II.
I generi spettacolari

2.1. La centralità del visivo: la situazione parigina

Nella prima metà dell’Ottocento Parigi e Londra sono centri preminenti dello spettacolo europeo, sicché lo studio della loro situazione consente di offrire un quadro significativo, se non esaustivo, dei generi scenici esistenti all’epoca.

Se nel Seicento nella capitale francese tre teatri avevano ottenuto il privilegio di offrire rappresentazioni al pubblico, già alla fine del secolo si era arrivati alla pratica particolare del monopolio su una specifica tipologia. In origine la soluzione era destinata a proteggere le troupes principali dalla concorrenza costituita in primo luogo dalle fiere, alle quali era permesso proporre esibizioni entro periodi circoscritti dell’anno; poco a poco, nel corso del XVIII secolo, quando i teatri erano andati via via aumentando di numero in modo assai consistente, era divenuta uno strumento per garantire al pubblico e al sovrano il servizio regolare delle diverse categorie spettacolari, senza che probabilmente venisse meno, nel contempo, l’intento protettivo dello Stato verso le compagnie di tradizione.

Nel primo Ottocento le formazioni più antiche e titolate hanno ancora la licenza di presentare, esse sole, le forme considerate maggiori, mentre le altre sono specializzate nel genere cui sono costrette dal permesso loro assegnato dal governo, un genere compreso tra quelli ritenuti minori. Se all’Opéra è assicurato il monopolio sul melodramma più impegnato e sui balletti di prestigio, la Comédie-Française detiene l’esclusiva sui classici e sui drammi letterariamente rilevanti di autori viventi. Le messinscene delle tragedie e commedie sei e settecentesche convivono con quelle dei testi drammaturgici contemporanei: i lavori di autori romantici come Hugo, Vigny o Musset, sono allestiti accanto a quelli, assai più conservatori, di Casimir Bonjour o di Alexandre Duval, mentre le opere di Shakespeare (sia pure rimaneggiate) sono proposte esattamente come quelle di Racine o Corneille, una convivenza che dà vita, fra l’altro, a battaglie ideologiche tra i fautori della nuova scuola e i tradizionalisti, esplose nella forma più esasperata con la prima di Ernani di Victor Hugo, data nel 1830, quando il conflitto tra gli spettatori di opposta tendenza si manifesta in modo particolarmente burrascoso.

Eccezion fatta per l’Odéon, che può offrire un repertorio prevalentemente «di parola», tutti gli altri teatri parigini primottocenteschi (una ventina alla fine del regno di Luigi Filippo e poi, via via, sempre più numerosi, quasi tutti posti lungo i boulevards della riva destra della Senna), sono costretti a rivolgersi a generi il cui peso principale è detenuto dalla visività (scenografie, giochi scenici realizzati da macchinerie a volte molto sofisticate, pantomima, danza, acrobatica, ecc.) oltreché, in diversi casi, dalla musica e dal canto, a discapito della partitura verbale, un handicap che viene trasformato in un punto di forza; induce infatti gli artisti attivi nei teatri «popolari» a lavorare allo sviluppo della macchina scenica, ponendo le basi per la nascita della regia. Solo ad un paio di queste sale «minori» è concesso rappresentare anche drammi di autori viventi come Hugo o Dumas père (la prima di Lucrèce Borgia, per esempio, è data alla Porte-Saint-Martin).

Apparso in Francia verso il 1770, il mélodrame (a volte abbreviato in mélo) rappresenta inizialmente soggetti mitologici, e il testo, letterariamente importante, è scritto a volte da grandi autori (Jean-Jacques Rousseau, per esempio). Esso è seguito da un pubblico colto. Nell’Ottocento il mélodrame, quando i suoi principali autori sono Guilbert de Pixérécourt, Louis-Charles Caigniez e Victor Ducange, assume una fisionomia fortemente spettacolare, configurandosi come un intrattenimento di massa, costituito da un drame con mélodie (con musica), il cui testo è recitato e non cantato come, invece, nel melodramma. Possono esservi canti leggeri e vivaci e d’argomento amoroso, ma si tratta sempre di momenti di durata contenuta. La musica orchestrale viene impiegata come incipit del dramma (ouverture), come riempitivo tra un atto e l’altro e tra una scena e l’altra, nonché per segnalare l’ingresso dei personaggi. Come la colonna sonora del film, che agisce sul pubblico a livello subliminale, contribuisce a creare una certa reazione psicologica nello spettatore, infondendo in lui un determinato registro emotivo. Piuttosto stereotipati, i ritmi, gli abbellimenti e le tonalità tendono a riproporsi identici in corrispondenza di certe situazioni, sicché, per esempio, al tremolo, ossia alla rapida reiterazione di una singola nota, corrisponde assai spesso un accrescersi della tensione drammatica.

