. Accese il fuoco sopra le ceneri della sera prima. Mentre spiumava le quaglie, ripensò all’ordine in cui bisognava preparare e cucinare ogni cosa. Con lo stufato, l’ordine è tutto, usava dire Asa. Håkan restava sempre stupito per la precisione con cui ricordava ogni dettaglio, e l’immagine viva di Asa lo guidava in ogni passaggio. Quando gli uccelli furono puliti, i fiori divisi, le noci sbucciate, il lardo sistemato al suo posto e i funghi sminuzzati, Håkan si diresse verso la sua cella, facendo bene attenzione a essere visto. Colse perfino lo sguardo di uno dei civili e gli indicò la trincea per fargli capire quali fossero le sue intenzioni. L’uomo, impegnato a succhiare la sua fiaschetta, lo ignorò.
Quando fu nella stanza quadrata, da un buco nascosto sotto un mucchio di legna da ardere tirò fuori la scatola di metallo. Lí accanto c’era il cucchiaio di Asa. Håkan fece una pausa. Poi aprí la scatola. Dentro, tra i suoi strumenti medici, c’era la boccetta con la tintura. Dopo tanti anni, ciò che ne era rimasto era evaporato. Restava soltanto un velo color caramello che scuriva le pareti interne e un po’ di feccia cristallizzata sul fondo. Prese il cucchiaio di Asa e si nascose la boccetta nella manica. Con un sonoro grugnito, per essere sicuro che qualcuno si girasse nella sua direzione, uscí dalla trincea, salutò la guardia con il cucchiaio, mise la pentola sul fuoco e iniziò a cucinare.
Era il primo pasto vero e proprio che preparava dalla morte di Asa. Funghi fritti nel lardo. Il profumo delle erbe e dei fiori. Le quaglie che imbrunivano. Alcuni uomini si avvicinarono alla pentola e ci ficcarono dentro il naso. I civili erano già ubriachi. Alla fine Håkan aggiunse un po’ d’acqua. Le teste che lo circondavano si volsero verso quel vapore fragrante. Mentre il liquido evaporava e diventava piú viscoso, Håkan tirò fuori la boccetta dalla manica e la gettò dentro la pentola, facendo bene attenzione che sprofondasse sul fondo.
I civili si avvicinarono con le loro stoviglie. Håkan li serví. Si sedettero accanto al fuoco, pesanti e istupiditi dal bere. La loro allegria iniziale si era trasformata in una forma concentrata di confusione: fronti aggrottate, occhi determinati, movimenti attentamente calcolati eppure straordinariamente inefficaci. Mangiarono con gusto e tra un boccone e l’altro continuarono a bere.
«Dudley! Ragazzi! Il gigante sa cucinare!»
Håkan avrebbe ricordato per sempre quel nome, anche se non seppe mai a chi apparteneva.
«Ah. Magnifico» disse l’uomo e perse coscienza, seguito dopo poco dall’altro civile, che chiuse gli occhi in silenzio.
I tre soldati si avvicinarono al fuoco e risero dei civili. L’uomo in blu fece sulla loro testa il segno della croce.
«Nella speranza di una gloriosa resurrezione» disse con sarcastica solennità.
«Tra un paio di giorni, forse» aggiunse uno dei soldati grigi.
Altre risate.
«Che buon profumo. Ne prendo un po’» ordinò il soldato blu a Håkan.
«Non per me» disse l’altro soldato grigio. «Ho mangiato il suo manzo secco. E mi basta».
Risatine.
«Ma questa è roba buona, altroché. Come la cucina di casa» disse il compagno in grigio.
Håkan gliene offrí una cucchiaiata.
«Non hai sentito? Non per me».
«Be’» borbottò il soldato blu tra un boccone e l’altro, «ne resta di piú per noi».
L’uomo che si rifiutava di mangiare voltò la testa e sputò. Gli altri due continuarono a divorare le quaglie.
«Prendo un po’ di quella» disse il soldato blu e si alzò per afferrare la fiaschetta vicino ai civili.
Inciampò e la mano che gli restava non bastò a frenare la caduta. Il soldato grigio seduto accanto a lui cercò di alzarsi ma non ci riuscí. All’improvviso, l’uomo rimasto capí tutto e fece per prendere la pistola. Prima che potesse estrarla, Håkan lo colpí alla testa con la pentola. Non controllò mai se era svenuto o morto, preferiva vivere nell’incertezza piuttosto che con la consapevolezza di avere ucciso un altro uomo.