I.
Le teorie

1.1. L’arte romantica: le categorie generali

Primavera 1808. August Wilhelm Schlegel tiene a Vienna una serie di lezioni edite l’anno successivo col titolo di Corso di letteratura drammatica. Alcuni degli argomenti che vi sono esposti erano già stati anticipati nell’attività didattica berlinese del 1801 e in saggi precedenti. Questi esercizi storico-critici si ispirano ampiamente alle idee di alcuni intellettuali vicini all’autore, soprattutto del fratello Friedrich. Il Corso è dunque un testo rilevante anche in quanto «raccoglitore» di tesi che appartengono almeno ad una parte dei membri del primo dei gruppi romantici in ordine di tempo.

Ma non basta. Significativamente dedicato al teatro, esso costituisce il veicolo principale della diffusione delle idee romantiche tedesche in Europa. Prima che in italiano, è pubblicato in francese nel 1814 e in inglese nel 1815, e conosce una fortuna notevole, diventando una sorta di Vangelo del Romanticismo, citato o parafrasato ripetutamente da Coleridge come da Hugo, da Manzoni come da Stendhal. La sua autorità è riconosciuta anche in Spagna, nei paesi nordici e slavi, da Aleksandr Puškin, per esempio, in Russia. Anche gli altri due testi cardine per la divulgazione delle nuove idee, quanto meno in Italia e in Francia, sono fortemente debitori del Corso di letteratura drammatica: il Della Germania di Madame de Staël e il De la littérature du midi de l’Europe di Sismonde de Sismondi (1813), che addirittura ne riporta passi interi.

Al modo di vari autori aderenti alle nuove idee, Schlegel non impiega il termine romantico, come noi oggi, per riferirsi ad una schiera di filosofi e artisti circoscritta al periodo che va dall’ultimo lembo del XVIII secolo ai primi decenni del successivo, ma per indicare una direttrice assai più estesa nel tempo, che nasce in conseguenza delle novità introdotte dal cristianesimo e che vede, tra i suoi esponenti, Dante, Shakespeare o Calderón e non solo gli Schlegel, Schleiermacher o Tieck. Victor Hugo, per esempio, piuttosto chiaramente influenzato da August Wilhelm Schlegel, insiste su questo punto quando scrive: «Una religione spiritualista, sostituendosi al paganesimo materiale ed esteriore, si insinua nel cuore della società antica, la uccide, e depone nel cadavere di una società decrepita il germe della civiltà moderna»3. Questa religione, il cristianesimo, mostra due direzioni: una mortale e l’altra eterna, e insegna all’uomo di essere nel contempo animale e spirituale. L’arte che si innesta sulle idee di questa nuova confessione e che contiene in sé la duplicità propria della condizione moderna è definita, appunto, romantica.

Il dualismo cui si riferisce lo scrittore francese impronta l’uomo moderno secondo la concezione prevalente del Romanticismo (e da qui in avanti lo intenderemo nel senso stretto oggi dominante). Ma non basta. L’individuo scopre d’essere costituito di tante personalità che convivono nonostante non di rado siano discordanti fra loro; si sente sospinto da aspetti diversi del suo io, spesso opposti, tutti presenti e che si arrogano, tutti, il diritto di esistere. L’io – si spiega nel Corso di letteratura drammatica – ha perduto l’armonia antica, la solidità e la compattezza del passato. Sulla sua natura composita e multiforme, alcuni insistono particolarmente, considerando la caratteristica proteiforme e sovente contraddittoria propria, anche, non di rado, della società moderna e persino del cosmo.

Schlegel distingue la letteratura teatrale dei classici da quella dei romantici basando la loro disomogeneità su vari argomenti, uno dei quali, fondamentale, è che mentre gli uni costruiscono le loro opere a partire da norme pre-definite e convenzionali, i drammi romantici sono «perfetti organismi che, come quelli della natura, ricevono la loro legge di sviluppo dall’interno e non da arbitrarie leggi esterne. Ognuno di essi è un piccolo mondo, in cui le parti vivono in funzione del tutto»4, sicché l’opera è (o vorrebbe essere) contraddistinta da una costituzione unitaria e coerente nel suo insieme. Come si capisce, ambire ad un lavoro con queste caratteristiche non significa affatto ritenere che tale prodotto sia «monocromo»: l’unitarietà dell’opera non è data da una univocità di idee e di sentimenti manifestati dalle componenti che la costituiscono, ma dal fatto che la mente che, «spingendo da dentro», l’ha generata, benché composita, è una; un po’ come accade in una pianta, in cui un ramo tende verso destra e un altro verso sinistra, eppure tutti crescono grazie ad un’unica forza motrice, che rende il vegetale, nel suo complesso, organicamente unitario.

L’ambizione di unità che appartiene alla struttura compositiva dell’opera a volte è reiterata, nel caso del teatro (e non solo), dalla trama, che può dar vita ad un percorso intrapreso da un personaggio drammatico la cui natura iniziale è disarmonica o spezzata, e concluso con l’ascesa, la conoscenza, la formazione o, al contrario, con la catabasi e il fallimento.

Resta il fatto che l’arte, come l’essere umano, è il campo di tensione di poli opposti. In questo quadro rientra l’idea dell’opera come luogo della compresenza di entusiasmo e calcolo, inconscio e conscio, apparentemente antitetici, esposta da Schelling nella Filosofia dell’arte, un testo letto all’Università di Jena per la prima volta nel semestre 1802-1803. Erronea è la convinzione diffusa che il romantico si caratterizzi come esaltazione della creatività incontrollata, dell’effusione sentimentale senza freni. In realtà, se è vero che termini come passione, emozione, entusiasmo, trasporto ricorrono nelle teorie dell’epoca e la componente inconscia a cui queste sfere appartengono è considerata l’elemento in grado di insufflare l’originalità (come scrive uno scrittore romantico tedesco abbastanza isolato come Jean Paul nell’Introduzione all’estetica, 1804), tali teorie concepiscono tuttavia la coesistenza di entrambi i poli, come è già scritto in un famosissimo passo della prefazione alle Ballate liriche di Wordsworth. Nel passo si sostiene infatti che la poesia si genera a partire dall’emozione rievocata in stato di tranquillità e che «la spontaneità del suo traboccare» è «il frutto di un precedente processo di deliberata riflessione», come scrive in un libro fondamentale Meyer Abrams5.

Per la corrente maggioritaria del Romanticismo, dunque, l’opera d’arte dev’essere il prodotto di un soggetto, il frutto della soggettività di chi la crea, un concetto di matrice idealistica, ossia della filosofia che riconduce l’essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un’attività interna al soggetto. Da tale concezione diverge, invece, il gruppo riunito a Heidelberg, secondo il quale, per bocca del popolo, unico vero artista, nell’opera si rivela il divino presente nel creato (e dunque l’arte è mito, favola, canto popolare). E sembrano divergervi anche certe pronunzie teoriche, sulle quali varrebbe la pena riflettere, come quelle di Coleridge o del teorico del teatro e insegnante di cantanti e attori, François Delsarte.

Nello stesso quadro concettuale che vede nell’opera la compresenza di conscio e inconscio, si colloca la nozione del sublime, ossia di un principio elevato, divino, spirituale, che tuttavia contiene in sé anche una componente spaventosa, orrifica o comica. Sublime è un funambolo che cammina sul filo rischiando la vita, una tempesta che travolge una nave con i suoi passeggeri, il farsesco saltimbanco presentato come simbolo del Cristo, in cui quindi divino e umano, alto e basso, spirito e corpo convivono, o il mostro creato da Frankenstein (vale a dire una creatura disgustosa e in principio sensibilissima). È il cristianesimo, con il suo amore verso il povero, il derelitto, lo storpio, a scoprire il deforme e il degradato come luoghi degni d’interesse e di rispetto.

Connesso a questo concetto è quello di grottesco di cui, fra gli altri, parla Hugo nella Prefazione al Cromwell, scritta nel 1827. Nonostante una certa disinvoltura terminologica, l’autore chiama brutto ciò che è difettoso, squilibrato, disarmonico in natura, mentre grottesco è un aggettivo applicabile solo al campo dell’opera d’arte e consiste in una deformazione del reale ottenuta attraverso la trasfigurazione dell’oggetto compiuta dall’artista. Egli può rappresentare un soggetto sgradevole, ma non per questo il prodotto è necessariamente brutto. Dai racconti fantastici di E.T.A. Hoffmann deduciamo che il grottesco è capace di suscitare interesse, stupore, riso o anche orrore nel pubblico, oltreché di mostrare una verità più profonda. Se il sublime contempla il brutto assieme al bello, e se il grottesco è il brutto applicato al campo estetico, ne consegue che il grottesco, almeno nel Romanticismo, è una categoria del sublime che mette in moto l’interesse del fruitore. Proprio l’interesse diviene, già nel Corso di letteratura drammatica, un requisito fondamentale della grande arte assieme all’originalità, una categoria, quest’ultima, in passato reputata di norma un difetto, posto che l’arte doveva rappresentare la bellezza intesa come rispetto e applicazione di regole pre-definite. Modello sommo di contaminazione dei due poli apparentemente antitetici – sublime e grottesco – sarebbe la drammaturgia di William Shakespeare.

Un binomio sul quale una parte importante dei romantici si interroga è quello tra corpo e anima, animalità e spiritualità, materia e souffle, e la domanda ricorrente è se l’Ideale risieda nel definitivo scavalcamento della materia oppure nella fusione di carne e spirito. La risposta non è ovviamente univoca. Quando tuttavia il tentativo di unione fra i due poli è ricercato, oltre ad essere un fine d’ordine ontologico, è connesso anche alla natura stessa del teatro, fatalmente costituito della fisicità della scena, che diversi autori reputano fondamentale per raggiungere la perfezione, che altri, quali Byron, avvertono come un ostacolo. Si tratta di un tema quasi ossessivamente presente, sotto le forme più diverse, in campo teatrale fra gli ultimi anni del Settecento e i primi decenni del secolo successivo. Il motivo dell’unità ricorre infatti a livello dei personaggi (che, secondo molti, dovrebbero ruotare attorno ad un tema dominante), dell’attore (che tale tema vorrebbe spesso definire e rendere sotto forma di intenzioni, azioni, inflessioni vocali), della messinscena (già talvolta registicamente intesa come coordinamento di singoli coefficienti scenici significanti).

Se l’ambizione è quella di fondere materia e spirito, la fisicità del teatro – la cui importanza porta alla creazione di una serie cospicua di generi spettacolari a dominante visiva, spesso a discapito della componente testuale – non è e non può essere mera superficie, riproduzione del fenomenico. Quand’anche illusionistico, lo spettacolo romantico non è mai un’anticipazione delle istanze naturalistiche: gli aspetti del mondo esterno diventano arte in virtù dei sentimenti e dei pensieri dell’artista che li impregna e li trasforma6.

1.2. Teorie del corpo

Nello scritto Sul teatro di marionette, pubblicato nel 1810, Kleist affronta il tema della ricerca del perduto «naturale» e ci introduce, anche, nella questione relativa alla corporeità, al suo rapporto con l’anima e all’arte di chi si esibisce in scena. Affrontiamo dunque il primo testo di narrativa che, come tanti altri di orientamento romantico, cela una concezione estetica. È tipico della produzione dell’epoca, infatti, nascondere la teoria dietro una forma scritta drammatica, librettistica, narrativa o poetica a partire dalla convinzione che l’arte sia un’elevatissima (spesso la più elevata) forma di conoscenza e di filosofia: essa diviene infatti una delle parti focali di un sistema filosofico di interpretazione del mondo, al modo – o addirittura con maggiore acume – di altre categorie quali la scienza o la religione, come si può verificare anzitutto in Schelling. Sarà, questo che segue, il primo di una serie di esami di speculazioni basate su testi non esplicitamente teorici.

L’io narrante è assieme ad un primo ballerino dell’Opera, che gli espone una teoria curiosa, certamente condivisa dall’autore, secondo la quale il danzatore di carne (ma altrettanto varrebbe anche per l’attore) sarebbe sempre goffo, di contro alla marionetta, quintessenza della fluidità.

Tanto l’immagine del danzatore di carne, quanto quella della marionetta, sono chiaramente metafore. Vediamo di cosa. Mentre il burattino è un pupazzo mosso direttamente dalla mano del burattinaio, che lo gestisce da sotto, la marionetta è una creatura spesso di legno le cui estremità (gambe, braccia e testa) sono saldate ciascuna ad un filo; le cinque cordicelle si uniscono, in alto, nel bastoncino di solito a forma di croce che il manovratore afferra e alza, abbassa, piega da un lato o dall’altro per muovere il fantoccio. Egli si offre nel pensiero di Kleist come metafora dell’Essere Supremo, posto in una zona più elevata di quella del pupazzo da lui guidato, mentre la marionetta appare di conseguenza l’emblema dell’uomo che si lascia trasportare dal Divino, della creatura assolutamente abbandonata all’Uno.

Da quando l’individuo, secondo il dettato della Genesi, si è cibato all’Albero della Conoscenza, acquisendo così la riflessione, si è allontanato dallo stato di Grazia che era la sua condizione originaria, stato che continua a rifulgere nella marionetta. Mentre questa, priva di riflessione, di una propria determinazione, si lascia semplicemente condurre da una volontà superiore, il ballerino di carne, metafora dell’uomo frutto della storia, ossia dell’essere decaduto, espulso dal giardino dell’Eden, è soggetto a tutti gli errori e a tutte le imperfezioni della propria fallace riflessione, concepita come causa della nostra corruzione.

Il racconto Sul teatro di marionette offre dunque una visione del mondo e, nel contempo, una concezione del teatro, laddove all’evento scenico spetta il compito di riproporre l’ideale marionetta e non l’impura creatura costituita dal danzatore di carne.

Varie caratteristiche contrappongono il ballerino umano al pupazzo manovrato da una mano posta sopra di lui. L’uno anzitutto è soggetto alla forza di gravità, di contro all’altro, che, sostenuto dall’alto, tutt’al più sfiora il terreno. La metafora è chiara: il danzatore è l’emblema del contatto col polo mondano, con la Terra, il fantoccio simboleggia l’obbedienza ad un’entità superiore, l’appartenenza all’Assoluto. Il ballerino di carne, poi, è dominato da più centri, cioè si muove senza un polo unificatore, soggiace ad impulsi diversi: a livello motorio ciò significa, per esempio, che un braccio si sposta indipendentemente dal busto e questo, a sua volta, in modo autonomo rispetto alle gambe. Se, come evidentemente pensa Kleist, il corpo non fa che riflettere l’anima, a livello psichico ciò significa essere individui «schizofrenici», privi di unità intima, interiore. Posto, invece, che i fili della marionetta si riuniscono tutti in un unico, piccolo arnese, essa è dominata da un motore, che coincide con la mano del marionettista, la quale non può imprimere impulsi diversi alle gambe o alle braccia del pupazzo, ma ne impone necessariamente uno solo ad ogni movimento, coinvolgendo tutto il corpo. Metaforicamente, ciò indica l’unità fisica e, di riflesso, quella psichica da cui il suo essere è costituito e, di più, la sua concordia tra le sfere interiore e fisica, il nesso privo di frattura fra intus e foris, come intendiamo meglio dai due apologhi proposti dallo scritto.

Un adolescente dalla straordinaria armonia dei movimenti posa su uno sgabello un piede per asciugarlo. Casualmente, vede la sua azione riflessa in uno specchio d’acqua e poiché ne resta affascinato, prova a ripeterla. Ma non ne è più in grado: nel momento in cui subentra la coscienza, il gesto non può più essere aggraziato, armonioso, ma solo il Doppio vile e impuro di quanto era stato coniato in un genuino slancio istintivo.