La musica può anche sostenere il testo recitato. Più spesso si accompagna a scene mimate mute, il cui peso è molto rilevante, se è vero che proprio qui si situa l’acme emotivo. Entro la dimensione visuale si collocano anche i balletti, sfruttati sino al punto di suggerire a certi teatri, come la Porte-Saint-Martin, di assumere una troupe stabile di danzatori.

Le didascalie si ipertrofizzano e gli autori forniscono precise informazioni sul décor, a testimonianza del ruolo fondamentale da esso assunto nello spettacolo. I macchinari di frequente sono assai sofisticati: tutte le sale dei mélodrames sono attrezzate per le mutazioni a vista, per far volare o sprofondare i personaggi, per ottenere effetti d’acqua naturale (fontane, cascate, ecc.). La componente visuale ha dunque il primato: pantomime, balletti ed effetti scenografico-macchinistici sopraffanno la partitura verbale, già di per sé poco rilevante letterariamente, sicché l’estetica spettacolare soppianta l’estetica testuale.

La recitazione è forte ed estrema. Della gestualità tipica del mélo fanno parte anche i tableaux, ossia quadri di personaggi che si bloccano in una certa posizione (per esempio, un uomo col pugnale in mano nell’atteggiamento di chi sta per colpire, una vittima a bocca spalancata e braccia alte, terrorizzata, un osservatore un po’ più lontano con le mani nei capelli e lo sguardo spaventato) oppure che si muovono al rallentatore per esprimere un certo sentimento, mentre la musica suona. Un tableau, che può durare dai dieci ai trenta secondi circa, si colloca di norma a fine atto, in un momento clou. I maggiori attori del mélo, rappresentato soprattutto alla Porte-Saint-Martin, alla Gaîté e all’Ambigu-Comique, sono Marie Dorval e Frédérick Lemaître, vale a dire i due massimi interpreti romantici francesi, i quali recitano anche drammi, commedie e tragedie.

Se la trama propone sempre un’intensa conflittualità emotiva ed etica basata sulla lotta manichea fra Bene e Male conclusa regolarmente con la vittoria del Bene, i personaggi tendono ad essere psicologicamente poco sfumati, piuttosto netti e compatti, poiché il conflitto avviene più tra le varie dramatis personae che all’interno del singolo. Si tratta di figure assolutamente buone o irreversibilmente cattive, e alcune categorie tornano in tutte le pièces: la candida fanciulla, l’innamorato eroico di lei, il malvagio che cerca di intromettersi nella felicità dei due, ed infine il niais, l’ingenuo, introdotto allo scopo di aggiungere una nota comica al lavoro. Le sofferenze cui l’eroina è sottoposta dal cattivo si accumulano, diventando la causa principale della tensione emotiva.

Dopo il 1830 il mélodrame vede un periodo di decadenza e scompare attorno al 183875.

Molto in voga sono le comédies à vaudevilles, spesso definite in modo abbreviato vaudevilles, un termine che però, a rigore, indica solo le canzonette contenute nella commedia. Canzonette satiriche su motivi popolari e per lo più orecchiabili, già diffuse alla fine del Seicento, in cui si propone la parodia del testo originario. Si vedano tre versi da un vaudeville (nel senso di motivetto satirico) di fine Seicento che possono rendere l’idea. Nel libretto dell’Armida di Philippe Quinault, Rinaldo, incantato dall’isola in cui è giunto, canta: «Plus j’observe ces lieux, et plus je les admire. / Ce fleuve coule lentement / Et s’éloigne à regret d’un séjour si charmant» (II, 3, vv. 298-300). Nella parodia di Charles Dufresny, L’Opéra de campagne, Arlecchino sta al posto di Rinaldo e canta: «Plus j’observe ce rôt, et plus je le désire. / La broche tourne lentement / Je m’éloigne à regret d’un morceau si friand» (III, 7).

La [comédie à] vaudeville è una varietà di rappresentazione impostata su una trama comica poco impegnativa dal ritmo assai veloce, mista di recitato e vaudevilles, e sorretta da sorprese, imprevisti ed equivoci, offerta con gran cura per i coefficienti visivi.

L’abbondanza del genere a Parigi nel primo Ottocento è impressionante: solo tra il 1815 e il 1830 se ne rappresentano circa milletrecento, un numero spiegabile anche col fatto che si tratta di spettacoli brevi: per lo più sono in un atto, come previsto dalla legge. Ne consegue che se ne offrono tre-quattro per serata. I teatri specializzati sono i Variétés, il Vaudeville e il Gymnase e i loro incassi sono enormemente più alti di quelli di sale di tradizione come la Comédie-Française e l’Odéon.

