Haibun dell’immigrante
La strada che porta a te è sicura
anche quando sprofonda nel mare.
EDMOND JABÈS
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Allora, come respirasse, il mare si è gonfiato sotto di noi. Se c’è almeno una cosa che devi sapere, sappi che la prova più dura è vivere soltanto una volta. Che una donna su una nave che affonda diventa una scialuppa di salvataggio – per quanto sia morbida la sua pelle. Mentre dormivo lui ha bruciato il suo ultimo violino per scaldarmi i piedi. Mi si è sdraiato accanto e mi ha appoggiato una parola sulla nuca, dove si è sciolta a divenire un’imperlatura di whiskey. Ruggine dorata lungo la mia schiena. Eravamo per mare da mesi. Sale nelle nostre frasi. Eravamo per mare – ma l’orlo del mondo non era per niente in vista.
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Quando ce ne siamo andati, le braci della città fumavano ancora. Per il resto, era un perfetto mattino primaverile. I giacinti bianchi ansimavano sul prato dell’ambasciata. Il cielo era azzurro-settembre e i piccioni non smettevano di beccare le briciole sparse attorno alla panetteria colpita dalle bombe. Filoni frantumati. Paste polverizzate. Automobili sventrate. Una giostra su cui vorticano cavalli carbonizzati. Lui ha detto che l’ombra dei missili, sempre più grande sui marciapiedi, gli faceva pensare a dio che suonava un pianoforte inesistente sulle loro teste. Ha detto Ti devo dire un sacco di cose.
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Stelle. O piuttosto, gli spurghi del cielo – in attesa. Piccoli fori. Piccoli secoli che si aprono il tempo appena sufficiente per infilarcisi. Un machete sul ponte, lasciato lì ad asciugare. La mia schiena rivolta verso di lui. I miei piedi immersi nei mulinelli. Lui mi si accuccia accanto, il suo fiato un clima fuori posto. Lascio che con le mani a coppa mi versi un po’ di mare sui capelli e poi lo strizzi via. Le perle più minuscole – tutte per te. Apro gli occhi. La sua faccia tra le mie mani, bagnata come uno sfregio. Se riusciamo a toccare terra, dice, darò a nostro figlio il nome di queste acque. Imparerò ad amare un mostro. Sorride. Un trattino di congiunzione bianco dove dovrebbero esserci le labbra. Gabbiani sopra di noi. Mani che frullano tra le costellazioni, che cercano di resistere.
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La nebbia si alza. E noi lo vediamo. L’orizzonte – all’improvviso sparito. Una lucentezza acquea che conduce all’aspro baratro. Nitido e compassionevole – proprio come l’aveva desiderato. Proprio come nelle favole. Nella favola in cui il libro si chiude trasformandosi in risate sulle nostre ginocchia. Isso sull’albero la velatura piena. Lui getta il mio nome in aria. Io guardo le sillabe che si sbriciolano in ciottoli sul ponte.
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Un rombo feroce. Il mare che si divide davanti alla prua. Lui lo guarda aprirsi come un ladro che scruta dentro il proprio cuore: tutto ossa e schegge di legno. Onde che si sollevano su entrambi i lati. La nave incassata tra pareti liquide. Guarda! esclama, adesso lo vedo! Saltella come un matto. Mi bacia il dorso dei polsi mentre stringe il timone. Ride, ma gli occhi lo tradiscono. Ride anche se sa di aver distrutto ogni cosa bella solo per provare che la bellezza non può cambiarlo. Ed ecco il colpo di scena: c’è un tappo di sughero al posto del tramonto. C’è sempre stato. E la nave è fatta di stuzzicadenti e colla. C’è una nave in una bottiglia di vino sulla credenza nel pieno di un cenone natalizio – con l’eggnog che trabocca da bicchieri di polistirenerosso. Ma noi continuiamo a navigare. Continuiamo a restare in piedi al timone. Una coppia da torta di matrimonio sotto una campana di vetro. L’acqua è così piatta adesso. L’acqua è come aria, come le ore. Tutti strillano o cantano e lui non sa dire se la canzone è per lui – o per le stanze in fiamme che lui aveva creduto fossero l’infanzia. Tutti ballano mentre un omettino e una donnetta sono chiusi in una bottiglia verde e pensano che qualcuno sia in attesa alla fine delle loro vite per dire: Ehilà! Non c’era bisogno di andare così lontano. Perché siete andati così lontano? Proprio come una mazza da baseball sbriciola il mondo.
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Se c’è almeno una cosa che devi sapere, sappi che sei nato perché non stava arrivando nessun altro. La nave ondeggiava mentre tu ti gonfiavi dentro di me: l’eco dell’amore che si rapprende in un ragazzo. A volte mi sembra di essere una “&”. Mi sveglio aspettando il colpo che sbriciola. Forse il corpo è l’unica domanda che una risposta non può spegnere. Quanti baci abbiamo sbriciolato sulle nostre labbra pregando – per poi solo raccoglierne i cocci? Se devi sapere, il modo migliore per capire un uomo è con i tuoi denti. Una volta ho inghiottito la pioggia per tutto un temporale verde. Ore, supina, con la mia infanzia da bambina spalancata. Il campo ovunque sotto di me. Che dolcezza. Quella pioggia. Come ciò che vive solo per cadere non può essere altro che dolce. Acqua sminuzzata a proposito. Proposito a nutrimento. Ci possono dimenticare tutti – fintanto che tu ricordi.
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Estate in mente.
Dio apre l’altro occhio:
due lune e il lago.