Un eccellente schermitore, che ha vinto tutti gli avversari, viene invitato a combattere contro un orso, il quale si rivela un antagonista insuperabile. Con lo sguardo fisso negli occhi dello spadaccino, come a penetrargli l’anima, l’animale solleva la zampa quando l’altro sferra veramente il colpo, mentre resta immobile di fronte a tutte le finte. Lo schermitore non riesce a portare a segno nessuno dei suoi attacchi: l’altro li para tutti. In quanto privo di riflessione, l’orso si rivela creatura in cui esiste perfetta unità psicofisica e totale percezione dell’altro: delle sue intenzioni, della sua volontà e delle sue azioni. Si rivela, in altri termini, un essere non solo in sintonia con la propria sfera interiore, ma anche con il mondo circostante, ancora in contatto col filo rosso che lega tutte le cose del creato.

Ad accomunare i due apologhi è il carattere negativo della riflessione, intesa come segmentazione interiore, perdita dell’unità tra spirito e corpo che brilla incorrotta nella marionetta. Con la riflessione, di cui lo specchio è un emblema, l’uomo ha smarrito la sintonia col ritmo del cosmo. In lui, l’armonia originaria è frantumata. La marionetta è la metafora dell’uomo che non ha ancora mangiato all’albero della conoscenza e quindi si lascia guidare dal Divino.

Mentre per Denis Diderot – autore attento al teatro oltre che filosofo ed enciclopedista – la massima facoltà di cui dispone l’interprete è la riflessione sicché la manifestazione dell’emozione dovrebbe sempre esserne mediata, per Kleist il performer ideale sarebbe quello in grado di abbandonarsi ad una Volontà superiore, di lasciar vivere lo status interiore senza ostacoli razionali. Più precisamente, quello capace di evitare l’incunearsi del diaframma della riflessione tra l’intus e l’espressione.

Lo scritto di Kleist, però, aggiunge una precisazione fondamentale. Tornare indietro, allo stato adamitico o della marionetta, riattraversando a ritroso la via sin qui percorsa, non è possibile poiché un cherubino con la spada sguainata, sul cancello d’ingresso del Paradiso terrestre, ci sbarra la strada. Detto in altre parole, ri-guadagnare l’ingenuità edenica cercando di cancellare la riflessione è inconcepibile: una volta acquisita la riflessione, non è più in nostro potere espungerla. Forse lo stato di Grazia sarà ricuperabile facendo il giro del mondo e verificando se il Paradiso sia accessibile da dietro, vale a dire tramite un’iper-riflessione, una sapienza infinita. Solo per questa via potremo forse ritrovare lo stato d’innocenza dei primordi: solo quando la capacità riflessiva sarà a tal punto introiettata in noi da diventare, per così dire, automatica, potremo forse superarla e riacquisire l’abbandono che rifulgeva nella dimensione edenica.

Prossima al racconto Sul teatro di marionette per il soggetto e per le concezioni espresse è la Teoria dell’andatura di Honoré de Balzac (1833), un saggio interamente dedicato al gesto, non solo al camminare, come il titolo indurrebbe a far credere7.

Caratteri precipui dei movimenti ideali del corpo, ossia angelici o primigeni, sono l’universalità e l’immutabilità, nel senso che un determinato pensiero o un dato sentimento si traducono necessariamente in un certo segno sulla struttura fisica, quale che sia l’individuo agente. Detto in altri termini, le leggi dei gesti armoniosi, ossia belli, aggraziati, incorrotti e puri, non sono soggetti a modifiche spaziali e temporali.

Se il carattere della mimica ideale è di essere universale ed immutabile, non si può dire altrettanto, secondo Balzac, di quella quotidiana. Analogamente a François Delsarte, il romanziere francese si mette ad osservare la gente al passeggio. L’autore conclude che nessuna delle duecentocinquantacinque persone analizzate cammina in maniera graziosa e naturale. Il numero è sufficientemente elevato per affermare che nessun uomo civilizzato si muove secondo il modello edenico. Come in ogni linguaggio umano, neanche nel gesto lo status interiore si rivela mai per intero, in maniera totalmente spontanea. La dinamica del corpo complessivamente è falsa, ossia volutamente menzognera, o goffa, vale a dire inquinata dalle scorrette abitudini contratte.

Causa di tale deformità è la riflessione, «potenza che corrompe il nostro movimento, che ci storce il corpo, che lo fa scoppiare sotto i suoi dispotici sforzi»8, facoltà umana troppo umana, non abbandonata alla Volontà superiore, e come tale caratterizzata da una condizione di doppiezza, di scissione tra un oggetto e la sua immagine. Non appena la riflessione entra in contatto col gesto, ne fa un linguaggio in frammenti, composto di segmenti fra loro incomunicanti.

La macchina anatomica si muove come dominata da più centri, al modo di una marionetta azionata da fili guidati da diversi marionettisti. Le gambe seguono un certo impulso, il busto un altro, la testa un altro ancora («l’apparato locomotorio […] si scinde»9). Il corpo è eccentrico (nel senso etimologico del termine), i suoi movimenti sono spezzati, procedono per linee rette ed angoli, anziché per morbide linee curve, benché «la grazia (e il genio comporta la grazia)» abbia «orrore della linea retta»10. Non ha l’assetto unitario che è il solo, secondo le Lettere intorno alla mimica di Johann Jacob Engel (1785-86) come secondo Balzac, a saper esprimere senza finzioni l’anima. Non è l’organismo diretto da una fonte dominante a cui tutte le membra risultano subordinate, indicato da Diderot nei Saggi sulla Pittura (1766) come l’unico capace di naturalità anziché di artificio. Non è neppure l’edenico corpo unitario delineato da Kleist.

Malgrado la falsità generale del gesto, in ognuno di noi vi è sempre, secondo Balzac, un particolare mimico, per quanto piccolo (l’arrossamento di un orecchio, la vibrazione intempestiva di un nervo, l’infossarsi di una ruga) che disvela l’anima, un indizio della vita sotterranea che traspare a nostra insaputa anche nel corpo più protetto.

La mimica ha un pregio fondamentale: sembra essere in grado, secondo Balzac, di disvelare la realtà profonda meglio del linguaggio articolato, il quale non ha completamente dimenticato i fulgori dell’Origine, ma, a forza di regole, dunque a forza di sviamenti e di distorsioni, se ne è allontanato in maniera particolarmente accentuata.

Esistono in natura – si chiede Balzac ponendo un problema già sollevato da Kleist – esseri in cui la gestualità, nella sua interezza, riproduce quella archetipica? La risposta è affermativa. Se all’uomo moderno tale possibilità è interdetta, non lo è agli animali, ai bambini, ai selvaggi. Essi non hanno mai contemporaneamente più idee o più desideri. Esattamente come il catalettico, che «annulla tutte le facoltà a profitto d’una sola visione»11, sono colpiti da un’unica idea, un unico desiderio alla volta. E ciò in quanto, non essendosi ancora resi indipendenti mediante la riflessione, si abbandonano alla Volontà celeste, che è Una.

Il movimento corporeo generato da questa condizione gode di alcune caratteristiche precipue. Anzitutto è unitario. Allo stesso modo in cui dal centro il Primo Motore armoniosamente guida tutto il cosmo facendone mettere in azione sintonicamente ogni parte, così il gesto del corpo, originato da un solo agente propulsore e privo pertanto di conflitto, coinvolgerà armoniosamente l’organismo intero, senza farne predominare alcuna parte. Il movimento non avrà fratture, ma progredirà in modo fluido, successivo, passando da un’articolazione all’altra senza soluzione di continuità e assumendo pertanto forma mai finita, circolare. La dinamica degli animali, dei bambini e dei primitivi, inoltre, è vera, in quanto essi «esprimono immediatamente la loro idea. Non vi sbaglierete mai interpretando i gesti di un gatto: vi accorgete subito se vuole giocare, fuggire, o saltare»12. In una parola, essi sono aggraziati, come è esplicitamente affermato nella Teoria dell’andatura13, e la loro grazia, come si scopre in un noto romanzo balzachiano intitolato Louis Lambert (prima edizione, 1832), è analoga a quella delle creature angeliche. Quando infatti l’autore impiega questo termine, esattamente come Kleist, non pensa solo all’equilibrio e all’eleganza che possono trapelare da un corpo in movimento. Allude anche alla Grazia nel senso teologico del termine. Un gesto aggraziato è dunque armonioso in quanto guidato, diretto, sorvegliato da quell’Uno che sta al centro dell’Universo, centro corrispondente, nel fisico, al motore (unico) del movimento.

Ma allora – si chiede Balzac – occorre tentare un ritorno all’innocenza adamitica, ad una cancellazione della riflessione? Lo scrittore ritiene ciò impossibile, se, subito dopo essersi posto l’interrogativo, inizia a fornire istruzioni per una buona mimica, come a sottolineare che all’uomo civilizzato necessitano regole, istruzioni – la riflessione dunque – per avvicinarsi ad una gestualità pura. E infatti «il movimento umano […] bisogna correggerlo per farlo diventare semplice»14. Inutile tentare di tornare indietro compiendo a ritroso il cammino percorso fino ad oggi; occorre avanzare, in direzione, evidentemente, di un’iper-riflessione; lungi dal cercare un impossibile ritorno al passato (all’ingenuità, avrebbe detto Schiller), bisogna procedere verso la dimensione angelica (verso l’ideale).

La riflessività portata al suo massimo sviluppo conduce al conseguimento in vita di una condizione celeste, ma comporta anche uno stato catalettico che sembra impedire la trasmissione della Visione. La facoltà espressiva pare annichilirsi. Invece, tanto Louis Lambert quanto Séraphita, i protagonisti dei due romanzi metafisici di Balzac che già in vita hanno raggiunto lo status angelico, godono di un modo d’espressione più elevato, di molto superiore a quello umano (ma il termine stesso espressione è evidentemente inadatto poiché l’ex-pressus presuppone un quid da cui è distinto): hanno guadagnato il condensatissimo linguaggio degli angeli. Sembrano afasici e immoti; in realtà, manifestano il loro pensiero mediante una lingua concentratissima. Più precisamente ancora, tale lingua è il pensiero stesso, anziché una sua immagine, secondo una tesi ereditata dal filosofo e mistico svedese Emanuel Swedenborg.

Se la Teoria dell’andatura non si può definire un saggio sul balletto, né sulla pantomima o sulla gestualità attorica, tratta tuttavia un argomento di loro pertinenza. Il breve scritto può considerarsi infatti come una riflessione su uno dei linguaggi propri della spettacolarità, sia pure analizzato come si offre in natura, senza pensare alla sua applicazione nell’opera d’arte. In un certo senso, la Teoria dell’andatura (e con essa tutte le riflessioni sul movimento corporeo contenute nelle più diverse opere balzachiane) costituisce, per l’autore, uno studio preliminare indispensabile a ripensare l’attività dell’actor, termine con cui da qui in avanti intendiamo qualunque artista si esibisca in scena (attore, danzatore, cantante o mimo), su solide basi filosofiche. Si tratta di un argomento di cui Balzac tratta in alcuni testi di narrativa, quali Massimilla Doni, Sarrasine e Gambara.

Proviamo allora ad analizzare brevemente almeno il noto racconto Sarrasine (1830), la storia del geniale scultore che dà nome all’opera, il quale s’innamora perdutamente della cantante Zambinella vista esibirsi in scena. Le caratteristiche di questa artista sono la bellezza straordinaria, la grazia pressoché sovrannaturale dei movimenti, degli sguardi e delle posture e la voce celestiale. Di lei si osserva che manifesta con la più assoluta perfezione i sentimenti più raffinati. Si aggiunge che le emozioni espresse si trasmettono agli spettatori e che ciò avviene in assoluta assenza di partecipazione emotiva (o, come diremmo oggi, di immedesimazione) dell’interprete. Poiché Zambinella – come lo scultore scopre, inorridito, alla fine – è un castrato, incarna inoltre la figura dell’androgino, ossia di una creatura che riunisce in sé gli opposti e, in primis, il maschile e il femminile, è un essere contraddistinto da una perfetta unitarietà. Ne ricaviamo che il massimo artista della scena, quale è appunto Zambinella, possiede le qualità peculiari appena descritte. Se ogni elemento va nella direzione dell’ideale unificazione, uno sembra divergere: ci riferiamo alla soluzione di continuità presente fra paesaggio interiore e manifestazione corporea, un carattere confermato da quanto Balzac scrive in Des Artistes (1830), quando osserva che il capolavoro non può nascere se l’artista ha «troppo sentito»15 o dall’intera vicenda di Pelle di zigrino (prima edizione, 1831), in cui il protagonista fallisce come poeta in quanto tende a farsi coinvolgere dai personaggi creati dal proprio immaginario, un fenomeno che gli impedisce di portare a termine l’opera. Il linguaggio dell’arte, invece, è mediato, costruito, artificiale. Ma la téchne non basta. Ad essa occorre aggiungere un dono «inesplicabile, inaudito, […] una specie di seconda vista»16. Si tratta dunque di unire tecnica ed ispirazione, secondo un modulo condiviso, per esempio, da Schelling. Il compito dell’ispirazione è mettere in moto l’immaginazione, attività mentale priva di coinvolgimenti emotivi: «La chiave di tutti i tesori è il pensiero, che procura le gioie dell’avaro senza darci le sue preoccupazioni. Così» – spiega l’ultracentenario di Pelle di zigrino – «mi sono sollevato al di sopra del mondo: i suoi piaceri sono sempre stati per me godimenti intellettuali»17.

Ciò non toglie che il massimo della conoscenza si raggiunge nella condizione del catalettico, in cui fra interiorità e sua manifestazione esteriore non si apre soluzione di continuità. Se l’arte è quanto di più perfetto esista nel mondo sensibile, resta pur sempre ancorata all’imperfezione terrestre, dei cui strumenti si serve. Bella in quanto partecipe dell’Intelligenza, essa è tuttavia degradata poiché commista all’elemento materiale, secondo un pensiero di origine plotiniana. L’artista si situa allora, secondo Balzac, su un livello più basso dell’uomo-angelo nella gradatio del genere umano.

I principi balzachiani sono per molti aspetti prossimi a quelli di Kleist. Indichiamo solo le affinità, astenendoci dalle differenze. Come il drammaturgo tedesco, Balzac considera puri i movimenti animali e infantili, ma non crede nella possibilità, per l’uomo, di recuperarli attraverso un’abolizione della riflessione e propone, invece, la strada dell’iper-coscienza. Kleist spera così di raggiungere il giardino edenico «da dietro», dopo aver compiuto il «giro del mondo». In maniera non dissimile, Balzac crede che, attraverso l’amplificazione del pensiero, riconquisteremo il Paradiso, sia pure a scapito di una comunicazione rivolta ad un ampio pubblico. Per entrambi, inoltre, l’esame della gestualità non è fine a se stesso, ma costituisce il pretesto per affrontare problemi di ordine più vasto: estetici, psicologici, gnoseologici, morali, metafisici. Allo stesso modo, nella seconda metà del Settecento le indagini sulla parola condotte dai linguisti erano il mezzo per affrontare il tema della nascita del linguaggio e, più in generale, quello della conoscenza.

In Francia più che altrove anche per motivi legati al contesto spettacolare su cui ci soffermeremo, la riflessione sul movimento del corpo visto spesso in relazione al lavoro dell’attore, del danzatore, del mimo e del cantante assume un’importanza di rilievo, come si può riscontrare esaminando, per esempio, gli scritti di Gautier18.

Per lui, il capolavoro coniuga in sé la pesantezza del sensibile con la trama impalpabile del sogno, l’elemento fisico con la sostanza fantastica19. Il prodotto artistico può raggiungere la purezza dell’ideale in quanto la hyle, lungi dall’essere impedimento, ne è la conditio sine qua non. Ma la materia, da sola, è squallida e volgare, come dimostra la realtà quotidiana. Senza materia, senza corpo, per contro, la fantasia resta imprigionata nella mente del soggetto, non si manifesta, non si comunica. L’artista è colui che, come Michelangelo (un Michelangelo sottratto ad ogni opzione neoplatonica), sa «colare intero» il suo «sogno nel colore e nel bronzo»20.