Le trame delle comédies à vaudevilles, quanto mai esili, possono riguardare temi d’attualità, politici o religiosi, ma con grande prudenza onde evitare d’incorrere nella censura; più spesso, mettono in scena la piccola borghesia (per esempio, i commercianti), i parvenus e la loro arroganza, episodi d’attualità quali la ferrovia, i vaccini, la luce a gas. Gli intrighi possono essere d’ordine amoroso, riguardare l’opposizione ai genitori, le manovre per sottrarre un po’ di denaro a un vecchio parente taccagno, ecc.

A Mélesville e Xavier si deve il testo di Un milione per 24 soldi, rappresentato nel 1838, di cui a titolo esemplificativo proponiamo la trama. Uno zio d’America promette di regalare un milione in contanti a quella delle sue nipoti che potrà consegnargli una moneta da ventiquattro soldi. La spiegazione del mistero è che tempo prima ha dato una moneta di questo tipo, su cui ha scritto «arrivederci!», a un parente di cui ignora l’identità, in ricordo del solo favore che abbia mai ricevuto, e desidera ritrovare questa persona. Alla fine naturalmente riesce nell’intento.

Capita che un personaggio ottenga un tale successo, da indurre l’autore a scrivere un seguito alle sue vicende e l’attore che lo incarnava nella prima comédie à vaudeville a reinterpretarlo in successive comédies à vaudeville. È il caso dell’ingenuo babbeo Jocrisse, creato sulla carta da Louis Dorvigny e recitato da Brunet al Théâtre Montansier alla fine del Settecento. Alcuni attori nel primo Ottocento si specializzano nel genere e diventano assai famosi, soprattutto Charles-Gabriel Potier e Virginie Déjazet, quest’ultima abilissima nelle parti en travesti, ossia di giovane uomo76.

Un altro genere di vastissima fortuna a Parigi è la féerie, il cui primo tratto distintivo è l’argomento fantastico: ambientata in spazi spesso irreali o sovrannaturali, essa è abitata da personaggi come fate, giganti, gnomi, angeli, streghe e offre trame favolose. Forse più che in qualunque altra tipologia scenica, l’apparato spettacolare è esaltato e gli effetti scenici sono molti e complessi. Assai longeva (si sviluppa tra fine Settecento e fine Ottocento), nel corso di un secolo la féerie è messa in scena in molti teatri parigini, dai Variétés al Vaudeville, dalla Gaîté alla Porte-Saint-Martin a vari altri stabilimenti teatrali e assume forme un po’ diverse nel tempo. Il termine si presenta sia solo – per esempio, l’Arlequin astronome di Émile Vanderburch (1825) o La Biche au bois di Nicolas Brazier, Pierre Carmouche e Jean-Baptiste Dubois (1826) sono definiti pièces féeriques, mentre il Bijou, ou l’Enfant de Paris di Pixérécourt (1838) è chiamato féerie en 4 actes – sia unito ad altre espressioni; troviamo infatti opéras-féeries, ballets-féeries, féeries-vaudevilles, pantomimes-féeries o drames-féeries (drames fantastiques). Se l’opéra-féerie è un’opera in musica d’argomento fantastico e ambientazione irreale, il ballet-féerie è un balletto di soggetto favoloso, abitato da ondine, wili o spiriti alati; nella féerie-vaudeville entrano in gioco le canzonette popolari, mentre la pantomime-féerie è una pantomima di tema fantastico77.

Lo spettacolo pantomimico prevede diverse varianti. Laddove l’acrobatica e gli effetti realizzati dai macchinari abbiano un peso consistente, si è soliti parlare di pantomime anglaise. In tal modo è definito Il Sogno d’oro attribuito a Charles Nodier, la cui realizzazione scenica, come già osservato, spetta al principale mimo francese dell’epoca, Jean-Gaspard Deburau, attivo nel piccolissimo Théâtre des Funambules. Il vecchio Cassandro sogna un sacco d’oro. Svegliatosi, lo cerca e lo trova, ma il suo servo Pierrot tenta di rubarglielo. Arlecchino, creato da Morfeo dando vita ad una statua con un colpo di bacchetta magica, riceve in dono un talismano, con cui si farà amare da Colombina e vincerà i nemici. Mentre Cassandro è braccato da Pierrot, nasce l’amore tra Colombina, figlia del vecchio, e Arlecchino. Il padre della fanciulla, però, vuole far sposare la ragazza con Leandro e, a tale scopo, convoca il notaio. Malgrado le azioni di disturbo, viene definito e firmato il contratto di matrimonio, ma Arlecchino, dopo aver compiuto vari incantesimi con la verga fatata, brucia il documento appena redatto. Si insegue il piromane, che si mette in salvo e poi rapisce Colombina. Nell’ottavo quadro, mentre i due innamorati ballano il valzer, vengono scovati da Pierrot, e allora fuggono su una mongolfiera; l’altro cerca di raggiungerli su una mongolfiera improvvisata, fatta con un mastello e un ombrello. Arrivati in un albergo per riposare, i fuggitivi, presto scoperti, sono costretti a ripartire precipitosamente e finiscono nella piazza del mercato, luogo che offre l’occasione per realizzare varie gags, concluse con una rissa generale. Il finale vede Morfeo mettere Cassandro di fronte ad una scelta sgradita: o acconsentirà alle nozze di Colombina con Arlecchino, o resterà senza il sacco d’oro. Il vecchio opta naturalmente per la prima soluzione.

