Odradek

Mentre cresce di giorno in giorno la polemica contro gli effetti nefasti della comunicazione di massa resa possibile dalla nuova civiltà industriale e dalle sue scoperte (i famosi mass media di cui si cibano voluttuosamente psicologi, sociologi, politecnici, psicotecnici, funzionari dell’UNESCO e altrettali mostri) una voce più temperata vorrebbe ammonirci che «l’industria e il macchinismo possono, sì, danneggiare lo spirito, ma ciò dipende soltanto dal loro cattivo uso». Contro questa tesi ha scritto un libro intero un giovane scrittore di saggi morali, Elémire Zolla (Eclissi dell’intellettuale, Bompiani) che è quanto di meglio, su questo argomento, si sia avuto finora in Italia. I suoi argomenti sono molti, occupano duecentocinquanta pagine e sono sostenuti da una solida e rara erudizione. Non gli faremo il torto di riassumerli in poche righe e ci proveremo invece a seguirlo in qualche breve suggerimento.

Come è possibile sostenere che la massificazione dell’individuo, il bourrage dei cervelli, l’appiattimento del singolo nella massicciata del collettivo siano effetti del cattivo uso di macchine e invenzioni meccaniche quando «l’assetto meccanico del reale», già denunziato da Goethe, era già presente nell’enciclopedismo e nella successiva rivoluzione industriale e manifatturiera? E, saltando a piè pari l’imponente denunzia di scrittori e artisti che dura almeno da un secolo e mezzo e di cui Zolla ci dà una impressionante documentazione, quale potrà essere «il buon uso» dei mass media in un futuro formicaio umano eventualmente scampato dalla guerra atomica? Quale buon uso potrà farsi dei viaggi, dello sport, del cinema, della radio, della televisione, dei giornali a rotocalco o a fumetto quando dovranno essere pianificati e imposti in modo coattivo i loisirs a miliardi di uomini ormai liberati dai lavori più gravosi? Come potrà avvenire che lo spirito di «massificazione» rivolga contro se stesso gli strumenti che ha inventato?

Le ipotesi ottimistiche muovono dalla supposizione che l’uomo resti estraneo alla macchina, non ne sia modificato e sia anzi in grado di volgerla a migliori fini; mentre l’osservazione dimostra che l’uomo-massa desidera, vuole, crea il proprio destino e che, a questo effetto, si procura gli strumenti necessari. Le comunicazioni di massa sono il fondamento della nuova industria culturale, fatalmente portata ad allargarsi su un piano sempre più basso, raggiunto il quale sarà sempre possibile sperare in nuove bassure, realizzando l’ipotesi di un futuro uomo stereofonico, incapace di una visione analitica del reale, refrattario ad ogni possibilità di sintesi e di sintassi.

Pochi scrittori hanno descritto in forma di parabola l’avvento dell’uomo-massa, come Franz Kafka nei suoi primi racconti: «Qualcosa dev’essere stato trascurato nella difesa della nostra patria… Con i barbari non si può parlare, non conoscono la nostra lingua e non ne hanno una loro… il nostro modo di vivere e le nostre abitudini sono loro tanto incomprensibili quanto indifferenti. Non si può dire che adoperino la violenza, ma di fronte alle loro usurpazioni ci si trae in disparte e si abbandona ogni cosa… Tutto poggia su un equivoco e grazie ad esso andiamo in rovina». E altrove: «Odradek, nome d’etimo sfuggente, che indica un congegno mobile. Forse Odradek ebbe in passato uno scopo? No: Il tutto è senza senso ma nella sua natura compiuto. Odradek si può anche interpellare, gli si può domandare “come ti chiami?” ed egli, o esso, risponderà “Odradek”. Può esso morire? Ma tutto ciò che muore ha avuto dapprima una sorta di scopo, una specie di attività, e questo l’ha consumato; ciò non vale per Odradek… Non danneggia nessuno, ma l’idea che mi debba sopravvivere mi è quasi dolorosa».

Anni fa ci accadde di analizzare su queste colonne una poesia di Costantino Kavafis, nella quale un popolo di antica civiltà, ormai decaduto e disfatto, esprimeva la sua delusione per il mancato arrivo dei barbari. «E ora che faremo senza i barbari? Era una soluzione, dopo tutto.»

E questa è la soluzione che tutti stiamo adottando: dell’Odradek ch’è in noi «non si può dire che usi la violenza»: e se è vero che ancora «ci riesce dolorosa l’idea che debba sopravviverci», i nostri figli non proveranno più alcun dolore: la loro identificazione col «mobile congegno» sarà perfetta. Sì, «qualcosa dev’essere stato trascurato nella difesa della nostra patria», cioè nella difesa della persona umana. Se così non fosse, non vedremmo stadi straripanti di folle imbestiate, quando si sa che l’industria sportiva ha tolto ogni significato ai riti dell’homo ludens; non vedremmo milioni di persone pietrificarsi dinanzi a schermi di vetro sui quali appaiono gli inameni giullari, i tetri fantasmi che un’industria specializzata, vendendoci a caro prezzo il «modo di passare il tempo», sa suscitare a getto continuo. Uccidere il tempo non dovette essere un problema per le vecchie generazioni: oggi è ossessione di tutti. Ammazza il tempo chi non può fare a meno del cinema (e chi si sente colpevole si sceglie un compagno, un «complice», per suddividere la sua responsabilità); lo ammazza in mille modi chi, avendo terrore di sé, non arretra di fronte ad alcuna sciocchezza pur di «fare come gli altri».