La perfezione estetica dell’actor è suscitata dal calore vitale e, quand’anche poco prestante in stato di quiete o di riposo, esso subisce una metamorfosi non appena toccato dal fuoco della passione. Grande è chi sa cancellare il proprio io per annegare nel personaggio, al punto da «non […] essere riconosciuto quando entra in scena in una parte nuova: la personalità del vero attore non esiste»21, nel senso che assume continuamente identità diverse. Nefasta è l’abitudine contratta da molti artisti dell’epoca, di trasformare ogni dramatis persona in se stessi. «Il trionfo delle individualità» degli interpreti «è la disfatta dell’arte drammatica»22.

Romanticamente, l’actor prediletto da Gautier perviene ad immedesimarsi per via di ispirazione. Ma solo una sorta di abitudine a sentire intensamente e a provare anche le emozioni meno comuni gli consentirebbe di suscitare in sé durante lo spettacolo le passioni, quale che sia la tonalità richiesta; in altre parole, il reiterato scatenarsi nella vita di sentimenti estremi, originali, insoliti creerebbe una specie di predisposizione all’ispirazione.

Il femminile – inteso come bellezza corporea ed emozione o, meglio ancora, come passione tradotta in bellezza esteriore – non può prescindere tuttavia dal maschile, ossia dal coefficiente razionale. Il fuoco dell’anima e la bellezza fisica – secondo Gautier – si accendono a contatto con la componente intellettuale, necessaria a definire in via preliminare il carattere generale del personaggio, e i sentimenti, i pensieri e le oscillazioni interiori provocati su tale carattere dalle varie situazioni del plot. Solo quando l’attore e il danzatore hanno ben presente lo svolgersi delle dinamiche intellettuali ed emotive della figura da interpretare, possono calarsi nei suoi sentimenti e nelle sue idee, rifrangendoli adeguatamente.

Miracolosa fusione di emotività e intelletto calati in un corpo, l’actor amato da Gautier ha dunque natura androgina ed è una creatura assai distante dalla trivialità del «reale». Mentre il quotidiano sfila nelle pagine del poeta francese come spazio di passioni scolorite e di segni stereotipati, privi di risonanza interiore, l’attore e il ballerino hanno il compito di arricchire il loro universo intimo sin dalla vita di tutti i giorni, facendo della propria anima un attrezzo disponibile ad ospitare le più diverse tonalità emotive, comprese le più accese, e del proprio corpo uno strumento capace di riflettere la psiche. Una volta assunto questo stile di vita e una volta definita la psicologia del personaggio da rappresentare, è possibile suscitare in sé, al momento dello spettacolo, emozioni multiformi, associandole a movimenti e posture ad esse corrispondenti.

Proviamo a tirare le fila, riprendendo anzitutto il principio dello scritto kleistiano: un grande danzatore studia il teatro di marionette, in quanto, composto dalle caratteristiche enucleate, gli è d’insegnamento. Ballerino (o attore) ideale è chi sa riprodurre le qualità che contraddistinguono l’uomo edenico di cui la marionetta è l’emblema: unitarietà, grazia, capacità di superare la forza di gravità. Se il racconto kleistiano, dunque, espone una Weltanschauung, presenta anche una concezione della danza e del teatro. In quanto possono ispirarsi alla marionetta divina, si tratterebbe di arti tese, nella loro massima espressione, a essere manifestazione dell’Assoluto.

Anche Balzac ricerca le caratteristiche del movimento corporeo ideale, e le identifica in aspetti prossimi a quelli kleistiani: unitarietà, grazia e fluidità. Come il poeta tedesco, osserva che tali qualità appartengono alle azioni dei bambini, dei selvaggi e degli animali, non all’uomo civilizzato, il quale può solo mirare ad avvicinarvisi mediante tecnica, studio, riflessione portati ad estrema finezza, percorso che lo condurrà verso una dimensione angelica. Il gesto è concepito da Balzac come un linguaggio posto su un gradino elevato della gerarchia espressiva in quanto meno contaminato della parola. Per suo tramite, strumento privilegiato di conoscenza, è possibile addentrarsi nell’indagine della psiche e del mondo. L’actor ideale è quello che sa rendere idee e sentimenti mediante movimenti e inflessioni vocali di grazia perfetta e il cui corpo è contraddistinto da un’esemplare unitarietà, in cui ogni dettaglio è in assoluta corrispondenza con ogni altro. È una creatura androgina, dove si uniscono armoniosamente persino i poli opposti, ma in cui non si può risolvere la frattura fra intus e foris, poiché ciò richiederebbe un superamento della materia incompatibile con la sopravvivenza stessa dell’arte.

Contrariamente a Kleist e a Balzac, Théophile Gautier non si fa sostenitore di un’arte che abbia il compito di imitare le leggi che regolano la creazione in natura o che improntano il creato soggiacendovi, né di riprodurre i parametri di un mondo sovra-umano: il prodotto artistico, per Gautier, è costruzione che non rispecchia nessun principio preesistente in una natura incontaminata o in una sfera sovramondana, è frutto, se così si può dire, assolutamente autonomo, fabbricato sulla base di regole proprie. Anche in Gautier, però, si riscontra la convinzione di una superiorità del movimento corporeo o, quanto meno, di un’arte a dominante gestuale sulle altre. In tal modo, Kleist, Balzac, Gautier ed alcuni ulteriori autori primottocenteschi quali François Delsarte vengono a situarsi sul punto di partenza di una fondamentale direttrice della teatrologia novecentesca: quella che pone l’accento sulla natura mimica e visiva dello spettacolo.

1.3. Il pensiero sull’arte attorica

Maggiormente intese a suggerire modalità applicative sono le teo­rie d’arte attorica concepite da altri autori. Ne scegliamo tre di particolarmente importanti: Goethe, Delsarte e Dumas père. Se Johann Wolfgang von Goethe è stato attore e celeberrimo allestitore al teatro di corte di Weimar, Delsarte ha esercitato la professione di cantante e di maestro di cantanti e attori, mentre Dumas ha svolto una formidabile attività di metteur en scène.

Non intendiamo soffermarci sulle Regole per gli attori di Goe­the, una serie di istruzioni dettate a due Schauspieler nel 1803 e pubblicate nel 1826, che, pur esplicitamente dedicate all’argomento, sono fortemente normative e poco utili, a nostro parere, a definire il pensiero teorico nascosto dietro ai precetti.

La vocazione teatrale (in certi casi tradotto come La missione teatrale) di Wilhelm Meister è la prima stesura di un romanzo di Goethe, compiuta tra il 1777 e il 1785 circa e pubblicata postuma nel 1917. Nel 1791 il lavoro viene ripreso e sostanzialmente cambiato e da questa seconda elaborazione nascono Gli anni di noviziato (di apprendistato, secondo altre traduzioni) di Wilhelm Meister, editi nel 1795-96. Nel 1829 Goethe scrive Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister, che è tutt’altro testo e, a differenza dei due precedenti, non ha a che fare col teatro.

Pur non presentandosi come scritti teorici, la Vocazione teatrale e Gli anni di noviziato sono le più esaustive esposizioni delle idee di Goethe in materia di teatro. Qui di seguito esamineremo alcuni punti significativi del romanzo più antico, in cui, anticipando tesi romantiche, è offerto il pensiero del poeta attraverso il racconto di formazione di Wilhelm Meister da quand’era bambino e assisteva agli spettacoli per marionette realizzati dalla nonna, dai quali era incantato, fino al momento in cui decide definitivamente, dopo aver compiuto un lungo apprendistato, di dedicarsi all’attività spettacolare per mestiere.

Cominciamo con l’osservare l’insistenza sulla necessità che l’attore studi la parte sino ad esserne oltremodo sicuro. Il suo «scopo principale» – osserva la direttrice di una compagnia sulle cui idee Wilhelm, chiaramente depositario del pensiero di Goethe, concorda – «dovrebbe essere d’imparare la propria parte con la massima precisione»23. Si tratta anzitutto di conoscerla perfettamente a memoria e poi di analizzarla in tutte le sue sfumature. Entra già qui in gioco l’idea secondo cui l’interprete dovrebbe crearsi una sorta di sottotesto, sul quale torneremo.

Una volta sondati almeno gli snodi principali della parte, l’attore è tenuto a definire «i modi di andare e venire, di fermarsi sulla scena e di rimanervi, di agire e di atteggiarsi»24, e tali azioni, pose e atteggiamenti dovrebbero essere ripetuti ed eventualmente rivisti ad ogni singola prova, così da acquisire, in primo luogo, la padronanza dell’elemento meccanico. Sull’importanza e la durata delle prove, per inciso, il romanzo pone l’attenzione in parecchie occasioni. Da ultimo, dopo avere sufficientemente elaborato i singoli passi, occorre che l’attore provi la parte intera tutta di seguito. Questo lavoro mostrerà le incongruenze delle scelte interpretative relative al personaggio: ora si può scoprire qualche contraddizione nel carattere modellato, ora nell’espressione, ed è, questo, un passaggio particolarmente difficile da sbrogliare, tali e tante possono essere le sfumature di un carattere. È in questione, qui, l’unitarietà della parte, premessa all’unitarietà del testo intero, su cui si interrogano diversi autori dell’epoca, Delsarte compreso.

Per raggiungere l’obiettivo auspicato, Wilhelm si mette ad elaborare sempre più approfonditamente un vero e proprio sottotesto, una definizione peraltro non utilizzata da Goethe né nel romanzo, né, per quanto sappiamo, altrove. Ne offriamo parte dell’esempio più approfondito contenuto nella Vocazione teatrale:

[Wilhelm] percorse il lavoro con la sola intenzione di ritrovare le tracce che potessero rivelare qualche cosa del carattere di Amleto nel periodo anteriore alla morte del padre, e credette di averle presto trovate.

Nato nobile e mite, il fiore principesco crebbe sotto l’influsso immediato del re. L’idea della giustizia e della dignità regale, il sentimento del bene e del decoro, insieme alla coscienza dei suoi alti natali si svilupparono in lui allo stesso tempo; era un principe, un principe nato e voleva regnare perché i buoni potessero essere incondizionatamente buoni. Piacente di aspetto, costumato per natura, gentile di cuore, senza alcuna passione predominante, era il modello dei giovani e la gioia del mondo; il suo amore per Ofelia era un tacito presentimento di dolci esigenze e la sua passione per gli esercizi cavallereschi trovava stimolo nelle lodi rivolte ad altri. […] Sereno per natura, semplice nei modi, né incline all’ozio né troppo avido di attività, un po’ viziato dalla pigrizia accademica, allegro più per umore che per temperamento, sempre socievole, conciliante, modesto, premuroso […].

Dopo aver raccolto tutti questi elementi ed averli documentati con passi del testo, Wilhelm ebbe le idee molto più chiare ma si rese conto che d’ora in poi avrebbe dovuto recitare gran parte di questi passi in modo diverso da come li aveva recitati finora25.

È un’operazione che anticipa sotto un certo profilo Stanislavskij: l’interprete deve definire mentalmente, per sé stesso, non solo quanto scopre negli interstizi del testo, ma persino, se capiamo bene, quanto non è precisato ma egli ritiene gli serva per avere un’idea completa del personaggio da interpretare.

Fine dell’attore non è l’imitazione della natura (scelta che, comunque, è preferibile a quella di copiare altri interpreti), ma arrivare al «vero» «per intima forza»26, cioè per forza di sentire, per essersi lasciato penetrare dai sentimenti del personaggio. In diversi passi del romanzo si parla della necessità di partecipazione emotiva, pena la mancanza di credibilità. Proprio perché l’artista è sicuro della parte sotto il profilo sia testuale che gestuale, può abbandonarsi completamente, durante la rappresentazione, al «suo cuore». Il comico Melina, per esempio, «riusciva commovente perché era commosso lui stesso»27.

In realtà, la questione del sentire in scena si complica quando l’attrice Aurelia, verso la fine del romanzo, compie alcune osservazioni, chiaramente accolte da Wilhelm, che ricordano, con qualche variante significativa, certe riflessioni di Balzac. In generale ottima interprete, ella entusiasma il pubblico quando è accesa dalla passione per l’amato, ma in questo caso lei non è contenta di sé, perché non ha coscienza del suo agire e recita seguendo i suoi personali sentimenti. È soddisfatta, invece, allorché riesce a immedesimarsi nella situazione del personaggio, e non a centrare tutto sul proprio io, benché ciò abbia successo28. Il percorso dovrebbe essere non dal personaggio verso l’io dell’attore (per quanto infuocato e appassionato), ma, al contrario, dall’attore verso il personaggio, come accade a Wilhelm quando inizia a studiare Amleto. In quel frangente ha infatti la tendenza ad assumere su di sé il peso della profonda malinconia del principe di Danimarca e, a forza di esercizio, la parte si sovrappone al suo io, a tal punto che lui ed Amleto incominciano a fondersi in un solo essere.

Una volta arrivati a questo risultato (alla condizione, cioè, in cui la persona dell’attore è risucchiata persino nel quotidiano dal carattere del personaggio), la recitazione diventa convincente e così «incarnata», da non doverla più controllare razionalmente, da poterla vivere pienamente sera dopo sera. Ciò significa anche che, senza alterare il testo o le azioni (ormai divenute, per così dire, meccaniche grazie alla loro ripetizione), l’attore varierà spontaneamente, sia pure in misura minima, le inflessioni vocali e i gesti, in tal modo apparendo nuovo agli spettatori anche dopo parecchie recite. Wilhelm esemplifica il concetto ricorrendo alla figura del cantante:

Quante espressioni diverse può dare ad una singola nota tenuta, ad una singola frase, senza alterare il carattere della sua aria, purché abbia metodo e sappia eseguire con gusto le variazioni! Lo stesso si può dire delle parti di un’opera teatrale; laddove un attore mediocre non vede che limitazioni e catene, un attore esperto e intelligente trova una strada aperta29.

Sarebbe assai utile, come osserva la direttrice Melina, che gli attori si esercitassero ancora a volte nell’improvvisazione, non per riprendere le modalità volgari e grossolane di un tempo, ma per abituarsi ad essere sempre presenti, vivi, reattivi, per non rischiare di adagiarsi nella noia della ripetizione più o meno meccanica30.

Solo provando intimamente i sentimenti del personaggio, l’attore può trasmetterli agli spettatori grazie al noto fenomeno dell’empatia. Nei casi in cui qualche interprete del romanzo, spesso lo stesso Wilhelm, recita con fuoco, il pubblico è colpito ed entusiasta, e «partecipa con tutta l’anima»31.

Diversi punti in comune con il pensiero di Goethe presenta il metodo d’arte attorica concepito da François Delsarte, uno dei più articolati e definiti dell’epoca32. A partire circa dal 1830, Delsarte va raccogliendo un vocabolario mimico e vocale estremamente ricco, di ogni termine del quale offre il significato intimo (il pollice abdotto – cioè aperto, lontano dal palmo della mano – indicherebbe vitalità, tonalità e volume alti della voce corrisponderebbero a collera, ecc.). Tale dizionario – creato analizzando la mimica e la phonè del quotidiano e selezionandone solo i gesti e le inflessioni vocali che ritiene l’esatta manifestazione della dinamica interiore (veri nella sua terminologia) – deve servire all’actor per comporre la partitura fonetico-gestuale del personaggio affidatogli, la quale dovrà esprimere quanto, nella sua visione, è celato dietro le parole del libretto o del testo drammatico.