In questo come in altri casi, i «personaggi» sono maschere derivate dalla Commedia dell’Arte. A volte, focalizzando l’attenzione proprio su di esse, si preferisce la definizione pantomime-arlequinade o, più sinteticamente, arlequinade, un genere di natura sempre comica. Tanto nella pantomime anglaise quanto nell’arlequinade, le vicende hanno, di certo programmaticamente, ben poca attinenza fra loro: le situazioni, accostate più che logicamente connesse, si susseguono, sorrette da un tenue filo conduttore, sicché manca l’unità d’azione esattamente come quella di spazio.

La pantomima può essere totalmente muta o, invece, prevedere qualche battuta (pantomime dialoguée), ma al massimo possono inserirsi un prologo ed un paio di interventi chiarificatori parlati.

Quando la danza, che è presente in diversi sotto-generi di pantomima, assume un ruolo dominante e, soprattutto, ogni movimento avviene a tempo di musica, si passa al ballet pantomime o d’action. Nato nella seconda metà del Settecento grazie a Jean-Georges Noverre e a Gasparo Angiolini, esso lega danza propriamente detta e pantomima. Si tratta, più precisamente, di un evento inteso a rappresentare una fabula mediante il movimento del corpo sostenuto dalla musica, in assenza di parola. L’analisi di più fonti incrociate consente di individuare diverse modalità di integrazione fra la danza «pura» (che è sempre classica o presa a prestito dai balli di società) e la pantomima: in certi momenti del lavoro i due generi si alternano, nel senso che all’uno segue l’altro; per esempio, prima due personaggi si dichiarano il reciproco amore attraverso i gesti, poi si spostano verso una fiera dove trovano dei paesani che festeggiano e la scena successiva offre la visione delle loro danze. Come insegnano le critiche sollevate, non è raro neanche che la danza «meccanica» sia introdotta in modo ingiustificato nella storia rappresentata, funzionando come una sorta di intermezzo posto dentro l’evento scenico, in tale circostanza, peraltro, ancor più evidentemente alternandosi alla pantomima. Può anche capitare che un personaggio danzi mentre un altro contemporaneamente mima. Dai manuali dell’epoca sembra di capire che il codice convenzionale accademico o della danza di società in alcuni casi è impiegato in modo espressivo, se non propriamente pantomimico. È verosimile che certi coreografi prediligano uno dei diversi schemi, ma molto probabilmente si tratta di modalità strutturali che convivono nella maggioranza dei ballets d’action78.

Benché la definizione ballet pantomime o ballet d’action vada perdendosi nel corso dell’Ottocento a favore della più breve espressione ballet o di varie altre, le caratteristiche sin qui delineate sono mantenute in Francia come in Italia o in Inghilterra. A quest’altezza cronologica, a Parigi tale tipologia spettacolare è rappresentata spesso all’Opéra (ma per un certo periodo anche alla Porte-Saint-Martin) ed è collocata nella stessa serata di un’opera in musica.