Gli esempi che abbiamo scelto sono volgarissimi: il libro da cui prendiamo le mosse ne offre ben altri e più persuasivi nei capitoli dedicati all’erotica di massa, alla decadenza della persuasione, alle regressioni magiche e alle regressioni nella droga. Col soccorso di Freud e di Adorno, con una conoscenza sicura di tutto quanto si è scritto intorno alla psicologia dell’uomo-massa e con frequenti immersioni nelle moderne interpretazioni del mito l’autore di questi saggi ha modo di svolgere nel modo più brillante la sua requisitoria. Egli, personalmente, non ha soluzioni da proporre, non vuole distruggere la macchina, non sogna un ritorno all’antico: è, se ho ben compreso, uno stoico che onora la ragione umana e che sente la dignità della vita come un supremo bene. È un uomo che non si mette «al di sopra della mischia», ma che vuol restare ad occhi aperti. E finché esisteranno uomini così fatti la partita non sarà del tutto perduta.

Quale può essere il posto dell’intellettuale nella società moderna? Se con l’appellativo di intellettuale si intende, come intendeva Gramsci, chiunque detenga una tecnica, è chiaro che l’intellettuale di domani non sarà che una ruota dell’ingranaggio di Odradek. Spogliatelo di ciò che Gramsci chiamava il suo «spirito di corpo» e inevitabilmente l’intellettuale diventerà uno strumento in mano di chi detenga il potere. In un mondo in cui l’imitazione del divino è diventata imitatio instrumentorum e in cui possono nascere espressioni come human engineering (l’ingegneria umana) la sorte dell’intellettuale sembra segnata.

Se invece definiremo come intellettuale «chiunque abbia una educazione che gli consenta di esprimere la sua personalità entro il suo particolare lavoro», è evidente che simili intellettuali sono destinati a essere respinti sempre più al margine della vita sociale. Non c’è bisogno di intellettuali nel mondo del marketing e delle human relations; non c’è bisogno di educazione quando persino l’istruzione religiosa si industrializza; è assurdo discutere sulla decadenza del latino quando sarebbe opportuno abolire anche l’italiano in sé, «assai bene sostituibile con il particolare italiano richiesto dalla qualifica lavorativa: il gergo tecnico, la tecnica pubblicitaria», il dialetto: il che sta già facendo egregiamente la radio. E più che dubbia appare fin d’oggi la possibilità di indipendenza degli scrittori, tenuti a rispondere a precise esigenze di mercato (o di anti-mercato nel caso dello scrittore che si crede libero).

E infine – ultima osservazione – chi potrà distinguere l’intellettuale vero dal falso quando dilaga il fenomeno che fu già definito come anticonformismo di massa? Che l’arte e la letteratura d’avanguardia formino oggi un’industria sempre meglio organizzata non ha più bisogno di dimostrazioni; d’altra parte, come certi partiti politici ne finanziano altri, avversi, per non essere «scoperti a destra» o «a sinistra», così l’industria culturale dovrà mantenere in piedi, oltreché l’avanguardia, anche la retroguardia. E da un lato o dall’altro chi fa professione di artista o di scrittore non potrà sfuggire dal vedersi considerato come un fornitore di merce.

Difficile trarre conclusioni; molto più facile avanzare obiezioni, tutte prevedibili. Si può sostenere che l’uomo sia meccanico per intrinseca natura, e che l’uomo libero sia una chimera di attardati romantici ed anarchici; ma se questo fosse vero sarebbe pur sempre titolo di dignità non arrendersi al vero. Inoltre occorrerebbe dimostrare, per fare un esempio solo, che il mondo dei tranquillanti e della droga (i primi per gli spettatori, l’altra per l’eroe sportivo o pubblicitario) segue le vie della ragione.

Senza dubbio, nei tempi in cui la macchina non esisteva o esisteva in forma rudimentale, non erano assenti dal mondo la cupidigia, l’iniquità, la ferocia. Ed anche per questo noi non sapremmo rimpiangere il passato. Oggi, seguendo la legge del livellamento dei liquidi nei vasi comunicanti, Odradek ha redistribuito il male: lo ha diffuso in giusta dose dovunque: lo ha reso invisibile, impercettibile. Giustamente all’uomo-massa corrisponde il male di massa, al quale nessuno di noi sfugge. Resterebbe la tentazione di rifugiarsi nel culto dell’ideale, di rinnegare, in un modo o nell’altro, la nostra esistenza terrena; ed è forse la peggiore delle insidie.

Vivere il proprio tempo restando sull’allarme è tutto quello che può fare oggi chi si fregi e insieme si vergogni – com’è giusto – della screditata e controversa qualifica di intellettuale. Altre soluzioni a breve scadenza non sapremmo immaginarne. Ed a scadenza lontana, lontanissima, molte altre ipotesi sui mezzi adatti a distruggere o ad addomesticare Odradek o a giungere a una completa identificazione con lui, possono farsi. Ma qui si entrerebbe nella fantascienza, cioè nella scienza ridotta a merce, e preferiamo arrestarci. Non merita di servire da trampolino a simili stravaganze il libro serio, onesto e umano che ci ha suggerito queste riflessioni.

7 agosto 1959