Una volta definita la sequenza di gesti e di inflessioni «sonore» della parte, egli deve riprodurla tanto spesso in sede di prove da farla fluire senza pensare. Giunto a poterla ripetere in modo automatico, scatterebbe in lui l’immedesimazione grazie al curioso fenomeno (al quale alcuni decenni più tardi farà appello anche Stanislavskij e noto già prima di Delsarte) per cui il gesto accende l’anima tanto quanto l’anima mette in moto le azioni fisiche. In altre parole, l’interprete, in principio distaccato e freddo, inizierebbe a sentire intimamente quanto precedentemente era mero segno esteriore. Una volta scattata l’adesione emotiva, prenderebbero vita i movimenti corporei involontari quali l’arrossire o il pianto.

Il metodo, che inizia a formarsi negli anni Trenta e va via via precisandosi per quarant’anni, consta dunque di tre fasi fondamentali: prima l’actor progetta con estrema precisione la propria partitura mimica (facendo ricorso al vocabolario «autentico») sulla base dell’interpretazione testuale preliminarmente compiuta a cui viene applicato; poi la ripete per un numero tanto elevato di volte da farla scorrere «meccanicamente»; interviene infine l’immedesimazione, che consente l’esecuzione dei movimenti involontari. A Delsarte spetterebbe dunque l’invenzione di una psicotecnica mediante la quale l’interprete arriverebbe a provare davvero le emozioni del proprio personaggio e a provarle in modo riproducibile e «scientifico», anziché casuale. Qualcosa di radicalmente diverso dall’ispirazione del momento, fenomeno non suscitabile scientemente e nel momento necessario, da Delsarte disdegnata.

Il sistema indicato permette la coesistenza della coscienza di sé e della possibilità di produrre i gesti involontari, che, in quanto tali, non sono soggetti al controllo della ragione. Autorizza, dunque, la compresenza di due categorie apparentemente inconciliabili.

Una volta definito il metodo relativamente al problema della partecipazione emotiva, Delsarte si occupa dell’interpretazione del testo. Punto di partenza è che qualunque scritto, a suo parere, può essere inteso in mille maniere diverse. Per questo, egli può inventare un procedimento che costituisce per l’actor lo strumento per definire la sua personale visione della parte affidatagli. Si tratta di un principio assai moderno per almeno due motivi: il primo è che, per lo meno per il teatro di parola a partire dal Seicento, vigeva la tendenza a mantenere le modalità recitative che di un personaggio aveva proposto il primo interprete, sicché, per esempio, se la figura di Augusto nel Cinna di Corneille era stata recitata in una certa maniera alla prima messinscena, i successivi attori per un secolo e mezzo o due avevano in larga misura conservato quella maniera. Non così Delsarte, il quale, al contrario, va alla ricerca di punti di vista originali, talvolta persino paradossali, per leggere i personaggi e, di conseguenza, per renderli.

La seconda ragione di innovatività nel sistema di Delsarte è che, se mille sono le possibilità esegetiche di un testo, l’actor deve però seguire un taglio ermeneutico e mantenerlo costantemente dall’inizio alla fine della parte, senza mai abbandonarlo. A tal fine il pedagogo francese inventa una modalità procedurale nella costruzione della parte – modalità fissata in maniera assai dettagliata – grazie alla quale sia possibile ottenere l’unitarietà prospettica voluta. Dopo aver letto le battute del personaggio per intero, occorrerà individuarne una parola o un’espressione dominante. Così, Delsarte sceglie il termine padrone in riferimento al personaggio di Augusto del Cinna di Corneille. Poi si passerà alla definizione delle frasi identificative di ogni singola scena in cui Augusto compare e in esse dovrà essere presente l’espressione padrone: «Sono padrone del mondo, ma le preoccupazioni mi dominano», «Sii padrone di te stesso» e così via. Infine, si dovrà determinare il senso sotteso ad ogni singola battuta, scrivendo accanto a ciascuna la frase che la «traduce», ed ognuna dovrà contenere la solita parola-chiave. In tal modo, l’attore si troverà a possedere un vero e proprio sottotesto (nel linguaggio delsartiano, una traduzione ellittica) dotato di una forte unitarietà, ruotante attorno ad un unico concetto dominante, che si sviluppa secondo molteplici e variegate sfumature.

Il metodo di formazione dell’actor concepito da Delsarte si fonda su un pensiero filosofico piuttosto strutturato, che è più vicino, pur con differenze di un certo peso, alle tesi del gruppo romantico di Heidelberg che agli esponenti jenesi.

Al Kean, o genio e sregolatezza, dramma metateatrale pubblicato nel 1836 e rappresentato nello stesso anno al parigino Théâtre des Variétés, Dumas père decide di affidare le proprie idee sulla scena e, più in particolare, sull’attore. È vero che in una delle sei edizioni del ’36, assieme al nome di Dumas, figurano quelli di Emmanuel Théaulon e Frédéric de Courcy, ma in nessun’altra stampa essi compaiono, se non in una del ’68, sicché dobbiamo supporre che l’apporto di Dumas sia stato pressoché totalizzante.

Tre sono i punti della pièce a cui è più specificamente assegnato il compito di enunciare la concezione teatrale dumasiana. Il primo è costituito dal dialogo fra il protagonista, il grandissimo attore romantico Edmund (nel dramma trasformato in Edmond) Kean, e il personaggio di Anna Damby nella terza scena del secondo atto. Nuovamente di questioni spettacolari si discute nella dodicesima scena del terzo atto. Kean trova casualmente Anna e lei gli confessa di amarlo; gli narra anche il modo e la situazione in cui, qualche tempo prima, si è innamorata. Anna era molto malata e i medici non sapevano come curarne la melanconia e il disinteresse per la vita. Alla fine, uno di loro aveva proposto al suo tutore di tentare un’ultima strada: gli aveva consigliato di condurla a teatro, pensando che le emozioni vissute dagli attori potessero suscitarle, per simpatia, anche in lei. E così era avvenuto. La prima sera Anna si era recata al Drury Lane come un automa, guidata da qualcuno, senza alcun desiderio. Ma come era apparso Kean, che in quell’occasione interpretava Romeo, lei aveva iniziato a rianimarsi. Due giorni dopo Anna era stata riaccompagnata a teatro. Kean vi interpretava Otello. La ragazza aveva cominciato ad esprimere il proprio piacere. La sera successiva era stata lei stessa a chiedere d’essere condotta allo spettacolo, proposta accettata con gioia: era stata la prima volta dopo un anno che aveva manifestato un desiderio. Kean recitava la parte di Amleto. Contemporaneamente, Anna si era innamorata dell’attore e del teatro.

Possiamo infine trarre importanti notizie sulla posizione teatrologica di Dumas leggendo la nona scena del quarto atto. Siamo al Covent Garden, si dà Romeo e Giulietta, e Kean ne è il principale interprete. Alla fine della scena in cui i due innamorati hanno passato la notte insieme, Kean scorge il principe di Galles nel palco di Eléna, la donna che ama nella realtà. Colto da un raptus di gelosia, improvvisamente si ferma, fissa il principe, ed esce totalmente dalla parte. Prima ride, e poi inizia: «Chi mi chiama Romeo? chi crede che io stia recitando la parte di Romeo? […] Io non sono Romeo… sono Falstaff… il compagno di bagordi del principe ereditario d’Inghilterra…». Quindi incomincia a declamare la parte di Falstaff, inveisce contro il principe di Galles, e conclude la schizofrenica piazzata con: «Falstaff?… Ma io non sono Falstaff più di quanto non ero Romeo; io sono Pulcinella, il Falstaff dei marciapiedi…»33. A quel punto, cade svenuto fra le braccia dell’attrice che interpreta Giulietta e del suggeritore, che lo portano via. Si chiama un medico, si annuncia che Kean è impazzito. Cala il sipario.

Una prima informazione appare chiara: grande attore è, per Dumas, quello che vive le emozioni del proprio personaggio. Come nel dilettissimo Shakespeare (si pensi in particolare al monologo di Teseo nel quinto atto del Sogno di una notte di mezza estate), anche nel Kean e in molti lavori romantici si equipara l’attore all’innamorato e, più precisamente, a chi è rapito da quella particolare forma di travolgente affetto che è legata alla sofferenza e ai cui dolori, però, non si rinuncerebbe per nulla al mondo; amour-passion e teatro, stando al Kean, condividono il desiderio di diventare un’unica cosa con un altro essere: l’amante ambisce a realizzare la fusione di sé con l’oggetto del proprio desiderio, esattamente come l’attore romantico vorrebbe incarnarsi nel personaggio affidatogli. In entrambe le situazioni, si tratta della simbiosi di due creature34.

Per Kean – o, quanto meno, per il Kean offerto da Dumas, esattamente come per Stendhal o Gautier – condizione indispensabile per essere grandi artisti sulla scena è vivere travolgenti passioni nella vita, condurre un’esistenza eccessiva, fuori dalle regole, eccentrica. La vita o, meglio, un certo genere di vita (quella esagerata, accesa, disordinata, ispirata), è intesa come strumento di conoscenza per il teatro. La consuetudine a lasciarsi rapire da sensazioni ardenti crea una sorta di predisposizione o di attitudine ad abbandonarvisi anche in situazione extra-quotidiana, rende capaci di suscitarle o di disseppellirle con facilità e al momento opportuno di fronte a centinaia di spettatori. Nella quarta scena del secondo atto Kean definisce geniale il temperamento eccessivo, passionale, romantico. Il genio è facoltà posseduta da pochi ed innata, non acquisibile con lo studio. Ma non necessariamente tale dote viene sfruttata: c’è la possibilità di dimenticare, di seppellire e frustrare la propria natura, e c’è la possibilità, invece, di coltivarla e di arricchirla.

Il posto occupato in questo quadro dal freddo studio teatrale, dal mestiere, è evidentemente limitato. Nel delineare il lavoro dell’attore, Kean parla anche di tecnica, di scienza, ma è chiaro che li considera facoltà secondaria («supponendo che possediate tutte le disposizioni necessarie, occorrono sempre sei mesi di studio prima del debutto»35), convinzione peraltro contraddetta dalla prassi teatrale esercitata da Dumas: grandissimo metteur en scène, egli fa provare per tempi molto lunghi gli attori che dirige, pretende da loro la perfetta memorizzazione del testo esatto, esige inoltre il mantenimento della partitura gestuale stabilita assieme a lui nel corso delle répetitions36.

Se l’attore è «incarnato» e se inoltre sa esprimere le più remote profondità di contro a quanto avviene nel quotidiano, spazio di norma soggetto a falsità o a scialbore, allora il teatro è strumento d’espressione degli abissi più reconditi e segreti, è mezzo di rivelazione di una realtà più «vera» e vitale. Kean impiega un’espressione paradossale: parla del lavoro dell’attore come di un processo di sottrazione della maschera, di quel travestimento che il quotidiano impone a copertura degli affetti, della psiche, dell’io. Nel monologo della quattordicesima scena del terzo atto Kean, auto-definendosi saltimbanco, sottolinea orgogliosamente il suo procedere «a viso scoperto»37, contrapponendo sé all’aristocratico Mewill, doppio, bugiardo, dissoluto, disonesto. Come a dire: Kean è vero sia nella vita che a teatro. Anche quando assume le sembianze di un altro, conserva una natura sincera, nel senso che sceglie un certo tratto dominante del personaggio e se ne lascia risucchiare totalmente, dimenticando altre dimensioni del suo essere. Sotto la maschera che strappa dal viso mettendo a nudo l’anima troviamo l’eccesso, i sentimenti estremi: l’amour-passion di Romeo, la gelosia mortale di Otello, il violento odio di Macbeth, tutte caratteristiche compresenti nella personalità dell’attore, ma che lui evoca al momento opportuno. Nel profondo delle viscere non giacciono affatto armonia, kósmos, ordine, come pensavano i classici, quanto disordine e sregolatezza, termini che compaiono nel sottotitolo del dramma e su cui Kean insiste nella seconda scena del quarto atto. Dumas sembra dunque farsi interprete di una delle direttrici della visione romantica: falsa è l’esistenza di un principio ordinatore, di un nucleo armonioso, di natura eterna ed immutabile. Scendendo in profondità, si trova il marasma delle emozioni, dell’inconscio. Scavando, i romantici disseppelliscono molteplicità, proliferazione, dis-armonia, caos. Se padroneggiata o impiegata in modo proficuo, la poliedricità interiore può produrre originalità, vitalità, creatività; se no, provoca distruttiva dissociazione.

A teatro essa può realizzare, per Dumas, prodotti artistici geniali, essendo quanto consente al grande artista di impersonare con verità qualunque personaggio. Ma essa si trasforma in fattore negativo quando non scatta l’incarnazione, come accade nel quarto atto. Allorché Kean esce dalla parte di Romeo per trasformarsi prima in Falstaff, poi nel suo io quotidiano e infine in Pulcinella, siamo di fronte ad un comportamento «schizofrenico», in cui l’eclettismo psichico produce effetti deleteri, devastanti per lo spettacolo, una parodia di se stesso.

A sostenere, a puntellare le enunciazioni di poetica individuate, sembra essere presente nel dramma una sorta di testo nascosto o secondo. Kean afferma che Edmond è nome d’arte. Anagraficamente si chiama David, una notizia che non corrisponde per nulla alla reale biografia dell’attore inglese. Trattandosi di un’informazione del tutto inutile per la trama, deve evidentemente avere qualche altra ragione d’essere.

Kean si definisce spesso un saltimbanco, un istrione, un giocoliere, un buffone, un funambolo, un musico, un giullare. Si sente ancora tale, ma in concreto lo è stato da giovane, quando, membro della piccola compagnia di giro diretta da Bob, si chiamava ancora David (il nome anagrafico e l’appellativo giocoliere sono esplicitamente legati nella quinta scena del terzo atto).

David fu la più importante e la più diffusa figura di giullare tramandata dalla cristianità. Nel Medioevo – epoca da cui Dumas, come di frequente i romantici, trae spesso ispirazione – fu comune l’immagine di David concepito secondo una duplice modalità: come giullare, cantore, poeta di salmi e musico e, nel contempo, come profeta, sovrano e legislatore. Nella sua figura sono compresenti i caratteri di giullare e di unto da Dio, di istrione e di profeta, caratteri effettivamente presenti nella Bibbia, ma dal Medioevo messi particolarmente in luce38. In quanto istrione, David ha anche tratti moralmente negativi perché sa fingere e ingannare (e infatti è presentato come grande amatore ed adultero, esattamente come Kean). In quanto profeta, David è visto come prefigurazione di Cristo, al quale in vari punti del Kean è assimilato anche il protagonista. Il più evidente sta nella dodicesima scena del terzo atto, là dove Anna racconta di essere stata giudicata incurabile e di essere stata guarita, come per miracolo, dal grande attore, esplicitamente definito un Cristo per questa sua capacità di dar vita ai «morti», di «resuscitare».

Il giullare medievale non è sempre rappresentato come David: può anche avere volto di animale, per lo più un orso o un leone, spesso nello stesso documento iconografico presente assieme all’altra figura. Il giullare dunque mostra una faccia celeste e un versante basso, bestiale. Curiosamente Kean ha un amico di nome David, che nel Sogno di una notte di mezza estate recita la parte di un comicastro che deve interpretare il Leone nella rappresentazione del mito di Piramo e Tisbe data nel palazzo di Teseo ad Atene. Non solo: lo stesso Kean dice di aver iniziato la carriera facendo il pagliaccio e l’acrobata sulla piazza di Dublino. Distendeva una «pelle di leone»39 per terra, e iniziava l’esibizione. Non basta: il grandissimo attore romantico Frédérick Lemaître, interprete del Kean, scrive nei Souvenirs di aver debuttato giovanissimo al Théâtre des Variétés Amusantes, nella parte del Leone in Piramo e Tisbe40.