Sebbene molti dei suoi protagonisti siano italiani (citiamo almeno un grandissimo coreografo come Salvatore Viganò), la Francia è la culla del balletto di matrice romantica. La creazione considerata la chiave di volta della nuova scuola nel genere specifico è realizzata da un coreografo (Filippo Taglioni) e da una prima ballerina (la figlia Maria) all’Opéra di Parigi. Lui, di origine milanese, aveva debuttato a Pisa in parti en travesti e aveva assunto poi il ruolo di primo ballerino all’Opéra; lei, nata a Stoccolma dove il padre era stato ingaggiato per un certo tempo come maître de ballet, diviene una star di prima grandezza nella capitale francese. Il lavoro a cui ci riferiamo è La Sylphide, rappresentato per la prima volta il 12 marzo 1832. Librettista è il tenore Adolphe Nourrit, compositore della musica Jean Schneitzhoeffer, scenografo il grande Pierre-Luc-Charles Ciceri. La storia, ambientata in Scozia, si ispira al racconto di Charles Nodier, Trilby, il folletto di Argail (1822) e, per altri aspetti, alla famosa scena della danza delle suore morte contenuta nell’opera in musica Roberto il diavolo di Giacomo Meyerbeer, data all’Opéra nel 1831; nel melodramma cantava Nourrit e la parte principale della danza spettava alla Taglioni. La Sylphide propone la storia di James, che dovrebbe sposare Effie, ma s’innamora di una creatura fantastica, una silfide, che gli appare improvvisamente e lo invita a seguirla nei boschi senza tuttavia lasciarsi mai afferrare. Fingendo di volerlo aiutare, la strega Madge gli regala una sciarpa assicurandogli che, mettendola sulle spalle della silfide, a lei cadranno le ali e dunque egli potrà finalmente trattenerla e farla sua. Senonché, una volta posta la sciarpa sulla silfide, lei perde sì le ali, ma anche la vita. Mentre James si dispera, vede in lontananza passare Effie che va a sposare un altro.

È piuttosto evidente il senso della fabula: da un lato, si è in presenza della donna reale, dall’altro, dell’impalpabilità del desiderio da cui, nonostante l’affetto per una donna di carne, l’uomo è irrimediabilmente attratto. Il bosco in tutta la tradizione occidentale è il luogo labirintico della ricerca. Quando James può afferrare il sogno inseguito nei boschi, questo spira, si dilegua, come ad affermare l’impossibilità di conciliare il sogno con la realtà, di raggiungere il desiderio. La vita quotidiana, con i suoi limiti, trionfa. Il tema, tipicamente romantico, è reso attraverso significativi espedienti tecnici. Anzitutto l’uso delle punte da parte della silfide e delle sue consorelle che stanno nei boschi, nient’affatto un banale strumento virtuosistico, quanto, invece, un mezzo per rendere l’idea dell’ascensione e della capacità di staccarsi dalla pesantezza del terreno; poi il ricorso ai voli delle creature fantastiche, ottenuti mediante argani creati ad hoc; inoltre la frequente sospensione del movimento delle silfidi in vaporosi arabesques, cioè in una posizione della danza classica che oggi per lo più è una forma vuota, ma che allora richiamava, di nuovo, l’idea del volo. Detto in altri termini, la tecnica nella Sylphide del 1832 non è affatto segno privo di risonanza, ma, al contrario, significante: nel caso delle bianche creature dei boschi, ne mette in luce l’essenza di spiriti di sogno, la natura irreale e incorporea. La pantomima e persino i codici della tecnica accademica assumono il ruolo di segni significanti secondo due livelli: il primo è immediato, utile a rendere il plot, il secondo offre un significato più nascosto.

Il tema del rapporto tra materia e spirito si ritrova nell’altro caposaldo del balletto romantico, ossia in Giselle (Opéra, 1841), lavoro coreografato da Jules Perrot e Jean Coralli, e interpretato da Carlotta Grisi, che Théophile Gautier, autore del libretto assieme a Vernoy de Saint-Georges, ritiene l’Ideale nel campo dell’arte, in quanto capace di fondere in sé gli opposti: la carnalità e l’incorporeità, l’evanescenza e l’erotismo.

Il successo dei grandi balletti romantici si deve soprattutto alla prima danzatrice e, più in generale, alla compagine femminile, cui è affidato un ruolo decisamente più rilevante che al corpo di ballo maschile (pensiamo, per esempio, a tutto il secondo atto di Giselle, in cui, a parte Albrecht e Hilarion, in scena sono presenti solo donne)79.

Ai generi sin qui indicati va aggiunto il mimodramma à grand spectacle, tipico del Cirque-Olympique, in cui, oltre alle classiche esibizioni circensi, si offrono storie rese gestualmente nelle quali è lasciato ampio spazio alle battaglie a cavallo di grande effetto. La troupe partecipa, fra l’altro, all’elaborazione del mito napoleonico con lavori come La République di Prosper Saint-Alme, rappresentato per la prima volta nel 1832; ma realizza anche prodigiose féeries. Tali eventi scenici sono resi possibili dalla particolare conformazione dell’edificio in cui sono allestiti, occupato in larga parte da una pista circolare ampia, analoga a quella del circo.

Trattandosi di un genere ancor oggi esistente, non occorrerà spiegare che specie di spettacolo sia l’opera in musica. Chiunque sa che la vicenda è interamente cantata dai personaggi, ovviamente accompagnati dall’orchestra, e che il dispiego di mezzi scenografici, costumistici e illuminotecnici è ricco, articolato, considerevole. Tutti sanno, altresì, che la tipologia specifica è messa in scena nei massimi teatri e che la sua patria d’elezione è la penisola italiana, da cui le sue produzioni vengono esportate a Parigi, a Londra e in vari paesi europei. Gioachino Rossini, per esempio, è rappresentatissimo all’Opéra.

Quando, poco prima della metà del secolo, Parigi abbandona la prassi del monopolio sui diversi generi scenici e ciascuna compagnia può quindi proporne al pubblico di differenti, le forme in voga si conservano per qualche tempo, e soltanto nel secondo Ottocento tendono a modificarsi.

L’importanza attribuita all’apparato visivo conduce fino all’invenzione di una tipologia priva di attori, fatta solo di pittura, ma pittura in movimento anziché statica: il diorama, inventato da Jacques Daguerre e Charles-Marie Bouton, che era stato preceduto da altre forme di pittura dinamica senza il ricorso a interpreti in carne ed ossa, quali l’eidophusikon, creato a Londra da Jacques de Loutherbourg. Il diorama si rappresenta in un edificio, chiamato anch’esso Diorama, costruito appositamente per esibirvi questo genere di spettacolo. La prima di tali architetture è inaugurata a Parigi in rue Samson nel 1822, incendiata nel 1839, ricostruita altrove lo stesso anno e andata definitivamente a fuoco nel 1849. Gli spettatori, seduti come in una piccola platea teatrale, assistono ad un breve accadimento visivo, una sorta di pre-cinema. Essi hanno di fronte a sé un dipinto più lungo che alto (tipo lo schermo del cinema) la cui immagine va gradualmente modificandosi nelle luci e nei colori. Per esempio, può raffigurare un paesaggio prima a mezzogiorno e poi, via via, sempre meno solare per l’avanzare della notte, finché resta visibile solo grazie al debole chiarore della luna. Il fenomeno è determinato soprattutto da schermi colorati, mossi da un sistema di carrucole, che permettono di modificare i colori e l’intensità luminosa. Poiché inoltre la tela è sapientemente dipinta sia sul «recto» che sul «verso», grazie ad una studiata proiezione delle luci ora da davanti ora da dietro, oltre che ad altri espedienti illuminotecnici, il paesaggio notturno può, per esempio, lentamente riempirsi di persone, e poi ritornare deserto. Una caratteristica centrale del diorama è l’effetto fortemente illusionistico, tale per cui, come raccontano i fruitori dell’epoca, sembra di trovarsi «dentro» una scena reale.

Alla fine di una scena – della durata di dieci minuti circa e nella quale può esservi anche il sonoro, costituito, per esempio, dal rumore di un tuono o dal suono dell’organo in una chiesa – le pareti dell’edificio, che è a forma di rotonda, possono ruotare e portare davanti agli occhi degli spettatori un’altra tela, raffigurante un’altra scena, sicché essi possono assistere ad un secondo evento rappresentativo, e poi, con lo stesso meccanismo, ad un terzo.

Il diorama viene introdotto anche a teatro, diventandone la scenografia (o una delle scenografie) e così non costituendo un genere spettacolare a se stante, ma uno degli elementi che contribuiscono a formare un allestimento più complesso80.

Lo stimolante e innovativo contesto parigino attira dagli altri paesi una quantità di artisti (attori, ballerini, cantanti, scenografi, coreografi, drammaturghi) e di studiosi per i quali l’esperienza nella capitale francese è fortemente formativa, è un’occasione di crescita, di maturazione, di ispirazione. E continuerà ad esserlo per diversi anni, anche dopo l’epoca romantica, quando Richard Wagner, almeno nell’ottica di Ludvig Josephson, avrebbe riorganizzato «in una teoria e in una pratica tangibili istanze di organicità dello spettacolo che egli aveva individuato sia nei complessi e sontuosi allestimenti di grand opéra sia, su un piano differente, nell’intima coesione di talune compagini drammatiche parigine»81.

2.2. L’ambiente londinese

La situazione londinese non è molto dissimile da quella appena descritta, benché Londra sia meno frequentata dagli artisti stranieri82. Solo due teatri (il Drury Lane e il Covent Garden) sono patent, vale a dire in possesso della licenza regia che consente loro di allestire qualunque varietà spettacolare; tutte le altre, numerosissime, formazioni si specializzano, ciascuna, in un genere diverso dal dramma, dalla tragedia e dalla commedia, a loro interdetti.