Sembra allora che Dumas voglia sottolineare il doppio volto di David, il giullare: divino e animale, cristico e bestiale, al modo di certi personaggi di saltimbanco offerti da Charles Baudelaire su cui Jean Starobinski in un libro famoso pone l’attenzione41. Il grande attore, per Dumas, è assimilabile al giullare medievale, nel contempo profeta e bestia, musico come Orfeo e vile giocoliere, personalità poliedrica, capace di contenere in sé gli estremi, le passioni più vili e i sentimenti più elevati42.

L’interprete geniale, questo essere celeste e ferino, ha un effetto vivificante, rigeneratore e persino terapeutico sullo spettatore o, quanto meno, su alcuni fruitori privilegiati, un po’ come la grande poesia secondo lo Shelley della Difesa della poesia, scritta nel 1821. L’immedesimazione dell’attore infatti, per empatia, può smuoverne il mondo interiore, come accade ad Anna le prime tre volte in cui va a teatro e vede Kean:

Romeo mi aveva fatto conoscere l’amore, Otello la gelosia, Amleto la disperazione… questa triplice iniziazione completò il mio essere… Io languivo, senza forza, senza desiderio, senza speranza… il mio cuore era vuoto… la mia anima ne era fuggita, o non vi era ancora discesa… L’anima dell’attore passò nel mio petto: compresi che cominciavo solamente da quel giorno a respirare, a sentire, a vivere!43

Sembra d’essere di fronte a un fenomeno in cui la «peste» scatenata dal teatro non solo non dev’essere regolamentata e controllata per essere terapeutica, come sembra sostenere Aristotele quando, nella Poetica, parla della catarsi (alla fine, le emozioni devono purificarsi, spegnersi, essere sedate affinché il cittadino spettatore, una volta terminata la rappresentazione, si comporti in modo equilibrato, giusto e onesto), ma, al contrario, deve uscire fuori dal teatro ed essere convogliata anche nello spazio del quotidiano. La «peste», in altri termini, non è vista come elemento negativo, ma invece vitale e rigenerante, benché, nel contempo, pericolosa e perturbante. Senza questo morbo, in altri termini, e pur nella sua natura rischiosa, non può esservi attività creativa.

Altra differenza tra il concetto di catarsi in Aristotele e le tesi di Dumas è che l’uno pensa al testo, il quale, per il modo in cui è costruito, susciterebbe nello spettatore le emozioni fonti della catarsi, mentre l’interprete sarebbe un mero filtro; Dumas, invece, ha in mente lo spettacolo e, soprattutto, l’attore. È la sua presenza, il suo modo di muoversi e di inflettere la voce (sia pure sulla base di un testo forte) ad accendere i sentimenti dello spettatore. La partitura drammaturgica, di per sé, non ottiene alcun risultato, se non è messa in bocca (e nel corpo) ad un grande attore.

La questione dell’artista distaccato o riscaldato dall’emozione non è certo di dominio esclusivo di Delsarte o di Dumas. Nuovo slancio prende quando nel 1830, postumo, viene pubblicato il Paradosso sull’attore di Diderot. Com’è noto, egli rivendica illuministicamente una preferenza per l’interprete tecnicamente molto abile (Hyppolite Clairon piuttosto che Mademoiselle Dumesnil), che ripete a freddo una partitura verbale, fonetica e gestuale, preparata in sede di prove, fingendo di sentire veramente le emozioni espresse. Travolgente ogni volta in cui scatta l’ispirazione, colui che fa affidamento su questo afflato non dominabile riesce infatti scadente e noioso, secondo Diderot, in altre decine di casi, poiché lo stato di grazia in cui in scena è travolto dalla passione misteriosamente tace; esplode solo in qualche momento fortunato ed imprevedibile, e tanto meno probabile è che ciò accada quanto più si procede nelle repliche, poiché sempre più la parte gli viene a noia, diventa abitudine e scade nella routine.

Se i romantici preferiscono una serata recitata sotto la spinta dell’accensione emotiva a cento repliche perfette ma fredde, non possono tuttavia non ammettere la natura casuale dell’ispirazione. Non volendo rinunciare al piacere del sentimento vissuto in scena, iniziano dunque a domandarsi come rendere meno fortui­to lo sprofondamento negli anfratti della passione. Non è vero, in effetti, come spesso è stato detto, che il Romanticismo accrediti ingenuamente l’attore riscaldato dal fuoco di un sentimento dall’origine insondabile e non eccitabile a talento, concezione del resto poco credibile quando si pensi alle varie riflessioni filosofiche dell’epoca sulla relazione fra sensibilità e volontà e sulla loro ricaduta sul prodotto estetico (basta consultare il Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling, ossia la pubblicazione delle lezioni tenute all’Università di Jena nel semestre estivo del 1799).

Si è già detto di Gautier. Non troppo diverse certe convinzioni di Stendhal, espresse, per esempio, nella Vita di Rossini o in Roma, Napoli e Firenze, edite rispettivamente nel 1824 e nel 181744. L’autore predilige un attore che viva emotivamente la parte, ma suggerisce degli stratagemmi per non abbandonarlo alla sorte di una casualità incontrollabile. Il primo espediente investe la vita dell’artista, che deve abituarsi nel quotidiano a non castrare le passioni estreme, particolari, accese. Così, asseconderà l’attitudine a suscitarle in sé durante la rappresentazione. È suo compito dunque non lasciarsi invischiare dallo stile di esistenza borghese, dal moralismo e dal perbenismo alle cui norme gli attori avrebbero invece iniziato inopinatamente ad adeguarsi.

Stendhal insiste inoltre sulla necessità di mantenere una certa elasticità interpretativa. Il comédien dovrebbe infatti evitare di definire in tutti i particolari la resa della parte, lasciandosi aperto un margine, sia pure contenuto, di improvvisazione. Dovrebbe anzi prendersi il lusso, se necessario, di modificare leggermente il testo, inventando in sede di spettacolo qualche breve battuta non prevista, di cambiare in scena una certa sfumatura del tono immaginato nel corso delle prove, di elidere qualche piccolo passaggio, poiché questa libertà favorirebbe l’accensione emotiva. Stendhal aggiunge che l’attore dovrebbe consentirsi la possibilità di offrire un’inflessione affettiva ad un certo personaggio un po’ diversa dalla modulazione proposta in precedenza, se in quella data occasione ciò risponde maggiormente alle sue corde. Sembra trattarsi di una concezione «alla Stanislavskij» e già anticipata in parte da Goethe: l’attore vivo e non meccanico, proprio per mantenere desta l’anima del personaggio, deve ascoltare sera dopo sera se stesso e gli interpreti degli altri personaggi, cogliendo le proprie e le altrui sfumature, che saranno sempre leggermente diverse, e dovrà adattarvisi, rispondervi a tono, sicché la partitura sarà sempre la stessa ma con impercettibili e nel contempo vivificanti differenze.

1.4. Concezioni in materia di letteratura teatrale

Nella Filosofia dell’arte Schelling scrive che scegliere la forma della tragedia piuttosto che della lirica o della narrativa equivale ad optare per la possibilità di fondere le massime espressioni che costituiscono il fondamento dell’arte. Nell’arte più alta, infatti, si manifesterebbe un conflitto tra libertà del singolo e necessità ossia sorte fatale (e occorre che questa sia cattiva, altrimenti il contrasto non scatta). L’unica forma in cui è possibile rappresentare tale condizione è il testo teatrale in quanto la situazione si presenta oggettivamente (come dato «reale», azione) e inoltre soggettivamente, nel senso che il personaggio protagonista vive nel proprio io ed esprime i suoi pensieri e i suoi sentimenti. La letteratura teatrale più elevata è dunque la tragedia in cui si scatena uno scontro tra la libertà individuale del protagonista e la necessità dei fatti, e tale combattimento non termina con la sconfitta dell’uno né dell’altra, poiché il protagonista accetta volontariamente di sopportare il castigo per un delitto ineluttabile, così affermando la propria emancipazione decisionale, il proprio libero arbitrio, non si abbandona passivamente agli eventi provocati dal destino. In tal modo, la sorte necessaria fa il proprio corso (vince nel linguaggio schellinghiano), ma vince anche il protagonista, in quanto sceglie la punizione per ragioni quali il bene della comunità. La somma drammaturgia (che è la tipologia d’arte più alta), in sintesi, è la tragedia.

Come si sarà intuito, il testo di riferimento è prima di tutto, per Schelling, l’Edipo re sofocleo, che, pur essendo una pièce antica, sotto il profilo esposto costituisce un campione da seguire anche per i moderni. Se capiamo bene, il principio sin qui presentato è una sorta di motivo generatore universale, senza età. Varia poi, a seconda dei tempi, la forma esteriore del testo teatrale. Le scelte formali come la divisione in atti, la mescolanza di versi e prosa, l’abbandono delle unità pseudo-aristoteliche sono la conformazione esterna della grande tragedia moderna. Tale configurazione non è un elemento accidentale che l’autore possa pacificamente scegliere: è invece essenziale e inderogabile per una certa epoca, per un certo habitat sociale, è, per così dire, il corpo dell’anima. A questi criteri dell’età storica si aggiungono le soluzioni formali dell’autore, le quali, di nuovo, devono essere il risvolto esterno della costituzione interna, similmente a quanto scrive Schlegel nel Corso di letteratura drammatica (nell’Amleto, per esempio, l’indole del personaggio principale si riflette nell’impianto contorto, inquieto e sospeso dei periodi) o a quanto sostiene Coleridge.

Analogamente a ciò che si osserva in Schelling, nelle Lezioni di estetica di Solger (prima edizione, 1829) si riscontra un indiscutibile primato dell’arte letteraria. Esso è motivato dalla natura del linguaggio verbale, senza il quale non si dà pensiero: parola e pensiero coincidono e si generano contemporaneamente, come insegnava Étienne Bonnot de Condillac già nel Settecento. Inoltre, il linguaggio articolato usato nell’arte è, per Solger, la manifestazione della fantasia (cioè di una facoltà che non è interamente logica, quanto piuttosto razionale e inconscia insieme); poesia e fantasia coincidono, l’una non si dà senza l’altra. La poesia infine non rappresenta, ma è (o dovrebbe essere) l’universale, che si manifesta nel particolare. Per questo, dal filosofo è considerata superiore alla pittura, alla scultura e all’architettura, esattamente come lo è l’arte attorica per altri, che vi vedono l’unione di conscio e inconscio, di materia e spirito o di particolare e universale.

Per Solger, in più, la forma drammatica coniuga quanto egli, impiegando una terminologia anomala, definisce allegoria (nel suo linguaggio, la soggettività del punto di vista del personaggio) e quanto chiama simbolo (l’oggettività dei fatti, che sono presentati nel loro accadere presente, «reale»), sicché è l’arte in assoluto più elevata.

Se alcuni romantici vedono nella letteratura teatrale il genere più alto di un’ideale gerarchia, non è questa la visione dominante. I romantici sono spesso condizionati dalla prorompente scenicità del tempo e il corpo dell’attore (di carne o di legno) diventa allora la vera cassa di risonanza dell’Assoluto, il luogo per mezzo del quale e nel quale si accende la scintilla del Divino, come sembra sostenere Madame de Staël quando in Della Germania scrive che le parole possono dipingere meno le tempeste dell’anima dell’accento e l’accento, a sua volta, meno della fisionomia, ossia dei movimenti del corpo e soprattutto del volto. L’attore sublime – aggiunge – sa esprimere l’inesprimibile. In alternativa, il ruolo centrale è assunto dalla musica grazie alla sua natura indefinita ed evocativa: secondo Wackenroder, Hoffmann o Leopardi o anche secondo Arthur Schopenhauer, la sua grandezza risiede nella capacità di immergere l’ascoltatore in un flusso senza contorni e, come la dimensione onirica, di calarlo nell’essenza delle cose. Secondo altri romantici come Wordsworth e Coleridge, una posizione assai elevata è detenuta dalla lirica per motivi analoghi a quelli concepiti per la musica.

Mentre le speculazioni di Schelling e Solger sono propriamente filosofiche, in molti si interrogano sui criteri da applicare in concreto nel dramma moderno. Senza dubbio la categoria di cui un maggior numero di autori tratta è quella delle unità pseudo-aristoteliche. La quasi totalità si schiera a favore dell’unità d’azione, sia pure con accezioni leggermente diverse. Secondo il Coleridge di una Lezione su Shakespeare tenuta nel 1818, bisognerebbe parlare, più propriamente, di unità d’interesse, ossia di una modalità di composizione capace di catturare l’attenzione dello spettatore, di affascinarlo, di renderlo partecipe secondo un criterio di omogeneità e coesione, sviluppo e ampliamento del concetto schlegeliano di forma organica. Si tratta di una derivazione dell’unità d’azione, ma che deve nascere da dentro. Spieghiamo meglio ricorrendo a un esempio specifico:

[La Tempesta] si rivolge interamente alla facoltà immaginativa, e benché l’illusione possa essere aiutata dall’effetto che le scenografie e le decorazioni complicate dei tempi moderni hanno sui sensi, tuttavia questo genere di aiuto è pericoloso. Infatti, l’eccitamento principale, l’unico genuino, dovrebbe arrivare da dentro – dall’immaginazione commossa e partecipe; al contrario, quando tanti elementi si rivolgono ai sensi più esterni, la vista e l’udito, la visione spirituale è portata a languire, e l’attrattiva dell’esteriorità distrae la mente dall’unico interesse legittimo e appropriato, che deve nascere da dentro45.

Può sembrare che con la dichiarazione riportata il poeta evochi una scena mentale, sottratta al pericolo della materia (rappresentata dal corpo dell’attore, dalla scenografia, dall’oggettistica). Ma nello stesso saggio Coleridge spiega che non è l’entità fisica in sé ad essere pericolosa, quanto piuttosto il fatto di essere usata in modo vistoso, eccessivo, effettistico. Occorre, invece, che la scena (e, singolarmente, tutti i vari ingredienti che in essa agiscono, a partire dal testo) stimoli nel fruitore l’immaginazione, la facoltà in grado di metterci in comunicazione con l’universale, e che sia sollecitata secondo una prospettiva coerente nel corso dello spettacolo.

Pressoché tutti i romantici deprecano l’uso delle unità di luogo e di tempo (fra le eccezioni, la prefazione al Sardanapalo di Byron, 1821). Prendendo le mosse dalla critica della forma meccanica e dalla convinzione che la forma del prodotto artistico debba essere la risultante di una forza interna, Schlegel, nel Corso di letteratura drammatica, non può che contestare l’utilizzo delle unità pseudo-aristoteliche, a parte quella d’azione, in quanto la loro applicazione produrrebbe, a suo parere, un’inefficacia della rappresentazione drammatica. Sulla scorta di Schlegel interviene, fra gli altri, Ermes Visconti nel secondo articolo delle Idee elementari sulla poesia romantica pubblicato nel 1818 nel «Conciliatore». Scrive l’autore che i classicisti si ostinano a trarre la fisionomia esteriore dei loro drammi da quella (presunta) degli antichi e insistono anzitutto sui precetti relativi a tempo e luogo, sostenendo che Aristotele li pretendesse. In realtà – osserva Visconti – Aristotele non li ha mai raccomandati e nei testi teatrali greci non sono affatto osservati sistematicamente. A torto i classicisti li ritengono indispensabili per l’illusione scenica. Tedeschi e inglesi hanno dimostrato che il loro rispetto è pregiudizievole e sofistico. Non troppo diverse le riflessioni che Manzoni offre nella Prefazione al Conte di Carmagnola (prima edizione, 1820), in cui parla, per le unità di spazio e di tempo, di principi arbitrari basati su usi della Grecia antica nient’affatto assoluti ma semplicemente frequenti, oltre che sulla giustificazione teorica, ritenuta insensata, per cui gli spettatori riterrebbero inverosimile che la storia si svolgesse in diversi ambienti e in più giorni. Ma – obietta Manzoni – il pubblico sa benissimo d’essere seduto a teatro e di non essere, a titolo esemplificativo, a Roma nel Cinquecento (e poi, eventualmente, in un’altra città), sicché a lui basta che logiche siano le varie parti dell’azione tra loro, che siano intrinsecamente motivate.

Nel primo scritto intitolato Racine e Shakespeare (uscito nel 1823) Stendhal spiega che l’accademico giustifica la necessità delle due unità incriminate affermando che non è verosimile che un’azione rappresentata in due ore si svolga per la durata di una settimana o di un mese, come non è verosimile che in pochi istanti gli attori vadano da Venezia a Cipro. Il romantico eccepisce che, per essere esatti, ciò è impossibile e non solo inverosimile, ma che altrettanto impossibile è che l’azione data in due ore ne riguardi ventiquattro o trentasei. In entrambi i casi, però, «lo spettatore può benissimo immaginare che, negli intervalli tra un atto e l’altro, trascorra qualche ora» o anche qualche mese46.

Un altro elemento dibattuto è la presenza o meno del coro, che nella tragedia greca esprime le idee dell’autore o dello spettatore giusto e imparziale, che non prende parte per nessuno dei personaggi. Per lo più, i romantici considerano il coro un elemento che rallenta l’azione, che la sospende facendo cadere l’illusione. Per Schelling – ma anche per il Manzoni della Prefazione al Conte di Carmagnola –, invece, è un’invenzione ammirevole. È chiaro – spiega il filosofo tedesco nella Filosofia dell’arte – che un intrigo non coinvolge solo i protagonisti, ma anche altri personaggi, che tuttavia non sono implicati nella vicenda principale. Costringerli al ruolo di mere comparse, come fa il realismo, finisce per svuotare l’azione di densità. Gli antichi hanno risolto il problema in un altro modo: hanno trasformato l’accompagnamento degli eventi in coro, conferendo così a quest’ultimo una necessità concreta e dunque poetica.

Anche il tema della lingua offre il destro ad una serie di riflessioni. Schlegel nel Corso di letteratura drammatica osserva che lo stile più adatto a teatro è quello più immediato, che prenderemmo se la nostra natura si rivelasse sempre libera dalle limitazioni del caso, in tutta la sua forza e pienezza, circostanza che nel reale si verifica solo in rare occasioni. La lingua drammatica deve produrre un’impressione di leggerezza e disinvoltura. La concatenazione dei periodi, poi, non può essere perfettamente ordinata: nel quotidiano non parliamo mai come nella forma scritta, quando l’autore ha avuto il tempo di ordinare gli argomenti, e la drammaturgia deve almeno in parte seguire una disposizione simile a quella del reale.

In un secondo scritto intitolato Racine e Shakespeare (1825) Stendhal insiste sull’idea che la tragedia dovrebbe essere in prosa e impiegare un lessico moderno, non antiquato (matrimonio e non imene, per esempio). Nella Prefazione al Cromwell Victor Hugo, al contrario, si esprime a favore del verso, intendendolo come uno dei mezzi più adatti contro l’irruzione dell’elemento quotidiano, benché non sia contrario neanche alla prosa.

La concezione teorica che sta a fondamento della gran parte delle tesi sulle unità, sul coro e sul tipo di lingua è quella dell’illusione teatrale. Ad essa dedica riflessioni articolate Tieck. E su questa intervengono anche Stendhal e Coleridge, ma entrambi la affidano alla scenicità, non solo alla letteratura47. Il poeta tedesco la affronta analizzando l’opera di Shakespeare (Il meraviglioso in Shakespeare, scritto nel 1793), a partire da una domanda: come egli riesca a creare l’illusione per i personaggi sovrannaturali. Naturalmente il presupposto è che convincere e tenere avvinto lo spettatore quando è in gioco il meraviglioso è molto più difficile che di fronte a situazioni realistiche. La prima clausola è che l’autore, una volta entrato nel terreno del fantastico, non torni mai indietro, altrimenti, per contrasto, il fruitore percepirà l’inverosimiglianza della situazione precedente e sfuggirà all’illusione.

Quando il poeta sarà riuscito in questo primo intento – si chiede Tieck – come potrà evitare che in qualche momento veniamo trascinati nella realtà percependo l’inganno? Anzitutto – si risponde – deve evitare l’allegoria, poiché, essendo razionale, svela subito la finzione. Occorre, invece, che nulla ci sottragga al nostro sogno, alla fantasia da cui siamo catturati. È necessario che, come nella Tempesta shakespeariana, vi sia continuità: tutto dev’essere costantemente meraviglioso. Se si passa al razionale (reale), come nella Pastorella fedele di John Fletcher, la situazione non ha efficacia, perde di credibilità.

Altra precauzione è schivare gli estremi della passione per non scivolare nella tragedia, smarrendo l’unità del lavoro. Per contro, è bene introdurre elementi comici affinché la nostra attenzione si disperda un po’ e non fissi «uno sguardo troppo fermo e penetrante sugli esseri della sua immaginazione»48, circostanza che aiuta non solo ad eludere la monotonia, ma anche a non lasciar sfuggire l’illusione.

Se nel dramma possono, per Tieck come per August Wilhelm Schlegel, Schelling o Hugo, convivere prosa e poesia, possono, anzi devono coesistere comico e tragico. Come già constatato, molto Romanticismo predilige infatti l’unione o l’accostamento di elementi differenti e spesso contrastanti: il grottesco e il sublime, la prosa e la poesia, il mondano e il divino, il materico e l’astratto, e in tale mescolanza sarebbe più prossimo dei classici al segreto dell’universo.

Assai discussi sono i criteri usati da Shakespeare nei drammi, dato che nella sua opera sono presenti tutte le caratteristiche amate; anzi, i romantici traggono da lui tali aspetti, e significativamente le prime teorie di stampo romantico in ordine di tempo riguardano Shakespeare. Al drammaturgo secentesco Tieck dedica, come ricordato, un saggio, edito nel 1796, in cui mostra come egli sia incurante dei precetti classicisti, come mischi nelle sue opere il comico e il serio, come sia attento alla creazione dell’illusione teatrale anche in presenza di meraviglioso. Lo stesso anno anche August Wilhelm Schlegel gli riserva uno scritto, Alcune note su William Shakespeare in occasione dell’uscita del Wilhelm Meister. Successivamente, moltissimi romantici parlano dell’autore giacomiano, considerato fonte ispiratrice principale. A Schlegel e a Tieck si deve anche la traduzione tedesca di tutto il teatro di Shakespeare (ad eccezione del Pericle). Al primo spetta quella di diciassette drammi per l’editore Unger; poi Tieck compie la revisione delle versioni dell’amico, sua figlia Dorothea e il conte Baudissin completano le traduzioni sotto la supervisione di Tieck stesso per l’editore Reimer.

1.5. Speculazioni sulla messinscena

L’idea, centrale in una porzione assai cospicua del Romanticismo, che si debbano coniugare ragione e immaginazione (inconscio), ossia principio razionale, costruttivo, metodico e componente fantastica, intuitiva, per alcuni autori costituisce un fondamento importante anche della nuova concezione della messinscena, la quale, secondo questo presupposto, deve significare l’interno, l’inconscio, la profondità, l’Idea, il metafisico, non essere mera forma esteriore. La fisionomia scenica è il riflesso o il corpo del mondo interiore.

A ben vedere, anche la visione meno rivoluzionaria del Romanticismo, quella che si profila a Heidelberg, non contrasta con quanto appena affermato, nel senso che nell’opera d’arte ritiene sia enucleato lo spirito, il metafisico, il sacro, di cui la forma esteriore non è che la manifestazione.

Se nella direzione del legame simbiotico tra interno ed esterno va l’idea dell’immedesimazione, che sostanzialmente prevede un attore che viva il sentimento e il pensiero del suo personaggio, ciò può essere applicato anche allo spettacolo complessivo, i cui coefficienti – se ben concepiti – parlano, esprimono; meglio, la forma esteriore non è solo parlante, ma è il corpo necessario di un’anima, come, in relazione alla musica, afferma per esempio Wackenroder nella Memorabile vita del musicista Joseph Berglinger contenuta negli Sfoghi del cuore di un monaco innamorato dell’arte (1797) o come, in riferimento al teatro, sostiene Coleridge49.

Come sappiamo, il poeta inglese scrive che alle unità di tempo e di luogo nel dramma romantico si sostituisce una sorta di unità di immaginazione, ossia della facoltà capace di captare l’universale e grazie alla quale esso può riversarsi nel prodotto artistico. Unità di immaginazione significa coerenza nell’idea soggiacente all’opera, nelle intenzioni che la reggono.

In molta drammaturgia dell’epoca la paralisi della facoltà unificatrice, per Coleridge costituita dall’immaginazione, paralisi dovuta alla contaminazione con il reale, impedisce, secondo l’autore inglese, di infondere coesione alle pièces: quelle che dovrebbero essere forme in cui i diversi «atomi» si aggregano in maniera compatta, si presentano parcellizzate. L’unità, invece, sarebbe fondamentale in qualunque opera, romantica o classica. Nelle produzioni riuscite del moderno, è la facoltà immaginativa, per Coleridge, a conferire coerenza al tutto, a fondere gli elementi eterogenei in una forma organica. Più precisamente, Coleridge considera la grande arte come una pianta. Contrariamente alla combinazione di elementi separati propria di una macchina, le parti di un essere vegetale sono legate l’una all’altra e tutte insieme alla totalità della pianta stessa. Ogni elemento è interdipendente dagli altri. L’unità immaginativa dell’opera d’arte è, dunque, un’unità organica: un sistema autoevolventesi, costituito da una viva interdipendenza delle componenti (una «unità nella molteplicità»50). L’arte organica è la più elevata, è frutto del genio e differisce da quella di grado inferiore, risultato del talento. L’una possiede una vitalità che cresce e si sviluppa da dentro (l’opera di Shakespeare ne è l’esempio più alto), l’altra, rappresentata dai lavori di John Fletcher e Francis Beaumont, è una somma di parti.

La convinzione espressa sul testo drammatico si estende alla sua rappresentazione. Se infatti, per Coleridge, l’unità di immaginazione è essenziale per ottenere una struttura coesa della partitura scritta, lo stesso principio sta alla base della prassi spettacolare: sul palcoscenico dovrebbe verificarsi «la combinazione di diverse o di tutte le belle arti in un’interezza armoniosa dotata di un preciso fine autonomo, al quale il fine particolare di ognuna delle arti che la compongono, presa separatamente, deve mirare»51. Si tratta di convinzioni che costituiscono un fondamento teorico per la regia, un fenomeno che non ha ancora un nome, ma che già esiste concretamente a Parigi e in embrione anche a Londra.

Nella rappresentazione – spiega Coleridge – è indispensabile un accordo fra le varie componenti sceniche, che devono funzionare come i diversi strumenti governati dal direttore d’orchestra: la messinscena deve mirare a modellarsi come una combinazione equilibrata di arti tese all’imitazione immaginifica del reale. Posto che l’allestimento deve produrre l’illusione nella mente dello spettatore, se la composizione diventa dissonante (se cioè manca la concertazione e una componente è lacunosa, stonata o eccessiva rispetto alle altre), il miraggio si infrange e lo spettacolo fallisce.

Le speculazioni di Coleridge, pur possedendo una propria, originale autonomia almeno relativamente al tema della scenicità, si ispirano al pensiero di August Wilhelm Schlegel, in particolare là dove – come anticipato – parla dell’opera romantica come di un universo organico ogni parte del quale dipende da un punto centrale e vive in funzione del tutto.

Meno approfonditamente, nella Difesa della poesia anche Percy Bysshe Shelley interviene sull’accordo, l’euritmia, la coesione che dovrebbe regnare a teatro. Secondo lui, però, la scena moderna è in questo senso inadeguata in confronto a quella greca, dove «ogni forma d’arte fu resa perfetta, nel suo genere, da artisti della più consumata maestria, e disciplinata rispetto alle altre in armoniosa proporzione e unità». Nella modernità, invece, «abbiamo tragedie senza musica e danza, e musica e danza senza le nobili personificazioni di cui sono appropriato accompagnamento – il tutto senza religione e solennità». L’assenza della maschera, inoltre, produrrebbe «un effetto parziale e disarmonico»52.

Qualche anno dopo altre speculazioni, più articolate, si ritrovano in quello scritto antiromantico di Hegel noto sotto il nome di Estetica53: antiromantico, ma che tratta le concezioni romantiche con estrema padronanza, concezioni dalle quali Hegel trae spunti di grande rilievo per il proprio pensiero. Soffermiamoci, in particolare, sulla complessa riflessione contenuta nell’ultima parte, intitolata La poesia drammatica, analizzando la quale uno studioso contemporaneo come Luigi Squarzina attribuisce a Hegel – la cui Estetica esce tra il 1835 e il 1838 e in una seconda edizione, un po’ rivista, nel 1842 – il merito ragguardevole di aver identificato e sistematizzato sotto il profilo teorico i principi della regia.

Posto che il testo teatrale è per Hegel ineludibile e, anzi, va composto prima di tutti gli elementi scenici che attorno ad esso andranno a costruirsi (secondo un principio che fonda solo una delle molte tipologie registiche novecentesche), esso non deve essere «fine a se stesso»54, ma concepito per la scena, scritto e utilizzato in funzione della rappresentazione, una convinzione che costituisce un presupposto non irrilevante per la regia.

Su tale premessa Hegel compie riflessioni di un certo rilievo, a partire dall’affermazione che «tutti i mezzi della scena [… devono] divenire autonomi di fronte alla parola poetica»55. Osserva infatti che c’è differenza fra interpretare il testo e creare uno spettacolo autonomo rispetto ad esso, laddove l’espressione autonomo non significa in assenza di testo: l’aggettivo allude ad un allestimento in cui la partitura verbale sia concepita e usata in funzione spettacolare, non in quanto opera da leggere, secondo un criterio indispensabile alla realizzazione di un evento di pregio; il testo, cioè, andrebbe considerato in quanto elemento scenico, nella fattispecie come uno dei linguaggi dell’attore, che dovrebbe offrirlo esattamente come propone lo spartito gestuale. E questo costituisce una conditio necessaria (benché non sufficiente) della regia.

Hegel osserva che «il materiale propriamente sensibile della poesia drammatica […] non è solo la voce umana e la parola pronunziata, bensì tutto l’uomo che […] opera […] esperimenta […] riafferma»56. Il teatro, in altre parole, è l’arte del corpo umano, l’attore con la sua azione ne è l’elemento insostituibile e il testo deve farsi suono nella bocca degli attori che lo ri-creano, ossia che non si limitano a renderlo visibile e udibile. Determinante è il modo in cui esso è stato concepito e quello in cui è stato messo in scena.

Un altro punto dell’Estetica hegeliana in cui il filosofo tedesco preconizza lo spettacolo a fondamento registico benché ancora non esista il termine per definirlo, è strettamente connesso al precedente. Scrive Hegel che tutti gli elementi scenici devono collaborare a creare il lavoro. Più precisamente, l’Estetica enuncia che il teatro pretende «quell’esecuzione che si serve di tutti i mezzi della scena»57 riunendoli in sé, di modo che, pur impiegando molti linguaggi diversi, ciascuno capace di esprimere aspetti e sfumature diverse, l’opera è autonoma e una.

Un elemento fondante il fenomeno in oggetto è dunque, per Hegel, la collaborazione di tutti i coefficienti scenici, laddove il termine in corsivo vuole indicare il lavoro di ogni artista coinvolto nella realizzazione di un allestimento in direzione di un medesimo fine comune. Non si tratta semplicemente di mettere insieme, di sommare le diverse componenti, ma di farle obbedire ad una stessa prospettiva concepita dalla mente di un’unica persona, ossia di chi in seguito si definirà regista. L’Estetica ritiene che tali coefficienti parlino, esprimano, siano significanti: che la scenografia come i costumi, tanto quanto la gestualità e la vocalità attoriche siano portatori di senso e non mera decorazione. È radicata in Hegel la convinzione che le varie componenti dell’allestimento debbano collaborare e rispondere a una prospettiva unitaria benché ciascuna d’esse esprima secondo diverse sfumature, sia autonomamente significante.