Per tutto il periodo d’applicazione del Licensing act – la normativa che regola le concessioni ai teatri, in vigore dal 1737 e, con modifiche e aggiustamenti, attiva sino al 1843 – a ciascuna troupe diversa dalle due patent è inibita la rappresentazione delle tipologie di performance «maggiori», secondo una regolamentazione che storici autorevoli ritengono nata per ragioni censorie e nell’Ottocento divenuta, nel contempo, uno strumento di tutela degli interessi delle compagnie regie.

Oltre alla tragedia, alla commedia e al dramma, si distinguono il melodrama (più o meno equivalente al mélodrame francese), lo spectacle, il burlesque, l’extravaganza e le varie specie di pantomima, non troppo differenti da quelle parigine, e inoltre, naturalmente, l’opera in musica e il balletto. Anche a Londra si possono ammirare spettacoli ottici.

Con l’espressione spectacle si fa riferimento ai lavori così proiettati verso un uso imponente dell’apparato spettacolare, da diventare l’elemento caratterizzante dell’allestimento. Tali generi para-teatrali assumono principalmente due forme: acquatico ed equestre, entrambi i quali possono contemplare il dialogo o essere muti. La prima variante prevede trame in cui ciò che conta è l’azione e tipologie di personaggi piuttosto elementari sotto il profilo psicologico: la loro presenza è funzionale all’esibizione di effetti scenici ottenuti ricorrendo ai più incredibili macchinari e ai giochi d’acqua. Si possono vedere fiumi, cascate, laghi, paesaggi marini. La modalità più eclatante di questo tipo di spectacle, la naumachia, illustra spesso le imprese militari della flotta britannica, una prassi consentita a certe sale londinesi, come il Sadler’s Wells, in quanto attrezzate, relativamente ad alcune loro parti, per essere inondate e utilizzate come spazi dove far agire le navi.

Altre, come l’Astley’s Amphitheatre, si specializzano in ippodrammi, ossia in rappresentazioni di storie culminanti in battaglie a cavallo spesso ispirate alla storia del tempo (come accade, per esempio, nella Battle of Waterloo, 1824) o in parate in costume. Nella prima metà dell’Ottocento Andrew Ducrow diventa il principale attore di ippodrammi. Il suo successo è dovuto, da un lato, all’eccezionale abilità di cavallerizzo, dall’altro, alla capacità di rendere l’espressione attraverso il gesto. Interprete sempre muto, Ducrow, grazie al talento pantomimico, fa degli esercizi con i cavalli presenti nello spectacle equestre non meri numeri acrobatici, quanto, piuttosto, episodi perfettamente integrati nella rappresentazione e nella sua trama.

L’Astley’s Amphitheatre (o, più precisamente, lo stabile come appare all’inizio del XIX secolo, dopo l’incendio del 1803), proprio come il Cirque-Olympique a Parigi (quanto meno, fra il 1817 e il 1826), è costituito da una platea occupata da un’amplissima pista equestre circolare. Lo spettacolo (con attori e cavalli) si svolge sia sulla pista circolare, sia sul palcoscenico, dove si situano anche scenografie che possono essere importanti. Fra gli scenografi, se ne contano di rilevanti quali John Henderson Grieve, Thomas Greenwood the Younger e Clarkson Stanfield.

Il burlesque è costituito da un testo in versi interamente cantato, al modo dell’opera, ma di impronta sempre parodica. Il burlesque ha carattere metateatrale, nel senso che può prendere in giro una pièce famosa, rifacendola in senso comico, oppure può deridere una moda teatrale, per esempio l’uso degli animali in scena o i vizi del melodrama o dell’opera in musica. Spesso le canzoni rappresentate sono tratte dal repertorio popolare e parodiate al modo dei vaudevilles. Abbondano i riferimenti satirici ad eventi e persone della realtà cittadina ben conosciuti dal pubblico. Nel burlesque si inseriscono diverse danze, eseguite dai cantanti stessi, che devono essere dunque anche abili ballerini. Un peso importante è detenuto dall’apparato visivo inteso come scenografia e costumi.

Verso gli anni Trenta, il burlesque si trasforma in extra­vaganza. La svolta è determinata dall’incontro all’Olympic Theatre del drammaturgo James Robinson Planché e dell’attrice e capocomica Eliza Vestris. Come il burlesque, l’extravaganza è uno spettacolo interamente cantato che rappresenta, però, un intreccio non metateatrale ma d’argomento fantastico o mitologico; inoltre, l’ironia diviene un elemento non più centrale ma collaterale ed è leggera e bonaria, ben diversa dalla satira a volte pesante del genere da cui deriva. Anche questa tipologia scenica fa uso frequente di danze eseguite dai cantanti ed è contraddistinta da una spettacolarità accentuata, attenta alla scenografia e soprattutto alla costumistica, un settore fortemente curato da Planché.