È probabile che sia la visione delle innovative messinscene parigine, spesso di impronta romantica, a costituire una delle cause scatenanti, delle fonti d’ispirazione che mettono in moto le originali riflessioni contenute nella Poesia drammatica. Detto in altri termini, la natura delle rappresentazioni francesi (Hegel soggiorna a Parigi per due mesi e mezzo nel 1827, dove certamente assiste ad alcuni spettacoli) può aver contribuito ad indurre il filosofo a meditare sulle caratteristiche fondanti tali allestimenti e ad esporle, in tal modo di fatto definendo una teorizzazione relativa alla tipologia scenica che oggi chiamiamo regia. In ogni caso, l’individuazione della sezione finale del volume hegeliano in quanto speculazione sui principi registici, così come delle riflessioni di Coleridge, contravviene ad una convinzione di molta storiografia teatrale contemporanea: l’idea che la riflessione in materia sia pressoché assente prima del Naturalismo.

Fin qui si sono esposte teorie propriamente filosofiche sul tema della mise en scène. Un testo che affronta il soggetto in modo più pratico-applicativo è la goethiana Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, il cui protagonista nel corso del romanzo spesso assume il ruolo di Dramaturg, un termine peraltro non impiegato nel volume. Se Wilhelm asserisce che le canzoni oscene di Ofelia non devono essere minimamente modificate a teatro, altri passi di Amleto o di drammi diversi vengono cassati o aggiustati, ben consapevole che non è affatto lo stesso l’effetto di un testo letto o, invece, messo in scena. Wilhelm sembra perfettamente conscio del fatto che la fruizione di chi legge uno scritto nella sua isola mentale e di chi invece lo vede rappresentato ottiene effetti assai differenti e che quanto può essere efficace, suggestivo o poetico nel primo caso può non esserlo affatto nel secondo e viceversa.

Almeno in una circostanza Meister si impegna anche come direttore dell’allestimento di uno spettacolo, e allora è quanto mai attento a ottenere dagli attori serietà nella preparazione della rappresentazione, posto che condivide le critiche rivolte dalla direttrice de Retti ai comici per la loro leggerezza e soprattutto per la difficoltà «di convincerli dell’importanza delle prove»58. Quando, poi, vede come lavorano gli interpreti della compagnia di Serlo, non può non ammirarne la diligenza, la coscienziosità e l’attenzione alle richieste del capocomico.

Come già osservato, all’attore spetta anzitutto il compito di imparare a memoria la parte, di studiarne con cura le sfumature rendendole attraverso gesti e inflessioni vocali così ben fissati e padroneggiati da poterci poi «giocare» in scena. Si è anticipato inoltre che gli è richiesto anche di definire la parte obbedendo ad un’unica prospettiva in grado di inquadrare il personaggio in una cornice che risolva coerentemente e senza contraddizioni ogni elemento del suo carattere, ogni suo atteggiamento. Se abbiamo richiamato questo aspetto, è per sottolineare come l’obiettivo attorico di imprimere unitarietà alla sua creazione (a cui metodicamente e concretamente Delsarte lavora in Francia qualche anno dopo) sia premessa all’unitarietà del testo intero e del modo di renderlo in scena dai comédiens, e, di più, dello spettacolo complessivo.

Quando Wilhelm dirige gli attori, legge loro con intenzione le varie scene e dà loro consigli interpretativi. Il risultato ideale di una buona compagnia è che i suoi membri si sostengano e si equilibrino a vicenda, raggiungendo un’«unità d’intenti»59, un’adeguata concertazione. Secondo tali principi, Wilhelm produce il suo primo spettacolo come capocomico, e in quell’occasione compie un discorso che merita d’essere riportato:

Vedreste […] quanti progressi potremmo fare se continuassimo ad esercitarci così e quanta soddisfazione ci darebbe quest’attività! Spesso ho paragonato i musicisti con gli attori. Quelli non si divertono mai tanto come quando eseguono tutti insieme i loro esercizi. Quanta cura si danno per accordare i loro strumenti, per rendere i toni alti e bassi conformemente alla parte assegnata a ciascuno di loro! Solo il più inetto potrebbe credere di farsi onore con un accompagnamento troppo forte durante l’assolo di un altro. Ciascuno si sforza di interpretare lo spirito del compositore e fa di tutto per esprimerlo, e il suo contributo è piccolo o grande a seconda della parte che deve fare. Perché non potrebbero fare lo stesso gli attori tra di loro? Dovrebbero trovare la massima felicità e soddisfazione nel piacersi l’un l’altro […]. Sarebbero eliminate tutte le meschinerie che degradano al rango di mestiere questa nobile arte, […] non si cercherebbe più di brillare a sproposito, ognuno farebbe il proprio dovere e sarebbe ricompensata anche la più umile delle prestazioni. Quanto dovrebbe ritenersi felice il direttore di una simile compagnia! Dovrebbe sapere il fatto suo, far capire ad ognuno quali sono le sue attitudini; dovrebbe assumere solo le parti per le quali si sente portato senza riservarsi l’esclusiva di questo o di quel personaggio, né permettere agli altri di arrogarsi tale diritto60.

Se le unità pseudo-aristoteliche di tempo e di luogo non possono aiutare l’auspicata natura centripeta dell’evento scenico complessivo, essendo considerate, anzi, pericolose in quanto causa di paralisi delle idee del drammaturgo, altre unità potrebbero giovare:

E insomma, giacché le unità han proprio da esserci, perché soltanto tre e non una dozzina? L’unità dei costumi, del tono, del linguaggio, del personaggio in se stesso, dei vestiti, della scenografia e delle luci […]. Infatti che cosa significa unità […] se non interiore coesione, coe­renza, convivenza e verosimiglianza?61

Il passo, che definisce un presupposto-cardine della regia, è rilevante: Wilhelm osserva che ogni coefficiente scenico dovrebbe possedere una propria intrinseca unità.

Dopo aver compiuto un’osservazione degna d’attenzione (l’unità d’azione, «presa nel senso più alto, costituisce il pregio non solo del dramma, ma di qualsiasi opera poetica, e mi sembra quindi indispensabile»62), Wilhelm si occupa della rappresentazione in generale, senza più distinguere un coefficiente scenico dall’altro: «Nel dramma la cosa principale è l’azione, nel suo sviluppo e nella possibilità di rappresentarla; […] idee e sentimenti devono essere completamente subordinati a quest’azione progressiva […]; perfino i personaggi devono essere in continuo movimento e in funzione del movimento»63. Con questo, Wilhelm intende dire, in primo luogo, che il dramma deve evitare pause liriche o chiacchiere lunghe e numerose perché, altrimenti, esso langue, ma anche, in seconda battuta, che nello spettacolo, esattamente come nel testo scritto, tutto deve ruotare attorno a e convergere verso un fulcro, secondo un principio che è un presupposto-chiave della regia.

Nella prassi la situazione, almeno per larga parte del romanzo, è assai meno felice: la direttrice Melina e Wilhelm, infatti, «avevano parlato tante volte e così a lungo della spiritualità e superiorità dell’arte; ma nella pratica rimanevano purtroppo ben lontani da quelle idee»64: i costumi erano approssimativi e un po’ usurati, gli attori si dimostravano tutt’altro che disciplinati e diligenti, le scenografie erano poco appropriate. Ma quando Wilhelm dirige una compagnia, oltre a guidarne i membri nell’interpretazione del testo e nel modo di renderlo in scena, compie un passo ulteriore, nel senso che a lui va il compito di commissionare al sarto abiti nuovi adatti all’uopo, basati sulle sue indicazioni, e di occuparsi anche dei décors, definiti a partire dalle immagini riprodotte in libri di viaggio. Interviene infine sui cambi di scena. Pensa, in sintesi, a tutti i coefficienti, soprattutto all’arte attorica e ai costumi (un po’ meno dettagliatamente alla scenografia e, per le luci, tende ad affidarsi ad altri). A lui spetta, insomma, un ruolo super partes in cui quasi ogni componente deve rispondere alla sua mente ordinatrice, obbedire dunque ad un’unica prospettiva.

Dietro ad ogni scelta dello spettacolo curato da Wilhelm si nascondono le «cognizioni» e le «idee»65 su cui per anni ha meditato. I linguaggi usati a teatro, in altri termini, non sono mere decorazioni prive di senso, ma elementi parlanti, portatori di pensiero.

Una serie d’idee sulla messinscena complessiva si trova anche in un altro testo di narrativa: le Singolari pene d’un direttore di teatro (1819), una dichiarazione di poetica travestita, composta da E.T.A. Hoffmann, che non solo è uno scrittore, ma ha anche esperienza come direttore di teatro oltre che come musicista. È un dialogo tra un personaggio che esercita l’attività di cui nel titolo e un marionettista, rispettivamente il Grigio e il Bruno, entrambi sostenitori di concezioni chiaramente condivise dall’autore.

I due protagonisti osservano che i grandi drammaturghi (Shakespeare in primis) inseriscono qualunque particolare nella loro opera con intenzione, con l’intima convinzione della sua necessità. Ne consegue che non si deve tagliare o modificare il testo da recitare. Ogni attore deve leggere integralmente il dramma e non solo la sua parte, come spesso d’uso allora, comprenderlo ed inserirvisi organicamente. Scrive significativamente Hoffmann che «un fenomeno singolare, ma spiegabile, del nostro tempo è quello di frazionare l’arte drammatica e di mettere in mostra le membra del corpo mutilato». È essenziale, invece, che un attore non dimentichi quel che gli sta attorno66.

Scenografie, costumi ed accessori devono fare in modo che il pubblico sia trascinato dentro l’azione. Décors e abiti ricchissimi possono essere totalmente inadatti all’opera, dove tutti i coefficienti scenici dovrebbero collaborare sintonicamente a rendere l’Idea sottesa al lavoro. Così, per esempio, la scenografia non deve

attirare l’occhio dello spettatore come uno splendido quadro a sé stante. […]

Jessica e Bassano erano freddini e il celato amore, il giuoco erotico […] non riusciva a imporsi e a scaldare il cuore di nessuno. Me ne dolsi con un amico intelligente che […] mi rispose soltanto: «Non poteva essere diverso: ogni ardore doveva raffreddarsi vicino a tanto gelido marmo». Doveva avere ragione. La volta seguente invece dello splendido palazzo mandai avanti un giardinetto: pochi alberi scuri, dai quali trapelava la luna, folti cespugli e praticelli fioriti ai lati del proscenio, dove Jessica parlava con l’innamorato, tutto assai tetro, misterioso… e copia fedele della natura: pareva di respirare l’aria profumata del Sud. E tutto fu diverso: si stava seduti nella notte italiana e si ascoltava il dolce sussurro delle parole d’amore e nessuno pensava allo scenario67.

Lo stesso dicasi per l’uso di moltissime comparse che, non sapendosi muovere opportunamente, guastano l’armonia dell’insieme, di costumi non in linea con le intenzioni generali, dell’inserimento insensato di balletti o di battaglie, di palcoscenici troppo grandi in cui si perdono le raffinatezze interpretative o di un’illuminazione che deforma i corpi degli attori. Ogni elemento scenico deve, invece, rispondere coerentemente ad un unico pensiero, non essere autonomo rispetto al quadro complessivo. La durata delle prove usuale all’epoca è di una settimana o anche meno; occorre invece come minimo un mese, come fanno intendere i dialoganti delle Singolari pene d’un direttore di teatro, per ottenere un amalgama in cui ogni componente sia significante e lo sia in modo coerente col tutto.

1.6. Teorizzazioni a favore dei generi scenici «minori»

Alcuni autori romantici rovesciano totalmente le gerarchie dei generi spettacolari, facendo di quelli tradizionalmente considerati minori i più elevati e arrivando a ridimensionare sensibilmente non solo il valore del testo, ma anche quello dell’attore di carne. Si è già detto del pensiero kleistiano sulla marionetta e si potrebbe ricordare, in più, che la conclusione delle Singolari pene d’un direttore di teatro è piuttosto sorprendente, in quanto il Bruno sostiene che la sua compagnia possiede tutte le qualità precedentemente illustrate in riferimento ad un gruppo ideale, e questa compagnia – coup de théâtre – si rivela una troupe di marionette. Ma vale la pena soffermarsi sulla concezione, peraltro minoritaria, di Charles Nodier, non casualmente maturata a Parigi, capitale della spettacolarità europea, dove le forme sceniche poco o per nulla testuali sono enormemente diffuse68.

Tra il 1820 e il 1828 Nodier compone cinque pièces, tutte rappresentate, da cui è possibile trarre qualche notizia sulle sue nuove idee in materia di scenicità, idee che, in sintonia con gli argomenti delle trame concepite, sembrano contraddire le precedenti tesi filo-classiciste. Stende un dramma (Le Délateur), tre mélodrames (Il Vampiro, Bertram, ou Le Pirate e Le Monstre et le Magicien) e infine un Faust definito alternativamente dramma o mélo. Come d’uso all’epoca, tutti i lavori sono composti in collaborazione con altri.

La scelta di dedicarsi a opere destinate alla scena sembra la conseguenza di un’idea che negli anni Venti deve occupare i pensieri del poeta, e che è riassunta in un saggio del 1831 intitolato De l’utilité morale de l’instruction pour le peuple. Riprendendo un motivo di ascendenza platonica ricorrente all’epoca, l’intervento sminuisce il valore della scrittura (a volte definita lettera), accusata d’essere uno strumento di materializzazione dello spirito. A differenza del flusso verbale colto nei modi dell’oralità, sempre nuovo e inafferrabile, la scrittura, come in Delsarte, è vista come segno pesante, impresso una volta per tutte, bloccato per l’eternità.

Dal primato del corpo vivente dipende anche il rilievo accordato dal poeta francese alla pantomima, come dimostrano le didascalie dei suoi testi teatrali, tese ad evidenziare il movimento dei personaggi. L’importanza attribuita al linguaggio mimico sembra ribadita dalla destinazione delle pièces nodieriane, offerte alle sale dei boulevards, anziché al Théâtre-Français, secondo una condotta inusuale fra i grandi letterati dell’epoca. In effetti, se Hugo o Dumas attorno al ’30 si rivolgono alla Porte-Saint-Martin a seguito di incomprensioni con la Comédie, è pur vero che, non appena si presenta l’occasione di ritornare al teatro più prestigioso, non hanno esitazioni. Il caso di Nodier è diverso. La sua sembra una scelta, e non un ripiego, dato che la preparazione degli attori dei boulevards è molto più orientata verso il polo pantomimico (e a volte anche acrobatico) rispetto a quella dei Comédiens-Français.

Più o meno al centro di ogni mélodrame, Nodier pretende una danza; non di rado, pensa lunghe scene interamente mute (o tutt’al più punteggiate da poche parole), alle quali spetta il compito di accrescere la tensione, quasi al gesto fosse riconosciuta una maggior capacità di resa emotiva rispetto alla parola. Nel caso del Monstre il personaggio che dà nome al lavoro, interpretato da Thomas Potter Cooke, è muto. Ne deriva che l’espressione è affidata esclusivamente al gesto, secondo uno schema non di rado utilizzato nel mélo.

Nel 1828 viene scritto il canovaccio di pantomima intitolato Il Sogno d’oro, attribuibile con notevole plausibilità a Nodier. Nella messinscena la maschera di Pierrot è interpretata dal grande mimo Jean-Gaspard Deburau. Estraneo ad ogni tentativo di rendere concetti o idee (gli interventi verbali consistono in quindici brevi battute in tutto), il canovaccio prevede che si portino in scena gli istinti, si rappresentino i sentimenti e le emozioni elementari e infine si compiano azioni, ossia proprio ciò che al linguaggio articolato riesce disagevole, costretto, com’è, alla diacronia. Tali azioni non hanno alcuna plausibilità realistica.

Nel canovaccio del Sogno d’oro non si fa quasi mai riferimento all’espressione del viso; e comunque, se ciò accade, i moti richiesti sono minimi: i volti sono sostanzialmente muti, tutto è affidato alla dinamica del corpo, indice che si è di fronte a maschere, non a personaggi provvisti di una psicologia complessa. Tutto concorre a sottolineare la distanza dal quotidiano e ad evidenziare l’elemento fantastico. Proprio per questo, le ambientazioni della vicenda sono mondi abitati da gente del popolo o territori onirici, spazi che risultano per Nodier come i più legati all’immaginario, assieme all’universo infantile.

Come documentano i testi sin qui proposti e ai quali potremmo aggiungerne altri non teatrali, attorno agli anni Venti l’autore comincia ad affrontare argomenti che appartengono al Meraviglioso romantico, ai quali dedica in seguito anche opere teoriche.

La semplicità a cui ora ambisce Nodier, le cui idee mescolano in modo originale tesi nate a Heidelberg ed altre di matrice jenese, viene ad identificarsi con ciò che, possedendo una forte carica comunicativa, è compreso dalle classi più umili. È il caso della pantomima o del mélo, non più palestra di «folli orrori» come negli scritti del 181469, ma «la sola tragedia popolare adatta alla nostra epoca»70.

A partire dal ’28, Nodier non produce più testi teatrali o para-teatrali o, quanto meno, non ne firma nessuno, né gliene sono attribuiti fra quelli anonimi o apparsi sotto pseudonimo. In compenso, incomincia ad offrire una serie di lavori di narrativa e di saggistica di argomento para-teatrale. Anzitutto, affascinato dal talento di Deburau, Nodier gli dedica un articolo pubblicato nella «Pandore» il 19 luglio 1828. Lo scritto non è firmato, ma l’ipotesi che sia opera sua appare assai convincente. Poi si occupa in alcuni testi della figura di Polichinelle e di quanto definisce marionnette, i quali, per certi versi, anticipano il pensiero craighiano.

In questo stesso periodo affiora in Nodier l’idea che l’uomo moderno sia degradato e corrotto: per l’autore, la cosiddetta civilizzazione non è che un pervertimento della condizione originaria, luogo d’abbandono della purezza degli istinti e dei sentimenti primari. Si comprende allora perché, a partire dal ’28, egli inizi ad interessarsi di generi spettacolari più popolari del mélo alla ricerca delle tracce del modello primitivo, di presenze archetipiche affioranti tra l’umanità deteriorata. Il genere pantomimico, e più specificamente il mimo Deburau, la figura di Polichinelle e la marionnette diventano icone in cui il poeta, di volta in volta, ritiene di vedere incarnato il tipo ideale, come suggeriscono gli scritti teorici.

Deburau, Polichinelle e la marionnette presentano alcune caratteristiche che li rendono modelli ideali agli occhi di Nodier. Anzitutto sono svuotati di ogni individualità, di quella psicologia che Nodier ha iniziato a deplorare. Inoltre, sono ingenui, primitivi, elementari e, come tali, più vicini alla cultura del volgo che improntava il mondo delle origini.

Questo versante basso si coniuga con quello elevato. Sede degli istinti, gli spettacoli popolari, apparentemente un superficiale divertimento per bambini, sembrano aprire a «profondità» inattese71, sono simboli di qualcosa di «superiore all’uomo»72, di spiritualità73, di conservazione e vivificazione della morale e della saggezza; parlando degli argomenti più importanti, sanno disvelare i «segreti dell’anima», i «misteri del genio e della sensibilità», compiere «osservazioni di filosofia vera e profonda»74.

Secondo Nodier, il lato sublime delle varie figure proposte è un portato della loro natura plebea, ingenua e innocente. Il popolo, per lui meno invischiato nel prosaico e corrotto sistema sociale dominante, avrebbe conservato il fuoco della saggezza antica, sicché la vera sapienza andrebbe ricercata tra le pieghe dei ceti più umili. Più precisamente, nel corso degli anni Nodier passa dalla predilezione per Deburau a quella per il fantoccio manovrato, in un superamento persino del linguaggio gestuale dell’attore (o, meglio, del mimo) di carne a favore di un attore non-umano.

Grandi estimatori di Deburau e delle sue pantomime sono anche altri scrittori dell’epoca come Jules Janin, Nerval, Gautier, Champfleury, alcuni dei quali gli dedicano scritti di rilievo, a testimonianza della diffusa opinione che il capolavoro non sia necessariamente connesso alla letteratura (teatrale o meno). Qualcosa di simile, pur con le dovute differenze, a quanto accade a Londra, dove la passione per il mimo Joseph Grimaldi è estesissima.

In linea con la situazione romantica parigina, molto attenta all’elemento spettacolare e di frequente non più incentrata sul testo, c’è chi parla di una nuova estetica oculare, o forse – si dovrebbe dire – scenica.

3 V. Hugo, Prefazione al Cromwell, in Id., Sul grottesco, Guerini e associati, Milano 1990, pp. 33-119, citaz. p. 42.

4 M. Puppo, Introduzione a A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, traduzione di G. Gherardini, Il Melangolo, Genova 1977, p. v.

5 M.H. Abrams, Lo specchio e la lampada. La teoria romantica e la tradizione critica, il Mulino, Bologna 1976, p. 86.

6 Il focus del volume Lo specchio e la lampada di Meyer Abrams è la teoria letteraria romantica e, in particolare, il libro si concentra sulla teoria espressiva, che, nell’epoca considerata, costituisce una rivoluzione copernicana rispetto alle teorie mimetica e poi pragmatica dei secoli precedenti. Sul tema, il volume costituisce uno studio imprescindibile anche per l’ambito teatrale, benché di quest’ultimo non si occupi specificamente (ivi). In certi autori il teatro diviene la metafora del mondo inteso come luogo dell’artificio dietro a cui si nasconde il Nulla. Un testo in cui tale motivo è presente in modo pregnante è Le Veglie di Bonaventura, oggi con una certa sicurezza attribuito ad August Klingemann. Cfr. R. Tessari, Un teatro di periferia. Immaginario e meccanismi dello spettacolo nelle ‘Nachtwachen von Bonaventura’, in S. Mazzoni (a cura di), Studi di storia dello spettacolo: omaggio a Siro Ferrone, Le Lettere, Firenze 2011, pp. 350-366.

7 Si possono trovare le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sulla Teoria dell’andatura, sul pensiero balzachiano in materia di teatro e su argomenti connessi in E. Randi, Anatomia del gesto. Corporeità e spettacolo nelle poetiche del Romanticismo francese, Esedra, Padova 2001, pp. 113-151.

8 H. de Balzac, Teoria dell’andatura, a cura di F. Rella, Cluva, Venezia 1986, p. 55.

9 Ivi, p. 47.

10 Ivi, p. 46.

11 H. de Balzac, Séraphita, Tilopa, Teramo 1986, p. 56.

12 de Balzac, Teoria dell’andatura cit., p. 53.

13 «Gli animali hanno grazia nei loro movimenti» (ibid.).

14 Ivi, p. 54.

15 H. de Balzac, Des Artistes, in Id., Œuvres Complètes, Lévy, Paris 1862-1892, vol. XXII, pp. 143-156, citaz. p. 148.

16 H. de Balzac, Prefazione alla prima edizione (1831), in Id., La pelle di zigrino, Garzanti, Milano 1995, p. 9.

17 de Balzac, La pelle di zigrino cit., p. 48. Abbiamo un po’ modificato la traduzione di Cosimo Ortesta, mantenendola più letterale.

18 Si possono trovare le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sul pensiero di Gautier in materia di teatro e su argomenti connessi in Randi, Anatomia del gesto cit., pp. 153-203.

19 Sul nesso corpo-anima, si vedano anche talune considerazioni di Novalis. Per esempio: «Noi dobbiamo impadronirci del corpo come dell’anima. Il corpo è lo strumento della formazione e modificazione del mondo. Perciò dobbiamo cercar di sviluppare il nostro corpo in modo da farne un organo capace di tutto. La modificazione del nostro strumento è modificazione del mondo» (Novalis, Frammenti, Rizzoli, Milano 1976, p. 85, frammento n. 186).

20 T. Gautier, Mademoiselle de Maupin, doppio amore, Rizzoli, Milano 1995, p. 330 (I ed. 1835).

21 T. Gautier, Opéra. «Nathalie», in Id., Histoire de l’art dramatique en France depuis vingt-cinq ans, Hetzel, Paris 1858-1859, vol. I, pp. 47-52, citaz. p. 48 (16.10.1837).

22 Articolo anonimo attribuito a Gautier, apparso in «Le Figaro» il 6.1.1836.

23 J.W. Goethe, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, Garzanti, Milano 1977, p. 146.

24 Ibid.

25 Ivi, pp. 327-328.

26 Ivi, p. 77.

27 Ivi, p. 107.

28 Ivi, pp. 349 sgg.

29 Ivi, p. 146. Abbiamo modificato la parola ruoli con il termine parti.

30 Ivi, pp. 151-152.

31 Ivi, p. 73.

32 Si possono trovare le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sul sistema delsartiano e su argomenti connessi in E. Randi, Il magistero perduto di Delsarte. Dalla Parigi romantica alla modern dance, Esedra, Padova 1996, in particolare pp. 97-153.

33 Cfr. A. Dumas père, Kean o Genio e sregolatezza, Rizzoli, Milano 1994, pp. 107-108.

34 Cfr. Stendhal, L’Amore, Rizzoli, Milano 1990, pp. 295-304.

35 Dumas père, Kean cit., p. 58.

36 Cfr. E. Randi, I primordi della regia. Nei cantieri teatrali di Hugo, Vigny, Dumas, Pagina, Bari 2009, soprattutto pp. 233-265.

37 Dumas père, Kean cit., p. 84.

38 Cfr. H. Kästner, Harfe und Schwert. Der höfische Spielmann bei Gottfried von Straßburg, Max Niemeyer, Tübingen 1981, pp. 55-56.

39 Dumas père, Kean cit., p. 88.

40 F. Lemaître, Souvenirs, publiés par son fils, Ollendorff, Paris 1880, p. 71 (ed. moderna: Elibron Classics, 2006).

41 Cfr. J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di C. Bologna, Bollati Boringhieri, Torino 1984 (I ed. francese 1970).

42 Che il nome David faccia riferimento all’Antico Testamento sembra confermato da alcuni particolari, quali la presenza di altri due personaggi fortemente positivi del dramma chiamati Salomon e Anna. Davide, Salomone e Anna sono figure, tutt’e tre, dei due libri di Samuele, fra loro strettamente legate. Il personaggio di Salomon nel Kean è la voce della coscienza del grande attore nella vita, ed è inoltre il suo suggeritore a teatro, ruolo che in un certo senso raddoppia il precedente. L’artista inglese ad un certo punto appella Salomon col termine Ibrahim, forma araba per Abramo (Dumas père, Kean cit., p. 90). Di nuovo un personaggio veterotestamentario, di nuovo una figura di guida spirituale e materiale. A confermare la natura non accidentale dell’onomastica, viene la presenza di un certo Samuel, come il biblico Samuele, «ebreo» e «brigante» (ivi, p. 74).

43 Ivi, p. 79.

44 Per le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sulle concezioni teatrali di Stendhal, cfr. Randi, Anatomia del gesto cit., pp. 15-55.

45 Cfr. S.T. Coleridge, Lezioni su Shakespeare. I. La Tempesta, in P. Degli Esposti (a cura di), La scena del Romanticismo inglese (1807-1833), Esedra, Padova 2001-2003, vol. I, Poetiche teatrali e tecniche d’attore, pp. 156-161, citaz. p. 161.

46 Cfr. Stendhal, Racine e Shakespeare, a cura di M. Colesanti, Sellerio, Palermo 1980, p. 12.

47 Cfr. P. Degli Esposti, Per un teatro ideale: Coleridge e la scena, in E. Randi (a cura di), Visioni e scritture. Studi sul teatro fra Otto e Novecento, Esedra, Padova 2006, pp. 13-36.

48 L. Tieck, Il meraviglioso in Shakespeare, in M. Fazio (a cura di), Il mito di Shakespeare e il teatro romantico dallo Sturm und Drang a Victor Hugo, Bulzoni, Roma 1993, pp. 91-113, citaz. p. 103. Abbiamo introdotto una piccola modifica nella traduzione.

49 Cfr. P. Degli Esposti, La scena tentatrice: Coleridge, Byron, Baillie, Esedra, Padova 2008, in particolare pp. 121-125.

50 S.T. Coleridge, La Teoria della Vita, traduzione, introduzione e note di O. Bellini, Marzorati, Settimo Milanese 1994, p. 63 (I ed. 1848).

51 Cfr. Degli Esposti, La scena tentatrice cit., p. 124.

52 P.B. Shelley, Difesa della poesia, in Id., Opere, a cura di F. Rognoni, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, pp. 1014-1045, citazioni pp. 1024-1025.

53 Per le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sulle concezioni teatrali di Hegel, cfr. E. Randi, Su alcune riflessioni di Luigi Squarzina storico del teatro, in Luigi Squarzina studioso, drammaturgo e regista teatrale. Convegno Internazionale di studi, Venezia, 4-6 ottobre 2012, Scienze e Lettere, Roma 2013, pp. 57-64.

54 L. Squarzina, Nascita apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, in A. Caracciolo (a cura di), Problemi del linguaggio teatrale, Teatro Stabile di Genova, Genova 1974, pp. 123-146, citaz. p. 125.

55 G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1997, t. II, p. 1323.

56 Ibid.

57 Ibid. Corsivo nostro.

58 Goethe, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister cit., p. 145.

59 Ivi, p. 165.

60 Ivi, pp. 301-302.

61 Ivi, p. 70. Abbiamo sostituito il termine decorazione con la parola scenografia, e carattere con personaggio, che ci sembrano più opportuni.

62 Ibid.

63 Ivi, pp. 95-96. Abbiamo modificato il termine caratteri, sostituendovi il sostantivo personaggi, che ci sembra più corretto.

64 Ivi, p. 149.

65 Ivi, p. 172.

66 E.T.A. Hoffmann, Singolari pene d’un direttore di teatro, in Id., Il vaso d’oro e altri racconti, Garzanti, Milano 1969, pp. 175-273, citaz. p. 232.

67 Ivi, p. 243.

68 Si possono trovare le indicazioni bibliografiche da cui si ricava quanto qui di seguito esposto sulle teorie nodieriane in materia di teatro e su argomenti connessi in Randi, Anatomia del gesto cit., pp. 57-112.

69 C. Nodier, Théâtre Français. Seconde représentation de la reprise d’«Héraclius», in «Journal des débats», 23.5.1814, pp. 1-4, citaz. p. 4.

70 C. Nodier, Introduction a C.G. de Pixérécourt, Théâtre choisi, Slatkine, Genève 1971 (rist. anast. dell’ed. Nancy 1841-1843), p. ii.

71 [C. Nodier], Débureau [sic], in «La Pandore», 19.7.1828, p. 2.

72 C. Nodier, Polichinelle, in Paris, ou Le Livre des Cent-et-un, Louis Hauman et comp., Bruxelles 1831, t. II, pp. 127-143, citaz. p. 141.

73 C. Nodier, Histoire du roi de Bohême et de ses sept chateaux, Plasma, Paris 1979, p. 205.

74 Nodier, Polichinelle cit., p. 128.