Come a Parigi, anche a Londra la pantomima nell’Ottocento è molto rappresentata e consiste in uno spettacolo in larghissima parte muto, il cui intrigo è reso dal linguaggio gestuale degli attori, che solo di rado dicono qualche breve frase e che in certe situazioni sono aiutati da indicazioni scritte su cartelli esplicativi portati in scena dagli interpreti o fatti calare mediante corde dalla graticcia. Di quando in quando, si inserisce anche una canzone.

La storia, scandita di norma in un atto e diverse scene (da dodici a ventidue circa) dura un tempo compreso fra una e due ore. Ad un’introduzione, per lo più ambientata in un luogo fantastico e abitata da esseri dell’immaginazione (maghi, giganti, nani, streghe, ecc.), segue spesso la scena di trasformazione, in cui i personaggi vengono tramutati nelle figure di Arlecchino, del Clown, di Colombina, di Pantalone e dell’Amante, ossia nelle cinque maschere di quella fase centrale della pantomima definita arlecchinata. Qui cade la parte più comico-avventurosa della storia (non di rado si tratta di due innamorati il cui amore viene ostacolato), che si conclude con un inseguimento, una scena tetra (dark scene), così chiamata perché di solito ambientata in un luogo buio o macabro come una caverna, un castello in rovina o una landa desertica, e una scena conclusiva a lieto fine in cui tutti i personaggi riacquisiscono le loro identità originarie.

La pantomima viene rappresentata al Covent Garden, al Sadler’s Wells e al Drury Lane. Se in quest’ultima sala si punta molto sugli effetti scenici in quanto non vi sono mimi particolarmente capaci, nelle altre due (e soprattutto al Sadler’s Wells) ci si affida quasi completamente alle abilità degli interpreti. Il grande Clown Joseph Grimaldi passa dall’uno all’altro teatro, e le sue straordinarie capacità inducono a fare del Clown la figura centrale delle pantomime allestite. Per quanto meno presenti, alcuni effetti scenici poco elaborati si riscontrano anche al Sadler’s Wells; in particolare, non può mancare l’uso delle botole per l’apparizione di figure fantastiche, per le uscite magiche di Arlecchino o per la comparsa o il dileguarsi di oggetti.

I balletti londinesi presentano caratteristiche simili a quelli parigini.

Anche a Londra è costruito un edificio ad hoc per l’esibizione del diorama, il Regent Park’s Diorama, progettato da Augustus Charles Pugin e inaugurato nel 1823.

La maggior parte delle sale parigine e londinesi, comunque, è pressoché obbligata da ragioni normative a far leva soprattutto sulle cifre visive e sonore a discapito della parola. Ma persino quelle che hanno la licenza di allestire i testi letterariamente elevati, che detengono, cioè, il privilegio esclusivo di proporre il dramma «regolare», sono portati a realizzare produzioni fortemente spettacolari, probabilmente anche per fare concorrenza ai teatri destinati al repertorio «minore», che tendono a richiamare un pubblico numeroso. Anche quando, dunque, la partitura drammaturgica sia letterariamente accurata, l’apparato visuale tende ad assumere un rilievo consistente.

75 Sul mélodrame particolarmente importante è E. Sala, L’opera senza canto. Il mélo romantico e l’invenzione della colonna sonora, Marsilio, Venezia 1995.

76 Cfr. Le Vaudeville, in «Europe», octobre 1994, 786, pp. 3-118.

77 Sulla féerie il testo che resta forse più utile è ancora P. Ginisty, La féerie, Michaud, Paris [1910 ca.] (riedizione: Éditions d’aujourd’hui, Paris 1982).

78 Per questo quadro delle modalità d’intreccio fra danza e pantomima nel balletto pantomimo, siamo debitori a Stefania Onesti, che sta scrivendo un volume sul ballo pantomimo, di prossima pubblicazione per Accademia University Press, di Torino.

79 Sul balletto romantico francese cfr., per esempio, M. Smith, Ballet and Opera in the Age of «Giselle», Princeton University Press, Princeton (NJ) 2000.

80 Sul diorama cfr., per esempio, S.C. Pinson, Speculating Daguerre. Art and Enterprise in the Work of L.J.M. Daguerre, The University of Chicago Press, Chicago 2012.

81 F. Perrelli, Ludvig Josephson e l’Europa teatrale, Bonanno, Acireale 2012, p. 37.

82 Sui generi «minori» londinesi, in italiano si può consultare Degli Esposti (a cura di), La scena del Romanticismo inglese, cit., vol. II, I luoghi teatrali, i generi, la spettacolarità.